QUADERNO 2. I POEMI DEL LICEALE
Al principio del quaderno Neftalí trascrisse tredici poemi altrui: due di Sully Proudhomme, tre di Chaeles Baudelaire, uno di Paul Verlaine, uno di Henri di Régnier, uno di Henri Bataille, due di Paul Fort, uno di André Spire, uno di Jean Richepin (quasi tutti in versioni castigliane dell'antologia La poesía francesa moderna di Enrique Díez Canedo e Fernando Fortún, Madrid, Renacimento, 1913) ed uno del cileno Jorge Hübner Bezanilla. Seguono circa 160 poemi originali composti a Temuco e Puerto Saavedra tra il principio del 1918 e la fine del 1920. Di questi poemi originali: (1) i primi 18 mancano nella menzionata edizione CDT * di Farías (che comincia con "Amo la mansedurmbre" del 1919) come mancano più avanti "Comunión ideal", i sonetti "La muerte" e "Mi juventud" e la prima versione di "El nuevo soneto a Helena"; (2) solo cinque passarono a Crepusculario: "Pantheos", "Sensación de olor", "Campesina", "Maestranzas de noche” e "El nuevo soneto a Helena".
I miei occhi
MIS OJOS. DE MIS HORAS. PRIMAVERA. (Pagine 55-56.) Già questi primi poemi manifestano la precoce destrezza metrica di Neftalí. Se nell'anteriore " Nocturno" aveva combinato classici endecasillabi e settenari, qui si misura col rinnovato alessandrino che ha imparato da Darío ed altri modernisti, ed anche dei suoi amati poeti francesi. Ne " Mis ojos" Neftalí usa per la prima volta l'eneasillabo, metro di non facile maneggio che diverrà il verso nerudiano per eccellenza (cfr. Loyola * * 1996)....... ed in "Primavera" coi suoi distici......... Cresce l'ambizione dell'apprendista poeta: non gli basta oramai pubblicare sul giornale locale, La Mañana, e ha cominciato ad inviare i suoi testi a riviste della capitale come Corre-Vuela, molto popolare allora.
Vorrei che i miei occhi fossero duri e freddi
e che ferissero molto profondo dentro il cuore,
che non esprimessero niente dei miei sogni vuoti
di speranza, e di illusione.
Indecifrabili sempre a tutti i profani,
dell'azzurro profondo e soave del tranquillo zaffiro,
e che non scorgessero i dolori umani,
né l'allegria del vivere.
Ma questi miei occhi sono candidi e tristi:
non come li voglio né come devono essere.
È che questi miei occhi il mio cuore li vestì,
ed il suo dolore li fa vedere!
Corre-Vuela, num. 566, Santiago, 30.10.1918.
Delle mie ore
Sonetto
Andare! Perché sono triste? Sarà il pomeriggio freddo,
invernale e silenzioso, che mi fa essere più triste?
Questo pomeriggio silenzioso, con la malinconia,
con cui tutti gli esseri e le cose riveste.
Ho camminato con ragazzini allegri tutto il giorno,
compagni che sanno nient'altro ridere,
a volte mi contagia la loro perenne allegria,
ma ora non mi ha fatto altro che annoiare.
E la luce della mia stanza: luce che appena illumina.
Le cose risaltano bianche della penombra
di questo mia stanza solitaria. La tristezza sussiste.
Sopra al mio tavolo alcuni libri aperti,
e quaderni azzurri e crisantemi morti...
Sarà il pomeriggio freddo che mi fa essere più triste?
Autunno del 1918
Primavera [I]
Già arrivò la Primavera con la sua corte fiorita
rallegrando i campi e rallegrando le vite.
I giardini che morti stavano in inverno
si sono popolati di fiori e di boccioli teneri.
Gli uccelli salutano questa rinascita
con cantici sonori di sublime contenuto.
Nell'atmosfera tiepida danzano le farfalle
aspirando il profumo di tuberose e di rose.
E da tutti i petti parte un inno a questa calma:
è che la Primavera ha inondato le anime.
Corre-Vuela, num. 566, Santiago, 30.10.1918.
Andrò per la mia strada
IRÉ POR MI CAMINO. INCERTIDUMBRE. ESPERANZA. NO TE OCULTES, ARAÑA. LA CANCIÓN DEL ÁRBOL VIEJO. (Pagines 57-60.) Notare come i motivi astratti (incertezza, speranza, dimenticanza, desolazione) o simbolici (i rovi della strada) si alternano con (o tendono ad ancorarsi in) immagini o figure prese dell'esperienza concreta con la mediazione del realismo poetico ancora vigente allora ("questo mio paesino silenzioso e addormentato", il ragno nel suo "oscuro angolo", l'albero vecchio). L'attenzione di Neftalí verso oscuri o emarginati esseri naturali (come il ragno o l'albero vecchio) sarà persistente in questi primi anni come veicolo per un'autorappresentazione degradata dell'adolescente stesso, sempre di più cosciente della sua conflittuale relazione con gli altri e col mondo.
Andrò per la mia strada senza sentire i dolori,
senza sentire i dolori che rimasero dietro.
Andrò per le sponde raccogliendo i fiori
di questa strada lunga che oramai non vedrò più...
I rovi della strada mi affonderanno le sue spine,
faranno gocciolare il sangue del mio corpo stanco,
e quando velocemente passano le rondini
vedranno rotti le mie membra ed il mio corpo arcuato.
Per la giornata enorme di questo lungo sentiero
il mio spirito spento si riempirà di brio...
Mi inchiodano le spine, per quel motivo le venero
come venero i fiori sotto il sole della stagione estiva.
Ma le aridità di questa lunga strada
faranno che cicatrizzino le mie ferite aperte,
affonderà la mia anima in un soave letargo
e passerà l’oblio per le mie passioni morte.
Corre-Vuela, num. 584, Santiago, 5.3.1919.
Incertezza
Quando gli anni passino, mi porterà la vita
a questo mio paesino silenzioso ed addormentato?
Aspirerò il profumo di queste cose care
e soffrirò il ricordo di quello che qui ho sofferto?
Magari, magari allora di queste cose care
non rimanga il profumo di quello che è andato via già.
Cancella anche il ricordo delle ore vissute,
col suo dolore il tempo, col suo tedio l’oblio!
1918
Speranza
Ti saluto, Speranza, tu che vieni da lontano
inonda col tuo canto i tristi cuori.
Tu che dai nuove ali ai sogni vecchi.
Tu che riempi l'anima di bianche illusioni.
Ti saluto, Speranza, forgerai i sogni
in quelle deserte, disilluse vite
in cui fuggì la possibilità di un futuro sorridente,
ed in quelle che sanguinano le recenti ferite.
Al tuo soffio divino fuggiranno i dolori
quale timido stormo sprovvisto di nido,
ed un'aurora radiante coi suoi bei colori
annuncerà alle anime che l'amore è venuto.
Corre-Vuela, num. 574, Santiago, 17.2.1918.
Non ti nascondere, ragno
Non ti nascondere, ragno, lascia la luce del giorno
penetrare nella tua tana, non ti nascondere, ragno.
In quelle chiarezze entrerà l'allegria,
le cose sono allegre quando la luce le bagna.
Ragno, non ti nascondere, la dimenticanza ed il dubbio
galleggiano nell'ambiente del tuo oscuro angolo:
le cose aspramente sono ostili e cambi
con la tintura ombrosa della desolazione.
Guarda, ragno, la vita, perché tutta la vita
la luce ringrazia con la sua palpitazione.
Non ti nascondere, ragno: quella luce benedetta
porterà l'allegria al tuo oscuro angolo.
Corre-Vuela, num. 574, Santiago, 25.12.1918.
La canzone dell'albero vecchio
Ruscello, tu che passi mormorando
con la tua voce cristallina questa canzone:
tu che passi così, sempre cantando,
dando le tue acque come benedizione,
tu che sai di vita, tu che sai
l'allegria ridente dell'amore:
che cosa ti dicono gli occhi degli uccelli?
ti hanno detto della mia vita ed il mio dolore?
Io sono un albero vecchio, sono stanco,
ha il mio pianto sale della mia afflizione,
e benché abbia le mie braccia alzate
non viene mai una consolazione.
Ho aspettato i germogli benedetti,
ma sono già stanco di sperare.
La tenera primavera non è venuta:
la porti tu, rigagnolo, nel tuo cantare?
Coi miei oscuri uncini contorti
io sono come un spettro nella giovinezza
dell'allegra prateria. Sono vinto
e sono solo, molto solo, nel mio dolore.
Si afferrano alla terra le mie radici,
contratte per la disperazione.
I fiori con le loro timide sfumature
hanno vissuto nella mia fedele rassegnazione.
Io sono un albero vecchio, sono stanco,
ha il mio pianto sale della mia afflizione,
e benché abbia le mie braccia alzate
non viene mai una consolazione.
Corre-Vuela, num. 580, Santiago, 5.2.1919.
Camminando
A Federico Ricci
Continuiamo a cantare, continuiamo a cantare le canzoni
che riempiano le nostre anime di allegria e di amore,
e questi dubbi amari che ci sono nei cuori
scuoteranno le ali al suo allegro mormorio.
Tutti continuiamo ad andare assetati di illusioni,
inaciditi gli aspetti di stanchezza e dolore.
Ma continuiamo a cantare: lontano, negli angoli
del bosco sta la fonte di anelato fresco.
Arriveremo stanchi, piegheremo la fronte,
e le nostre secche labbra, rugose ed ardenti,
berranno tremuli di sete e di illusione.
Ed allora con la calma delle acque tranquille
vedremo rinnovarsi la luce delle pupille
e la sete di illusioni del nostro cuore.
La Mañana, Temuco, 27.2.1919.
Un pomeriggio
La luna si è nascosta nella montagna
lasciandoci velata chiarezza,
questa luce amorosa che ci lava
ha riempito la mia anima di suprema bontà.
E ho sentito le foglie agitarsi
cantando nel silenzio una canzone,
e ho sentito il mio spirito allontanarsi
perseguendo le ali di una bella illusione.
Sdraiato nel muschio inumidito
ho sentito il mio spirito ritornare,
mai più nei miei sonni ho sentito
la celeste dolcezza di quell'imbrunire.
Corre-Vuela, num. 585, Santiago, 12.3.1919.
I buoni
LOS BUENOS. EL DOLOR DEL VIAJERO. EL LLANTO POR LOS TRISTES. DE MI VIDA DE ESTUDIANTE. (Pagine 61-64.) In questa serie di poemi si notano i vari (ed insicuri) sforzi di Neftalí per conseguire un'autorappresentazione soddisfacente e con lei un'identità poetica che sostenga la sua scrittura. In due di quei poemi l'individuo si aggiunge in un noi convenzionale ma degradato (i buoni, i tristi) in un terzo assume - non sarà l'ultima volta - la figura del viaggiatore, presa della tradizione letteraria. Per ciò mi sembra di gran interesse che già in maggio del 1919 Neftalí scelga all'improvviso di autorappresentarsi attraverso la sua concreta esperienza quotidiana e la sua unica identità esterna o pubblica, attiva e verificabile: quella da studente. Ci saranno più avanti altri tre poemi sotto lo stesso titolo, formando una serie. Non bastano le influenze post-naturaliste dell'epoca per spiegare questa propensione che sarà decisiva.
Noi rimaniamo, i buoni, poverini noi
che rimaniamo soli. La tristezza ci vide.
Per il lungo cammino già sono andati via gli altri,
ci hanno lasciato torvi, dolorosi e tristi.
Perché siamo vigliacchi, doppiamente vigliacchi
perché sentiamo ansie di guardare all'altezza,
perché un triste pomeriggio (come tutti i pomeriggi)
sapemmo ingannarci con mentite dolcezze,
perché c'estasiarono i profumi lontani
e perché rinneghiamo mortali veleni.
Già sono andati via gli altri, eternamente umani,
e rimaniamo soli: poverini i buoni!
Corre-Vuela, num. 594, Santiago, 14.5.1919.
Il dolore del viaggiatore
Alla sconosciuta che un pomeriggio il
luminò l'aridità della mia strada
con la luce soave dei suoi occhi verdi.
Vado per la strada silenziosa e polverosa
col matto ridere di una falsa allegria.
Porto angosciata l'anima ed eternamente sento
la marcia grigia e lenta della malinconia.
Sempre tra la nebbia dei tempi passati
rinascono i ricordi dei giorni più begli,
ed io che nella tristezza di un camminare desolato
porto il ricordo allegro di alcuni biondi capelli,
di una bocca tanto rossa come una ferita aperta,
di occhi addormentati molto chiari e molto verdi...
ma quelli sono ricordi della mia rotta deserta!
Ora continuo a camminare con tutta l'anima piena
di illusioni perdute, ed il ricordo si perde
in mezzo alla stanchezza, al disgusto ed alla pena...
Corre-Vuela, num. 608, Santiago, 20.8.1919.
Il pianto per i tristi
Piangiamo, cuore, per quelli che rimangono,
per tutti quelli che un giorno si fermarono
con tutte le loro angosce e le loro pene,
piangiamo per i tristi che un pomeriggio
anelarono un sole di primavera
e sentirono dolcezze di speranza
dentro l'anima dolorosa e buona.
Per quelli che fallirono e che corrono
cercando idealismi che si allontanano
(si perdono nel limite della strada,
e vanno e vanno e non arrivano mai).
E per tutti quelli che presentano
mani di bianca soavità di seta,
che aspettano l'amata che non viene.
Sanno che non verrà, ma l'aspettano!
Per quelli che morirono non piangiamo:
lasciamo che vadano via senza sentirli
e non vestiamo lutto al loro ricordo.
Magari da una vita non sognata,
che anche noi conosceremo,
essi ci compatiscano! A poco a poco
seguiremo la rotta che seguirono,
sentiremo la stessa ripugnanza
verso la vita che essi ebbero.
Piangiamo per i tristi che si fermarono
e per quelli che andarono via non piangiamo!
