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1957 - TERZO LIBRO DELLE LODI
ODE AL GLOBO TERRESTRE
Rotondo e liscio
come
una mela,
globo purificato…
Nella tua limpidezza
le cordigliere
aspre, le punte
del pianeta, si fecero
soavità, le cavità
che colpiscono l’oceano
o perpetrano nella pietra
la cascata,
nel tuo contorno verde,
pelle satinata sono,
rotonda capsula
di soavi continenti e contatti.
Nessuno distingue
nei tuoi bruniti emisferi,
nell’ottone levigato
del globo della terra,
i terribili sforzi degli uomini.
Nessuno respira
polvere mortale, zolfo
nel deserto,
catrame negli acquitrini, fango
di natura pestilente.
Non vediamo chi cammina
nell’ovaio torbido
dei fiumi
con lentezza pesante,
passo a passo, attorniato
da foglie e vapori
e radici.
Quando nella neve
il freddo
ti accoltella,
o nel mare
una onda
si scarica
come
repentina, violenta
dinamite,
non sei,
terra,
rotonda e limpida
uva,
ma
ferruginosa
capigliatura,
frusta dell’abisso!
E quando i vulcani
aprono
la loro cassa
di
segreto
fuoco,
e la montagna
è
sangue,
cenere,
cicatrici,
tuono,
oh mappamondo,
non sei
un globo
di
pelle pura,
ma
una bollente e orrida
sorgente
dell’inferno.
Nella tua carta,
verde, rosata,
i paesi
si coricano
trasparenti
come alghe,
ma
proprio lì,
gravi
moltitudini,
movimenti
dell’uomo, miti,
sangue,
ragione,
oscurità,
storia,
tremano, si sviluppano
con movimento eterno.
In ciascuna
delle verdi praterie
della mappa e delle sue regioni
si incendiano
e si spengono
le vite,
si riuniscono,
si consumano
e ritornano poi
alle
aspre
mani
della terra.
Le città
elevano
i loro mattoni,
le loro lance,
i loro segni
orgogliosi,
le loro
erette
odi,
le loro cappe di miseria,
di abbandono,
di lacrime
e lotte,
e sul tuo rotondo
ventre
planetario
non accade
niente,
non germina
frumento,
né si precipita
l’acqua
smisurata
delle inondazioni.
Tu, mappamondo,
oggetto,
sei
bello come
una colomba verde opulenta,
o come una
esaltante cipolla,
ma
non
sei
la terra, non
hai
freddo, sangue,
fuoco, fertilità.
Una donna, un uomo,
o la piccola mano
di un bambino
povero o una
semplicissima
castagna,
rappresentano
più che la tua rotondità
il nostro pianeta.
Non hanno paralleli,
numeri né meridiani:
tutto è stella,
tranne la tua fredda forma:
globo
bello,
tutto ha la terra
che tu non hai.
Non continuare
A mentire
con la tua convessa pelle, con la tua limpidezza.
Io voglio vedere
il mondo
aspro
e veritiero
perché non siamo
punti,
linee,
segni,
di mappa planetaria.
Siamo gli uomini
germi
oscuri
di chiarezza che dalle nostre mani
inonderà la terra.
ODE ALLA GIARDINIERA
Si, io sapevo che le tue mani erano
la violacciocca fiorita, il giglio
d’argento:
qualcosa che aveva a vedere
col suolo,
con la fioritura della terra,
ma
quando
ti vidi scavare, scavare,
allontanare pietruzze
e maneggiare radici
seppi immediatamente,
agricoltrice mia,
che
non solamente
le tue mani
ma anche il tuo cuore
erano di terra,
che lì
stavi
facendo
cose tue,
toccando
porte
umide
da cui
circolano
le
sementi.
Così, puoi,
dall’una all’altra
pianta
appena
piantata,
col volto
schizzato
da un bacio
del fango,
andavi
e ritornavi
fiorendo,
andavi
e dalla tua mano
il fusto
della alstroemeria (*)
elevò la sua eleganza solitaria,
il gelsomino
acconciò
la nebbia della tua fronte
con stelle di aroma e di rugiada.
Tutto
da te cresceva
penetrando
nella terra
e si faceva
immediata
luce verde,
fogliame e ricchezza.
Tu le comunicavi
le tue sementi,
amata mia,
giardiniera rossa:
la tua mano
si dava del tu
con la terra
e era istantanea
la chiara crescita.
Amore, così anche
la tua mano
di acqua,
il tuo cuore di terra,
dettero
fertilità
e forza alle mie canzoni.
Tocchi
il mio petto
mentre dormo
e gli alberi germogliano
dal mio sonno.
Sveglio, apro gli occhi,
e hai piantato
dentro di me
attonite stelle
che crescono
col mio canto.
