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1959 - NAVIGAZIONI E RITORNI
ODE DAVANTI ALL’ISOLA DI CEYLON
Un’altra volta nei mari,
avvolto
in pioggia,
in oro,
in vago albeggiare,
in cenerino
vapore di solitudini calorose.
E lì
sorgendo
come
una nuova onda verde,
oh Ceylon,
oh isola
sacra,
baule
dove palpitò
il mio giovane, il mio perduto
cuore
esiliato!
Io il solitario
fui
della foresta,
il testimone
di quanto non accadeva,
il direttore
di ombre
che soltanto
in me
esistevano.
Oh tempi,
oh tristezze,
oh pazza notte di acqua
e luna
rossa
con un
odore
di sangue e di gelsomini,
mentre là,
più lontano,
l’ombra raddoppiava
i suoi tamburi,
trepidava la terra,
tra le foglie
ballavano i guerrieri.
E, adesso,
accompagnato
dalle tue piccole mani
che vanno e vanno asciugando
il sudore
e le pene
della mia fronte,
adesso
con altra voce
sicura,
con altro canto
fatto
per la luce della vita,
qui
vengo a fermarmi
di nuovo vicino
al mare soltanto fu
solitudine rumorosa,
al vento
della notte
sopra le palme
stellate:
e nessuno conosce adesso
quello che fui, quello che seppi.
Io qui soffrii,
senza nessuno,
dissanguandomi.
Appartamento la strada
mia:
macchie di assenza
o di umidità,
le piante
si trasformarono
in ombroso spessore
e c’è una sola
casa
che agonizza,
vuota.
Era la mia casa, e fanno
trent’anni,
trenta
anni. Tocco
la porta
dei miei sogni,
i muri
tarlati,
il tempo
mi aspettava,
il tempo che
girava
con la sua ruota.
Qui,
nella povera strada
dell’isola
mi
aspettò, tutto:
palme, scogliere,
sempre seppero
che io tornavo,
soltanto io non lo seppi
e, all’improvviso,
tutto tornò, le stesse
onde sulle sabbie,
l’umidità, il rumore
della danza tra le foglie,
e seppi, allora,
seppi
che si, esistetti, che non era
menzogna la mia esistenza,
che qui era la casa,
il mare, l’assenza
e tu, amore, al mio fianco.
Perdonami la vita,
perdonami le vite.
Per questa strada
andò al mare la tristezza.
E tu ed io porteremo
sulle nostre labbra
come un lungo bacio,
il ritratto,
il suono,
il colore palpitante
dell’isola,
e adesso, si,
passò, passò
il passato,
chiuderemo il baule
vuoto
dove
soltanto
vivrà ancora
un vecchio
odore
di mare e di gelsomino.
ODE A LENIN
La rivoluzione ha 40 anni.
Ha l’età di una giovane matura.
Ha l’età delle madri belle.
Quando nacque,
nel mondo
la notizia si seppe
in modo differente.
- Che cosa è questo? – si domandavano i vescovi –
se ha spostato la terra
noi potremo continuare a vendere cielo.
I governi dell’Europa,
dell’America oltraggiata,
i dittatori torbidi,
leggevano in silenzio
le allarmanti comunicazioni.
Per soffici, per profonde
scale
arrivava un telegramma,
come arriva la febbre
nel termometro:
non c’erano dubbi,
il popolo aveva vinto,
si trasformava il mondo.
I
Lenin, per cantarti
devo dire addio alle parole;
devo scrivere con alberi, con ruote,
con aratri, con cereali.
Sei concreto come
i fatti e la terra.
Non esistette mai
un uomo più terrestre
di V. Ulianov.
Ci sono altri uomini alti
che come le chiese si abituano
a conversare con le nubi,
sono alti uomini solitari.
Lenin sostenne un patto con la terra.
Vide più lontano che nessuno.
Gli uomini,
i fiumi, le colline,
le steppe,
erano un libro aperto
e li leggeva,
leggeva più lontano di tutti,
più chiaramente che nessuno.
Egli guardava profondo
nel paese, nell’uomo,
guardava l’uomo come in un pozzo,
lo esaminava come
se fosse un minerale sconosciuto
che avesse scoperto.
Bisognava estrarre le acque dal pozzo,
bisognava elevare la luce dinamica,
il tesoro segreto
dei paesi,
perché tutto geminasse e nascesse,
per essere degni del tempo e della terra.
II
Attenti a confonderlo con un freddo ingegnere.
Attenti a confonderlo con un mistico ardente.
La sua intelligenza arse senza essere mai ceneri,
la morte non ha gelato ancora il suo cuore di fuoco.
III
Mi piace vedere Lenin che pesca nella trasparenza
del lago Razliv, e quelle acque sono
come un piccolo specchio perduto nell’erba
del vasto Nord freddo e argentato:
solitudini quelle, scontrose solitudini,
piante martirizzate dalla notte e dalla neve,
l’artico sibilo del vento nella sua capanna.
Mi piace vederlo lì solitario ascoltare
l’acquazzone, il tremulo volo
delle tortore,
l’intensa pulsazione del bosco puro.
Lenin attento al bosco ed alla vita,
ascolta i passi del vento e della storia
nella solennità della natura.
IV
Furono alcuni uomini soltanto studio,
libro profondo, appassionata scienza,
ed altri uomini possedettero
come virtù dell’anima il movimento.
Lenin possedette due ali:
il movimento e la saggezza.
Creò nel pensiero,
decifrò gli enigmi,
ruppe le maschere
della verità e dell’uomo
ed era da tutte le parti,
era al medesimo tempo da tutte le parti.
V
Così, Lenin le tue mani lavorarono
e la tua ragione non conobbe il riposo
finché da tutto l’orizzonte
si scorse una nuova forma:
era una statua insanguinata,
era una vittoria con stracci,
era una bambina bella come la luce,
piena di cicatrici, macchiata dal fumo.