Corre-Vuela, num. 602, Santiago, 9.7.1919.
Della mia vita da studente [I]
Prendere la colazione, stare quasi correndo,
ripassando nella mente la lezione che bisogna dare.
Poi sentire la chiacchierata degli altri sentendo
alcune segrete ansie di piangere e piangere...
Vedendo che tutti ridono chiara e sinceramente
(è qualche barzelletta tonta che fa loro ridere)
inclinare la testa, sentire ardentemente
alcuni pazzi desideri di allontanarsi e fuggire...
Nella classe sforzarsi per ascoltare attento,
facendo che vadano via tutti i pensieri
che fastidiosamente sentiamo aleggiare...
E sentire che passano i giorni ed i giorni,
con la promessa di sane allegrie
che qualche lontano giorno sentiremo arrivare.
Corre-Vuela, num. 601, Santiago, 2.7.1919.
Come ti presento
Come ti presento
nelle ore tristi
cariche di tedio,
tutte amareggiate
per le sofferenze,
dandomi la consolazione
delle tue bianche mani,
dandomi l'affetto
dei tuoi chiari occhi
timidi e buoni.
... E come presente
l'allegro sorriso
delle tue labbra fresche,
il sorriso triste
delle mie labbra vecchie.
Nelle lunghe ore
del mio amaro tedio,
io sento che germogli
del triste silenzio...
Come ti presento,
come ti presento!
Corre-Vuela, num. 590, Santiago, 16.4.1919.
La disperazione
Si sono chiusi i miei occhi, Dio mio,
e non so di dolore dove sto!
È molto tardi. Tutti già sono andati via
e nell'anima mi inchioda crudelmente il dolore.
Dove guardo? I miei occhi! I miei occhi!
Chi soffoca nella mia bocca la mia voce?
Sono solo, Signore, sono solo
e non sento il battito del mio cuore.
Chi mi chiama nell'ombra? Chi sente
i miei ululati di rabbia e dolore?
L'impotenza mi spreme... Non vengono,
ma viene la nera disperazione!
Chi chiamo, Signore, chi chiamo?
È inutile che ti chiami!
Mi rompo le dita invano
perché bene so che alla mia anima tu non devi venire.
Il silenzio! L'eterno silenzio!
Chi alle mie grida potrà rispondere?
E si portano le mie voci i venti
ed mi inghiotte l'abisso dell'oscurità!
Quello che va via
Un amore che va via, mio amico triste.
Veneralo sentendo la dolcezza
che per lo stesso amore tu conoscesti.
Fiore di pietà, nella tua anima lascia un nido
solitario sebbene pieno di tenerezza.
Se va via, triste amico, l'hai voluto.
Ma, amico lontano, tu sapesti
della divinità della sua consolazione.
Va via. Tu lo volesti.
Fiore di pietà che trasformata in uccello
batte le ali nella pace del volo.
Della mia vita da studente [2]
Adorare la bellezza sconosciuta di una
donna che nella nostra vita mai potremo vedere,
presentire il biancore di alcune mani di luna
e la chiara leggenda di una voce di donna.
Portare dentro l'anima dolci presentimenti
(che perfidamente sentiamo bollire),
poi guardare sotto e gettare la contentezza
nella routine immensa di dovere vivere...
Una pacificazione. Una breve energia.
Poi la rabbia immensa di quella disubbidienza
che noi sapremo dominare e vincere...
Ma il presentimento! L'infinita amarezza
di sognare i piaceri di suprema dolcezza
che mai nella nostra vita potremo possedere!
Giugno 1919
Amo la mansuetudine...
AMO LA MANSEDUMBRE... (Pagina 67.) In difficoltà per proporre un'immagine forte ed attiva (o aggressiva) di sé stesso di fronte al mondo, Neftalí ripiega qui su un'identità basata nell'idealizzazione della sua debolezza, su un tentativo di accettazione attiva dei suoi propri limiti. - L'edizione CDT di Farías (1996) comincia con questo poema.
Amo la mansuetudine e quando entro
alle soglie di una solitudine,
apro gli occhi ed li riempio
della dolcezza della sua pace.
Amo la mansuetudine su tutte
le cose di questo mondo.
Io trovo nelle quieti delle cose
un canto enorme e cambio.
E girando gli occhi verso il cielo
incontro nei tremori delle nuvole,
nell'uccello che passa e nel vento,
la gran dolcezza della mansuetudine...
Lo sguardo
Voglio che occulti lo sguardo
ogni dolore del cuore,
che sia mite e sia chiaro,
pieno di mistica emozione...
Ed i dolori che hai dentro,
con la cosa eterna della sua amarezza,
si cambieranno nello sguardo
in mansuetudine ed in dolcezza.
E lo sguardo degli occhi
pieni di qualche imbrunire,
nel ricordo di qualche profondità
ed attenuato soffrire
avrà un prestigio di virtù
fatta di luce e fatta di amore
e perderà ogni inquietudine.
E lo sguardo sarà un
fiore di dolore e di emozione
santificato di dolcezza.
Selva Australe, Temuco, Luglio di 1919.
Della mia vita da studente [3]
Campane, campane. Toccano le campane
e popolano l'aria tutti i suoni.
Campane, campane. Le note lontane
hanno il dolente vibrare del gemito...
... Passano i giorni! Arriverà domani.
Passerà domani senza luce e senza rumore!
E le luminose chimere umane!
Ed i piaceri sempre, sempre promessi!
Domani, domani! Gli occhi stanchi
è molto tempo che già stanno chiusi
ed umidi e tristi a furia di sperare!
Non toccare le tristi campane lontane!
(Passano i giorni come le campane
toccano, toccano. Quindi smettono di toccare.)
Il desiderio supremo
EL DESEO SUPREMO. (Pagina 69.) Nel v. 13 Farías legge crasoladamente (non sensato, a parte il cattivo gusto fonetico) invece del netto consoladamente del manoscritto, più in armonia con gli altri ingenui neologismi che Neftalí prodiga nel quaderno 2. Alla fine del v. 14 il manoscritto portava morir, dopo cancellato e sostituito per partir.
Vivere serenamente, senza non agitarsi mai,
una vita illuminata dalla luce dell'amore,
ed avere per tutte le illusioni troncate
la piccola tristezza di un piccolo dolore...
Avere nello sguardo, serenamente puro,
il potere ed il prestigio di qualche elevazione,
e sentire nell'anima l'emozione dell'altezza
ed alcune ansie sacre di purificazione...
Ed avere per tutti gli esseri e le cose
una dolce allegria, sorridente e generosa,
profumata della profondità contenta di vivere...
Allora, solo allora, vivere serenamente,
senza non agitarsi mai e consolatamente
nella mite dolcezza di un pomeriggio partire.
Quello...
Perché era un ragazzino buono e rassegnato
e molto tristemente era solito passare
sotto il tuo sguardo, perché un amareggiato
cuore vedevi oltre al suo guardare,
tu non l'amasti mai. Sogno dorato
che con bianche ali si vede aleggiare
fosti per il povero ragazzino dimenticato
con la sua pena grande: tristezza di amare...
Ma nel chiasso delle tue allegrie
o nello stanco rodare dei tuoi giorni
amari, tu non potrai mai trovare
l'affetto grande di quell'ignorato
cuore che sempre rimase amareggiato
per la pena grande di amare e di amare...
Il desiderio di andare via
E’ penetrato il sole per la mia finestra,
tutto ha illuminato allegramente.
Abbaia un cane ed un uccello sgrana
armoniosi gorgheggi a torrenti.
Di spalle nel mio letto sento un confuso
desidero di adorare le lontananze,
di perdermi nella nebbia dei laghi
ed accecarmi nella luce dell'allegria.
Di continuare a cantare durante il tragitto agreste
sentendo la dolcezza dei pomeriggi,
e riempio il cuore della celeste
fiamma di amore che arde nelle strade...
Corre-Vuela., núm. 619, Santiago, 5.11.1919.
I pioppi
I
LUNA
Sono rimaste estasiate le profane pupille
guardando la bellezza del paesaggio addormentato.
Sono rimaste guardando la dolcezza tranquilla
del villaggio nella notte, piccola come un nido.
La luna tra la nebbia del cielo cenerino
dando le chiarezze della sua luce argentina,
le case strette, la torre del convento,
hanno il timbro dolce della pace campagnola.
I pioppi si alzano neri ed assopiti,
e sopra, tra i bicchieri, passa come un battito
o una scossa di freddo e di rancore...
È che hanno desideri di ubriacarsi di cielo,
di sentire come gli uccelli la vertigine del volo,
e rimanendo qui sotto si contraggono di dolore...
II
LA DISUBBIDIENZA
Quando sono frustati per la pioggia ed il vento
i pioppi elevano un discorso selvaggio,
e sembra che mostrino al nero firmamento
l'irsuta chioma della loro verde ramatura.
Ma dopo si stancano di implorare l’impossibile
ed in un ribelle istante si mantengono eretti
disperatamente, con un indefinibile
desidero di ingrandirsi per non essere vinti.
E nella lotta selvaggia con la natura
hanno quell'eleganza di suprema grandezza
di quelli che si alzano in una ribellione.
Ma essi saranno sempre gli eterni vinti,
e vittoriosamente dà sinistri sibili
il vento che ritorce la docile ramaglia.
III
IL SOLITARIO
Patio di scuola, patio soleggiato e semplice,
circondato di casupole di pareti muscose,
un pioppo che eleva il suo fogliame giallo,
un corridore molto lungo ed un roseto fatte rose.
Il tempo, il capriccioso cambista, quello che veste
con abito confuso la quiete delle cose,
l'ha fatto tutto triste, confusamente triste,
ma è una tristezza trascurata e bella.
Il pioppo si alza, superbo ed orgoglioso,
ondulando il fogliame dorato e poderoso
sopra alla soave tristezza delle cose.
Il pioppo disprezza quello che sotto si estende.
Disprezza senza guardarlo il roseto che gli tende
il sacro profumo delle sue ultime rose...
Il momento sereno
Si addolciscono nelle anime le ansie, i dolori,
e si riflettono tutti gli affetti erranti,
è arrivato alle anime l'odore dei fiori
come un canto pietoso, poderoso e fragrante.
Le anime si ritirano in loro stesse. Sono forti.
Si sono riscaldate in tutti i dolori umani.
Niente temono né sperano: quando verrà la morte
l'aspetteranno come se arrivasse un fratello.
Si eclissano negli occhi i desideri profani,
e quali quiete colombe si trattengono le mani
simbolizzando tutta la purezza interna.
Le voci vibrano piene di sonori accenti.
Né un'ansia. Né un anelito. Tutti i pensieri
si alzano al di sopra dell'umano dolore.
Selva Austral, Temuco, Luglio 1915.
Della mia vita da studente [4]
DE MI VIDA DE ESTUDIANTE [4]. (Pagina 73.) I vv. 13-15 in CDT dicono, con evidenti problemi di senso: "La luna riente No iluminaría / y añorando penas yo Me sentiría / más que la alegría del alejamiento." Il manoscritto porta invece "Me iluminaría" e "yo No sentiría" nei posti marcati.
Ho preso un libro, dopo l'ho lasciato.
Contro i miei desideri non posso studiare.
Con la notte in calma mi hanno svegliato
alcuni seducenti desideri di camminare.
Starei cantando per una viuzza
il vecchio ritornello di un vecchio cantare,
e sentendo la mancanza di tutte le pene invecchiate
non mi stancherei di camminare e di camminare.
Andrei via per tutte le strade lontane,
guardando i vetri di qualche finestra
e guardando il cielo grigio o cenerino.
La luna ridente mi illuminerebbe
e ignorando le pene io non sentirei
più che l'allegria dell'allontanamento.
[Sono rimasto pensando largamente all'immensa]
Sono rimasto pensando largamente all'immensa
fioritura di poemi della vita volgare,
nell'emozione sentita tanto grandemente intensa
che le bocche si chiudono e non possono parlare...
Fiorendo nella vita, rimangono dei fiori
(affinché li guardiamo dalle lontananze),
arabeschi sottili solette in dolori
che illuminano progressivamente il correre dei giorni...
La bellezza ignorata
Ricurvi nel bordo della strada, un pomeriggio,
sentiremo le anime stanche di dolore,
guarderemo la rotta continuata, codardi...
Mai più sentiremo il divino tremore!
Giammai i nostri occhi ci mentiranno addii
che erano pellegrinaggi di vita e di emozione,
ed al sentire la suprema nostalgia dei piaceri
scorgeremo una fatale rinuncia.
Ed allora sentiremo la sacra regalità
di trovare in noi la fonte di bellezza
che per quello che ci rimane riempirà di amore.
Quando vediamo ardersi di rose la strada
sotto la potente spinta di qualche calore divino,
sentiremo noi quello stesso calore...
Lo sperare dolente
Non è venuta l'amata né verrà ancora,
non sono arrivate le mani che dovevano arrivare.
E ferma quando arrivi fioriranno i giorni
illuminando la soave dolcezza di amare.
E tutti i dolori si spegneranno. La luna
uscirà molto più bella dietro il monte ideale,
la guarderanno gli occhi estasiati in una
comunione di sentirsi alto e spirituale.
Non è venuta l'amata né verrà ancora,
ma, mentre arriva, viviamo l'allegria
di avere nella vita una speranza in più.
Ora al di sopra di dubbi e paure
ed ingannando la ferita dei vecchi dolori
aspettiamo l'amata che non verrà mai.
Quando si disfò l'incantesimo
Lenta, molto lentamente si disfò l'incantesimo.
(Irremissibilmente doveva passare.)
Non ci fu smorfia nelle labbra né ci fu nell'occhi pianto,
non ci fu neanche un profondo desiderio di piangere...
Vaghi presentimenti che si facevano verità,
verità tristi, ma che già erano conosciute.
Io ebbi lo scoraggiamento del quale vede solitudini
faranno che si svegli la profonda pena addormentata.