È così, giardiniera:
il nostro amore
è
terrestre:
la tua bocca è pianta della luce, corolla,
il mio cuore lavora sulle radici.
1956
(*) amarildacea americana dai bei fiori (A. psittaccina, A. aurantiaca ed altre specie del medesimo genere.
ODE AL LIBRO DI STAMPE
Libro di stampe pure!
Farfalle,
navi,
forme del mare, corolle,
torri che si inclinarono,
occhi oscuri, umidi,
rotondi come uva,
libro
liscio
come
un
pezzo
scivoloso,
libro
di mille
squame,
ogni pagina
corre
come
un destriero
cercando
lontane cose, fiori
dimenticati!
Altre pagine sono
falò o garofani,
rossi rami di pietra
incendiate
dal rubino segreto
o ci rivelano
la neve,
le colombe
di Norvegia,
l’architettura chiara della rugiada.
Come poterono
unirsi
sulla tua carta
tante bellezze,
tante
spedizioni
infinite?
Come
arrivò
a sfolgorare in te
la inaccessibile
luce
del-
la farfalla
sambucaria
con le sue fosforescenti
popolazioni di bruchi,
e allo stesso
tempo
quella
dolce
locomotiva
che attraversa le praterie
come un
piccolo
toro
ardente
e duro,
e tante
piante del sole lontano,
eleganti
vespe,
serpenti sottomarini,
incredibili
cammelli?
Mondo dei miracoli!
Spirale
insaziabile
o chioma
di tutte
le strade,
dizionario
del vento,
libro
pieno di adorazioni stellate
di magnanimi
frutti e regioni,
tesoriere
imbarcato
col suo tesoro,
granata
sgranata,
libro
errante!
ODE AL LIMONE
Da quelle zagare
scatenate
dalla luce della luna,
da quell’
odore di amore
esasperato,
immerso nella fragranza,
uscì
dal limone il giallo,
dal sua planetario
scesero sulla terra i limoni.
Tenera merce!
Si riempirono le coste,
i mercati,
di luce, di oro
silvestre,
e aprimmo
due metà
di miracolo,
acido congelato
che scorreva
dagli emisferi
di una stella,
e il liquore più profondo
della natura,
intrasferibile, vivo,
irriducibile,
nacque dalla freschezza
del limone,
dalla sua casa fragrante,
dalla sua acida, segreta simmetria.
Nel limone tagliarono
i coltelli
una piccola
cattedrale,
l’abside nascosta
aprì alla luce le acide vetrate colorate
e nelle gocce
scivolarono i topazi,
gli altari,
la fresca architettura.
Così, quando la tua mano
impugna l’emisfero
del tagliato
limone sopra il tuo piatto,
un universo d’oro
spargesti,
una
coppa gialla
con miracoli,
uno dei capezzoli odorosi
del petto della terra,
il raggio della luce che si fece frutta,
il fuoco minuto di un pianeta.
1956
ODE ALLA LUCE INCANTATA
La luce sotto gli alberi,
la luce dall’alto cielo.
La luce
verde
infrascata
che sfolgora
sulle foglie
e cade come fresca
sabbia bianca.
Una cicale eleva
il suo suono di segheria
sopra la trasparenza.
È una coppa piena
di acqua
il mondo.
ODE ALLA LUCE MARINA
Un’altra volta, spaziosa
luce marina
cadendo dalle anfore
del cielo,
salendo dalla schiuma,
dalla sabbia,
luce agitata sopra
l’estensione dell’oceano,
come un
combattimento di coltelli
e lampi,
luce del sale caldo,
luce del cielo
elevato
come torre del mare sopra le acque.
Dove
sono le tristezze?
Il petto si apre
convertito
in ramo,
la luce scuote
sul nostro
cuore
i suoi papaveri,
brillano
nel giorno del mare
le cose
pure,
le pietre
visitate
dall’onda,
i frammenti
vinti
di bottiglie,
vetri
dell’acqua,
soavi,
levigati
dalle sue dita
di stella.
Brillano
i
corpi
degli uomini salmastri,
delle donne
verdi,
dei bambini
come alghe,
come
pesci che saltano
nel cielo,
e quando
una finestra
chiusa, un vestito,
un monte oscuro,
si azzarda
a gareggiare
macchiando il biancore,
arriva la chiarezza a borbotti,
la luce
distende i suoi tubi
e attacca l’insolente
ombra
con braccia bianche,
con tovaglie,
con talco e onde d’oro,
con stupenda schiuma,
con carri di giglio.
Potere
della luce cresciuto nello spazio
onda che ci attraversa
senza bagnarci, anca
dell’universo,
rosa
rinascitrice, rinata:
apri
ogni giorno i tuoi petali,
le tue palpebre,
che la velocità della tua purezza
estenda i nostri occhi
e ci insegni a vedere onda per onda
il mare
e fiore a fiore la terra.
