Pablo Neruda e Insetti


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Mangiando in Ungheria (1965)

MANGIANDO IN UNGHERIA (1965)
Nel febbraio del 1965 Neruda viaggiò in Europa, tra gli altri motivi per ricevere il titolo di Dottore Honoris Causa in Filosofia e Lettere che gli aveva conferito l'Università di Oxford (per iniziativa del professore Robert Pring-Mill). Dopo alcuni mesi a Parigi, durante l'estate Pablo e Matilde arrivarono da Budapest per invito del governo ungherese. Simultaneamente arrivarono anche lo scrittore guatemalteco Miguel Asturias e sua moglie. Tanto il poeta come il romanziere avevano accettato di buon grado l'incarico di scrivere le loro impressioni sull'Ungheria nella sua nuova fase, contribuendo così a migliorare l'immagine internazionale di quel paese socialista a quasi dieci anni dell'intervento sovietico.

Ma che cosa tanto strana è il reputazione internazionale, l'opinione mondiale! Mentre un quarto di secolo fa l'affamata Ungheria aveva fama di essere un paese dove la gente viveva bene, sulla sazia Ungheria dell'attualità si dice che in lei scarseggia il cibo. Non bisogna negarlo, perfino ad amici come i coniugi Neruda ed Asturias si immaginavano che nei ristoranti o nelle case dei loro amici di Budapest gli sarebbe stato servito una specie di cibo pubblico ufficiale, stabilito in anticipo, senza odore né sapore. L'idea di questo libro sorse dalla sorpresa della prima notte quando andammo a cenare al ristorante Alabárdos (Alabardiere) citato in questo libro, situato in una casa di stile gotico del patinato Quartiere del Castello di Buda, nel quale ebbero occasione di contemplare quello che un grande poeta ungherese del secolo passato, esimio maestro della nostra lingua, János Arany, espresse della seguente maniera: Vadat, halat! s mi jó falat, szem-szájnak ingere (caccia, pesce, ogni buon boccone che al gusto e l'occhio dà regalo).
Fu allora quando i due scrittori latinoamericani pensarono per la prima volta di scrivere qualcosa sulla vita ungherese. Neruda pensò ad una poesia ed Asturias ad una piccola riunione conviviale. Quando il giorno dopo, in una taverna di marinai situata sulle rive del Danubio, in un ambiente più semplice, ebbero occasione di assaporare cose tanto saporite ed in tanta abbondanza come la notte anteriore, fu Asturias che si sentì inclinato verso i versi mentre Neruda si vide attratto dalla prosa, questa volta più estesa. Più tardi arrivarono a conoscere i paesi da dove i distinti piatti sono originari. Conobbero antiche cittadine dove furono preparati per la prima volta e conobbero principalmente la gente alla cui vita si trovano legati i sapori - a volte rustici, altre volte raffinati - di quei cibi. Questi due scrittori arrivati da molto lontano, considerarono che questa era un nuovo modo di potere parlare ai loro lettori dell'Ungheria. Percorsero così il paese durante settimane intere, iniziando la conoscenza con le pianure nelle quali cresce il grano, coi soleggiati pendii, con le terre che producono i vini ungheresi e coi tranquilli orti da frutta, con accoglienti taverne d'ambiente familiare, con caffè placcati all'antica e con moderni ristoranti. Quando mi comunicarono i loro progetti rispetto a questo libro, nella mia allegria e nella mia sorpresa, ed un tanto emozionato perché noi ungheresi diventiamo sentimentali non appena si tratta della nostra patria, domandai loro:
- Tanto è l'affetto che sentite verso l'Ungheria?
Si guardarono. A mia opinione, di questo avevano parlato già tra loro.
- È tanto l'affetto che sentiamo verso la vita - rispose Miguel Asturias.

Frammento di Iván Boldizsár, "Aperitivo",
prologo a Comiendo en Hungría, 1969.

La peregrinazione dei Neruda e degli Asturias in lungo e largo del territorio gastronomico dell'Ungheria ebbe luogo nell'agosto del 1965, come certifica tra altri la prosa "Il pesce e la data." Di quell'esperienza risultò il libro Comiendo en Hungría, firmato da entrambi gli scrittori e pubblicato dalla casa editrice Corvina di Budapest in 1969. Simultaneamente fu pubblicato anche in ungherese, in francese, in tedesco ed in russo. Riproduciamo qui i testi di Pablo Neruda secondo OC *, vol. III. Non ci sono nuove edizioni del libro completo.

Sei di moda mangiare!

Con pietra e bastone, coltello e scimitarra, con fuoco e tamburo avanzano i paesi al tavolo. I grandi continenti denutriti esplodono in mille bandiere, in mille indipendenze. E tutto va alla tavola: il guerriero e la guerriera. Sul tavolo del mondo, con tutto il mondo al tavolo, voleranno le colombe.
Cerchiamo nel mondo il tavolo felice.
Cerchiamo il tavolo dove impari a mangiare il mondo. Dove impari a mangiare, a bere, a cantare!
Il tavolo felice.