Nella buona canzone...
Guardare dietro. È tanto quello che già abbiamo vissuto!
Tanta sana allegria! Tanta luce di emozione!
E scorrendo la nebbia dolente della dimenticanza
sentiamo riviverci nella vecchia canzone...
Quella canzone vecchia di dolore fiorito
che ci mostrò i mieli di tanto dolce amore,
che ammorbidì le piume del nostro sacro nido
e che fece che guardassimo faccia a faccia il dolore.. i
E guardando le ceneri azzurre del passato
ci sentiamo più grandi e più eterni,
e sentiamo che nasce come un immenso fiore
la canzone ottimista che farà si che nel futuro
siamo più tranquilli, più profondi e più puri,
uniti gli amori in un supremo amore...
Selva Austral, Temuco, Luglio 1919
sotto il titolo "En la santa canción”
Questo nostra crudeltà
Questa crudeltà senza limiti e che porta noi stessi
di approfondire in noi i profondi abissi
che portiamo nascosti nella vita interiore...
Questa crudeltà senza limiti che sentendoci assetati
fa che contempliamo laghi di incantesimo
persi nell'aurora di un celeste chiarore...
Questa crudeltà si nasconde in ogni cuore,
infiamma gli animi di un enorme dolore
o rivive le ali della meditazione...
Notte del 20 Luglio 1919
Selva Austral, Temuco, agosto 1919.
Da quando andasti via
Da quando tu andasti via io sento l'amarezza
infinita di ti avere taciuto tante cose,
di avere taciuto, martire, questa soffice tenerezza
che nascosi come possono nascondersi le rose,
e di non averti detto le parole fragranti
che portavo nella bocca, curate e sottomesse,
che aspettai tante volte che uscissero vibranti
e che si congelarono sempre in un crudele sorriso.
Adesso che andasti via soffro il dolore intenso
di avere taciuto, martire di me stesso, l'immenso
tesoro di dolcezza che fiorì nel mio amore...
Ma so che se un giorno ritornassi alla mia vita,
cercando invano le parole perse
chiuderebbero le mie labbra la nascosta amarezza.
21 Luglio 1919
Corre-Vuela, num. 624, Santiago, 10.12.1919.
L'emozione fuggitiva
Continuiamo a cercare l'emozione
che non possiamo trovare
in questo tedio sempre uguale
che c'avvolge il cuore.
Malati di questo eterno male
che prima che nasca qualche amore,
che rallegrerà con la sua canzone
questa amarognola solitudine,
l'ammazzerà col suo dolore
che suona come perpetuo
e lento tocco di malvagità
dentro il nostro cuore.
Continuiamo a cercare l'emozione
che non possiamo trovare
e che aneliamo con ardore.
(... Malati di questo eterno male
che ci raffredda il cuore
non la incontreremo mai.)
23 Luglio 1919
Comunione ideale
COMUNIÓN IDEAL. (Pagine 78-80.) Neftalí inviò questo testo al concorso Juegos Floreales del Maule, con sede in Cauquenes, firmandolo col pseudonimo Kundalini. Ottenne il terzo premio. Questo poema manca nell'edizione CDT di Farías.
Si fermò il viaggiatore sotto la pace immensa
che saliva quale madre poderosa la strada.
Tutto era amore. I fiori gli davano le loro intense
fragranze che erano canti di passione. Un divino
sole potente e sorridente dorava più i grani
che si sollevavano umili sulla buona terra
che curvava i suoi lombi al sole, padrone ed amico
dando mari dorati al piano e alla montagna.
Si trattenne il viaggiatore. Guardò il cielo sereno,
sentì il canto profondo e chiaro della Natura,
ed elevando gli occhi li trovò migliori
scaldati nella somma di tutte le bellezze.
Egli che era un pellegrino senza emozione, accecato
per la stanchezza inutile della schietta città
(per tutti i dolori egli aveva pianto)
sentì dolce e sonora la sacra solitudine.
Ed alzò la voce umile ma tanto poderosa
che gli uccelli erranti fermarono il loro volo
un istante, ma dopo proseguirono la bella
ed illusoria conquista di cieli e di cieli.
E parlò:
"Io so di tutti i mortali dolori
e sto crocifisso all'interno del mio essere,
per i dolori stessi che arrivando ad essere fiori
furono croce dolorosa dopo essere fioriti...
Hanno agitato la mia anima tutte le fiammate
che alle anime umane potevano agitare,
ebbi sempre negli occhi la visione dell'amata
che ora so che mai, mai poté arrivare.
E contemplando da vicino i dolori umani,
l'accozzaglia di miserie della vita volgare,
sentii la voce dolente di un ignorato fratello
a chi conduceva l'ansia sacra di rinunciare.
Ed io che ebbi orgoglio di sapermi poeta
disprezzai i tesori ignorati. Passai.
Divorato da ansie celestiali, asceta,
martirizzai la mia carne che tanto lasciva fu.
Nell'ossessione eterna del disprezzo terreno
volli purificarmi più nella solitudine,
allontanarmi più lontano da tutti i veleni
che gli uomini mendicano in perenne ansietà.
E gli uomini hanno detto che sono pazzo, pazzia
che mi ha fatto nelle strade camminare,
camminare che mi ha messo nelle labbra acredine di amarezza
e negli occhi eterni desideri di piangere...
Ora io mi arrendo, Madre Natura,
a vivere la bellezza sacra che hai in te,
a palpitare in tutte le supreme bellezze
che in tutte le tue strade senza volere raccolsi.
E sbagliando nelle strade ho imparato ad adorarti
come un'immensa amata, piena tutta di amore.
(Adesso sommo tutta la mia sete nel contemplarti
nella divina estasi di ogni annunciazione...)"
Si estinse la voce chiara del viaggiatore stanco,
abbassò gli occhi pieni di celeste bellezza.
(Seguì molto più profondo, più chiaro e profumato,
il buon cantare supremo della Natura.)
27 Luglio 1919
Firmato Kundalini in Juegos Florales del Maule,
opuscolo, Cauquenes, edizione della rivista Asteroides,
1919, ed in La Mañana, Temuco, 7.10.1919.
[Morbosa stanchezza che ci condanna]
Morbosa stanchezza che ci condanna
a vivere dentro noi stessi,
in questi pomeriggi che ci tormentano
con la loro quiete tediosa.
Discendiamo
alla profondità sconosciuta
della sempre volgare filosofia
delle ore che passano...
(Un lontano
violino versa una strana sinfonia
di suoni sottili o spenti.)
25 Luglio 1919
Il poeta che non è borghese né umile
Un ragazzo che ha appena quindici anni,
che va indietro punto dall'amarezza,
che assaggiò i sali della delusione
quando molti conoscono risata e tenerezza.
Egli conobbe la vita dietro i bestiali
istinti dell'umana natura,
quando credé trovarsi con ideali
fatti di perfezioni e di bellezza,
e continua per la vita a vivere triste.
(Gli uomini non hanno saputo che in lui esiste
il poeta che bambino non fu puerile.)
Ed egli spera orgoglioso coi suoi dolori,
sconosciuto e solo, giorni migliori
che si immagina, pazzo, che devono venire.
In Clase de Química del 30 Luglio 1919
Io ti sognai un pomeriggio
YO TE SOÑÉ UNA TARDE. (Pagina 82.) In v. 2, "realeza" sembra significare realidad, per opposizione alle "ficciones" del v. 1. Varianti del motivo dell'amata ideale costruita dal poeta appariranno perfino in fasi tardive dell'opera di Neruda.
Donna, fatta di tutte le mie finzioni riunite,
hai vibrato nei miei nervi come una regalità,
piangendo nei sentieri dell'illusione perduta
ho sentito sempre lo sfregamento della tua ignota bellezza.
Appassendo i miei sonni e le mie buone chimere,
ti ho forgiato a pezzi celesti e carnali
come una rinascita, come una primavera
nella selva di tanti stupidi ideali.
Ho sognato la tua carne divina e profumata
in mezzo ad un morboso torturare del mio essere,
e benché sia imprecisa so come sei, amata,
finzione fatta regalità in carne di donna.
Io ti guardo negli occhi di tutte le donne,
ti guardo, ma non ti ho potuto mai trovare,
e c'è nella delusione l'incantesimo che sei
o che sarai più bella di una donna volgare.
Ti sentiranno i miei sogni eternamente mia,
germogliando della nebbia di tutte le mie tristezze,
come germinatrice di rare allegrie
che ravviveranno la fiamma della tua ignota bellezza.
31 Luglio 1919
Corre-Vuela, num. 612, Santiago, 17.9.1919.
Le emozioni eterne
In Temuco il 3 agosto, dalle 11 alle 12.
I
I GIORNI
Si concretano intorno a noi,
sentiamo i lamenti vibranti con qualche inquietudine.
Più tardi nelle pianure del cuore sentiamo
che già siamo fortunati nella buona quiete...
Ma seguono le voci umili ed armoniose
sminuzzando tutte le carezze del giorno.
Sentiamo sentendoli rumore di farfalle
aleggiando nel calice di una dolce allegria.
... Fioriture piene di infinita tenerezza
che lasciarono all'anima profumo di dolcezza,
carezze luminose e cieli di emozione:
tutti quei tesori di allegria già vanno
si sminuzzano fragili nella massa di dimenticanza
che le voci umili tessono al cuore.
II
IL PIACERE
Entrai per i sentieri dei miei sogni strani
alle remote terre di un paese ideale,
imbiancava i miei capelli la polvere degli anni
ed i miei occhi avevano vaghezza di vetro.
Era un paese forgiato di sogni e di nebbie,
fissato in incantati miracoli di colore,
germogliava Afrodite da tutte le schiume
e tutte le sabbie erano letti di amore...
Io entrai, turbai la pace di quello raccoglimento:
anelante volevo provare raffinatezze
che promettevano labbra divine di donna.
E mi ubriacai nella somma di tutte le delizie,
ma trovai che quelle promesse carezze
erano sempre il preludio di un rovinato piacere.
III
LA MORTE
LA MUERTE. (Pagina 84.) Questo sonetto si pubblicò per la prima volta sul mio libro Ser y morir en Pablo Neruda (Santiago) Editora Santiago, 1967, p. 13.
Nerezza luminosa che verrai qualche giorno
a tagliare le radici della nostra solitudine
per comunicarci con l'immensa armonia
che presentiamo dalla nostra eterna malvagità.
(Tanto profumo vano di rose e di rose
che diventa trasparente, senza sentire l'ansietà
suprema di tacerci queste terrene cose
ed andarci per la rotta di fronte alla tua bontà!)
Ma poiché noi sentiamo il profumo
della tua buona venuta, poiché tu ci riassumi
tutte le ansietà della nostra pienezza,
tu dovrai venire rovinosamente, e dopo,
a darci con le tue labbra quel bacio di fuoco
che vagamente allora si trasformerà in quiete..
Trasognamento perduto
Fiorito trasognamento che mi lasciasti
la vaghezza di un'inquietudine
vibrando nel mio sentire, tu sommasti
tutti i sogni della mia gioventù.
Dopo un'amarezza tu ti allontanasti.
Primo non sentii: eri andata via
come in un pomeriggio tu arrivasti
a far rinascere il mio cuore abbattuto
nella profondità di una delusione.
Poi ti profumasti col mio pianto,
ti facesti mollezza del mio cuore.
Ora hai aridità di vincolo,
una delusione di più, albero nudo
che domani si farà germinazione...
Clase de Química del 6 agosto 1919
Dalla mia solitudine...
DESDE MI SOLEDAD... (Pagina 85.) Il secondo di questo trittico è un sonetto eneasillabo ([Hiperestesia doloroso]) di sorprendente maestria in un poeta di quindici anni.
Essere soli le notti ed essere soli i giorni
aspettando allegrie che non devono venire mai,
amaramente tristi sentire che ancora
le nostre ore rimangono come pagine interrotte.
Le rose fiorirono. Poi seguì la vita.
Si ravvivarono le ansie con le loro promesse.
Dentro a noi ci fu pace accesa
nella luce decadente dei nostri isolamenti.
Ma seguiamo sempre dolenti ed amareggiati,
con le pupille piene di stanchezze compiante
nella ricerca inutile di quella chiarezza
accecante che vedemmo con le sue rose trionfali,
pezzi della carne dei biondi roseti
che forse fiorirono nella nostra solitudine...
II
iperestesia dolorosa
che si preparò nella mia solitudine,
stanchezza inutile che le cose
mi diedero come una bontà.
Seta fragrante e luminosa
di qualche minuto fugace
che fiorì come una rosa
in questa umile solitudine.
(... Lontani giardini, sonori
violini di pianti d’oro
magnificamente trionfale...)
Tutti ebbero il loro momento
nel sottile appagamento
di questo mia umile solitudine...
III
Mollezza dolorosa di questo pomeriggio che piange
buone cose sorridenti che andarono via ieri,
azzurrina carezza di questo pomeriggio che infiora
un altro pomeriggio, un'altra vita, magari una donna...
(Amica buona o triste di questi quindici anni miei
che mi hai ammalato l'anima di volere trasognare,
solitudine, io ti sento palpitare negli impeti
spenti che battono sulla mia carne mortale.)
Solo, solo. La vita corre sempre in fretta,
stupida amalgama di pianti e di risate
che prima che amasse il Bene mi fece amare il Male.
... Bisogna continuare a vivere senza amarezze lunghe,
amando dolcemente la ferita che assopisce
il chiaroscuro eterno che aprì la mia solitudine...
Agosto 1919
Selva Austral, núm. 8, Temuco, 1919.
Questi miei quindici anni
ESTOS QUINCE AÑOS MÍOS. (Pagine 87-88.) Questo mini-memoriale intimo inaugurò nel 1919 la propensione nerudiana a segnare nella sua scrittura la ricorrenza del suo compleanno.
Ostilità di esseri, ostilità di cose,
frecciate verso la carne dolorosa
che mentì le carezze che vibrarono ieri.