1956
ODE ALLA MAGNOLIA
Qui nel fondo
del Brasile profondo,
una magnolia.
Si alzavano
come
boa neri
le radici,
i tronchi degli alberi
erano
inspiegabili
colonne con spine.
Intorno
le coppe
dei manghi
erano
città
ampie, con balconi,
abitati da
uccelli
e stelle.
Cadevano
Tra le foglie
cenerine, antiche
chiome,
fiori terribili
con bocche voraci.
Intorno cresceva
il silenzioso
terrore
di animali, di denti
che mordevano:
patria disperata
di sangue e ombra verde!
Una magnolia
pura,
rotonda come un circolo
di neve,
crebbe verso la mia finestra
e mi riconcilio con la bellezza.
Tra le sue lisce foglie
- ocra e verde –
chiusa,
era perfetta
come un uovo
celeste,
aperta
era la pietra
della luna,
afrodita fragrante,
pianeta di platino.
I suoi grandi petali mi ricordarono
le lenzuola
della prima luna
innamorata,
e il suo pistillo
eretto
era torre nuziale
delle api.
Oh bianchezza
fra
tutte le bianchezze,
magnolia immacolata,
amore splendente,
odore di neve bianca
con limoni,
segreta segretaria
dell’aurora,
cupola
dei cigni,
apparizione raggiante!
Come
cantarti senza
toccare
la tua
pelle purissima,
amarti
solamente
al piede
della tua bellezza,
e portarti
addormentata
nell’albero della mia anima,
splendente, aperta,
abbagliante.
sopra la selva oscura
dei sogni!
ODE AL MAIS
America, da un chicco
di mais di elevasti
fino a riempire
di terre spaziose
lo spumoso
oceano.
Fu un chicco di mais la tua geografia.
Il chicco
diventò una lancia verde,
la lancia verde si coprì l’oro
e abbellì l’altitudine
del Perù col suo pampino giallo.
Ma, poeta, lascia
la storia nel suo sudario
e loda con la tua lira
il chicco nei suoi granai:
canta il semplice mais delle cucine.
Primo soave barba
agitata nell’orto
sopra i teneri denti
della giovane pannocchia.
Poi si aprì l’involucro
e la fecondità ruppe i suoi veli
di pallido papiro
perché si sgrani
la risata del mais sopra la terra.
Alla pietra
nel tuo viaggio, ritornavi.
Non alla pietra terribile,
al sanguinario
triangolo della morte messicana,
ma alla pietra da macinare,
sacra
pietra delle nostre cucine.
Lì latte e materia,
poderosa e nutritiva
polpa delle paste
arrivasti ad essere pasticcio
per miracolose mani
di donne brune.
Dove cadi, mais,
nella pentola illustre
delle pernici o tra i fagioli
campestri, illumini
il cibo e lo avvicini
al verginale sapore della tua sostanza.
Morderti,
pannocchia di mais, vicino all’oceano
di cantata remota e valzer profondo.
Bollirti
e che il tuo aroma
per le sierras azzurre
si dispieghi.
Ma, dove
non arriva
il tuo tesoro?
Nelle terre marine
e calcaree,
brulle, nelle rocce
del litorale cileno,
alla tavola nuda
del minatore
talvolta solamente arriva
la chiarezza della tua mercanzia.
Popola la tua luce, la tua farina, la tua speranza,
la solitudine dell’America,
e la fame
considera le tue lance
legioni nemiche.
Tra le tue foglie come
soave stufato
crebbero i nostri gravi cuori
di bambini provinciali
e cominciò la vita
a sgranarci.
1956
ODE ALLA MELA
Te, mela,
voglio
festeggiarti
riempiendomi
col tuo nome
la bocca,
mangiandoti.
Sempre
sei nuova come niente
o nessuno,
sempre
appena caduta
dal Paradiso:
piena
e pura
guancia arrossita
dell’aurora!
Che cosa difficile
sono
paragonati
a te
i frutti della terra,
le cellulari uve,
i manghi
tenebrosi,
le ossute
prugne, i fichi
sottomarini:
Tu sei pomata pura,
pane fragrante,
formaggio
della vegetazione.
Quando mordiamo
la tua rotonda innocenza
torniamo
per un istante
a essere
anche creature appena create:
ancora abbiano qualcosa di mela.
Io voglio
una abbondanza
totale, la moltiplicazione
della tua famiglia,
voglio
una città,
una repubblica,
un fiume Mississipi
di mele,
e alle sue rive
voglio vedere
tutta
la popolazione
del mondo
unita, riunita,
nell’atto più semplice della terra:
mordere una mela.