L'Ungheria ci piacque e la gustammo. Siamo golosi venuti da lontano, da terre calde che continuano ad ardere e terre fredde che vivono con la neve. Avevamo fame ancestrale, secoli di fame maya, età di guerra e fame di Arauco, fame nera di Castiglia che spinsero in America la soldatesca imperiale.

Queste fami camminano nel nostro sangue e ci dotarono di una curiosità infinita per quanto si mangia. Queste fami riunite ci diedero un appetito divoratore.

Guardiamo con fame l'Ungheria. Terra, di carne arrosto all'imbrunire, con fumo delle mille cucine nella pianura, ed alcune campane di chiesa che richiamavano alla cena!
E poi Budapest col suo colore di grappolo e la sua anima di pane, la sua luce di panetteria. Sul Danubio planano vapori di platinata casseruola. Per le coline l'aria impregnata dai fiori si modifica beneficamente e ripartisce aromi di burro e paprika, di origano ed alloro.
Il pomeriggio di Budapest coi suoi ponti come griglie sacrosante e i fianchi neogotici del Parlamento, torta sublime che guardiamo come i bambini guardano le meraviglie. Budapest è meravigliosa e commestibile.

Salve, vino di Ungheria! Esclamiamo, alzando i nuovi bicchieri di cristallo nelle stesse colline di Buda dove nacquero i suoi vini. Vino dalle sette vene gialle, dai sette rami di ambra, dai sette zafferani pallidi e ardenti.
Dal Monje Gris fino al Tokay consigliamo la scala dei suoi valori, dalla secca trasparenza fino alla delirante dolcezza.
E i vini rossi, arrossati dalla storia, frutto rosso degli oscuri combattimenti della terra ungherese. Siete colori del rubino, sangue di toro, sangue di cervo, sangue di leone …
Tutta questa sorgente cristallina e purpurea ci attira, a noi, assetati dell'America, veneratori della vite, sostenitori dei bicchieri nell'altezza più fragrante della primavera.
Venimmo qui a mangiare. E ci diranno: e perché non a pensare, a filosofare, a studiare? Tutto questo lo facemmo e lo facciamo. Ma lo taciamo.
Ma quando mangiamo con gloria lo diciamo in questo piccolo libro al mondo. È un compito d'amore e di allegria. Vogliamo condividerlo.
Ci sentiamo vicini a tutti gli uomini del mondo attorno alla tavola, alla tavola felice, alla tavola dell'Ungheria.

BRINDISI NELLA TAVERNA "IL PONTE"
BRINDIS EN LA TABERNA EL PUENTE. (Pagina 81.) Gyula Krúdy fu un scrittore ungherese (1878-1933) celebre per la sua robusta prosa e per la sua celebrazione della cucina nazionale. La taverna Il Ponte era uno dei suoi posti prediletti.

Non ti ricorda questo giardino, questo tavolo sotto il noce, e questo valzer Sulle onde che fa solletico nel ricordo, quelle vecchie case tedesche, con musica e birra, della nostra gioventù?

Il bello sono queste strade vecchie di Obuda con tanti soffitti di tegole che l'inverno millenario non rovinò e questo fiume in questa ora silenzioso come un gran bevitore che dorme il suo vino. Il bello sono questi depositi dell'allegria che aspettano in questa taverna i commensali. Il bello è questo pubblico di famiglie, di quartiere popolare, di gente che intona le vecchie canzoni che sgrana il violino. Il bello è la vita comune che qui conosciamo, che qui viviamo, perché la portavamo nel ricordo, perché in qualche modo era la nostra propria vita.

Si. Fece bene Krudy Giula a lasciare non soltanto libri nelle scaffalature bensì questo piatto che esce ogni ora dalla griglia. Niente di tanto immortale. Niente di tanto vaporoso e niente di tanto solido. Queste scaloppine che si sedevano, secche e tenere, su un divano capitonné di riso con funghi, i sapori sottili purificati dal fuoco di legna e questa fonte monumentale che rivive la saggezza di Krudy, sono parte delle sue migliori pagine. Ci siamo mangiati queste pagine con diletto e beviamo un bicchiere di vino rosso della steppa alla memoria del compagno immortale.