Da remote terre gli uomini la guardarono:
era lei, non c’era dubbio,
era la Rivoluzione.
Il vecchio cuore del mondo pulsò in un altro modo.
VI
Lenin, uomo terrestre,
la tua figlia è arrivata al cielo.
La tua mano
muove adesso
chiare costellazioni.
La stessa mano
che firmò decreti
sul pane e sulla terra
per il popolo,
la stessa mano
si trasformò in pianeta:
l’uomo che tu facesti mi costruì una stella.
VII
Tutto è cambiato, ma
fu duro il tempo
e aspri i giorni.
Durante quaranta anni ulularono
i lupi vicini alle frontiere:
Volevano abbattere la statua viva,
volevano ardere i suoi occhi verdi,
per fame e fuoco
e gas e morte
volevano che morisse
tua figlia, Lenin,
la vittoria,
la estesa, ferma, dolce, forte e alta
Unione Sovietica.
Non poterono.
Mancò il pane, il carbone,
mancò la vita,
dal cielo cadde pioggia, neve, sangue,
sopra le povere case incendiate,
ma tra il fumo
e la luce del fuoco
i popoli più remoti videro la statua viva
difendersi e crescere crescere crescere
finché il suo valoroso cuore
si trasformò in metallo invulnerabile.
VIII
Lenin, grazie ti affidiamo i lontani.
Da allora, dalle tue decisioni,
dai tuoi passi rapidi e dai tuoi rapidi occhi
non sono soli i popoli
nella lotta per l’allegria.
L’immensa patria dura,
quella che sostenne l’assedio,
la guerra, la minaccia,
è torre irremovibile.
E non possono ucciderla.
E così vivono gli uomini
un’altra vita,
e mangiano altro pane
con speranza,
perché nel centro della terra esiste
la figlia di Lenin, chiara e determinante.
IX
Grazie, Lenin,
per l’energia e l’insegnamento,
grazie per la fermezza,
grazie per Leningrado e le steppe,
grazie per la battaglia e per la pace,
grazie per il frumento infinito,
grazie per le scuole,
grazie per i tuoi piccoli
titanici soldati,
grazie per quest’aria che respiro sulla terra
che non assomiglia ad altra aria:
è spazio fragrante,
è elettricità di energiche montagne.
Grazie, Lenin,
per l'aria ed il pane e la speranza
ODE A UNA MATTINA DEL BRASILE
Questa è una mattina
del Brasile. Vivo dentro
a un violento diamante,
tutta la trasparenza
della terra
si materializzò
sulla
mia fronte,
appena si muove
la ricamata vegetazione,
la rumorosa cintura
della selva:
ampia è la chiarezza, come una nave
del cielo, vittoriosa.
Tutto cresce,
gli alberi,
l’acqua,
gli insetti,
il giorno.
Tutto termina in foglia.
Si unirono
tutte
le cicale
che nacquero, vissero
e morirono
da quanto esiste il mondo,
e qui cantano
in un solo congresso
con voce di miele,
di sale,
di segheria,
di violino delirante.
Le farfalle
danzano
rapidamente
un
ballo
rosso
nero
arancio
verde
azzurro
bianco
granata
giallo
violetto
nell’aria,
nei fiori,
nel nulla,
volanti,
successive
e remote.
Disabitate
terre,
vetro
verde
del mondo,
in qualche
regione
un antico fiume
precipita
in piena solitudine,
i sauri attraversano
le acque pestilenti,
migliaia di esseri lenti
schiacciati
dal
cieco spessore
cambiano pianta, acqua,
pantano, caverna,
e attraversano l’aria
uccelli brucianti.
Un grido, un canto,
un volo,
una cascata
attraversano da un bicchiere
di palme
fino
all’attaccatura
del bambù innumerevole.
Il mezzogiorno
arriva
tranquillo,
si estende
la luce come se fosse
nato un nuovo fiume
che corre e canta
riempiendo l’universo:
all’improvviso
tutto
rimane
immobile,
la terra, il cielo, l’acqua
si fecero trasparenza,
il tempo si fermò
e tutto entrò nella sua scatola di diamante.
ODE A UNA MATTINA A STOCCOLMA
Nei giorni del Nord,
amore, noi scivoliamo.
Leningrado restò
con la neve, azzurra, acciaio
sotto le sue nubi
le colonne, le cupole,
l’oro vecchio, il rosa,
la luce antica del fiume,
tutto andò via nel viaggio,
si fermò dietro piangendo.
Si mangia il mare la terra?
La terra al firmamento?
Scorsi il cielo bianco
di Stoccolma, il tridente
di una chiesa nelle nubi,
acidi bicchieri verdi
sono cupole, sono seni
di città ossidata,
e il resto è vago,
notte senza ombra o giorno
senza luce, vetro opaco.
Amore mio, in queste isole
disperse nella bruma,
alle scogliere
di neve ed ali nere,
il mio cuore ti portò.
E adesso come navi
silenziose passiamo,
senza sapere dove fummo
né dove andremo, soli
in un mondo di perle
e implacabili mattoni.
Placati fino ad essere
soltanto neve o foschia,
chiuderemo gli occhi,
chiudiamo i sensi
fino ad uscire al sole
a mordere le arance.
ODE AL TAVOLO
Sopra le quattro zampe del tavolo
sviluppo le mie odi,
dispiego il pane, il vino
e l’arrosto
(la nave nera
dei sogni),
o dispongo forbici, tazze, chiodi,
garofani e martelli.
Il tavolo fedele
sostiene
sogno e vita,
titanico quadrupede.
È
la ricolma di conchiglie
e rifulgente
tavolo del ricco una favolosa nave
carica di grappoli.
È bello il tavolo della gola,
traboccante di gotiche aragoste,
e c’è un tavolo
sola, nella sala da pranzo di nostra zia
in estate. Scorsero
le tende
e un solo raggio acuto dell’estate
penetra come spada
a salutare sopra il tavolo oscuro
la trasparente pace delle susine.