1956
ODE ALLA FARFALLA
A quella di Muzo, quella
farfalla
colombiana,
falò azzurro, che all’aria
aggregò metallo vivo
e all’altra
delle lontane isole,
Morpho, Monarca, Luna,
argentate come pesci,
doppie come forbici,
ali brucianti,
presenze gialle,
solforose nelle miniere del cielo,
elettriche, effimere
che il vento porta nell’alto della corrente d’aria
e lascia come piogge o fazzoletti
cadere tra i fiori.
Oh celesti
Spolverate con fumo d’oro,
improvvisamente
elevano
un occhio di diamante nero
sopra la luce dell’ala
e un
teschio annunciatore
della fugacità, delle tenebre.
Quella
che ricordo
arriva dalle più lontane zone,
formata dalla schiuma,
nata
nella chiarezza dello smeraldo,
lanciata al corto cielo
della rapida aurora
e in essa
tu, farfalla, fosti
centro
vivo,
volante acqua marina,
monaca verde.
Ma un giorno
sopra la strada
volava un’altra strada.
Erano le farfalle della pampa.
Galoppavamo da
Venato Tuerto
verso le alture
della calda Córdoba.
E contro i cavalli
galoppavano
le farfalle,
milioni di ali bianche e gialle,
oscurando l’aria, palpitando
come una rete che ci minacciava.
Era spessa
la parete
tremante
di polline e carta, di stame e luna,
di ali e ali e ali,
e contro
la volatrice massa
a fatica avanzavano
le nostre cavalcature.
Bruciava il giorno con un raggio rosso
puntato alla strada
e contro il fiume aereo,
contro l’inondazione
di farfalle
attraversavamo le pampas argentine.
Già avevano divorato
l’erba medica delle vacche,
e lungo l’antico territorio
erano solamente scheletri
di verdi piantagioni:
fame per il bestiame
andava nel fiume delle farfalle.
Affumicale, incendiale!
dissi al paesano Aráoz,
spazza il cielo
con una scopa grande,
riuniamo
sette milioni di ali,
incendiamo
l’alveo delle maligne
farfalle,
carbonizzale, dissi,
che lo sfarzo dell’aria
cenere d’oro sia,
che ritornino, fumo al cielo,
e verme alla terra.
Farfalla sarai,
tremante
miracolo dei fiori,
ma
fino a qui arrivasti:
non attaccherai l’uomo e la sua eredità,
il contadino e i suoi animali,
non ti conviene
questa carta di tigre
e così come celebro
la tua raggiante
bellezza,
contro
la moltiplicazione divoratrice
io porterò l’incendio, senza tristezza,
io porterò la scintilla del castigo
alla montagna delle farfalle.
ODE ALLA MIGRAZIONE DEGLI UCCELLI
Per la linea
del mare
verso il Grande Nord
un
fiume
sparso
sopra il cielo:
sono gli uccelli
del Sud, del ghiacciaio,
che vengono dalle isole,
della neve:
i falchi antartici,
i cormorani vestiti
di lutto,
le australi procellarie dell’esilio.
E verso
le rocce gialle
del Perù, verso le
acque incendiate
di Baja California
l’incessante fiume
degli uccelli
vola.
Appare
uno,
è
un
punto
perduto
nello spazio aperto della nebbia:
dietro sono le coorti
silenziose, la massa
del piumaggio,
il tremolante triangolo
che corre sopra
l’oceano freddo,
il letto
sacro
che palpita,
la freccia
della nave
migratoria.
Cadaveri di uccelli marini
caddero
sulla sabbia,
piccole
protuberanze
nere
racchiuse
dalle ali brunite
come bare
fatte
nel cielo.
E vicino
alle
falangi
contratte sopra
l’inutile
sabbia
del mare,
il mare che continua
il tuono bianco e verde delle onde,
l’eternità burrascosa del cielo.
Passano
gli uccelli, come
l’amore,
cercando fuoco,
volando dal-
l’abbandono
verso la luce e le germinazioni,
uniti nel volo
della vita,
e sopra
la linea e le schiume della costa
gli uccelli che cambiano di pianeta
riempiono
il mare
col loro silenzio di ali.
ODE AL MILIONARIO MORTO
Conobbi un milionario.
Era straniero, re
delle pianure grigie
in cui si perdevano
i cavalli.
Passeggiavamo nella sua casa,
nei suoi giardini,
la piscina con una torre bianca
e acque
tante da bagnare una città.
Si tolse le scarpe,
mise i piedi
con certa
severità ombrosa
nella piscina verde.
Non so perché
una ad una
scartò
tutte le sue donne.
Esse
danzavano in Europa
o attraversavano rapide la neve
in slitta, in Alaska.
S. mi raccontò come
quando bambino
vendeva giornali
e rubava pane.