PRIMA DEL PRANZO SCESERO DAL CIELO
20 AGOSTO

È festa. Ci sediamo all'ombra fiammeggiante del Parlamento. Non vidi mai tanta gente vicino ad un fiume. La luce di agosto, cade sulle rive fiorite da migliaia di cappelli, ombrellini, camicie, bluse, vestiti, verdi, gialli, azzurri, bianchi. Ogni colore è nuovo sotto il sole. Il vecchio Danubio è nuovo sotto il sole.
Tra il Ponte delle Catene ed il Ponte Margherita che custodiscono il fiume coi loro pilastri pesanti ed i loro archi aerei si sviluppa la festa popolare. Attraversano le lance di corsa come insetti elettrici. Due si scontrano a tutta velocità in mezzo al fiume e si trasformano in schegge. Si produce un gran silenzio di motori mentre la lancia Croce Rossa corre verso l'incidente.
Sopra il Palazzo Reale, tra le sue due ali ombrose la cupola come un seno monumentale e dopo il nastro cenerino della riva, coi suoi tetti arancione. Il Bastione dei Pescatori, irreale nonostante il suo potere di convinzione, rimase immobile come un sentinella addormentata. Perché i paracadutisti acrobatici si lanciano da tranquilli aeroplani che lasciano nel cielo azzurro, come grandi galline, file di uova bianche. Dopo, questo uovo si trasforma in fiore di papavero, in ombrellone supremo, in fungo e più tardi in medusa celeste che ostenta un fantoccio, tra i suoi fili. L'uomo! L'uomo cade nell'acqua come pietra, poi rinasce e mentre il paracadute perde la sua sferica gloria, si chiude e muore. Un altro ed un altro, un altro, arriva nel cielo azzurrissimo, giù, sul fiume dell'estate.
La chiesa di Sant'Anna, la chiesa del Portone di Vienna, più lontano l'antico Tempio Medievale, la torre della Piazza Szilagyi, la torre dorata dell'Orologio, tutto è fine e vibrante, tutto si alza con le cupole snelle e le guglie magre e dorate.
Il fiume tranquillo, abbondante, continuo, riceve sempre di più uomini che discendono dal cielo, ognuno sotto ad un fiore.

VERSO KECSKEMÉT

Per pranzare attraversiamo la pianura la "gran pianura" tra il Danubio ed il Tisza. Strade ombreggiate da pioppi e pini, villaggi che passano bianchi come nuvole, e l'Ungheria verde - mais, vigne, ortaggi, prugni - si dispiega con i suoi paesani, i suoi operai di festa, le sue chiese che richiamano alla messa. È un'abbagliante chiarezza. La prateria lavora con terra, insabbia, acqua ed uomini. Le ruote idrauliche a bilancia, millenarie con enormi travi e pietra che alzano il cubo, i soffitti di foraggio impenetrabile, i nuovi edifici splendidi, tutto si vede impeccabile al rigore della luce estiva.
Géza Reilé, il sindaco di Kecskemét, ci riceve nella Piazza Centrale. In un piccolo carnevale sfilano le maschere, le vecchie maschere del mondo, sultano con odalische, gruppi di ussari, donzelle adornate come rose, cannibali, marinai, streghe ed un Petöfi, con stivali e baffi, vestito di nero, come l'anima della poesia nell'avventura più grande dell'amore.
Il sindaco ci invita a conoscere i vini regionali. Prodotti dorati della sabbia, i vini di Kécskemét hanno una storia stellata. I vigneti fermarono le onde di sabbia che venivano dalla puszta. La guerra e Ia pace con le sue cavalcate, dettero un'eredità errante alle sabbie. Bisognava immobilizzarle. Ed un vignaiolo di genio piantò lì le uve, proteggendole, esortandole, curandole, fino a che i grappoli di moscatello e di borgogna procrearono vigne giganti e calde il cui fuoco di ambra continua incendiato nel cuore dell'Ungheria.

ALABARDIERE

Che bel nome per una costellazione, per un vascello, per un ristorante! Alabardiere! Nell'antico petto della città la cattedrale del Re Matías, eleva le sue frecce di gesso. È un vecchia preghiera di pizzo sacro; ogni parola fu ricamata nella soave cenere del tempo. E questo altro monumento, rimpicciolito dall'altezza delle torri, è la supplica davanti agli dei di fronte alla peste che saliva per i quattro lati di Budapest. Sembra un battistero per lavarsi e nascere di nuovo, immuni, un braccio barocco di Dio dove aggrapparsi affinché ti salvi dalla pustola.
Nella notte l'Alabardiere offre ai nuovi pellegrini una mangiare scintillante. In mezzo al salone, antico il Capo della Cucina mescola erbe ed oli, liquori e vini, condimenti acidi e fragranti. Il suo tavolo centrale si trasforma in cattedra di alchimista, e lui, accigliato ed astratto, avvicina una provetta, allontana una oliera, combatte con mortaio, provetta e mestolo fino a che entra nella sala la carne dalla brochette suprema.
Io, trasportato, dal caso della mia gioventù, alle città dell'India, nell'anno 1927, conobbi nei mercati ambulanti l'arte ed il sapore dei kebab, infilzati e arrostiti all'aperto sui focolari dell'Asia, tanto odorosi come rumorosi. Dopo, a Mosca, nell'Aragby provai il migliore chaslik della Georgia, condito con una salsa di prugne acide infinitamente preziosa. Questo chaslik è il prediletto, di poeti tanto terreni Kirsanoy e Símonov, e la verità, è che essi in quanto a parola, a vino e manicaretto, sono, tra i miei amici, autorità che rispetto.
Ma voglio vederli qui quando il Capo della Cucina infila in una lunga spada i pezzi di chaslik, quando li alza dirigendo l'offerta gotica verso il cielo, rovesciando nella coppa della spada le spezie ed il vino, e dopo tra i violini gitani che accompagnano il rito, accendere nel salone oscurato l'arma rutilante che arde in una lunga fiamma azzurra, in uno scoppiettio di topazio fino a spegnersi quando i violini sussurrano soltanto ed arriva il chaslik al piatto, come deve arrivare l'arrosto sublime, con musica celestiale, come se scendesse dal cielo.