Pena, pena infinita, esasperante pena,
chiusura dolorosa di idealità piene
di tanto sogno vago che troncò una donna.
Ore che passano lente, pesanti e maledette,
curvando l'ala torbida della pena infinita
che trema e batte dentro il mio cuore.
(... E pensare che vidi in sonni divini miraggi,
che volli affondare i miei occhi nelle mille narcosi
che temperarono i miei nervi malati di emozione.)
Io non so se passarono le allegrie rare,
non so se esse, pie, mi lasciarono il chiaro
fuoco sereno e duro di perpetua inquietudine
che infiammò gli animi delle mie vaghe pupille.
Io non so se andarono via quelle ore tranquille.
Io non so se fuggì lontano quell'uccello azzurro!
Ma torva, continua come un incubo,
io conosco questa pena che ammazza il seme
che in un soffio leggero potrebbe germinare;
io conosco la somma di queste torture brutte
che sopra ai miei sonni battono le nere ali
e falciano le dolcezze che posso scorgere.
Nelle ore che passano questi miei quindici anni
si incurvano come in una resurrezione di stagione estiva
e mi seguono ammazzando con l'eterna inquietudine
di sapermi impossibile con tutti i miei dolori...
(Quindici anni dolorosi che dopo saranno fiori
per le quattro tavole della mia nera bara.)
Io non so se andarono via tutte le mie ore buone,
né so la malata profondità delle mie remote pene.
Io non so se fuggì lontano quell'uccello azzurro!
[Luglio 1919]
Selva Austral, num. 8, Temuco, 1919
Idealità ultima
Speranza ultima, sentirò i tuoi battiti
realizzati dentro il mio eterno sperare?
È da molto tempo che scaldo il nido:
magari se i miei pianti lo bagnano!
Tante volte, tante, che io ti ho sentito
fiorita dentro il mio cuore,
tra le mie stanchezze e metta le mie dimenticanze
come un tocco buono che è risata e canzone..
Sentii che moriva il tuo canto sonoro,
che mi restituivi la vecchia acredine
e che mi avvolgevano fiumane di pianto:
la canzone triste della mia gioventù!
Ma non era certo. Vibrava il tuo canto
nel luogo più recondito del mio cuore
(cuore riempito delle delusioni
che trovai in un sentiero di desolazione).
Ultima speranza, mia speranza buona!
Mi afferrò al tuo debole raggio di luce
nella contrazione delle aspre pene
che mi affondano i loro chiodi di perpetua croce.
Croce che fu benedetta per il tuo filo dorato
ed il fumo di sogno che gettasti alla mia tempia,
la dolcezza pia delle tue instancabili
ninnananne umili di amore e di bene.
Ma come un lento ed occulto veleno
spunta la piaga del mio pessimismo
che spegne la fiamma del guardare sereno
e mette nei miei sonni i suoi brutti abissi.
È la raffica triste, l'ossessione che stanca,
il ticchettio di piena malvagità
che fa che ti senta - ultima speranza
come una leggenda della mia solitudine.
(Leggenda dolente dei miei miraggi
che mette carezza di triste dolcezza
davanti alle durezze del mio pessimismo
e davanti all'evidenza brutta del dolore.)
(Tutte furono belle, tutte furono buone,
tutte mi scacciarono un po' di incantesimo
al recinto triste di perpetue pene,
nelle pienezze delle mie delusioni.)
Gonfia le tue radici, speranza mia,
non cercare fermezza dietro il mio cuore,
che prendendo il tuo cero di poca allegria
non ti spenga il vento di desolazione...
E metterai nerezza più densa e più forte
perché non vibrasti piena di pietà,
ci saranno tra i miei sonni più fumo di morte,
epilogo triste di tanta ansietà...
E quelle canzoni tessute di rose
(speranze buone, rovesciata inquietudine,
diventeranno dolorose, diventeranno dolorose,
la canzone triste della mia gioventù!...
I sonetti del diavolo
LOS SONETOS DEL DIABLO. (Pagine 91-92.) Titolo del trittico: CDT porta "Las rosas del diable" (?). Nel sonetto III, v. 8, Farías trascrive "ignotos fuegos en que todos se abrazan (abbracciano)" dove sembra più pertinente quello "abrasan (bruciano)" della mia trascrizione, non registrai il possibile errore del manoscritto, senza dubbio perché mi sembrò evidente.
I
Occhi che mi guardano continuamente
con un sguardo di avvelenamento,
che baciano la gelata carne della mia fronte
e che mi perseguono con accanimento.
In tutte le ore, in tutti i giorni,
ed in tutte le notti sorde e silenziose,
vengono lentamente le pupille fredde
come un appello dell'eterna Niente.
Sono gli occhi verdi del Dio dell'Abisso
e li porto dentro, dentro me stesso,
tra le ceneri di sogni di ieri...
Occhi che mi illuminano col loro satanismo,
occhi del demonio che nei miei miraggi
hanno l'enigma di occhi di donna...
II
Mi lasciò una rosa di sensualità
che allunga i suoi petali in eterna sete,
e mi diede una favilla, rossa, di malvagità
(la malvagità che tutti devono avere).
E mi ardo nella fiamma della tentazione
(l'eterna ragione che mi diede Satana)
e come Papnucio porto il discorso
in un formicolio di sensualità.
Rose lussuriose del giardino del Male
che mi portano lontano da ogni bontà,
nell'ansia quella rossa e perpetua
che mi diede la favilla rossa di malvagità:
l'odore di rose di sensualità
che molto tempo fa mi lasciò Satana!
III
Terrorismi enormi, infantili e pieni
del sapore di dolori profondi, sconosciuti,
quando si stringono tutte le ansie di essere buoni
in una massa informe di terrore e di oblio.
Nell'immensa nerezza della notte mostruosa
vibrano sonoramente i minuti che passano,
e gli occhi si chiudono davanti alla dolorosa
visione di ignoti fuochi in cui tutti si incendiano:
anime, cose ed esseri, rocce, pietre e fanghi,
nel sanguinolento guazzabuglio del tutto
che affonda nella nerezza dell'abisso totale.
Terrorismi enormi, infantili e muti,
in cui attraversa le braccia, poderoso e nudo,
il demonio cantando la Sonata del Male.
23 agosto 1919
Proemio
PROEMIO. (Pagina 93.) Il quaderno 2 porta varie avvertenze, come quella che precede qui il poema, annunciando libri di Neftalí "prossimi ad apparire." Ma il maggiore interesse di questo testo è la sua introduzione di un nuovo registro poetico - più canzone e meno "riflessione" -, diverso del dominante nei poemi anteriori. Nell'ultima strofa il verso "gli uccelli andarono via come vanno via sempre," anticipa un motivo simbolico che anni dopo il giovane Neruda varierà così: "Da me fuggivano gli uccelli" (Veinte poemas de amor, poema 1); "gli uccelli del mare lo disistimano e fuggono" (Residencia II, "Barcarola").
(In I roseti della solitudine,
prossimo (?) ad apparire.)
Una rotta di sole,
ed una luce,
ed un roseto.
Io non chiedevo di più
ed in quell'inquietudine
si posarono le sete della mia soffice canzone.
Una luce venne a me
ed un roseto fiorì.
E come una promessa che non deve venire mai
sbatte le palpebre in lontananza mio cammino di sole...
La luce buona mi guida per la strada sterile,
il roseto diventò rosa e roseti in fiore,
e gli uccelli vengono
ad ascoltare la mia canzone.
Cantai quando gli uccelli vollero ascoltarmi
(gli uccelli andarono via come vanno via sempre):
allora i miei roseti
diedero alle mie canzoni odore di solitudine.
Il racconto ingenuo
Un pezzo, un pezzo di amarezza che dopo
si confuse nella massa dolente della mia vita
(che seguì come prima, con freddi e con fuochi),
ed in fondo la mia stessa tenerezza dolorante.
Un racconto ingenuo, appena. Nella nebbia dimenticata
l'oro del silenzio rimò al mio cuore,
mi consolai sognando che verrebbe l'Amata
e che tutti i pianti erano la sua annunciazione.
E quella storia ingenua si allontanò dal sentiero
dei miei dolori, come si allontanano le prime
stanchezze che presentono una dolcezza in più.
E, oh vecchio racconto ingenuo! porto nelle mie delusioni
il dolore di non ti avere pianto coi miei pianti,
perché i presentimenti non arrivarono mai.
[28 agosto 1919]
Corre-Vuela, núm. 628, Santiago, 1.1.1920.
[Oh! la triste sonata dei mali eterni]
Oh! la triste sonata dei mali eterni,
questo cadere bocconi in tutti gli inverni,
questa notte dolente senza una luce e senza
un sentiero almeno che mi porti verso il fine.
Con tutte le stanchezze e con tutti i dubbi
si fanno nere le mie profonde solitudini nude
e si infiltrano i ghiacci della mia desolazione.
E germoglia il grido sterile, prima di essere nato,
che volle essere canzone: non riuscì ad essere gemito
e si disfece, fragile, dentro il cuore.
29 agosto 1919
Momento
Momento di allegria tiepida
che facilmente arriva nella sua bontà
a ristagnare il sangue di tutte le ferite.
Tocco crepuscolare,
silenzioso ed addormentato,
che accende nel momento di pietà
questa dolcezza che ruppe i vetri
amari del pensare.
Tutto quello che si stringe nel momento
canta sereno e tiepido una canzone.
(Dolgono i dolori eterni
lontanamente,
vengono
e si trasformano in amore.)
1 settembre 1919
La mia gioventù
Gioventù della mia vita, polvere di rose tristi,
i miei giardini malati di tanto idealismo
tronca per le malvagie mani delle quali vestisti
coi fiori ardenti della sensualità.
Gettai il mio lamento umile per tutte le strade,
ricotta nei suoi dolori nei miei versi in fiore,
e corsi, pellegrino,
per il paesaggio immenso del mio mondo interno.
Gioventù della mia vita, dolcezze vane ma
che mi mostrano eterni i dolori primi
e la rotta inseguita che dovrei seguire...
Gioventù della mia vita, polvere di tristi rose,
questa smorfia nelle mie labbra, sempre di più dolorosa,
davanti alla spaccatura della domanda sterile a quello che deve venire.
9 settembre 1919
La stanchezza totale
Pace di spaccatura che aderisce dolendo
nell'esaurimento della stanchezza totale,
pace di sorde nerezze interne, ricordi
che fugacemente ci lasciano e vanno via.
E senza stoicismo, e senza grida isolate,
guardiamo come cantano gli uomini la loro canzone.
Non siamo nessuno, niente. Stanchezze che portarono
tutto il nostro in una totale desolazione.
10 settembre 1919
Tedio
Continuare a portare nella rotta gli amori perduti
ed i sogni andati
ed i fatali segni dell’oblio.
Continuare ad andare nel dubbio delle ore torbide
pensando che sono diventate aspre tutte le cose
per allungarci di più la rotta dolorosa.
E sempre, sempre, sempre ricordare la fragranza
delle ore che passano senza dubbi e senza ansie
e che lasciamo lontano nella sterile vagabondaggine.
11 settembre 1919
Stanchezza [I]
Lasciare fecondamente inchiodato il cuore.
Perché disubbidienze? Perché sofferenze?
Eleviamo più grande la nostra eterna canzone
nello stampo silenzioso dei propri momenti.
Gli uccelli ignari seguono la rotta eterna,
e anche noi, umili, seguiremo,
c'imbiancherà il capello la neve dell'inverno,
la raffica più gelata ci ferirà la tempia.
Perché sofferenze? Perché disubbidienze?
Dovrà gelare le ossa la raffica del dolore:
fatalmente dovremo sentire che non ardeva
eterna, eternamente, nostro primo ardore.
11 settembre 1919
La volgare che passò
LA VULGAR QUE PASÓ. (Pagine 97-98.) I versi di Neftalí sembrano guadagnare in vivacità quando alludono alla sua vita personale, benché le audacie lessicali («que no se haya engarfiado mi vida», «tu dicha animalada») non sono troppo felici poeticamente.
Non eri per i miei sogni, non eri per la mia vita,
né per le mie stanchezze aromatizzate di rose,
né per l'impotenza della mia rabbia suicida:
non eri la bella e buona, la bella e dolorosa.
Non eri per i miei sogni, non eri per i miei canti,
non eri per il prestigio dei miei amari pianti,
non eri per la mia vita né per il mio dolore:
non eri la cosa fuggitiva di tutti i miei incantesimi.
Non meritavi niente: né la mia aspra delusione,
neanche il fuoco che presentì l'Amore.
Ben fatto, molto ben fatto che sia passato in vano,
che non si sia infilato nella mia vita a tuo guardare,
che non si sia unito ai pianti anziani
l'amarezza dolente di un sterile piangere.
Eri per un imbecille che ti volesse un po'.
(Oh i miei sogni buoni! Oh i miei sogni pazzi!)
Eri per un imbecille, un chiunque non più
che non avesse niente dei miei sogni, niente,
ma che ti darebbe la tua stessa bestialità,
la breve e rozza crisi dello spasmo finale.
Non eri per i miei sogni, non eri per la mia vita,
né per i miei fallimenti né per il mio dolore,
non eri per i pianti delle mie dure ferite,
non eri per le mie braccia, né ferma la mia canzone.
12 settembre 1919
La nuvola
Tende le ali nere, nere come la notte,
vuole spremere la terra col suo odio e la sua nerezza,
vuole ergersi sulle rovine degli uomini
alzando in una sfida il suo tetto nudo.
Congiunzione degli odi che vibrano nell'Altezza,
gonfia le sue ali nere con un vago dolore
ed una scossa di paura e di dubbio
alza le nerezze della sua desolazione.
Curvatura tenebrosa dei soffi eterni,
ha nel suo ventre tutta la disperazione.
Simbolo enorme e muto degli odi immensi,
gonfia il suo abisso nero di sconsolatezza.