Ora i suoi quotidiani
assaltavano le strade tremanti,
colpivano la gente con notizie
e dicevano con enfasi
solamente le sue opinioni.
Aveva banche, navi,
peccati e tristezze.
A volte con carta,
piuma, memoria,
si affondava nel suo denaro,
contava,
sommando, dividendo,
moltiplicando cose,
fino a che si addormentava.
Mi sembra
che l’uomo non poté mai
uscire dalla sua ricchezza
- lo impregnava,
gli dava
aria, colore astratto -,
ed egli si vedeva
dentro
come un mollusco cieco
circondato
da un muro impenetrabile.
Talvolta, nei suoi occhi,
vidi un fuoco
freddo, lontano,
qualcosa disperato che moriva.
Mai seppi se fummo nemici.
Morì una notte
vicino a Tucumán.
Nella catastrofe
bruciò la sua poderosa Rolls
come vicino al fiume
il catafalco
di una
religione oscura.
Io so
che tutti
i morti sono uguali,
ma non so, non so,
penso
che quell’
uomo, a modo suo, con la morte
cessò di essere un povero prigioniero.
ODE ALLA NASCITA DI UN CERVO
Si adagiò la cerva
dietro
la recinzione di filo spinato.
I suoi occhi erano
due scure mandorle.
Il gran cervo vegliava
e a mezzogiorno
la sua corona di corna
brillava
come
un altare incendiato.
Sangue e acqua,
una borsa turgida,
palpitante
e in essa
un nuovo cervo
inerme, informe.
Lì rimase nei suoi torbidi
involucri
sopra il pascolo macchiato.
La cerva lo leccava
con la sua lingua d’argento.
Non poteva muoversi,
ma
da quel confuso,
vaporoso involucro,
sudicio, bagnato, inerte,
si affacciò
la forma,
il musetto acuto
della reale
stirpe,
gli occhi più ovali
della terra,
le fini
gambe,
frecce
naturali del bosco.
Lo leccava la cerva
senza smettere, lo ripuliva
dall’oscurità, e ripulito
lo consegnava alla vita.
Così si alzò,
fragile, ma perfetto,
e cominciò a muoversi,
a dirigersi, a essere,
a scoprire le acque sul monte.
Guardò il mondo raggiante.
Il cielo sopra
la sua piccola testa
era come un’uva
trasparente,
e si attaccò alle mammelle della cerva
rabbrividendo come se ricevesse
scosse di luce del firmamento.
ODE ALL'ARANCIA
A somiglianza tua,
a tua immagine,
arancia,
si fece il mondo:
rotondo il sole, circondato
per spaccarsi di fuoco:
la notte costellò con zagare
la sua rotta e la sua nave.
Così fu e così fummo,
oh terra,
scoprendoti,
pianeta arancione.
Siamo i raggi di una sola ruota
divisi
come lingotti d’oro
e raggiungiamo con treni e con fiumi
l’insolita unità dell’arancia.
Patria
mia,
gialla
chioma,
spada dell’autunno,
quando
alla tua luce
ritorno,
alla deserta
zona
del salnitro lunare,
alle difficoltà
strazianti
del metallo andino,
quando
penetro
il tuo contorno, le tue acque,
lodo
le tue donne,
guardo come i boschi
equilibrano
uccelli e foglie sacre,
il frumento si accumula nei granai
e le navi navigano
per oscuri estuari,
comprendo che sei,
pianeta,
un’arancia,
un frutto del fuoco.
Sulla tua pelle si riuniscono
i paesi
uniti
come settori di un solo frutto,
e Cile, al tuo fianco,
elettrico,
incendiato
sopra
il fogliame azzurro
del Pacifico
è un largo recinto di aranci.
Arancione sia
la luce
di ciascun
giorno,
e il cuore dell’uomo,
i suoi grappoli,
acido e dolce siano:
sorgente di freschezza
che abbia e che preservi
la misteriosa
semplicità
della terra
e la pura unità
di un’arancia
1956
ODE CON NOSTALGIE DEL CILE
In terre argentine
vivo e muoio
penando per la mia patria,
scegliendo
di giorno quello che il Cile mi ricorda,
di notte le stelle
che ardono dall’altro lato della neve.
Camminando per le pianure,
perduto nella palma dello spazio,
decifrando le erbe
della pampa, verbene,
boscaglie, spine,
mi sembra che il cielo le schiacci:
il cielo, unico fiore della prateria.
Grande è l’aria viva, le intemperie
totali e sembriamo
nudi, soli nell’infinito
e odoroso silenzio.
Piana è la terra come
teso cuoio di tamburo: galoppi,
uomo, storia,
spariscono nella lontananza.