E c’è un tavolo lontana, tavolo povero,
dove stanno preparando
una corona
per
il minatore morto,
e sale dal tavolo il freddo aroma
dell’ultimo dolore disordinato.
E vicino c’è il tavolo
di quella alcova ombrosa
che fa ardere l’amore con i suoi incendi.
Un guanto di donna rimase tremante
lì, come il guscio di fuoco.
Il mondo
è un tavolo
circondato dal miele e dal fumo,
coperta di mele o di sangue.
Il tavolo preparato
e già sappiamo quando
ci chiamarono:
se ci chiamano alla guerra o a mangiare
e dobbiamo scegliere le campane,
dobbiamo sapere adesso
come ci vestiremo
per sederci
al lungo tavolo,
se ci metteremo pantaloni di odio
o camicia d’amore appena lavata:
ma dobbiamo farlo presto,
ci stanno chiamando:
ragazze e ragazzi,
a tavola!
TRE BAMBINE BOLIVIANE
Colomba di Bolivia, figlie di creta,
dorate dell’altezza,
brocche di ’aria, adesso
sediamoci nella strada,
contiamo quaranta centesimi,
una coperta, una candela, una ciotola,
sediamoci nella povertà.
Sopra morde l’aria fredda
ed è un ombrello nel cielo
il condor oscuro e sanguinario.
Io toccai la dorsale andina
con le mie mani ed ho l’anima
attonita e ferruginosa.
Adesso sto seduto con le
taciturne spose di argilla
ed è lontano ogni l’orizzonte,
è solitaria tutta la vita,
solo celeste cielo e neve,
cime logore, pioggia ferrea
come le spade di Dio,
come le lance del diavolo,
come le fruste dell’uomo.
Solo io posso sedermi
tanto elevatamente puro
in questo trono della morte,
della morte color di stagno.
Solo io, re delle solitudini,
re straccione dell’altezza,
posso arrivare, bere un sorso,
masticare le sacre foglie
e sedermi senza dire nulla
con la mia famiglia terrestre.
Juana Pachucutanga,
Maria Sandoval Chacuya
e Rosita Flor Puna Puna.
Lì stemmo senza dire
una sola parola bianca,
una sola parola impura,
perché eravamo terra, eravamo acqua,
eravamo l’aria dell’alto.
Questa volta non voglio raccontare
certe amarezze pesanti
come la rupe di Apac Chaimún.
Non voglio parlare del sangue
inutile, rovesciato nella cavità
di quelle pietre disumane.
Io voglio che canti il silenzio
come se fosse trasparente
e che trovi la voce dell’acqua:
che conti quello che sta sempre zitto,
che decifri le cordigliere.
Silenziose sorelle, adesso
spezziamo in questa sera
il colore di sangue e di zolfo:
io da qui vado in Cile,
voi salite al pianeta.
Già ritornerò, già ci vedremo,
già potremo andare un giorno
e contare beni più estesi:
divideremo la verità,
vivremo in una stella.
L’OLBLIO
Come ti chiami, mi domandò quell’albero,
e quali sono le tue foglie?
la torre domandò,
che altezza hai?
Mi sdraiai sulla terra
e niente domandò, niente mi disse:
tutto lo sa perché sta aspettando
e apprese tutto di quelli che speravano:
io so che è come l’oblio,
questo è, non ha termine,
non c’è fine, non c’è
fine, non c’è punto nell’oblio.
ODE ALLE PATATE FRITTE
Scoppietta
nell’olio
facendo bollire
l’allegria
del mondo:
le patate
fritte
entrano
nella padella
come innevate
piume
di cigno mattutino
e escono
semidorate dalla crepitante
ambra delle olive.
L’aglio
gli aggiunge
la sua terrena fragranza,
il pepe,
polline che attraversò le scogliere,
e
vestite
di nuovo
con vestito di avorio, riempiono il piatto
con la ripetizione della sua abbondanza
e la sua squisita semplicità di terra.
ALLE ACQUE DEL NORD EUROPEO
Acque del Nord
dove si lava il cielo.
Tutto si decise
in opaca bianchezza,
in orizzonti sporchi
e spazio cenerino.
La nave incrocia e taglia
la capigliatura dell’acqua
e continua continua continua
a scivolare nella foschia,
senza peso, come un uccello
destinato al silenzio…
ODE AL CANE
Il cane mi domanda
e non rispondo.
Salta, corre nel campo e mi domanda
senza parlare
e i suoi occhi
sono due domande umide, due fiamme
liquide che interrogano
e non rispondo,
non rispondo perché
non so, non posso niente.
In aperta campagna andiamo
uomo e cane.
Brillano le foglie come
se qualcuno
le avesse baciate
una per una,
salgono dal suolo
tutte le arance
a sancire
piccoli planetari
in alberi rotondi
come la notte, e verdi,
e cane e uomo vanno
annusando il mondo, scuotendo il trifoglio,
per il campo del Cile,
tra le dita chiare di settembre.
Il cane si ferma,
insegue le api,
salta l’acqua agitata,
ascolta lontanissimi
latrati,
orina su una pietra,
e mi porta la punta del suo muso,
a me, come un regalo.
È la sua freschezza terrena,
la comunicazione della sua tenerezza,
e lì mi domandò
con i suoi due occhi,
perché è giorno, perché verrà la notte,
perché la primavera
non porta nel suo canestro
niente
per cani erranti,
ma fiori inutili,
fiori, fiori e fiori.
E così domanda
il cane
e non rispondo.
Andiamo
uomo e cane uniti
per la mattina verde,
per la incitante solitudine vuota
in cui soltanto noi
esistiamo,
questa unità di cane con rugiada
e il poeta del bosco,
perché non esiste l’uccello nascosto,
né il fiore segreto,
ma trillo e aroma
per due compagni,
per due cacciatori compagni:
il mondo umido
dalle secrezioni della notte,
un tunnel verde e poi
un prateria,
una raffica d’aria arancione,
il sussurro delle radici,
la vita che cammina,
che respira, che cresce,
e l’antica amicizia,
la felicità
di essere cane e di essere uomo
trasformata
in un solo animale
che cammina muovendo
sei zampe
e una coda
con rugiada.