13 settembre 1919
Il mio paradiso perduto
Negli imbrunire arrivavi alla mia vita
e ti copriva tutta la mia sete di idealismo,
emergendo nel pomeriggio la tua sagoma persa
eri il miracoloso canto di chiarezza
che gettava ombra d’oro sui miei isolamenti
e metteva nei miei sogni il suo punto di pietà.
Nelle contemplazioni si intesseva il momento
soave e sereno, pieno di suprema bontà.
La soavità di idillio del pomeriggio veniva
con la chiara leggenda di tuo guardare venuto:
Oh la dolce allegria
che illuminò il mio fragile paradiso perso!
14 settembre 1919
Capriccio
L'incantesimo dolente della musica rara
ci tesse un isolamento ed un silenzio interno
affinché fecondiamo la solitudine, e perché
seguiamo il filo di un remoto chiarore
che ci porta e ci porta per le rotte oscure
e ci lascia nel petto sapore di pienezza.
(Stiamo già molto lontano dall'umana amarezza
e tutti i dolori si falciano in quiete.)
Giriamo per paesi di febbre e di delirio
(la luce vive ed illumina con pallore di cero
gli abissi dolcissimi della strada ideale),
seguiamo e seguiamo di pazzia in pazzia
e, pazzi già noi, nelle rotte oscure
sbatte le palpebre, maledetta, la chiarezza fatale.
15 settembre 1919
Il mio trittico simbolico
MI TRÍPTICO SIMBÓLICO. (Pagine 100-102.) Sonetto III, vv. 1-2, "per la mia finestra passano...": Laura Reyes ricordò più di una volta quanto piaceva a Neftalí osservare la vita passando sotto la finestra della sua stanza, situata in alto della casa familiare in Temuco, oppure che ella gli raccontasse quello che vedeva da quella finestra quando suo fratello stava a letto, per malattia o per pigrizia, cosa che succedeva con una certa frequenza.
I
NIENTE
Tutta la mia vita inutile te l'offro sottomesso,
questo fagotto dolente che nessuno volle mai
ma che te l'offro più con un orgoglio,
orgoglio sterile come tutte le mie cose
perché so l'amarezza che se in qualche giorno
mi togliesse l’unica cosa che io potei darti,
sarebbe solamente un'altra storia dimenticata
per te e per il mondo.
Dopo l'amarezza
io saprei sempre la mia rotta più e più introvata,
verrebbe l'ossessione stracciata ed oscura
che già per il mondo io non sarei niente,
io non sarei niente, io non sarei niente.
II
NIENTE
L'illusione fatta in briciole romperà le mie strade,
tutto si farà stanchezza, tutto si farà dolore,
si faranno stanchezze tutti i miei alberi divini
e si faranno dolorose le mie sorgenti d’amore.
Nasceranno nella terra fragrante gli spini,
linfa triste ed anemica correrà nel vigore,
mi ferirà le pupille la malvagità del destino
che fece sangue i fiori della mia rotta migliore.
Poveri vetri azzurri dell'illusione fiorita
che dovrà troncarsi fatalmente nella mia vita
sotto l'impulso cieco della desolazione!
... Poi gettare profumi di una nuova canzone
che farà un'altra volta le rose della carne stanca
e farà un'altra volta strade che non lasceranno niente.
III
NIENTE
Per la mia finestra passano gli uomini, le donne,
i bambini ed i cani. Tutti passano uguali.
Passano per la mia finestra come tutta la gente
quando passa per questa, il mio lunghissima strada.
Le donne che passano rimangono un momento
nei miei occhi. Le guardo. Non le vedrò mai,
neanche questi uomini, neanche questi cani,
che andranno via per la vita come tutti vanno via.
(Una nuvola di polvere entra per la mia finestra.)
Dolore per le donne che devono passare
e per tutte le cose. Per tutto quello che passa
in un momento fragile, fragile e fugace.
Sono tutte piccolezze. Come noi. Ali
che alzano il volo che non ritornano mai.
Tutta la massa anonima. Noi, niente, niente,
cani, uomini e cose volgari. Nient'altro.
Nel treno
Stazioni e paesi e paesaggi leggeri
che corrono dietro i vetri come un'esalazione,
annebbiamento del ricordo, le prime stanchezze,
le prime usure piene del cuore.
Tutto vive dietro una chiusura malaticcia
di ricordi che accorrono quando corre il vagone
la sua rotta triste sotto i cieli di cenere,
nei paesaggi grigi della desolazione
che passa evocatrice di tutti i dolori,
e del biondo fuoco dei giorni migliori
e dell'abisso enorme di sconsolatezza
che mise le sue nerezze nella rotta stanca
e che (pianto negli occhi) infiammò un'amareggiata
e spasmodica crisi di disperazione.
20 settembre 1919
I paesi umili
Arrivare in un pomeriggio o in un giorno chiunque
ai paesi umili dove nessuno attende,
dove l'odore di fiori, baci di primavera,
ci accoglie e ci fa battere il cuore
nell'emozione semplice delle cose piccole
che sanno esserci dolci, sembriamo sorridenti
dietro l'incantesimo ingenuo del pomeriggio che sogna
o del giorno che inarca la luce della sua canzone.
La nostra stanchezza inutile è la nebbia di oblio
che tessono le fragranze dei fiori di nido
in un incantesimo di amore e di bontà!
E sentirci umili, piccoli e maledetti,
per la rotta illusoria delle nostre lunghe grida
nella spaccatura della fatalità.
21 settembre 1919
[Consumi di emozioni e di pianto]
Consumi di emozioni e di pianto
in una diluizione di dolcezza
ingenua e triste come un soave canto.
Serenità. Leggenda di amarezza.
(Canto di vita soave e lento
che vibra col cuore,
malinconia del momento
umile oltre al discorso.)
Ma nonostante tutte le cose è amara
l'ora infarinata funambolicamente.
(Il pagliaccio triste delle ore lunghe
sgrana diabolicamente la risata.)
30 settembre 1919
Primavera nella notte
Mefisto quasi buono mentre canta a Margherita!
La luna è ubriaca sotto il cielo stregato
e se andiamo, amata, si farà luce infinita
la vita tra i vetri del miracolo azzurrato.
(Oh, i tuoi occhi ombrosi mi sembrano due laghi
in cui la Sfinge mette le sue acque misteriose!)
Andiamo, amata, andiamo! Per i miei sogni vaghi
non tessi nella notte la canzone dolorosa!
Che si faranno pianto triste tutti i roseti
e la luna ubriaca sotto il cielo di seta
correrà nella leggenda dell'inutile amore.
Fissati che è la notte polpa di Primavera
e che i cigni hanno pallori di cera
nell’intravedere il tuo vago dolore!
Principio di ottobre 1919
La Mañana, Temuco, 25.10.1919.
Abbaglio
Come abbonda il dolore e come abbonda
tutta la stanchezza di quello che non esistere!
(Benché il pomeriggio sia tutto di rasi e di seta
gli alberi si addolorano sulla terra triste.)
Cantano gloriosamente gli uccelli divini
la gloriosa sonata della luce e l'amore:
ombreggiandosi tutte le curve della strada
si fingono illusioni di ombra e di colore.
Come abbonda il dolore! Filosofia
schietta dietro il manto di illusioni del giorno
che mente nel crepuscolo bugia di donna!
Gli alberi umili sulla terra triste.
Piangere eternamente tutto quello che non esiste
nell'istante ambiguo dell'essere o del non essere.
4 ottobre 1919
Nel paese incantato
EN EL PAÍS ENCANTADO. (Pagina 106.) Questo poema inaugura l'uso del verso eneasillabo in chiave di canzone, come anni più tardi "Lamento lento" ed altri madrigali di Residencia.
La vita si fa pompa di oro
e l'amore lirica canzone
che, soffice e soave, vibra come
mistici mieli di discorso.
Una voluta ed un sospiro
(divino miracolo di azzurro)
che si dissangua nell'ombroso
lago supremo di quiete.
I pomeriggi biondi come un lungo
bacio di impegno generoso.
(Sangue di luce nella stanchezza
di seta santa delle rose.)
4 ottobre 1919
Il pomeriggio idealizzato
Dorme nei tuoi occhi tutta la notte illusa
con l'aroma soave della luna addormentata,
l'amore ha ritmi di discorsi alati
santificando tutti i pianti della vita.
Ingenuità serena del pomeriggio fragrante,
il cuore ci vibra con battiti più forti:
molto, molto più vicino sentiamo la cosa distante
ed alle sue proprietà sterili si ritira la morte.
Ieri era la vita molto più amareggiata,
ogni pianto era inutile nel dolore ed ogni
amarezza ci faceva battere il cuore.
E - amata! - per la rotta sempre di più illusoria
questo pomeriggio nella cosa sterile ha un canto di gloria
e nei miei ideali profumo di discorso.
5 ottobre 1919
Pienezza dolorante
Tutto il pianto non pianto delle cose
in tutte le spine delle rose
e nella fragranza umile del fiore
che non trovò la forte quiete della bellezza
e che pianse le sue lacrime alla Natura
come un canto pio che si troncò in dolore.
Tutte le emozioni nella rotta spiacente,
tutte le cose buone che rimasero perdute
come si perde ogni profumo di canzone.
Canto triste e silenzioso. Pallore di elegia.
Il vento porta amara nostalgia di allegria
e si oscura la dolce fontana di illusione.
7 ottobre 1919
[Canto di gloria è questo sole nella vita buona]
Canto di gloria è questo sole nella vita buona
come la pietà dolce della luna serena
nelle notti cantanti della nostra chiarezza,
canto che infiamma tutti i nostri abbagli
con la seta stregata degli incantesimi
che presero le lampade di piena solitudine
un pomeriggio in cui tutto rimase in armonia
e si fecero canzoni tutte le allegrie
e le spaccature aromi di donna.
Magari se nel canto della vita armoniosa
arrivasse in un altro tempo, sole e luna pia
che l'incantesimo dolente vibri come un'altra volta...
8 ottobre 1919
Donna dei miei primi sogni
Oh donna che nella mia rotta col mio dolore ti uguagli
in questo amore strano che si formò vibrando
quella pena vecchia che mi ruppe le ali
e che mise spiacenti rose nel mio canto!
Io ti ho portato tutta la mia vita fatta di singhiozzi
nella mia stanchezza sanguini del mio vano volere,
in questo unico qualcosa che diventò doloroso
per la leggenda inutile della tua voce di donna.
Sempre, sempre nella vita come una sorella triste
a chi non ho parlato mai ma che so che esiste
per questo amore strano che si troncò in dolore.
Per queste rose tristi del mio canto dolente
e perché mi aromatizzasti con aromi del nido
di tutti i miei dolori e di questo strano amore.
12 ottobre 1919
La preghiera dolente
Illusione... (Se il mio canto dissanguò le mie ferite
e se il mio pianto tiepido non spense il mio dolore
era per l'usura dell'illusione caduta
quando io la credevo luce ed aroma di fiore.)
E questa illusione, amata, viene nella Primavera
profuma i miei dolori con la sua soave venuta
e rivive l'incantesimo delle prime ore
in cui fosti il miracolo che si accese nella mia vita.
Per sempre oh! amata dei miei primi pianti
amata che trasognasti di nebbia il mio sentiero
e che gettasti il sogno della tua profumazione
nella rotta illusoria del mio idealismo.
Amata, vidi nei tuoi occhi le buone chiarezze,
amata, non rompere la mia divina illusione.
Ottobre 1919
Odio
Questa città plumbea che mi avvolge totalmente
spaccatura che fa dolore la mia solitudine
che mi dà il sorso amaro
di rimanere nella vita senza amore né bontà.
Perché tutti i pomeriggi si fa crisi la vita
si fanno stanchezze profonde le tristezze addormentate
e solamente vibra la corda del dolore:
città plumbea e triste che lacera miei buoni
entusiasmi umili con cui i miei occhi pieni
di tedio agonizzarono in un duro chiarore,
città grigia e monotona abbasso le mie delusioni,
sotto la pioggia torbida dei miei primi pianti
nelle desolazioni della prima rotta.
Città che sotto il canto dall'azzurra primavera
è ostile e stanca come un giorno chiunque
coi suoi uomini che piatti di spirito hanno lasciato
che si dissangui tutta la mia pianura illusa.
11 ottobre 1919
Vecchia primavera
VIEJA PRIMAVERA. (Pagine 110-111.) Particolarmente rozza la lettura di questo sonetto in CDT. Per incompetenza filologica (ignorando per esempio le possibilità di distribuzione delle rime del sonetto) Farías non riesce a risolvere i problemi generati da probabili difetti nelle fotocopie utilizzate o propone più o meno "risoluzioni" grottesche. vv. 6 e 7: CDT omette le parole finali di questi versi, rispettivamente amor ed allega, dichiarandoli "illeggibili." Verso 9: CDT porta " Y este amor insepulto que vibró en humareda (E questo amore insepolto che vibrò in fumata)", dove il termine humareda è semplicemente un'invenzione di Farías, abbastanza ridicola oltre ad irresponsabile, per sostituire il termine originale del manoscritto che è harmonía, sicuramente poco leggibile nella fotocopia. A mio avviso, la "h" iniziale con cui Neftalí normalmente scriveva armonía, ed i suoi derivati, depistò Farías e lo condusse alla sua comica humareda. Alla fine del v. 11, un'altra invenzione di CDT: " sería un brote de vida (sarebbe un germoglio di vita)" invece di " sería un brote más (sarebbe un germoglio più)" che porta il manoscritto. Evidentemente Farías ignora qualcosa di elementare: che la rima GGF del secondo terzetto (Primavera - primera - llegar) presuppone EEF nel primo terzetto (harmonía- días - más), per cui il suo tentativo di rimane scoperto.
Questo amore insepolto te l'offro di nuovo
come l'ultimo petalo della mia buona illusione.
La primavera vibra con mormorii di baci,
piroetta e si nasconde dentro il cuore.