Dammi i verdi
labirinti,
le slanciate
vette
delle Ande, e sotto i pergolati,
amata, la tua vita
di chitarra!
Datemi le onde
che colpiscono
il corpo cristallino
della mia patria,
lasciatemi all’Est vedere come si eleva
la maestà del mondo
su una collana altezzosa di vulcani
e ai miei piedi solamente il francobollo
della schiuma,
neve del mare, eterna prateria!
Americano
sono
e se somiglia
alla pampa estesa
il mio cuore, lo attraversano
le strade
e mi piace
che il lui incendino fuoco
e volino e galoppino
uccelli e viaggiatori.
Ma il mio corpo, Patria,
reclama la tua sostanza:
metalliche montagne da cui
l’abitante scende, innamorato,
tra vegetazioni minerali
verso il sussurro delle valli verdi.
Amore dei miei amori,
terra pura,
quando torni
mi ormeggerò alla tua prua
di imbarcazione terrestre,
e così navigheremo
confusi
finché ti mi copra
e io possa, con te, eternamente,
esser vino che ritorna in ogni autunno,
pietra delle tue alture,
onda del tuo marino movimento!
1956
ODE ALLE NUBI
Nubi del cielo Sud,
nubi alate,
nubi
di impeccabile vapore, vestiti del cielo,
petali, pesci puri
dell’estate,
supino nel pascolo, nelle sabbie
di tutto il cielo siete
le ragazze celesti,
la seta del sole, la primavera bianca,
la gioventù del cielo.
Sparse, correndo
appena
sostenute
dall’aria,
piumini
della luce, nidi
dell’acqua!
Adesso un solo
segnale
di combustione, d’ira
accende
le praterie
celestiali
e i mandorli
in fiore,
la equinoziale
lavanderia
è divorata
da leopardi
verdi,
mietuta da scimitarre,
attaccata da
bocche
incendiarie.
Nubi disperate
e puntuali
nella morte
del sole
di ogni giorno,
ballo
rituale
di tutto
l’orizzonte,
a fatica
attraversano lo spazio
lenti uccelli del mare, voli
sopra la prospettiva,
si lacerano le nubi,
si dissolve
la luce del ventaglio delirante,
vita e fuoco non esistono, erano soltanto
cerimonie del cielo.
Ma a te, nuvolone
di tempesta, riservo
quello spazio
di monte o mare, di ombra,
di panico e tenebre sopra il mondo,
sia sopra le cime
della schiuma
nella notte iraconda
dell’oceano
e sopra la silenziosa
chioma
dei boschi notturni,
nube, tinta di acciaio
spargi,
cotoni di lutto in cui si soffocano
le pallide stelle.
Dal tuo ombrello cade
con densità di piombo
l’oscurità e subito
acqua elettrica e fumo
tremano come bandiere
oscure, scosse
dalla paura.
Annaffi
e unisci
la tua oscurità al sonno
delle scure radici,
e così dalla tormenta
esce alla luce
nuovamente
lo splendore terrestre.
Nube
di primavera, nave
odorosa, puro
giglio
del cielo,
mantello di vedova sfortunata,
negra madre del tuono,
voglio un vestito di nube,
una camicia
dei vostri materiali,
e portatemi sul filo
della luce o sul
cavallo dell’ombra
a percorrere il cielo, tutto il cielo.
Così toccherò boschi, scogliere,
attraverserò cascate e città,
vedrò l’intimità dell’universo,
finché con la pioggia
ritornerò alla terra
a conversare in pace con le radici.
ODE ALL'ONDA
Un’altra volta all’onda
va il mio verso.
Non posso
smettere mille volte mille,
mille volte, onda
di cantarti,
oh sposa fuggitiva dell’oceano,
delicata
cenere
verde
alzi
la tua campana
e in cima
abbatti
gigli.
Oh
lamina
incessante
scossa
dal-
la
solitudine
del vento,
eretta come una
statua
trasparente
mille volte mille
cristallizzata, cristallina
e poi
tutto il sale al suolo:
il movimento
si converte
in schiuma
e dalla schiuma il mare
si ricostruisce
e nuovamente risorge la turgidezza.
Un’altra volta,
cavallo,
cavalla pura,
ciclonica
e alata,
con i crini
ardenti di bianchezza
nell’ira dell’aria
in movimento,
scivoli, salti, corri
conducendo la slitta
della neve marina.
Onda, onda, onda,
mille volte mille
vinta, mille
volte mille eretta
e rovesciata:
evviva
l’onda,
mille volte sempreviva
l’onda.
1956
ODE AL DOPPIO AUTUNNO
Sta vivendo il mare mentre la terra
non ha movimento:
il grave autunno
della costa
copre
con la sua morte
la luce immobile
della terra,
ma
il mare errante, il mare
continua a vivere.