AL MIO POPOLO, IN GENNAIO
Quando l’anno
nacque,
robusto, odoroso di pane di cordigliera
e di mela marina,
quando la mia patria povera
il suo poncho di grappoli distendeva,
aprì la tirannia
il vecchio muso
di sauro sdentato
e morse il cuore del territorio.
Passò la raffica, tornò
per la sua strada
la semplice vita amara
o l’allegria.
Molti hanno dimenticato,
sono morti molti
ed altri che oggi parlano non soffrirono
perché non erano nati.
Non ho dimenticato né sono morto.
Sono l’albero di gennaio
nella selva bruciata:
la fiamma crudele che balenò nel fogliame,
forse andò via, fu la bruciatura,
la cenere volò,
si contorse
nella morte il legno.
Non ci sono foglie nei pali.
Soltanto nel mio cuore le cicatrici
fioriscono e ricordano.
Sono l’ultimo ramo del castigo.
ODE AL PIANO
Era triste il piano
nel concerto,
dimenticato nel suo frac di sepoltura,
e poi aprì la bocca,
la sua bocca di balena:
Andò il pianista al piano
volando come un corvo,
poi passò come se cadesse
una pietra
d’argento
o una mano
in uno stagno
nascosto:
scivolò la dolcezza
come una pioggia
sopra una campana,
cadde la luce nel fondo
di una casa chiusa,
uno smeraldo percorse l’abisso
e suonò il mare,
la notte,
le praterie,
la goccia di rugiada,
l’altissimo tuono,
cantò l’architettura della rosa,
girò il silenzio nel letto dell’aurora.
Così nacque la musica
del piano che moriva,
crebbe il paramento
della naiade
del catafalco
e della sua dentatura
fino a che nell’oblio
cadde il piano, il pianista
e il concerto,
e tutto fu suono,
torrenziale elemento,
sistema puro, chiaro campanile.
Allora tornò l’uomo
dell’albero della musica.
scese volando come
corvo perduto
o cavaliere pazzo:
chiuse la sua bocca di balena il piano
ed egli camminava indietro,
verso il silenzio.
ODE AL PIATTO
Piatto,
disco centrale
del mondo,
pianeta e planetario:
a mezzogiorno, quando
il sole, piatto di fuoco,
corona
l’
alto
giorno,
piatto, appaiono
sopra
le tavole del mondo
le tue stelle,
le pletoriche
costellazioni,
e si riempie di zuppa
la terra, di fragranza
l’universo,
finché i lavori
chiamano di nuovo
i lavoratori
e ancora
la sala da pranzo è un vagone vuoto,
mentre tornano i piatti
alla profondità delle cucine.
Soave, pura stoviglia,
ti inventò la fonte in una pietra,
poi la mano umana
ripeté
il vuoto puro
e copiò il vasaio la sua freschezza
perché
il tempo con il suo filo
lo ponesse
definitivamente
tra l’uomo e la vita:
il piatto, il piatto, il piatto,
ceramica speranza,
ciotola santa,
esatta luce lunare nella sua aureola,
bellezza rotonda di diadema.
ODE A RAMÓN GÓMEZ DE LA SERNA
Ramón
sta nascosto,
vive nella sua grotta
di orso di zucchero.
Esce soltanto di notte
e si arrampica per i rami
della città, raccoglie
castagne tricolori,
pinoli ispidi,
chiodi di odore, pettinini di tormenta,
zafferanati ventagli morti,
occhi perduti nelle strade,
e ritorna col suo sacco
verso la sua tana nei monti
tappezzata di lunge capigliature
e orecchie celestiali.
Diventa pieno di paura
al colpo alla porta,
all’impeto
spaziale
degli aeroplani,
al freddo che si cala
dalla Spagna,
ai rampicanti, agli uomini,
alle bandiere, all’ingegneria.
Ha paura di tutto.
Lì nella sua caverna
riunì gli alimenti
migratori
e si nutre
di chiarezza ombrosa
e di arance.
All’improvviso
esce un fulgore, un raggio
del suo faro
e il fascio ultravioletto
che racchiudeva
la sua fronte
ci illumina il diametro e la festa,
ci mostra il calendario
con Venerdì più profondi,
con Giovedì come il mare vociferante,
tutto colmo, tutto
maturo con le sue sfere,
perché il rivelatore dell’universo
Ramón si chiama e quando
soffia nel suo fiore di pietra, nella sua trombetta,
accorrono sorgenti,
mostra il silenzio le sue categorie.
Oh re Ramón,
monarca
mentale,
direttore
ditirambico
della poesia interrogatrice,
pastore delle parabole
segrete, autore
dell’alba e del suo
trascurato
cataclisma,
poeta
frettoloso
e spazioso,
tuttavia con tanti,
con tanti occhi ciechi,
perché
vedendo tutto
Ramón si irrita
e scompare,
si confonde nella foschia
del calamaro lunare
e quello che tutto lo dice
e può
salutare quello che va e che viene,
all’improvviso
si piega verso l’altro ieri, da una testata
contro il sole della storia,
e da questo incontro escono scintille nere
senza l’elettricità della sua ribellione.
Scrivo a Isla Negra,
costruisco
poesia e canto.
Il giorno era distrutto
come l‘antica statua
di una dea marina
da poco estratta dal suo letto freddo
con lacrime e melma,
e vicino al movimento
scopritore
del mare e delle sue sabbie,
ricordai i lavori
del Poeta,
l’insistenza raggiante della sua schiuma,
il futuro vento delle sue onde.
E a Ramón
dedicai
i miei inni mattutini,
la serpe
della mia calligrafia,
per quando
esce
dalla sua prolissa torre di capibara
riceve la serena
grandezza di una raffica del Cile
e che brilli al mago il cartoccio
e si rovescino tutte le sue stelle.