Se tu vuoi verrà la mia fresca primavera
trasognerà di fiori questo insepolto amore
e davanti all'allegro incendio non sentirò che arriva
bensì per il profumo di questa vecchia canzone.
E questo amore insepolto che vibrò in armonia
con l'incantesimo dei miei migliori giorni
tra la primavera sarebbe un germoglio in più.
E nella diceria di baci della nostra primavera
fiorirebbe il canto della prima illusione
quando appena sognava che potresti arrivare.
Ottobre 1919
Musica diabolica
MÚSICA DIABLESA. (Pagine 111-112.) Titolo: CDT porta diablesca, probabilmente per disattenzione. Di nuovo gli enasillabi in chiave di canzone.
Proprietà azzurre e lontane
in che tu vivi regina azzurra
regina nel soave e nel forte
nell'aroma della morte
e nel profilo dell'inquietudine.
Proprietà profondamente arcane.
(La vita si disfa e
rimane cantando largamente.)
Vieni,
regina che non devo conoscere.
Perché sei bianca e perché esisti
devi venire. La terra triste
ti chiama buona ed ingenua
ed i falò della vita
scoppiettano cose andate,
crocifisse, dolorose.
Regina verginale, vieni, vieni,
per il sentiero ti ho chiamata
col mio dolore e non sei arrivata
dalle tue azzurre proprietà. Vieni.
Ottobre 1919
La stessa cosa
LO MISMO. (Pagina 112.) Alla fine del v. 5 CDT porta "... que conversan a / risotadas...", tentando con "a" risolvere un altro probabile difetto di fotocopia. La soluzione di CDT non è proponibile nel contesto di un poema completamente scritto in rigorosi alessandrini (ognuno di essi rigorosamente diviso in emistichi 7 + 7 come si vede nel simile v. 13: " Por las calles enormes, desoladas y sin").
Per queste strade tristi in questo imbrunire
portando a spasso la mia stanchezza di ragazzino precoce,
un'opinione nelle labbra, negli occhi ed nel
ricordo il ritratto della sterile visione...
... Le strade. Due ragazzi che conversano e danno
sghignazzate a costo di vuotare il piacere
fittizio del ridicolo che possono trovare
nei visi, gli uomini e tutto quello che vedono.
Ed in questa città di odi camminare, e camminare, e camminare,
cullare più gli odi dentro il cuore,
approfondire questa ferita che sanguina sempre ugualmente
come un fiore strano che si fuse in dolore...
Per le strade enormi, desolate e senza
quell'incantesimo che si perse nel Male
e la macchia malaticcia di questo eterno sentire
nelle labbra e dentro agli occhi... Camminare...
31 ottobre 1919
Ti persi già
Ti persi già, donna. Nel cammino
mi prendesti una lampada fragrante,
allora si aromatizzarono e diventarono divini
tutte queste stanchezze umili e costanti.
Non so se appena eri una leggenda o eri
un fiume che affluiva per ogni dolore
ma se fu leggenda per la mia primavera
fiorirono aromi dentro la mia canzone.
Facesti un semenzaio di illusioni
che visse ingenuamente nella mia tristezza.
Lentamente. Fu il succo di rancori
cacciati sul manto dell'illusione ingenua.
Nella mia torre di odi avesti una finestra
(un vetro illuso, trasparente e gentile).
Si rovinò già. È inutile che ti chiami la mia amata
perché, donna, in una nerezza) ti persi.
Novembre 1919
Mai
Si farà notte la mia vita perché non sentii la tua voce
nella tortura del più aspro dubbio
ed io che sognai il sacro poema dell'amore
avrò nelle mie labbra tristi una smorfia nuda.
La Primavera si farà frantumi. Mai
canterò nel silenzio la mia divina canzone
... Mai... e come un nodo vibrerà la mia dolcezza
per i venti feriti della mia desolazione.
23 ottobre 1919
Fuoco morto
In alto, nella rotta, col canto vuoto
spuntando nelle labbra, perforazione in dolore
e le rose umili, spietate di freddo
per il fuoco spento di tutta l'emozione.
Ed i giorni, i giorni, filtratori nascosti
del velenoso aroma gestore di sonnolenze.
(Davanti alla strada lunga del dolore insepolto
il rimare multifoglio dell'amore si tace.)
Fuso l'oro triste rimaniamo deserti,
c'illuminano appena i vecchi fuochi morti,
si disfano, stanche, le rose di emozione.
E il ragno condensa le sue concave tele,
consunte, umili voci dei dispiaceri
che si addolorano in una pienezza di dolore.
5 novembre 1919
Dolore
Bere l'acqua dell'ora crudele
andare nella sottomissione dei sentieri
oltre ai sacrilegi del dolore.
E nient'altro. Dentro all'abisso
affondare, affondare, affondare lentamente
perforando il tessuto della carne.
(Io non la potei vedere
dentro alla mia vita,
girarono i crepuscoli enormi
in un legame di giuramenti.)
E nelle complessità dello spirito,
ci furono sole forte, soave e armonioso
che girava e girava.
(... Andare nella sottomissione dei sentieri
e non poterla vedere oltre a quel prisma
oscuro...)
Quel "noi" mi rimase inchiodato
profondo ed eternamente oscuro.
6 novembre 1919
La cosa sterile
Dentro alla mia vita continuo a gettare il mio sogno
in pioggerelline sottili d’amore e di veleno.
Mi fecondò l'abisso, si disfece il mio incantesimo
e nel dolore mi rimane dolorante il pensare.
(Era un canto addormentato
in seta triste e soffice,
si addormentò nello sterile squarcio dei venti
e la vita, fatti frantumi come un albero deserto
rimase.)
Oh! Dolgono, dolgono e dolgono i dolori umili!
8 novembre 1919
Stanchezza [2]
Una carezza di lampo luminoso
che si perse nella volta del vuoto
io volli cercare e graffiai invano
il brivido dell'ombra.
I miei cieli furono amabilmente azzurri
ed i miei marmi duri, morbidamente bianchi
nel minuto delle Trasformazioni
e del cantare annunciatore venuto.
E germogliò l'albero nel canto muto
che avevamo morso sterilmente.
Tutto il soavemente buono arrivò.
Ma si aprì la piaga delle labbra ferite
agitarono le ali gli uccelli velenosi
ed un'altra volta, come prima, sconsolatamente
unii le ripiegature del dolore in me stesso.
6 novembre 1919
La sinfonia nebbiosa
Sali crepuscolari amaramente pieni
di questi dolori profondi che rimangono dentro
infecondi ed ardenti come la terra secca.
Spremono le spiacenti fiammate del grido
germogliano le acque rozze dell'infecondità
dentro le caverne del nostro parossismo.
E sentiamo il soffio della morte che arriva,
spaventati parliamo verso l'eternità
e rimaniamo gettati sulla terra secca.
Sapore di piaga o profondo splendore di infinito
bagniamo le nostre labbra nella terra infeconda
e guardiamo l'alveo di dolore dell'abisso.
Magari...! Non vibra il soffio delle cose che furono
gestazione di allegria sulla terra triste
ed umiltà di carezze nei dolori buoni.
Ma nello spasmodico scuotere della vita
in stanchezze ed in vaghe trame di disgusto
vibrano, uccelli ciechi, le parole sottomesse.
(Nel sangue stanca luce ferma di inquietudine,
oro santo di nobili stanchezze che passarono,
i giorni raccolti
nelle nostre mani albe
santificate per Nostro Signore,
quello delle foglie e quello dei momenti
che non ebbero la profondità di dimenticanza
e che crocifissero in dolore.
Nostro Signore dolore,
per tutti i minuti
e per le acque rozze dell'infecondità,
Signore, Signore, Signore.)
La rotta è una piaga dolorosa. Proseguiamo.
Ha voci dorate il disamore del Male,
e l'infinito lancia lo spremuto discorso.
11 novembre 1919
Le trasparenze crudeli
LAS TRANSPARENCIAS CRUELES. (Pagina 118.) Dietro questo sonetto mancavano nel manoscritto (quaderno 2) i due fogli centrali del libretto corrispondente che forse si staccarono col tempo e si persero. Quei due fogli significavano quattro pagine che presumibilmente portavano un paio di poemi brevi ed il principio, perso, del poema "[ Me bañé en las lumínicas aguas de tu mirada (mi lavai nelle luminose acque del tuo sguardo)]" che riproduco di seguito secondo lo stato del quaderno 2 in 1965.
In un tremore di vita ed in un cerchio a lutto
vedere girare i momenti allucinatamente
e seguire e seguire con gli occhi chiusi
lacerando la crepa della ferita dolente.
Ma si polverizzano lentamente i crudeli
fumi sacrificanti del dolore e della vita
cadono languidamente sulle mani fedeli
ed aromatizzano la stanchezza con aroma suicida.
Guardare... Nella cosa infinita la luce si fece montagna
e chiudiamo gli occhi perché tessé il ragno
della stanchezza l'usura del suo tessuto fatale,
e nella notte temuta, oltre al cerchio a lutto
guardiamo come girano i momenti ricurvi
nella sacrificante carovana spettrale.
15 novembre 1919
[Mi lavai nelle luminose acque del tuo sguardo]
[ME BAÑÉ EN LAS LUMÍNICAS AGUAS DE TU MIRADA] (Pagine 118-119.) In CDT il v. 17 è: " aquellas manos albas me negaron su álbum", dove per evitarsi tanto penoso álbum bastava mettere attenzione alla rima: " aquellas manos albas me negaron su albura (bianchezza)", rimando a amargura e dura dei versi prossimi. Inoltre, nel fine del v. 2 il manoscritto porta "hondura (profondità)" (CDT) "honduras (profondo)".
Mi lavai nelle luminose acque del tuo sguardo
e pessimisticamente ti guardai con profondità.
Rimaneva un'amarezza
una cosa silenziosa
come un camminare sordo lentamente abitato.
Una cosa dolente
sorda come una dimenticanza
qualcosa che affonderebbe nei mari nascosti,
che avrebbe la spiacente richiesta della semenza
rimanendo nei fianchi del ciottolo insepolto.
Era un'ombra oscura,
qualcosa che si allungava
per i sentieri più duri,
qualcosa che si rannuvolava
agitando le ali nere dell'amarezza...
Si fece tutto sanguinanti fioriture mozze,
quelle mani albe mi negarono la loro bianchezza
e l'ombra allungata
coprì coi suoi fatali segni il sentiero duro.
Quello tu lo sapesti,
aveva in tutta la tua anima le mie profondità amare
e quell'ombra triste
ti aveva coperto già con la sua nebbia più lunga...
Ora che andasti via,
ora che mi gettasti
polvere di dimenticanza per la mia rotta triste
e che nella desolazione
fosti come una nuvola amara e più amara,
perché guardava il cielo
perché guardava la profondità palpitare delle ore
come dietro un velo
in che tu mi guardavi lenta e desolante,
ora,
può essere che non passi sconsolatamente,
che non perfori la grotta della mia ombra totale,
che sia un bianco sogno dell'assente
nell'abisso pieno di dolore e di male.
Perché poiché avesti la stele dolorante
sarai tristezza santamente vissuta
e nel mio bicchiere stanco, poco più di emozione,
dentro la desolazione fermamente chiusa
(sentirai il mio pianto essere un pianto strillato
che fluisce ed è buono come un discorso...)
20 novembre 1919
Grazie [I]
Questo filo invisibile dovrà abbandonarmi
e lasciarmi il dolore dei miei vani sensi,
questo filo invisibile dovrà abbandonarmi
oltre ai possessi della stanchezza vissuta.
Questo filo invisibile che mi lega alle cose
più umili, che mi fa battere il cuore
quando colla sua trama che mi lega alle cose
mette un alito amico dentro l'emozione.
Sentirò che sei andato via, povero piccolo filo dorato,
non sentirò già mai l'umiltà generosa
con che entri le mie stanchezze, povero piccolo filo dorato,
fecondavi le mie lunghe inquietudini torbide.
Povera trama buona! Fedele amico vicino!
Unico che nella mia vita tesse un laccio d’amore
con le cose umili, coi fumi lontani
e con queste sottili ansie del mio dolore.
Circa, 20-25.11.1919
Revista Cultural, núm. 2, Valdivia, maggio 1920, sotto il
titolo "El poema de gracias".
Queste crepe enormi...
Queste crepe enormi dell'impossibile, queste
trasmutazioni profonde per la cosa ignorata
quando nella trasparenza delle ore che rimangono
suonano le sferzate di quello che non è venuto.
E scalare, scalare (le ginocchia sanguinanti
e le mani ferite) per quello che non verrà
e tra il polverone di roseti inutili
vedere affondare la rotta del Dolore e del Male.
Ma seguire... ragni delle crepe più tristi
con le mani ferite facendosi umili
e continuare, e continuare per mai ritornare...
E nel miracolo lungo della strada infinita
piangere pianti umani per quello che non è venuto,
per quello che fatalmente non potremo vincere.
25 novembre 1919
[Come fanno male le note dei piani!]
[CÓMO DUELEN LAS NOTAS DE LOS PIANOS!] (Pagine 121-122.) CDT trascrive così il v. 11: " alargando las hondas sierras de la amargura (allungando le profonde catene montuose dell'amarezza)". È chiaro che le aggettivali hondas va molto meglio coi sostantivo simas del manoscritto. E che il verbo brotara del manoscritto sembra più adeguato del verbo botara di CDT nell'ultimo verso.
Come fanno male le note dei piani!
Amata
hai messo un male di pena sul mio cuore,
prima aveva una malinconia soffice
che fioriva in rose di sconsolatezza.
Ma ora - oh amata! - mi hai dato questo veleno
che sotterraneamente mina i miei entusiasmi,
continua a gettare pietre tristi per le mie strade cieche
e quando chiedo rose piene mi dà spasmi.
Male di pena tagliente sulla vita troncata!
Queste eterne ansie di sentirmi allontanare
allungando i profondi precipizi dell'amarezza
nelle rocce, misteri della fatalità.