IL PESCE E LA DATA

Nell'Osteria del Re Matías ci infiliamo, rivestiti e protetti, disposti a quel vecchio piacere di una tavola raggiante.
Ci avvolgevano le pitture murali del concavo soffitto con Ia bella Ilonka accecata dalla freccia del cacciatore, ed all'altezza delle nostre bocche centinaia di commensali. I violini ungheresi esercitano qui un dominio maggiore. Sandor Lakatos eleva una melodia come sulla punta di una spada, sale, sale, e dopo si sparge come un zampillo, come un fuoco di bengala nell'ombra del sonno. Questi musicisti vestiti come ussari scarlatti sembra che montino la guardia vicino ad ogni tavolo, affinché la gola si protegga con galloni dorati e strumenti che cantano.
Ci portarono il pesce alla maniera del mugnaio di Dorozsma, viene alla griglia, accuratamente spinato, provvisto e ricamato di una salsa in cui la paprika, lo champignon, la cipolla e la crema acida sono la cupola monumentale del gusto.
Scriviamo con le nostre forchette la data: 17 agosto dell'anno 1965. Data in cui un'alleanza tra le spezie e la saggezza ci fece conoscere un sapore inedito fino ad allora. Data in cui la griglia tostò un pesce fino alla delizia, data in cui una salsa spessa, ricca e fragrante ci diede una ragione in più di assaporare la vita.
Perché parlare del sorprendente filetto alla Kiskorös, la cui struttura tenerissima si deve al fois gras che lo divide in due facendo l'insolito tramezzo. E non è necessario parlare bensì riempire delicatamente i bicchieri con vino di Badacsony.
Questa Osteria del Re è un apogeo, un regno che cambia di abitanti ogni notte, tra le fonti condite che si incrociano e le bottiglie che navigano sulle onde della musica.

Anni fa, nel 1938, il poeta spagnolo Alberti ed io vivevamo al secondo piano di una libreria, a Parigi. Nella finestra si mostravano le abbondanti opere di Victor Hugo. Scendendo alla nostra passeggiata giornaliera per i quais dalla Senna avevamo per abitudine di misurare la nostra sagoma contro quegli illustri Oeuvres Complètes. Rafael, sconfortato, esclamava:
- Già sto passando il quinto tomo di I miserabili.
- Ed io, a mia volta, dopo essermi controllato, gli rispondevo:
- Non sono aumentato: Raggiungo solo Notre Dame de Paris.
Secondo Rafael questa è l'epoca dei poeti grossi come lui, come Nerval, come Guillevic, vati di buon appetito come Eluard, e sempre capitani o corifei del vino. Il tempo dei pallidi e magri portalire fu il secolo XIX con la lira denutrita che sospirava in forma sublime.

Nelle strade dell'Ungheria fioriscono le locande, con biancheria da tavola primaverile. Le locande, taverne, osterie, caffè, hanno regole antiche e felici. L'aroma del gulash, aroma nomade, esce dalle steppe e gira al mondo. Il vino color del miele è l'anello dorato nella mano dell'Ungheria. L'Ungheria lavora, vive, lotta, fiorisce e corre. L'Ungheria è nervosa e robusta, cangiante e sonora. I volti ungheresi si differenziano vivamente tra loro ed in una moltitudine si vedono grandi contrasti di capelli e bocche, di occhi e guance. L'Ungheria ha mille volti differenti ed un solo cuore che canta come un tamburo.
Perciò questo libraccio, libruccio, librettino, distrazione di poeti, suono reale di una notte di estate, fu premeditato e consumato tra le case ungheresi, tra le sue ballate gitane ed i focolari di irresistibile magnetismo. Le spezie di tutta la terra entrano in queste pentole generose e gli ungheresi sanno che convivere è mangiare insieme.
Se ci sono libri felici - o libracci, librucci, librettini -, questo è uno di essi. Non solo perché lo scriviamo mangiando bensì perché vogliamo onorare con parole l'amicizia generosa e deliziosa.

TIHANY

Sulla collina c'è un chiosco aperto d'estate e la domenica, scelto dalla gente semplice che fa la coda lì, tra la chiarezza del lago e quella del cielo. Tutto è azzurro, tutti abbiamo sete. Tutti stiamo seduti in acqua e nell'aria, elevati nell'altezza di Tihany, sommersi nel fulgore del lago Balaton. Il viaggiatore assetato chiederà lì la fragile fetta di formaggio, il sajtasrud salato e saporito, che si consumerà nella sua bocca mentre la scoppiettante birra di Pilsen rinfrescherà il suo cuore assetato. Si sa che i paesi dal supremo vino come l'Ungheria producono una birra incipiente, poche volte consigliabile. Perciò lì nel semplice chiosco, bisogna bere il Riesling bianco, secco ed ardente delle vigne del Balaton oppure la birra ceca di Pilsen o semplicemente l'aria pura che lì circola abbondante, allegra ed azzurra.