RITORNO
Ostili cordigliere,
cielo duro,
stranieri, questa è,
questa è la mia patria,
qui nacqui e qui vivono i miei sogni.
La barca si muove
per l’azzurro, per tutti gli azzurri,
la costa è la più lunga
linea di solitudine dell’universo,
passano e passano le spiagge bianche,
salgono e scendono i monti nudi,
e corre fino al mare la terra sola,
addormentata o morta nella pace ferruginosa.
Quando caddero le vegetazioni
e il dolce verde abbandonò queste terre
il sole le bruciò dalla sua altezza,
il sale le consumò dalle sue pietre.
Da allora si riesumarono
le antiche stelle minerali:
lì giacciono le ossa della terra,
compatto come pietra è il silenzio.
Perdonate, stranieri,
perdonate la misura desolata
della nostra solitudine,
e quelle che diamo alla lontananza.
Tuttavia,
qui stanno le radici del mio sogno,
questa è la dura luce che amiamo,
ed in ogni modo, con distante orgoglio,
come nei minerali della notte,
vive l’onore di questa lunga spiaggia.
ODE ALL’ANGURIA
L’albero dell’estate
intenso,
invulnerabile,
è tutto il cielo azzurro,
sole giallo,
stanchezza a goccioloni,
è una spada
sopra le strade,
una scarpa bruciata
nelle città:
la chiarezza, il mondo
ci angosciano,
ci attaccano
gli occhi
con polverone,
con repentini colpi d’oro,
ci incalzano
i piedi
con piccole spine,
con pietre calde,
e la bocca
soffre
più che tutte le dita:
hanno sete
la gola,
i denti,
le labbra e la lingua:
vogliamo
bere le cascate,
la notte azzurra,
il polo,
e quindi
attraversa il cielo
il più fresco di tutti
i pianeti,
la rotonda, suprema
e celestiale anguria.
È il frutto dell’albero della sete.
È la balena verde dell’estate.
L’universo secco
all’improvviso
cancellato
da questo firmamento di freschezza
lascia cadere
la frutta
traboccante:
si aprono i suoi emisferi
mostrando una bandiera
verde, bianca, scarlatta,
che si scioglie
in cascata, in zucchero,
in delizia!
Cassaforte dell’acqua, placida
regina
del fruttivendolo,
bottega
della profondità, luna
terrestre!
Oh pura,
nella tua abbondanza
si sciolgono rubini
e uno
desidera
morderti
affondando
in te
la faccia,
i capelli,
l’anima!
Ti distinguiamo
nella sete
come
miniera o montagna
di splendido alimento,
ma
ti trasformi
tra la dentatura e il desiderio
soltanto in
luce fresca
che si slega,
in sorgente
che ci toccò
cantando.
E così
non pesi
nella siesta
bruciante,
non pesi
soltanto
uvette
e il tuo grande cuore di brace fredda
si trasformò nell’acqua
di una goccia.
ODE ALLA SEDIA
Una sedia nella selva:
sotto le liane dure
scricchiola un tronco sacro,
sale un rampicante,
ululano nell’ombra
bestie insanguinate,
dal cielo verde cadono grandi foglie,
suonano i sonagli
secchi del serpente,
come una freccia contro una bandiera
attraversò un uccello il fogliame,
i rami alzarono i loro violini,
pregano immobili
gli insetti
seduti sui loro fiori,
si affondano i piedi
nel
sargasso nero
della selva marina,
nelle nuvole calde della selva,
e soltanto chiedo
per lo straniero,
per l’esploratore disperato
una sedia
nell’albero delle sedie,
un trono
di felpa scompigliata,
il velluto di una poltrona profonda
tarlato dai rampicanti.
Si,
una sedia,
la sedia
che ama l’universo
per l’uomo che cammina,
la fondazione
sicura,
la dignità
suprema
del riposo!
Dietro tigri assetate,
folla di mosche sanguinarie,
dietro il nero spessore
di fantasmatiche foglie,
dietro acque spesse,
foglie ferruginose,
sempiterni serpenti,
in mezzo
ai tuoni,
una sedia,
una sedia
per me, per tutti,
una sedia non soltanto
per sollievo
del corpo affaticato,
ma
per tutto
e per tutti,
per la forza perduta
e per il pensiero.
La guerra è larga come selva oscura.
La pace
comincia
in
una sola
sedia.
ODE A UN SOLO MARE
È verticale il giorno
come una lancia azzurra. Entro nell’acqua.
È l’acqua dell’Asia,
il mare della Cina.
Non riconosco sierre né orizzonti
tuttavia questo mare, questa onda viene
da terra americana: questa marea,
questo abisso, questo sale,
sono una cintura pura di infinito
che lega due stelle:
i vulcani lontani
della mia patria,
l’agricoltura diafana della Cina.
Che sereno sarei
se io ti navigassi,
se il mio corpo o la mia nave
conducesse
attraverso le onde e la luna,
mare doppiamente mio,
fino ad arrivare dove mi sta aspettando
la mia casa vicino alla sorgente marina.
Che azzurro, che trasmigrante,
che dorato sarebbe
se camminasse il mare con piedi nudi,
se il mare, il mio proprio mare, mi trasportasse.
Vedrei il volo
degli affamati uccelli oceanici,
conterei tartarughe,
scivolerei sopra i pesci,
e nel grande istituto
dell’aurora
il mio cuore bagnato
come un frutto di mare si muoverebbe.
Finché tu, sirena,
vicino a me, trasparente
nuotatrice,
con sale del mare mescolassi
i tuoi amorosi baci
ed uscissimo vicino all’oceano
a comprare pane e svegliare la legna.
Un sogno, si, ma
che cos’è il mare se non un sogno?
Venite a sognare, nuotando,
il mare della Cina e del Cile,
venite a nuotare il sogno,
venite a sognare l’acqua che ci unisce.