Oh! Dovresti essere rose fatte miracolo,
dovresti essere acqua di divina bontà,
e dovresti andare fino a tutti i piani,
dir loro che non facciano male alla mia solitudine!
E dovresti andare alla vita insepolta,
e togliermi queste ansie sterili, ed essere
vapore di soavità, pienezza di dolcezza
altrimenti io non potrei ritornare.
E questo male che mi hai messo sul mio petto triste
questo dissanguamento fuori della mia illusione,
magari si facesse pioggia aromatizzata e ferma
e germogliasse un altro prisma per il tuo cuore...
26 novembre 1919
Pioggia lenta
LLUVIA LENTA. (Pagine 122-123.) Neftalí prova una nuova canzone in eneasillabi. Entra in scena un personaggio chiave: la pioggia, sebbene ancora in un contesto poetico convenzionale. Neftalí avanza verso il suo.
Non deve venire perché la attendi,
non deve venire! Non deve venire!
Dovrai essere tutto promesse
illuse, fino al fine...
Pioggia di vita pietosa
sopra ai nostri sensi,
ansia di bersi le rose,
e non è venuto. Non è venuto!
(Come si inzuppano le divine regioni delle mie cose.)
Sarai fuoco sacro: un semenzaio di allegrie!
Pioggia, stanchezza pietosa,
mi farai di nuovo il cuore?
Farai che sanguinino le mie opinioni
dietro la mia rottura di illusione?
Illuse e lontane
vibrano i pomeriggi, fino al fine.
Non deve venire perché la attendi.
Non deve venire! Non deve venire!
30 novembre 1919
[Aroma ingenuo e bianco di queste rose più bianche]
Aroma ingenuo e bianco di queste rose più bianche,
devo salire la cima che non posso salire
e devo prendere le rose migliori e più sacre
e devo bruciarle nell'altare del futuro,
e devo gridare scavate le tempie in me
per queste rose bianche del mio migliore altare
e spremendo la stanchezza col mio sangue fatto dimenticanza
mi vedrò desolatamente solo nel Male.
Poi... fili incrociati dell'angoscia. La vita
consumando il sangue fresco delle ferite
riassumendo le ansie in un solo dolore,
oh! buon aroma semplice di queste ingenue rose
amare in un minuto la bontà delle cose
ed in una stanchezza inutile sperare di essere migliore.
1 dicembre 1919
[Salmo di ricordi]
Salmo di ricordi,
pienezza di dolori di allegrie o
dell'infinita tortura delle meditazioni.
Salmo della vita invisibile
(tutte le cose rare, tutte le cose tristi
che si dissanguano sopra al nostro cuore):
per tutta l'emozione,
e per questo luminoso sentiero della nostra luce
fa' che il salmo ci arda come una canzone,
fa' che sia silenziosa fioritura di quiete
e che il suo aroma sia la nostra profumazione.
Salmo di ricordi.
Salmo della vita triste
estendi i telai delle purificazioni
su nostri umili
stanchezze nostalgiche, luce, dolore o dolori.
E sarai l'unica, l’aromatizzata canzone,
salmo della vita invisibile,
bicchiere per ogni emozione.
1 dicembre 1919
[Porterò sempre per tutte le mie emozioni]
Porterò per sempre tutte le mie emozioni
tra gli infecondi dolori paralleli,
queste stesse essenze del mio torture
infossate nel fango, sotto gli stessi cieli.
Domani ricordare,
polvere triste e cenere dolorosa, le stesse
strade abissali verso l'eternità
con cui vibrò la tunica dei sette miraggi.
E sarò come il lungo singhiozzare della morte
fuso nel ritmo delle immensità,
distaccato nel bacio più sereno e più forte
con la quiete aperta per le mie solitudini.
Oro unico e buono! Sacra quiete eterna.
Non devo trascinare cambiati i miei desideri finali
e porterò il mio carico di emozioni malate
per questa stessa rotta di stanchezze uguali...
2 dicembre 1919
[Oh! tocchi dei violini nel pomeriggio morente]
Oh!
tocchi dei violini nel pomeriggio morente
i nostri cordami intimi, vibratori in lui.
Nei baci spasmi gelati della morte
mandarci a rotoli come un bicchiere di fiele.
Ed essere amari come la dura eternità
legarci i dubbi in un nodo di dolori
che ci esamini il profondo desiderio di bontà
tra la barriera di veleni.
Benché tutti i pomeriggi si profumino di vita
saremo anime di silenzi distanti,
venti aspri che riempiono nella pioggia suicida
i remoti cordami di violini stancanti.
6 dicembre 1919
Serata familiare
L'anima di Chopin nebbioso sulla vita volgare
tra le ragnatele di questi incantesimi
che portano, oro fatto sete, in pienezza di bontà,
e chiusi gli occhi per i divini sentieri
camminare, camminare.
(Continuare a presentire un'agonia
languidamente spirituale
sepolcri della melodia
malaticcia... il sentiero... e camminare
e camminare...)
Oh! Non come quello delle estranee canzoni
noi, anime semplici, continuare a rimare i suoni
della musica triste con la rotta interiore.
Oh! Non come quel mago pallido dalle pupille lontane
noi, anime semplici, ieri come domani
crudelmente illusi per sempre, Signore.
(L'anima di Chopin nebbioso, sulla vita volgare.
Oh! il sentiero senza stanchezze... e camminare... e camminare.
[Devo rovesciarmi in un poema]
Devo rovesciarmi in un poema
che sia un grido di vetro
infossato sopra alla malata
pioggia umiliante del mio male.
Le mie solitudini pietose
ed i miei battiti di emozione
tutto il cammino della mia vita
nel mio deserto di dolore,
tale una messa di stanchezze
pregata per il mio cuore.
(Questo poema l'ho portato per il sentiero
tra un battito di momenti fervorosi
e tra il sangue della pena
che getta i suoi alvei dolorosi.)
Rovesciarmi tutto in un poema
ed in lui vibrare, vibrare, vibrare,
con tutte questi voci piene
nate nella solitudine.
La mia aspra rotta desolata,
le mie litanie di sentire,
saranno la piaga profumata
che farà la strofa vibrante del vivere.
Ma questo bicchiere di impotenza
mi ha lacerato il cuore
mi ha contagiato in una malata
crisi di disorientamento.
(E dopo fare acque, disfarsi in tenerezza,
non mostrare mai a nessuno i grappoli del male
e tessere, come tutte le volte, l'amarezza
in un filo rotto in soavità.)
Profondo poema della mia vita
che non potrò mai scrivere
con questo sangue della mia ferita
con questo desiderio senza fine.
E solitudine, luce e dolore,
aspro carico di veleni,
devo accecarmi nell'emozione:
e devo essere solo, muto ed acceco?
13 dicembre 1919
[Poeta]
A Daniel de la Vega
Poeta,
non sapesti cantare la vita provinciale
tu non stesti dentro, tu non lasciasti piena
la tua anima di emozioni ardenti e sane.
Tu cantasti solamente guardando le tue altezze
e credesti trovarti con la vita più pura,
più semplice e migliore,
non pensasti a spasmi di strazianti pene
che vivono come fiori sanguinanti nella vita
che credesti un fagotto di emozioni serene
dove il dolore era forse una menzogna
e malata eccitazione verso la cosa artificiale.
Ma, Poeta, tu non vivesti nel male,
non trascinasti qualche carro di dolore per la rotta,
in queste solitudini non fosti solitudine,
qui non credesti che fosse una maga rozza
la vita nei sentieri della fatalità.
Non conoscesti l'aspro camminare degli uomini
che stanno nel veleno di questi crudeli angoli
e che sono un grappolo triste di cuori
stretti e soli.
Ognuno leccandosi la sua piaga dolorosa
e guardando stanchi come passano i matti
incensi profanati della vita tediosa,
ciascuno sforzandosi a vivere in se stesso,
ferendosi le mani per tagliare la marea
dei dolori profondi e dei fatalismi.
Ma tutti si stancano, si buttano via nella terra
sterile, e muoiono, muoiono e muoiono.
Carne sterile, umile congiunzione di fallimenti
sono una sola corda tesa nel dolore,
gettano più mieli verso i giorni che passarono
e pregano alla vita che li tratti meglio.
È inutile, passano lentamente i giorni,
si esauriscono, vanno via, ma sempre la vita
getta per gli uomini tensione di parossismi
e gridano, e muoiono... Saranno sempre gli stessi.
Così. Tosando al soffio di tutti i dolori
tutte le nascoste ebollizioni dell'essere
e sentendo l'enorme
dolore di vivere soli tra la gente e
nella vita tutta, intera.
(Dolore quello degli occhi, di non vedere dopo
dietro le stanchezze di questo mucchio di cellule
finite ed ansiose di rivivere più forti
pensando alle marce montagne della morte.)
Poeta, tu magari
non sapevi il carico di dolori infossati
Tra gli abissi pieni di solitudine.
Poeta,
tu volesti cantare semplicemente
le emozioni buone
ma tu non cercasti i sentieri ardenti
catturati dalle cinque lampade del dolore
e che diventano più duri in un aspro angolo.
Non sapesti cantare la vita provinciale,
non tutti sono sogni né dicerie di ali,
quello è superficiale:
qui vanno gli uomini già stanchi di camminare
e portando nelle labbra come un discorso
il fiele tremolante che gettò loro il dolore...
14 dicembre 1919
La visione semplice
Per questo nobile prato ti guardavo danzare,
oh Visione! Io credevo che non venissi mai.
Io credevo che l'oro del giorno ti andasse a dare
le lampade gloriose che illuminavano la sua tunica.
E tutte le estranee virtù del suo ventre
affinché facessero ritmi ai tuoi seni tremanti
e gettassero boccate di fumate ardenti
al leggendario suono delle tue voci vibranti.
Ma tutto tremava perché eri venuto:
la terra era un bottone cieco di tempesta.
Le nuvole si arrendevano in un brivido!
Finché quel nobile prato sentì la sua solitudine!
Io ero l'unico uomo, ubriaco di dolcezza
vibrai nell'insensibile concerto delle cose,
ebbi il tremore di quelle inestinguibili cellule
in cui tu eri il semplice miracolo di una dea.
Oh Visione, poiché non verrai mai più alla mia vita
perché la terra cieca ti dovrebbe portare,
fa' che mi faccia una fonte di miracoli, una semplice
vibrazione di cellule per la tua eternità.
Dorami per sempre col tuo fuoco illusorio
col filo semplice della tua canzone
affinché quando muova le labbra nella tua ricerca
si dissolvano le mie braccia perché tu eri l'unica
che fu per le mie labbra solo un discorso...
17 dicembre 1919
Nella mia notte calda
Forse perché camminiamo maldicenti
farò germogliare la pioggia del mio dolore finale,
nel torvo miracolo della mia notte calda
o in questa stessa solitudine!
Domani per il torbido dolore del mio silenzio
magari se sarò cieco degli stessi cilici...
Una piaga, due labbra che gli uomini non videro:
tutta sarà una nera lampada di supplizio.
(Era, il mio cuore, troppo ragazzino
e spremevano le quattro pareti del mio petto
i ritmi non toccati del tuo battere semplice.)
Col viso inondato dal soffio più duro
taglierò gli inutili fiumi della mia pietà.
Allora verranno venti lancinanti ed oscuri,
io sarò un miracoloso vibrare di eternità.
Domani, ma sempre per la mia notte calda
questa lampada nera della mia piaga finale
in tutte le strade ostili e mordenti
dove vadano i miei occhi deserti di bontà.
... Ed attraversate le braccia nel torbido momento
sentirò come scendono le linfe dal dolore,
passerà per il mio corpo
il tremore di una pioggia cagliata di emozione.
La terra sarà un seno tremante di infinito
infossata nel sopore dell'incantesimo nascente...
(Eri, il mio cuore, troppo ragazzino
nel torvo miracolo della mia notte calda,
26 dicembre 1919
Sonata del disorientamento
(Il 16 dicembre in ore di stanchezza)
SONATA DE LA DESORIENTACIÓN. (Pagine 132-135.) Strofa 4, v. 3, in CDT Farías legge: " dejó plenas las crácaras copas de mi deseo". Incredibile. Passi che la fotocopia non era chiara, ma mi domando come possa immaginarsi almeno in Neruda (aai 15 o i 65 anni di età) una parolaccia del tipo crácaras come aggettivo a copas (bicchieri). Ammetto come attenuante che in quel punto il manoscritto non era facilmente decifrabile perché credo di ricordare che rifiutai perfino il termine affine cráteras perché non era utilizzabile come aggettivo e per incompatibilità semantico-poetica, (cratera o crátera: "Stoviglia grande e larga dove si mischiava il vino con acqua prima di servirlo in bicchieri durante i pranzi in Grecia ed a Roma", DRAE). e Neftalí era meticoloso in queste cose. , La mia lettura del manoscritto è perfino ovvia: cóncavas copas (concavi bicchieri).
I
A me la vita non ha messo mi triste:
solo sono stato me stesso,
io ho vissuto la profondità del mio orgoglio impossibile,
io ho scaldato la profondità del mio oscuro supplizio.
Ed io stesso ho tessuto
tutti questi telai velenosi ed amari
per dove continuo a filtrare il mio dolore di essere vivo
sopra al mucchio delle mie aspre stanchezze.
Io non so in che lontano trasmutazione malata
diedero per le mie braccia questi profondi dolori,
io non so se sono fango di una addolorata terra
che in carnali desideri incantò i suoi angoli,
io non so che veleno
di fatalismi sordi si rovesciò dietro la mia rotta,
lasciò pieni i concavi bicchieri del mio desiderio
con emozioni rare che non ho sentito mai.
Forse in qualche lago di fiele caliginoso
fecero passare uno alla volta i miei sensi
e mi piovvero tedio per tutte le ore
perfino per il secondo più umile e più mio!