Non hai
una
sola
goccia
di
sogno,
morte
o
notte
nel suo
combattimento:
tutte
le macchine
dell’acqua, le azzurre
caldaie,
le crepitanti fabbriche
del vento
circondando
le onde
con
i suoi violenti fiori,
tutto
vivo
come
le viscere
del toro,
come
il fuoco
nella musica,
come
l’atto
dell’unione amorosa.
Sempre furono oscuri
i
lavori
dell’autunno
sulla terra:
immobili
radici, semenze
sommerse
nel tempo
e sopra
solamente
la corolla del freddo,
un vago
aroma di foglie
si dissolve
in
oro:
per niente.
Una scure
nel bosco
spezza
un tronco di cristalli,
poi
cade
il pomeriggio
e la terra
mette sopra il suo volto
una maschera
nera.
Ma
il mare
non si stanca, non dorme, non è morto.
Cresce nella notte
la sua pancia
che curvarono
le stelle
bagnate, come frumento nell’alba,
cresce,
palpita
e piange
come un bambino
perduto
che soltanto con l’urto
dell’aurora,
come un tamburo, si sveglia,
gigantesco,
e si muove.
Tutte le sue mani muove,
il suo incessante organismo,
la sua dentatura estesa,
i suoi commerci
di sale, di sole, d’argento,
tutto
lo muove, lo rimuove
con le sue vincitrici
sorgenti,
col combattimento
del suo movimento,
mentre
trascorre
il triste
autunno
della terra.
1956
ODE ALLA PANTERA NERA
Trentun anni fa,
non lo dimentico,
a Singapore, la pioggia
calda come sangue
cadeva
sopra
antichi muri bianchi
tarlati
per l’umidità che in essi
lasciò baci lebbrosi.
La moltitudine oscura
risplendeva
all’improvviso in un lampo,
i denti
o gli occhi
e il sole di ferro arriva
come
lancia implacabile.
Vagai per strade inondate
Di odore,
betel, le noci rosse
che si alzavano
sopra
letti di foglie fragranti,
e il frutto Dorian
marciva nella siesta canicolare.
All’improvviso stetti
davanti a uno sguardo,
da una gabbia
in mezzo alla strada
due circoli
di freddo,
due calamite,
due elettrici nemici,
due occhi
che penetrarono nei miei
inchiodandomi
alla terra
e alla parete lebbrosa.
Vidi quindi
il corpo che ondeggiava
e era
ombra di velluto,
elastica purezza,
notte pura.
Sotto la nera pelle
spolverati
appena la iridavano
non seppi bene
se rombi di topazio
o esagoni d’oro
che si intuivano
quando
la presenza
magra
si muoveva.
La pantera
pensando
e palpitando
era
una
regina
selvaggia
in un cassetto
in mezzo
alla strada
miserabile.
Dalla selva perduta
dell’inganno,
dallo spazio rubato,
dall’agrodolce odore
di essere umano
e case polverose
essa
soltanto manifestava
con occhi
minerali
il suo disprezzo, la sua ira
bruciante,
e erano i suoi occhi
due
francobolli
impenetrabili
che chiudevano
fino all’eternità
una porta selvaggia.
Andava
come il fuoco, e, come il fumo,
quando chiuse gli occhi
si fece invisibile, smisurata notte.
ODE DEI MIEI DISPIACERI
A volte qualcuno, alcuni
vogliono sapere
di me.
Io mi proibisco
di parlare della mia persona.
Ancora giovane, quasi vecchio
e camminando
non posso
senza
spine
incoronare
il mio cuore
che tanto
ha lavorato,
i miei occhi
che esplorarono la tristezza
e ritornarono senza pianto
dalle imbarcazioni
e le isole.
Vado a raccontarvi come
quando nacqui
gli uomini, miei amici,
amavano
la solitudine, l’aria
più lontana,
l’onda delle sirene.
Io ritornai
dagli
arcipelaghi,
ritornai dai gelsomini,
dal deserto,
a essere,
a essere,
a essere
con altri esseri
e quando fui non ombra,
né evaso,
umano, ricevetti i carichi
del cuore umano,
le sleali pietre
dell’invidia,
l’ingratitudine servile di ogni giorno.
Ritorna, Don, sussurrano
ogni volta più lontane le sirene:
colpiscono le schiume
e spezzano con le loro code
argentate
il trasparente
mare
dei ricordi.
Madreperla e luce bagnata
come frutti gemelli
alla luce della luna inebriante.
Ahi, e chiudo gli occhi!
Il sussurro del cielo si allontana.
Vado alla mia porta a ricevere spine.
ODE AL PICARO OFFESO
Io, soltanto dalla foschia,
dalle
bandiere
dell’inverno
marino, con la sua nebbia,
trapassato
dalla sovranità
delle onde,
parlai,
soltanto di quelle cose
che accompagnarono
il mio destino.