Amore o mare o sogno,
facemmo vicino questa traversata,
da terra a terra un solo mare sognando,
di mare in mare un solo sogno verde.
SOLITUDINI DELLA TERRA CINESE
Terra di Cina, voglio dirti
soltanto parole di terra,
parole verdi di riso,
parole di rosso bruciato:
quello che gli uomini fecero e fanno:
guerre, statue, epopee
(di dolori, di allegria, di sangue,
di pace, di allori, di libri),
tutto questo sarà scritto e cancellato.
E né la morte né la vita
dipendono dal mio amore o dal mio canto.
Io voglio soltanto passare le mie mani
sopra i tuoi grandi seni verdi:
che il tuo fango mi modifichi,
che mi costruisca il tuo vento!
Voglio essere un figlio selvaggio
formato dal tuo fango a dal tuo vento.
Vicino a Kumming le montagne
si circondano di argento e di colombe,
l’aria nell’altezza è viva
come un pesce gelato e elettrico,
il lago guarda soltanto verso l’alto:
soltanto verso i fiori del cielo.
Lì i più antichi dei
si fecero una città di pietra
ed io camminai errante sentendo
sopra di me colpi di granito,
lingue di sale, merli d’oro,
esplosioni che immobilizzano
in pieno cielo il suo scoppio.
Da circa mille volte mille anni
si muovono le acque del fiume,
si contraddicono, si sconvolgono,
si agitano come capigliature
e ci sono buchi nell’acqua
come fatti in punta di lancia.
È il Yang Tsé, padre dell’acqua.
E è ampio come una città
questa strada palpitante.
Nelle gole si aprì il passo
consumando con baci la pietra.
E corre il fiume come il tempo.
La roccia rompe il cielo azzurro
e grande aquile fluviali
costruiscono i loro nidi selvaggi
nelle verticali altezze.
Io sono di un’altra patria, la neve
posò una stella sulla mia bandiera
e lì il mare è un leone sonoro
con muso di sale furioso.
In Cile vivono i miei parenti.
E la pioggia cade senza tregua
sopra i miei padri sotterrati.
Il mio paese è chiaro e magro
come uno solo dei tuoi fiumi.
Tuttavia nelle tua mani ampie
mi sento sicuro e cammino,
attraverso deserti e risaie,
neve di montagne amare,
monti di antica pietra e pini.
Io canto con le sorgenti,
raccolgo fiori incredibili,
percorro senza rispetto e cantando
la tua planetaria geografia.
Dall’alto sei, terra di Cina,
moltitudine verde di terrazze,
giardini di smeraldi
o dolce agricoltura di api.
Sei un pieno favo verde.
E l’uomo cresce le sementi
tra le rocce, nelle nubi,
nelle isole, tra le onde.
(L’uomo cinese lavora la terra
e la terra cinese lo lavora,
aguzza le sue mani pazienti,
disegna solchi sul viso.
Dopo la terra aspetta l’uomo
e lui si confonde con la polvere
come una pallida semenza.)
Oh terra magnetica, volto
del mondo, antica e nuova luna,
come il tempo, germogliatrice,
come l’oceano, infinita:
nazione eterna di radici,
piantagione copiosa di esseri:
le nubi ti avvolgono e nasci
milioni di volte il giorno.
Passano i popoli e tu sei.
Rimani, madre feconda.
Cresci, gigante pietra d’oro.
Che non abbiano il coraggio di toccare
la tua antica fronte dura e pura.
I tuoi monti, i tuoi fiumi, le tue rocce,
le tue nubi, il tuo cielo ed i tuoi uomini
sono una sola forza.
Ma io soltanto un amore,
con semplice amore e semplice terra,
scrivo per te questo canto.
Non è per gli eroi, è per
l’antica madre dei tuoi eroi.
ODE AI TRENI DEL SUD
Treni del Sud, piccoli
tra
i vulcani,
scivolano
vagoni
sopra
barre
bagnate
dalla pioggia vitalizia,
tra montagne
crespe
e dispiacere
di pali bruciati.
Oh
frontiera
di boschi gocciolanti,
di ampie felci. di acqua,
di corone.
Oh territorio
fresco
da poco uscito dal lago,
dal fiume,
dal mare e dalla pioggia
con il mantello bagnato,
e con la cintura piena
di liane portentose,
e allora
nel mezzo
della vegetazioni,
nella linea
della moltiplicata capigliatura,
un pennacchio perduto,
il piumino
di una locomotiva fuggitiva
con un treno trascinando
cose vaghe
nella solennità schiacciante
della natura,
lanciando
un grido
di ansia,
di fumo,
come un brivido
nel paesaggio!
Così
dalle tue onde
i campi di grano
con il treno passeggeri
conversano come
se fosse
ombra, cascata o uccello
di quelle latitudini,
e il treno
il suo scintillio
di carbone bruciato
riparte
con oscura
malignità
di diavolo
e continua,
continua,
continua,
si arrampica sull’alto viadotto
del fiume Malleco
come salendo
da una chitarra
e canta
nelle altezze
dell’equilibrio azzurro
della ferramenta,
fischia il vibrante treno
della fine del mondo
come
se
si congedasse
e stesse per cadere dove
termina
lo spazio terrestre,
e si gettasse nelle isole
finali dell’oceano.
Io vado con te,
treno trepidante
treno
della frontiera:
vado a Renaico,
aspettami,
devo comprare lana a Collipulli,
aspettami, devo
discendere a Quepe,
a Loncoche, a Osorno,
cercare pinoli, tessuti
appena tessuti, con odore
di pecora e pioggia…
Corri,
treno, bruco, sussurro,
piccolo animale longitudinale,
tra le foglie
fredde
e la terra fragrante,
corri
con
taciturni
uomini dalle nere coperte,
con cavalcature,
con silenziosi sacchi
di patate delle isole,
con il legno
del larice rosso,
dell’ombroso coique,
del rovere perpetuo.