"FOIE CRAS"

Fegato di angelo; sei!
Soave sostanza,
peso puro
del piacere,
sacrosanto
splendore della cucina,
compatto è il tuo regalo,
è intensa tu estatica ricchezza,
la tua forma
un continente minuto,
il tuo sapore tocca l'arpa
del palato, estende
il suo suono nei timpani del gusto,
e dalla testa fino ai piedi
ci percorre un'onda di delizia.

I GITANI
LOS GITANOS. (Pagina 87.) [...] vecchi veterano di csárdás /…/ Originalmente le csárdá erano locande rurali che offrivano rifugio notturno ai viaggiatori. La parola csárda è di origine persiana e significava giustamente "posto di riposo, rifugio". "Più tardi, prima uno e poi un altro di questi alberghi della puszta si trasformò nel posto favorito non solo dai viaggiatori ma anche dai briganti perseguitati dalla legge. Nel secolo XIX c'era numeroso csárdá di briganti nel cuore della puszta della Grande Pianura, nelle montagne di Bakony ed in altri posti. Alcune di esse sono rimaste fino ai nostri giorni come un interessante ricordo. Del nome di questi alberghi proviene quello dalla csárdá, famoso ballo di compagni ungherese" (delle note a CEH).

In Ungheria, si mangia, con violini, fisarmoniche, cembali, violoncelli, chitarre. È il mondo della melodia dolce, zuccherata ed ondeggiante. Bisogna mangiare, parlare e sentire, di quando in quando, questi edifici musicali fugaci, che si alzano e crollano, per il puro godimento di un minuto.
Sono le musiche gitane, compagnia di ogni tavolo, compagni dell'allegro, triste vino, usignoli di ogni notte ungherese.
Li ereditò l'Ungheria Popolare dei signori feudali e già appartengono alla vita: non si può vivere senza di loro. Ogni ristorante sembra triste senza questa musica facile: non può sognare senza essa. Essi sono acrobatici e malinconici, vecchi veterani di czardas e virtuosi di Liszt, giovani pieni di denti ed altri con carie di briganti: tutti sono musicisti innati che non leggono le note ma le rovesciano in cascate sui cuori notturni.

IL BICCHIERE GRANDE

Io alzo il bicchiere grande, il bicchiere dei secoli, lo riempio col sole dell'Ungheria e bevo il vino risplendente. Lo riempio con Bikavér robusto ed oscuro, con Riesling.di Csengöd, con Kadarka di Kiskórös. Il bicchiere brillò alzandolo, trattenne il sapore soleggiato, la luce del giorno trattenne il vino oscuro e poderoso, il segreto dalla notte stellata. Beviamo il giorno col suo fuoco e la notte col suo sangue. Beviamo i vini della pianura, ardenti, ed intensi, il Moscatel della Sabbia d'Oro, il Gallo Azzurro della Sabbia d'Oro, ll Galo Azul della Pianura, il Veltelini di KiskunhaIas.

Per il corridoio dell'Europa passarono guerre ed invasori ma anche condimenti e fragranze. Tutto rimase nella cucina ungherese mescolando nelle pentole e nelle caldaie nomadi lo zenzero e la paprika, l'aneto e l'aglio. Gloriose costellazioni che chiedevano fiumi di vino per consumarsi. E la terra ungherese, le mani ungheresi piantarono e stimolarono le viti fino a che consegnarono ai torchi il dolce e violento, cuore dell'uva della steppa, l'indomabile gioco del grappolo montagnoso. Kövidinkas e Szlankamenkas, Pinots Neri, Kadarkas di Pusztamérges, Szürkebaráts, Monjes Grigi, Kéknjelü, Medocs di Villany, Tokays Furmit, Aszú, Szamorodni trasparenti e sorridenti, dolci o adirati, fiamme di onore che allungano la vita come il vino di Somló, o avvicinano la canzone e la fortuna come tutti questi, perché tutti questi riempirono il mio bicchiere. Vini che piangono o ridono accompagnandoti alla tua anima, vini con insegne antiche, coperte di gloria o vini semplici della prateria, vini senza nome. Vini di mezzogiorno e di crepuscolo, vini che cantano solo di notte, vini che nacquero vicino alle spighe dei mietitori, vini nuovi, appena usciti dell'orgoglio della cooperativa, vini signorili, di eleganza secolare, vini giovani, impetuosi e pericolosi, vini per un minuto di tristezza, vini per tutti i sogni.
Alzo il bicchiere pieno col fulgore dell'Ungheria, e bevo in onore del sole e della neve, della tristezza e della fortuna. Bevo per l'amore e per il dolore. Bevo, per il fuoco e per il
pioggia.
Bevo per la vita e per la vita.