Il picaro alzò
la sua narice verde,
conficcò la sua puntura
e tutto continuò come
al solito,
la foschia, il mare,
il mio canto.
All’amore, alla sua cassa
di colombe,
all’anima e alla bocca
di quella che amo,
dedicai
ogni parola, ogni
sussurro, tutta la terra,
tutto il fuoco del mio canto,
perché l’amore
sostengo
e mi sostiene
e devo morire amandoti,
amor mio.
Il picaro aspettava
negli angoli torbidi
e eruditi
per conficcare la sua infame
dentatura
nel
favo
aperto
e rumoroso.
Tutto continuò come era, come devono
essere le cose eterne,
la donna
col suo ramo
di rugiada,
l’uomo col suo canto.
Nel cammino
il popolo
era nudo
e mi mostrò
le sue mani
straziate
dall’acqua e dalle miniere.
Erano
quei
viandanti
membri della mia famiglia:
non era il mio sangue,
sole,
né freddo,
né cielo:
erano quegli uomini
i miei fratelli
e per essi
fu
l’irremovibile
materia del mio canto.
Il picaro con altri
complici
cucinò in una marmitta
i suoi vizi,
li preparò con odio,
con ritagli
di artigli,
prese dimora in uffici
con
amici
amari
e produsse
sanguinosa e polverosa
malizia.
Tra onde
che riempivano
di chiarezza e canto l’universo,
improvvisamente mi fermai
e dedicai una riga
della mia ode,
un solo
giudizio,
appena
una
sillaba,
all’ostinato e picaro
nemico
- in tanti anni un solo saluto -,
il colpo della schiuma
di un’onda.
E impazzì
improvvisamente
il picaro
famoso,
il vecchio molestatore
si dichiarò
offeso,
corse per gli angoli
con la sua lente d’ingrandimento
puntata
al
minimo mignolo della mia ode,
gridò davanti agli autori
e alle autorità
perché tutto il mondo
mi
esautorasse,
e quando
nessuno
si
fece parte
dei suoi lamenti
si ammalò di tristezza,
si immerse nella più letargica
delle melanconie
e soltanto dalla sua grotta
esce a volte
a riempire gli uffici con sospiri.
Morale:
non offendere il poeta distratto
settimana dopo settimana, secolo dopo secolo,
perché improvvisamente può
dedicarti un minuto pericoloso.
1956
ODE ALLA PIETRA
America elevata
dalla pietra
andina:
da pietra libera
e
solitario vento
fosti,
torre oscura
del mondo,
sconosciuta madre
dei fiumi,
finché scatenò il tagliapietre
la sua vita bruna
e le antiche mani
spezzarono pietra
come
se spezzassero luna,
granito spolverato
dalle onde,
silice lavorata dal vento.
Plutonico
scheletro
di quel
mondo,
cime ferruginose,
alture di diamante,
tutto
l’
anello
della
furia
gelata,
là arriva dormendo
tra lenzuolo e lenzuolo
di neve,
tra soffio e sibilo
di uragani.
In alto
cielo
e pietra,
lombi grigi,
nostra
terribile
eredità violenta,
trecce,
mulini,
torri,
colombe e bandiere
di pietra verde,
di
acqua indurita,
di rigide
catastrofi,
pietra innevata,
cielo innevato
e neve.
La pietra fu la prua,
progredì al battito della terra,
l’ampio continente
americano
avanzò ad ogni lato
del granito,
i fiumi
nella conca
della roccia
nacquero.
Le aquile scure
e gli uccelli d’oro
liberarono il loro luccichio,
scavarono
un duro nido aperto
a beccate
sulla nave di pietra.
Polvere e sabbia fresche
caddero
come piume
sopra
le spiagge del pianeta
e l’umidità
fu un bacio.
Il bacio della vita
ventura
colmò la coppa
della terra.
Crebbe il mais e si sparse la sua specie.
I maya studiarono le loro stelle.
Celesti edifici
oggi
aperti nella polvere
come antiche
granate
i cui grani
caddero,
i cui vecchi scintilli di amaranto
sulla terra profonda si consumarono.
Case intagliate in
pietra peruviana,
disposte sul filo
delle sommità
come torce nella notte
o nidi di ossidiana,
case sgretolate su cui ancora
la roccia è una stella
divisa,
un fulgore che palpita
sopra la distruzione del suo sarcofago.
Costelli
tutto
il nostro
territorio,
luce
della pietra,
stella vertebrata,
fonte della neve da cui
colpisci l’aria andina.
America,
bocca
di pietra muta,
così parli con la tua lingua perduta,
ancora parlerai, solenne,
con nuova
voce
di pietra.
1956