Oh treno
esploratore
delle solitudini,
quando torni
all’hangar di Santiago
agli alveari
dell’uomo ed al suo incrociato potere,
dormi forse
per una notte triste
un sogno senza profumo,
senza neve, senza radici,
senza isole che ti aspettano nella pioggia,
immobile
tra anonimi
vagoni.
Ma
io, tra un oceano
di treni,
nel cielo
delle locomotive,
ti riconoscerei
per
una certa aria
da lontano, per le tue ruote
bagnate là lontano,
e per il tuo trapassato
cuore che conosce
l’indicibile, selvaggia,
piovosa,
azzurra fragranza!
ODE A UN TRENO IN CINA
La terra sta girando,
il treno girando,
soltanto il cielo sta quieto.
Pianure e bandiere,
mais, mais dalla capigliatura verde,
di quando in quando una bandiera rossa,
fiore fugace, papavero del cammino.
Il treno attraversa correndo
verso Tsing Tao,
vado verso il mare, verso il mio mare, lo stesso,
lo stesso convertito in misteriosa
sabbia e sale che non conosce la mia anima.
L’aria immobile ricoperta
da squamose nubi, da vapori
di pioggia grigia, da silenziosi nastri
che circondano e coprono
la chiarezza, la solitudine del cielo.
Oh viaggio della mia vita,
una volta più piena luce,
in piena proporzione e poesia
vado con il treno girando,
come ieri nella mia infanzia più piovosa
vado con il treno imparando la terra
verso dove l’oceano mi chiama.
ODE ALLA TERRA (II)
Terra, chi
ti misurò e ti pose
muri,
filo di ferro,
staccionate?
Nascesti divisa?
Quando le meteore si incrociarono
e il tuo volto cresceva
sgretolando mari e macigni,
chi ripartì i tuoi doni
fra tutti gli esseri?
Io ti accuso,
avesti
scosse di morte,
tremori di catastrofe,
facesti polvere
le città, i popoli,
le povere case cieche
di Chillán, distruggesti
i sobborghi di Valparaiso,
fosti colera
di iraconda sorte
contro i pacifici abitanti
della mia patria,
e in cambio
sopportasti
la divisione ingiusta
delle tue proprietà,
non crepitò la lancia
del vulcano incendiato
contro l’usurpatore del territorio,
e in te cadde non soltanto il morto giusto,
che compì i suoi giorni,
bensì il crivellato
perseguitato
a cui rubarono campi e cavalli,
e che alla fine si dissanguò cadendo
sopra la tua pelle invisibile.
Il tuo duro inverno al povero desti,
la miniera scura al cercatore ferito,
la caverna fu per l’abbandonato,
il bruciante calore al figlio del deserto,
e così la tua ombra ingiusta non dette conforto a tutti,
e il tuo fuoco non fu ben ripartito.
Terra, ascolta e medita
queste parole,
le do al vento perché volino,
cadranno nel tuo ventre a germinare,
non più battaglie, basta,
non vogliamo pagare la terra col sangue:
ti vogliamo amare,
madre feconda,
madre del pane e dell’uomo,
ma
madre di tutto il pane e di tutti gli uomini.
TEMPESTA CON SILENZIO
Tuona sopra i pini.
La nube spessa sgranò le sue uve,
cadde l’acqua di tutto il cielo confuso,
il vento disperse la sua trasparenza,
si riempirono gli alberi di anelli.
di collane, di lacrime erranti.
Goccia a goccia
la pioggia si riunisce
ancora alla terra.
Un solo tuono vola
sopra il mare ed i pini,
un movimento sordo:
un tuono opaco, oscuro,
sono i mobili del cielo
che si trascinano.
Di nube in nube cadono
i piani dell’altezza,
gli armadi azzurri,
le sedie e i letti cristallini.
Tutto trascina il vento.
Canta e conta la pioggia.
Le lettere di acqua cadono
rompendo le vocali
contro i tetti. Tutto
fu cronica perdita,
sonata disperata goccia a goccia:
il cuore dell’acqua e la sua scrittura.
Terminò la tormenta.
Ma il silenzio è altro.
ODE AL VIOLINO DELLA CALIFORNIA
Come pietra nella costa
della California, un giorno
caddi, abbandonato:
la mattina era una frusta gialla,
il pomeriggio era un bagliore
e arrivava la notte
come un bicchiere limpido
pieno di stelle e freschezza.
Oh firmamento
gravido, tremolante
pezzo di statua azzurra
sui sobborghi messicani,
e lì nella costa
con
quella tristezza passante,
con la solitudine del palo secco,
consumato e bruciato,
gettato nell’oscillazione
della marea
al sinistro sale della California.
Adesso, nella notte
sentii la voce
di un violino
secco
e povero:
era come un ululato
di cane vagabondo
che mi pregava e mi cercava,
era
la compagnia,
l’uomo che ululava.
era un’altra solitudine sopra la sabbia.
Cercai il violino notturno
strada per strada scura,
casa per casa ossidata,
stella per stella:
si perdeva,
taceva,
era all’improvviso uno zampillo,
un fuoco
di Bengala nella notte salmastra,
era una rete di fosforo sonoro,
una spirale di dimensione sonora,
ed io per strada e strada
cercavo
il filo
del violino oscuro,
la radice sommersa nel silenzio
finché in una
porta
di taverna
l’uomo stava con il suo
violino povero.
Già l’ultimo ubriaco
traballava
verso i dormitori delle navi,
i tavoli oltraggiati
congedavano i bicchieri:
neanche lì
aspettava niente a nessuno:
il vino era partito,
la birra dormiva,
e nella porta
il violino con il suo logoro
compagno,
volando,
volando,
sopra la notte sola,
con una sola scala
d’argento e di lamento,
con una sola rete che estraeva
dal cielo
fuoco errante, comete, giullari,
ed io semiaddormentato,
inghiottito dalla bocca
dell’estuario
toccai il violino, le corde
madri di quei solitari
pianti,
il legno consumato
da tante dita sommerse,
riconobbi la soavità, il tatto
dello strumento puro, costruito,
quel violino di povero
era famiglia,
era parente mio,
non soltanto per sonoro,
non soltanto perché poté sollevare
il suo ululato
tra ostili stelle,
ma perché apprese
dalla sua nascita
ad accompagnare perduti,
a cantare per erranti.