CITTADELLA

Quando si attraversa il fiume c'è un attimo centrale immobile, terra di nessuno, in cui il tuo corpo non sta in Buda né in Pest, in cui la tua anima appartiene al Danubio, alla sua piena corrente che scivola per la storia.
Da una parte i tetti di Pest e la superficie di vecchi edifici argentati della riva e di fronte a lei le strutture e colline di Buda. Questa è più alto, roccioso e fogliaceo, con la pace verde delle foglie sopra e col nastro d'oro ed arancione delle edificazioni vicino all'acqua.
Andiamo verso Bud, verso le colline, passeggiamo.
Arriviamo alla Cittadella, a Cittadella Borozó. Per secoli fu guarnigione e prigione. Dietro le sue colossali muraglie di pietra due mila soldati nazisti resisterono qui, sostenendosi tra la paura e l'ultimo colera.
Muri di pietra che per secoli rinchiusero rumore di armi pesanti, rantoli di agonia, peso e passo di cavalcature. Oggi la Cittadella è la corona di Budapest e roccia delle sue allegrie.
Domandai un giorno all'amico ungherese quanti virtuosi, maestri di violino, esistessero in Ungheria. Sicuramente più di quattro mila, mi rispose.
Qui nella taverna Cittadella ce ne sono alcuni dei buoni. Tra i barili di vino perfetto, sotto gli innumerabili archi, nelle celle e sale di pietra medievale, tra i tavoli allegri con tovaglie a quadretti, mangiamo gulash mentre dozzine di musicisti gitani abbassano il sentimento fino alle lacrime, detonano lo staccato come maestri di armi, portano allo zampillo dell'allegria. Che le allegre ragazze fresche e belle come Erika vadano e vengano cariche di bottiglioni di Tokay, che ci guardino negli occhi in trance di amore o di pensiero, che affermino l'amicizia con un bicchiere eccessivo, che salgano ed abbassino gli inesauribili violini, avremo perso il tempo ma avremo guadagnato la vita.

TOKAY

Do al Tokay traslucido
il bicchiere del mio canto:
cade, fuoco dell'ambra,
luce del miele, strada
di topazio,
cade senza che finisca
la tua cascata,
cade nel mio cuore, nella mia parola,
e che la trasparenza
della tua verità di oro
insegni alle mie radici
ad elevare la dolcezza
dalla secca ombra sotterranea
fino alla rettitudine di mezzogiorno.

Oh vino, vino chiaro,
dono tranquillo
del tempo perturbato.
Ahi reconditi monti,
rovi insanguinati,
ahi steppe dell'Ungheria!
Non ha soltanto aroma
la primavera errante
degli ungheresi: .
la maltrattò il galoppo
di amari invasori,
la terra si screpolò coi tormenti
e sangue e pianto entrarono per le crepe.
Onore ai tuoi grappoli!
La scatenata cavalcata,
la scimitarra cieca, le punizioni,
il vento della furia
e le ceneri
della terra spianata,
la spiga crudele dell'odio,
il temporale
ripetuto nel tuo petto di colomba,
niente poté tagliare il filo di oro
della tua moltiplicata primavera
ed in questo bicchiere chiaro
la fortuna e la sfortuna
composero
il vino della patria! vincitrice,
il fuoco e la sua trionfante allegoria.

Nel mio disordinato cuore,
imponi, oh vino di Tókay, fragrante,
la ragione della luce:
ordina il mio delirio!
Vengo dai vulcani insorti,
degli aspri fiumi che tagliarono
le mani del mio paese,
questo è il mio bicchiere, riempilo
con la tua focosa forza
delicata,
insegnami a tirare fuori dall'asprezza
la tua colonna di oro ed ad alzarla
intatta, contro il vento.
Figlio nudo della terra lascia
la tua radice nel mio canto e nella mia bocca
la tua esperienza celeste.

MEZZA DOMENICA A BUDAPEST

I. Spagnoli sulla parete

Quelle soavi domeniche esistono, quando alle 11 della mattina, suona il vero cucú nel bosco budapestino, un sole di lusso corre col fiume come se la luce andasse via con le imbarcazioni, e rimanesse giusto il sole che dobbiamo condividere. Sono i giorni del museo, le domeniche in cui alcuni corrono all'acqua ed altri alla pittura.
Questo museo ha moltissime lettere nel suo nome e tutto per chiamarsi "nazionale". Perché Szépmúvszeti è quello, e così lo fanno sapere la scalinata colossale e le colonne cerimoniali.
Vediamo questa sala spagnola che mi ricorda domeniche di Madrid, con scalinata e colonne del Prado, e quasi lo stesso sole dell'Ungheria.
Gran bellezza, dolorosa bellezza!
Perché i Goya ci ricevono. Non sono molti ma ci parlano con quel linguaggio fine e tagliente, e quella tranquillità di coltello che mise Goya nella sua espressione d'acciaio. Passiamo per alto l'abbondante ritratto del marchese Cavaliere che continua a condannare infedeli al falò, con la croce di Santiago sul cuore vuoto. L'arrotino di coltelli ed la ragazza dell'anfora sono i nostri spagnoli, popolari ed oppressi. L'arrotino ci lancia uno sguardo carico di sette secoli di fame, uno sguardo tanto profondo e diretto, tanto accusatore che solo Goya poté dipingerlo con la mola ed il coltello, in atteggiamento di dolore e di minaccia, e qui dipinse Don Francisco gli occhi neri della Spagna e quello che passò e passerà. La ragazza dell'altro quadro andava per acqua e si trattenne un istante con Ia brocca sulI'anca e non c'è viso di contadina come quello, contadina che aspetta che la ritraggano, ed essa porta al suo mietitore l'acqua ed il pane, ed acqua e pane e mietitori e contadina come mela, qui rimasero in questo quadro di Budapest.
Gli Zurbarán con le sue camicie rigide e i Ribera pieni di carne si avvicinano nella parete a sei o sette Greco che aprono la sala all'eternità.
I Greco di Budapest coi loro verdi appena inventati, i loro azzurri spettrali, i loro rosso di inchiostro ed acqua, hanno dietro il fumo sconosciuto, come se le figure di angeli e madonne si andassero cuocendo in un forno, fossero fatte di fiamme e ceneri, e coprissero finalmente il panorama della Castiglia col fumo dell'elaborazione. E questa santa con viso di matta che legge un libro col tatto della mano e assiste alla visita di un angelo che la invita al cielo, è anche invitata all'incendio universale e si mantiene neutrale e statica nella nuvola di fumo cosmica.
In questa domenica mi riconciliai con Murillo. Succede che lì trovai il ritratto di uno sconosciuto, dalle grandi orecchie e grosse labbra. C'è tanta profondità nell'espressione di questo cavaliere disilluso, è tanto dominante la realtà di questo uomo vivo, che Murillo mi si rivelò come umano, come grande vero e non come quel celestiale pittore celeste e rosa che mai mi piacque molto. Mi dissi per me stesso, mentre mi allontanavo dal museo: attenzione con questi pittori spagnoli! Il vento fa volare gli angeli azzurri e rimane di fronte a noi uno sguardo ombroso che ci fa tremare.

II. Terrazza con isola
11
a. m.

I ponti di Budapest sono musicali, e nella tranquilla mattina della domenica si riempiono di note che li percorrono, di suoni che vivono nei suoi archi.
Ma noi, provinciali della domenica, proseguiamo all'isola Margarita, isola posizionata come una rosa verde nella cintura del Danubio. Lì ci sediamo al sole, vicino alle piscine coi loro grappoli di giovani quasi tutti nudi come le uve. Noi ci sprofondiamo sorbendo l'aperitivo al sole, in due mila danubiani che ebbero la stessa idea. Poche terrazze nel mondo con tante disposizioni per l'allegria:

1
Insularità
(con comunicazioni)

2
Fogliame forestale
(grandiosi castagni d'India)

3
Giardino fiorito
Salvie che gridano
(tulipas, gerani)

4
Musica gitana
(uno dei suoi violinisti, mi disse che poteva suonare due mila canzoni, tra esse il valzer Sulle onde).

5
Gli amari
Due buoni
bitter:
Unicum, secco e fulminante.
Humbertus, estratto, di 99 erbe pacifiche.

6
La gente
La gente di mezza domenica a Budapest è tranquilla.
I motorizzati partirono verso monti e spiagge. Ci circonda una moltitudine seduta che beve, pensa, mangia, ride ed ascolta con un'isola nella mano.

III. Il cervo sorride
12:45
a.m.

Piccola ballata prima di entrare
a mangiare nel ristorante Il Cervo di Oro.

Qui stanno le colline con tanto fogliame
che il falso castello dal capo calvo
non ha perdono: non gli cresce una foglia
nel tetto. Ma
la chiesa di Tabán è un frutto giallo,
è una dolce pera d'oro,
è un piccolo e lungo pane offerto agli dei.
Più in là stanno i ponti sul punto di volare
ed il fiume il cui nastro corre senza consumarsi

IL PRANZO
1 p.m.

Queste crocchette di cerbiatto con salsa
cumberland potrebbero essere portate su Marte da Valentina Astronauta.
Tra crocchette e Valentine raggireremmo agli abitanti galattici e improvvisamente, in una domenica chiunque, vedremmo assaltato "Il Cervo d'Oro" da golosi extraplanetari.
Stupisciti! Non tutto nella terra sono crocchette di cervo e Valentine. Ci sono anche alimenti intrattabili ed uomini con viso di Johnson!
Girando le salate crocchette, dirò che sono tenere e croccanti, avvolte per la loro indifferente crosta fritta come se volessero passare inosservate, e musicali all'interno, celestiali all'interno, indescrivibili all'interno! Silvestre alimento, crema delle delizie! AI rompere dei denti l'incarto dorato non sanno i denti che aprono piccole porte a cento sapori non distinguibili, ad erba e rugiada, a coscia selvatica, a capezzolo di dea! Perché la carne di caccia ci riporta all'essenziale primavera, e recuperiamo nel tavolo sapori ancestrali che erano già segreto sigillato e moratoria. Vengano cervi, e gazzelle dal "Cervo d'Oro", cinghiali e cinghialini, piccioni del bosco, bestie belle che caddero all'abile fucile dal cacciatore! Vengano e si mescolino qui in filetti e gulash o in fette al forno risaltando su un letto di mortella selvaggia! Venga il fagiano che qui mangiammo a mezzogiorno; lascia l'uccello multicolore il suo vestito di festa e ci porta il regalo del suo stretto corpo ed il suo aroma ribelle! E quando tutto, tutti questi doni si muovono nel mondo terrestre ed aereo del tavolo, le bottiglie di Egri Medoc e di Sangue di Toro sono come piccole torri piene di rubini!