ODE AI NOMI DEL VENEZUELA
I prati riarsi
di febbraio,
ardente è il Venezuela
e il cammino divide
la sua estesa fiammata,
la luce fecondatrice
spogliò il potere
dell’ombra.
Attraverso la strada
mentre cresce
il pianeta da ogni lato,
da Barquisimeto
verso Acarigua.
Come un martello
il sole
si intromette
nei rami,
conficca
chiodi celesti
nella terra,
studia gli angoli
e come un gallo increspa
il suo piumaggio
sopra le tegole verdi di Barinas,
sopra le palpebre di Suruguapo.
I tuoi nomi, Venezuela,
i riti
sotterrati,
l’acqua, le battaglie,
l’ombrosa
unione di giaguaro e cordigliere,
i piumaggi
degli sconosciuti
uccelli variopinti
della selva,
le parole
appena
socchiuse
come di piuma o di polline,
o i duri
nomi di lancia o pietra:
Aparurén, Guasipati, Canaima,
Casiquiare, Macaca,
o più lontano, Maroa,
dove i fiumi sotto le tenebre
combattono come spade,
trascinano la tua esistenza,
legno, spazio, sangue,
verso la schiume ferrea dell’Atlantico.
Nomi del Venezuela
fragranti e sicuri
corrono come l’acqua
sopra la terra secca,
illuminano
il volto
della terra
come l’aranguaney quando alza
il suo padiglione di baci gialli.
Ocumare,
sei occhio, schiuma e perla,
Tocuyo, figlio di farina,
Siquisique, scivoli
come un sapone bagnato e odoroso
e, se scegliessi, il sole
nasceresti nel nome di Carora,
l’acqua nascerebbe a Cabudare,
la notte dormiresti a Sabaneta.
A Chiriguare, a Guay, a Urucure,
a Coro, a Bucarai, a Morituro,
in tutte le regioni
del Venezuela sgranato
non raccolsi tranne questo,
questo tesoro:
le semenze ardenti di questi nomi,
che seminerò nella mia terra, lontana.
ADDIO AL VENEZUELA
Prima, per me, sierre ostili,
cordigliere oscure
e piccoli soldati
dai vestiti crudeli e palla in bocca,
mi allontanarono,
mi dissero: “Non passi”,
“Non vedi”, “Non presenzi”.
Adesso ritorno
dalla larghezza insigne,
dallo spazioso miele venezuelano,
e fui, fummo felici:
Ho toccato, ho visto,
ho presenziato,
parlai con la palma,
conversai con l’uomo,
mi sedetti solo nelle lontane piazze,
parlai con il silenzio,
toccai le terre incendiate,
suole
di petrolio profondo:
niente era chiuso,
si apri una porta e non vidi nessuno
perché lì stavano tutti,
e non mi dettero nulla,
bensì tutta la terra e tutto l’uomo.
Io camminai il Venezuela duro,
le pietre del calvario,
il sangue di strade e prigioni,
la camicia infernale che le cucirono
i suoi antichi dolori
e vidi un Venezuela
chiaro come il pane di mais,
fermo e puro,
da poco uscito, intatto, dal tormento.
E quando verso le isole
palpitanti passarono
i corocoros come se passasse
volando il fuoco vivo,
capii che nasceva,
che per la prima volta guardava il mondo
e che gli ibis rossi spargevano
la semenza del sole sopra la terra.
Mi invitasti, patria calorosa,
a mangiare di fronte al mare o tra i monti
alla tua tavola di poveri e di ricchi,
e eri lì
perpetua e generosa
come se rovesciandoti consegnassi
non soltanto il parto della geologia,
ma il tuo cuore interminabile.
Per le tue strade rosate
uscì la rosa grigia della Charneca
e lì vidi i validi,
i piccoli uomini,
e donne, e bambini,
che con fulgore, con pietre,
con cuore e bastonate
restaurarono
la luce, la tua luce, la tua vita, la nostra vita.
Per questa luce posso arrivare tanto lontano
e tanto vicino, alla pelle delle tue pianure,
alla infinita linea dei tuoi fiumi
e adesso me ne vado, e a tutto
dico addio, me ne vado con la mia chitarra.
Alla mia patria ritorno,
con mia moglie, Matilde, e con il mio canto.
Non so se ritorneremo.
Intanto noi andiamo con la tua stella.
EPILOGO
DOVERI DI DOMANI
Odi senza fine, domani
e ieri (oggi è presto)
nascono, nacquero, nasceranno, servendo
la sete del viandante o della strada,
e cadranno come la pioggia cade,
come l’autunno cade,
rovesciando
la chiarezza dell’irrigazione
o un riassunto errante e giallo.
Tutto alla luce serena della notte,
all’ombra del giorno,
tutto il vento che agisce
nell’esitazione delle spighe,
tutta l’acqua, nella sua parola,
a quella che dice tante cose chiare
e all’acqua della profondità,
acqua segreta che non canta.
Ad ogni sole, a ogni luna vengo,
ad ogni cane, uccello, vascello,
ad ogni mobile, ad ogni essere umano.
Chi è? Già vado! Aspetta!
Aspetta, rosa chiara,
aspetta, frumento verde,
minerale della terra, aspetta,
non rimane tempo per essere campana.
A tutta ruota dico,
aspetta, rotola, aspetta:
già vado, già vengo, un solo
minuto
e rotoleremo.
Si, ruota, rotoleremo,
insetto, insetteremo,
si, fuoco, fuocheremo,
si, cuore,
lo so,
lo so,
e si sa:
è la vita, è la morte
questo destino.
Cantanto moriremo.