Inoltre, si signore.
Cervo alla cacciatora.
Filetto di cervo alla casseruola.
Salsa di funghi callampa e crema acida.
Coscia di cervo à la bourguignonne.
Risotto di cervo.
Cervo alla paprika rossa.
Coscia di lepre alla cacciatora.
Cinghiale in vino rosso con bacche di rose.
Coscia di cinghiale alla Tabán.
Gulasch di cinghiale.
Vassoio con marmellata acida e cervo arrosto.
Medaglione di lepre farcita con riso.
Costina di cervo alla Villafranca.
Filetto di cervo farcito con riso.

Piccola ballata uscendo
da Il Cervo d'Oro nel 1965

Perché la chiesa di Tabán è tanto verde?
Perché le colline hanno colore di rame?
Che risata! Il castello ha lunghi capelli
che corrono verso il fiume!
Che bello è il Danubio col suo nastro
che qualche volta si arrotolerà fino ad essere
un gomitolo di acqua, come sono i pianeti!
Quando arrivo a Valparaíso voglio dormire un mese
perché voglio arrotolare i miei sonni una volta per tutte
fino a che si trasformino in una palla azzurra,
in un pallone affinché giochino i bambini.
Che bello è camminare a capofitto all'altro lato del mondo
pensando a Budapest giustamente collocata
dove l'estate antipode infiamma un papavero.
Cantiamo, compagni e brindiamo
perché tutti i fiumi arrivino allo stesso mare.

ZUPPA DI PESCE

I pesci trovarono distinzione nella
bouillabaisse, nei brodetti di congro del Cile, in succulente zuppe mediterranee e pacifiche. Qui in Ungheria, da laghi e fiumi arrivarono alla zuppa nazionale, con paprika e cipolla, aromatica come un armadio di erbe, soavemente pungente e piccante. Zuppa di inverno, zuppa provocatrice che richiede i bei vini dorati del Balaton, zuppa popolare che sostiene la sua categoria tra le zuppe marine del mondo.

LE ARTI DEL CAVOLFIORE

Come la carpa, l'umile carpa, pesce non considerato tra i monsignori dell'acqua, si eleva a categoria nella cucina ungherese, le arti ancestrali fanno del cavolfiore trasformazioni sovrane. Qui è ripieno e tra fette come torta imperiale al dragocello, alla
hajdú, alla transilvana e fino alle crépes di gran dolcezza. Il cavolfiore comanda sul tavolo campagnolo e si condisce a Budapest fino alla perfezione del decoro, fino al lusso.

LEGUMI

Indimenticabili melanzane, lattughe saltate, papriche fresche nell'insalata vestita come una sposa ungherese, zucche fini fino a dimenticare la loro origine, convertite, in formaggio, in torta, in sapore d'oro, cetrioli di acqua pura, appena portati dei loro letti di terra o fermentati ed agrodolci, champignon moltiplicati dalla pioggia nel bosco aromatico, legumi puri che al contatto dell'olio, del burro, dell'aceto, del sale e del fuoco rappresentano con meravigliosa abbondanza la terra fecondissima.

SANGUE DI TORO

Robusto vino, la tua famiglia ardente
non portava diademi né diamanti:
sangue e sudore misero sulla sua fronte
una rosa di porpora fragrante.

Si trasformò la rosa in toro imponente:
il sangue si fece vino navigatore
ed il vino si fece sangue differente.
Beviamo questa rosa, viandante.

Vino di agricoltura con nonni,
di mani maltrattate e care,
toro con cuore di velluto.

La tua cornata mortale ci dà la vita
e ci lascia distesi al suolo
respirando e cantando per la ferita.

PILVAX E MALINCONIA

Bisogna arrivare al Pilvax in un giorno gocciolante, quando cade la nostalgia sugli ombrelli ed il cielo grigio di autunno si accomuna con le foglie secche della tua anima. Il vecchio caffè coi suoi divani di felpa antica, i suoi autunnali specchi, la sua stufa di maiolica, come una gran dama di avorio, ed il silenzio che si fece quando Petöfi cadde ferito dal suo cavallo, silenzio, che dura ancora. "Ed un'intima tristezza reazionaria", dice il geniale López Velarde.
Attraversiamo l'elegante sala da pranzo con i suoi tre anacronistici ragni di luce, i suoi ritratti, menù, opuscoli antichi, grosse pistole, ricordi.
La "Zuppa dello sposo" ci resuscita con la sua afrodisiaca delizia. L'arrosto Pilvax che qui si fa nello stesso modo dal 1848 ci toglie quasi tutta la malinconia accumulata. Una bottiglia di Ragazza di Egri termina di portare la "tristezza reazionaria". E rimaniamo allegri per molto tempo bevendo e cantando con Petöfi.






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