E forse per sempre! Lasciare tutte le mie ansie
in moncherini sanguinanti, morbosamente tristi.
E per la rotta lunga
invece di quell'orgoglio essere come un cane umile.
Così, insensibilmente continuo a fare più larga
la ferita nella profondità del mio orgoglio impossibile.
Devo crocifiggermi per tutte le mie ansie
infossato nella stanchezza della rotta più triste!
II
Nel sentiero aspro il mio dolore è un punto
disperatamente tagliato in solitudine.
Io non dovetti agli uomini essere stato solo
incendiato da lente unzioni di malvagità.
Nel vivere di tutto il mio sangue pietoso
né spremuto la malata promessa della mia sete.
(Tutto il battere rotondo della mia vita nebbiosa
allagato nella sfera di un torrente di miele.)
Mentre arriva, andiamo. Porto stanchezza, ma
nelle membra stanche porto la mia vita piena.
Forse in qualche giorno solo saprò essere preghiera
per gli uomini, per gli uccelli, per la terra.
E se no, essere aroma sgretolato di infinito
concretato a questo punto tagliato in solitudine.
(Forse non verrà nessuno per il mia stanchezza
e sarò solo un torbido squarcio di malvagità!)
III
Senza sete, senza nessuna fame di allegria
bevo nelle sorgenti ringrinzite del dolore.
Io non ho bevuto mai quello che chiesi alla Vita
perché mi ubriacarono i succhi che mi diede.
E come il corvo quello di torturanti ali
bevo nella fonte nera di un fatalismo idiota:
se non potei bere di rugiada acqua chiara
devo sperare bocconi che venga qualche cosa...
Qualche cosa sana che mi riempia qualche giorno
e che copra la profondità della mia fonte addolorata.
Poiché non ho sete, né fame di allegria,
berrò trucemente i rastrelli della vita.
Lacererò gli spicchi della mia quiete malata
per diventare un riposo dove vivermi suolo
e senza piagare il mio corpo
liquiderò le mie cellule in un torrente di odio.
Perché? Perché? Se nei miei chiari desideri
lasciai sciolta la tunica della mia vita serena.
E perché questi desideri di vedere quello che non vedo,
di buttar via alla terra le mie illusioni buone.
Allora non fui buono?
In quali trame complesse si avvelenò la mia vita?
Perché asciugarono tutto il latte dei seni
materni e rimaniamo rigidi aspri e pieni
di tenerezze disfatte in una sola ferita?
E tutti, tutti, tutti. Domani, ieri. Magari
se sulla testa degli uomini piovvero
i succhi raggrinziti della stanchezza e del male,
e magari se vollero
che fossimo un frutto nero di solitudine
un gregge di carne pensante e dolorosa
e forse nient'altro...
Tutte, tutte le buone ed non incontrate rose
se le devono portare. Se le devono portare!
Tutti continuare trucemente a maledire le cose,
se le devono portare. Se le devono portare!
... Un gregge spremuto di dolore e stanchezza,
e forse nient'altro!...
La voce desolata
I
Non potrò oramai non amare mai, non potrò oramai non amare mai,
tutti i ghiacci brutti si inchiodarono in me,
per quel motivo devo rimanere e devo vivere solo
guardando le ferite rosa del futuro.
Io che non sono stato brace per il braciere sacro
sarò un nodo di carne silenziosa
magari un filo torbido, ma fragile e buono,
teso tra le piaghe della notte nebbiosa.
Ma gettai la fragranza di tutte le mie bontà,
di tutta l'ansia ferma delle mie voci prime
e dopo nella terra aspra di solitudini
vibrai nel canto buono
di voler fare cellule di nuove primavere.
Non potrò oramai non amare mai,
disfai già il mucchio delle mie suppliche scaldate
e sciolsi già le vergine linfe della mia dolcezza
affinché aprissero alvei profondi e desolati.
II
Amore, se non mi fu lontano
niente degli ardenti sonni della mia tenerezza,
se incendiasti la mia vita con la tua fiamma più triste,
per che motivo mi lasciasti
le mie mani infantili asciutte e nude?
Io congelai la profondità serena della mia fonte
(quella delle acque vergine, umili e pie)
per irrigare il sangue delle mie vene ardenti,
infossate nel chiaro veleno delle tue rose.
Io, quello dalle mani semplici,
aspettai la tua leggenda rosata ed ardente
e strinsi i piccoli desideri infantili
affinché alzassi le tue ali odorose.
Ed affinché passassi
dovetti essere tutto questo che tu sai ora.
(Continuare ad ammazzare nella mia vita le illusioni chiare
e sentire che erano lente ed inutili le ore.)
Ora, amore, ora
tu sai che sono solo un fagotto di dubbi
e perché lo volesti
porto aperte le mie mani candide e nude.
E, Amore, benché lo voglia
benché vibrino i versi di tutte le tue dolcezze,
benché le tue voci cantino le canzoni più pure,
con la mia voce desolata ti dirò sempre
non potrò oramai non amare mai,
non potrò oramai non amare mai!
[Una luce irreale mi illumina durante il tragitto]
Una luce irreale mi illumina durante il tragitto
e copre i miei dolori e le mie contentezze con
il raro sortilegio del suo manto divino.
È come un'illusione
inaspettatamente serena e benevola,
succo soave e strano per ogni dolore
che fa che si maturino irrealmente miei buoni
sogni. Rimangono come le ragnatele
le dimenticanze che hanno acredine di veleni.
... E la luce viene lenta, viene lenta e mi lava
nel suo languido crepuscolo sereno
di rose luminose irrealmente strane.
Novembre 1919
I tre moschettieri
Nella valorosa leggenda di quei moschettieri
noi traducemmo un poema gentile,
oro e sangue, il sangue dei sogni primi
un po' doloroso ed un altro poco infantile.
Ma benché io fossi già carico di veleni
aspettavo quel vecchio racconto dell'ottimismo.
Mi accontentai pensando che voi erano buoni,
che mi getterebbero mieli dentro all'abisso.
E così fu: ebbi un vago rinascere di allegria,
trovai più umili e più soavi i giorni
e trovai alcuni bontà per il mio cuore.
Per quel motivo in questa ora nostalgica e ferita
ho riempito di grazie la profondità della mia vita
e ho chiesto che mai li maltratti il dolore.
20 dicembre 1919
Gli alberi [I]
I
GLI ALBERI DIRITTI
Si alzano soli, aspri nel silenzio. Vivono
nelle serene ansie delle loro rinnovazioni,
sono come le campane di una dolcezza triste
denudate in una chiusura di dolori.
Nell'autunno vivono sereni e fiduciosi
addormentando l'oro delle loro foglie ultime
e sperando, sperando che ritornino dal passato
i sussulti di qualche primavera.
E così sono... Vivono... Alzano in quieti estatiche
le dita trapanate del ramo più forte
e si fanno un miracolo di dolcezza e silenzio
affinché quando venga non li porti la morte.
II
PAUSA SONORA
Acque, divine acque, che nel torbido silenzio
fate vibrare le chiare campane dell'amore,
è rimasto taciuto come un uccello il vento
sentendo questa magia profana fatta discorso.
(Io non so se il fragrante battere di Primavera
che ha inondato le acque allegre e cantanti
portò la preghiera ignorata delle acque parlatrici
che inumidiscono di paura gli alberi distanti.)
(La strada deserta,
ed acque, divine acque immergendosi in lui.)
E come pesa il profondo battito del silenzio,
acque, divine acque, su quello che andò via.
Sono un chiaro di luna rovesciato in armonie
queste acque in mezzo agli alberi muti
e sentiamo, tremolante la carne di allegria,
il battere innocente del cuore nudo.
III
GLI ASSETATI
Li rispettò l'inverno quando passò. Rimasero
in un solo mucchio doloroso e vinto.
Sono uno che riassume autunni che passarono
ed asciugarono i germogli che non erano nati.
Ed il sangue, la linfa che fu potenza ferma
quando li allagavano i suoi fiumi di dolcezza,
è una fonte morta per tutto l'umile
cordame dei tronchi sulla terra dura.
Le radici frugano. Sono stanche, hanno
ansie, strane ansie di salire all'altezza,
hanno aspettato tante primavere che vengono
ma che sono il prologo nero dell'amarezza.
E le dita umili si sono strappate invano,
gli anelli febbrili della sete arriveranno
ed affondano nelle marce viscere del pantano
tutta la disgregante sensazione del suo male.
Ed un'altra volta, niente, niente. Sconsolatamente
l'autunno disfa le buone foglie appassite
e mentre le spreme la sete stancamente
vibrano nello spasmo supremo dell'angoscia.
IV
PAUSA SILENZIOSA
Una voce di donna che nella notte vibrava
si dissolse nel vento saturo di amore,
gli alberi parlarono delle cose lontane
e gli uccelli ebbri scorsero Dio.
... E niente, nient'altro. Fino a nel cielo
piovvero le ignote lacrime del silenzio.
V
I ROSETI DI LA SOLITUDINE
1
Già si congelò il cuore degli uomini del mondo
e tu, roseto, stringi la tua solitudine umile,
fa vivere eterno e fa vibrare profondo
come un solco nel piano dei minuti grigi.
E viziati gli uomini, ti nutrirono i dubbi
strapparono la chiara canzone del tuo profumo,
e mentre tu mostravi i rami nudi
taceva il miracolo dei cieli azzurri.
2
Roseti, oh roseti di solitudine! Io credo
che questi buoni roseti saranno una semente,
una sacra semente che agiteranno i venti
sopra al gelato cuore della gente.
E quando nutrano questi roseti il seme
gli uomini saranno dolci grappoli di umiltà,
giardinieri cagliati di virtù semplici
che vanno nel cammino per l'eternità.
… E fioriranno rose immense e fiduciose
dei roseti della solitudine...
3
Roseto, roseto, un giorno si piacerà di baci
il complesso tesoro delle tue caste radici,
è che allora, roseto, fioriranno le ossa
di questi enormi giorni grigi.
E la tua carne fragrante
si disferà nella gloria potente dei giorni,
amerai la distanza
delle cose che furono serene di allegria.
Ma almeno allora nel tuo aroma divino
crepiterà la stanchezza di tutte le strade
ed in una fiamma nera di dolore ed allegria
roseto, roseto, farai che si perdano i giorni.
Apre il solco, trapana le viscere serene,
piove aroma di luna sulle anime buone,
che le tue radici siano una sola bontà
per gli uomini tutti, per la terra, per
le crepe raggrinzite delle vite più rare, roseto di solitudine.
1920
Il discorso nella notte
Senza luna e senza amore, come due orfani
si sono chiusi i miei occhi. È venuta
una scossa desolata,
qualcosa come un brivido.
Nella notte deserta e fragorosa
ho ricordato la profonda chiarezza della luna
che gettava la sua alba bianca su tutte le cose
con una soffice pena, quasi senza amarezza.
Ed in una febbre di suppliche umiliate
sono caduto bocconi sulla terra buona
e nei cieli azzurri per gli uomini stanchi
ho desiderato essere buono come una luna piena.
Ed agli uomini che soli vanno per la loro solitudine
scendere per dar loro tutta la chiarezza.
E che bevano che bevano dalla fonte serena
senza odio, senza stanchezza, senza dolore e senza pena.
1920
Solitudine
(Il pomeriggio è come un presentimento.)
Annodo le mie ferite disperatamente
in un torbido mucchio di sole, di acqua e di vento.
Vivo nella lentezza stanca della mia vita
ed affondo i miei denti giovani nelle mele tristi
del sogno annodato per tutte le mie ferite.
Maledizione di sentirsi straziatamente
solitario nel dubbio e nel dolore! Domani
si rovinerà il mio nodo di sole e vento ardente.
1920
[Ho bisogno di comprendermi]
[TENGO NECESIDAD DE COMPRENDERME.] (Página 144.) Quepe era un villaggio vicino a Temuco.
Ho bisogno di comprendermi,
di entrare in me come una nuvola chiara
in un cielo cagliato di eccessi di febbre.
E strappare nella mia anima
la quiete più umile, l'amore più semplice,
il cantare degli alberi, la passione delle acque.
Tutto come una gloria sensitiva e fragrante
che rovesciasse nell'ombra della mia vita dimenticata
il ritmo indimenticabile delle cose distanti,
l'oro sacro e buono
che gli uccelli sanno trovare nel fango.
In Quepe, 1920
Il silenzio
Apre il clamore del tuo peccato triste
e vive e vibra solo e lentamente.
Quando passano gli uccelli umili,
uomo sconsolato, devi abbassare la fronte.
Nella cima sonora
devi avere un gesto deciso e potente
che annodi la cagliata santità delle ore
nella pallida bianchezza delle tue mani ardenti.
Che nel nobile silenzio della tua vita penetrata
le parole non abbiano segni spiacenti
che in tutte le mattine,
uomo, tu solo sia il padrone della tua vita.
E come il lacerante lume di un incendio
sommerso nella montagna delle tue ore serene
fa che regni nella tua vita la canzone del silenzio
come un immenso discorso buono.
2 febbraio 1920
Nella finestra
Ieri, ieri non più, come un carico
era il mio cuore un ritmo buono.
E non passò un'amata,
non passò un canto gentile fiorito di sogno.
Non passò un'alba.
Non passarono gli uccelli gorgheggianti di luce.
Non passò niente, niente.
(Gli uomini tacevano. Io guardavo l'azzurro,
passò una nuvola bionda, ma mai ritornò.)
(A che mondo? A che mondo
andasti via, nuvola bionda, ingenua e codarda?)
Continuare a vivere, Signor! come un miracolo
addormentato nelle stanchezze del pomeriggio.
2 febbraio 1920
Se qualche giorno ritornassi
Amata, bionda amata dei miei giorni primi
sei andato via della mia vita senza che tu lo sapessi
e come venisti per i miei giorni buoni
farai tremare la mia primavera.
Amata, bionda amata che aspettò la mia stanchezza
fa già molto tempo che non posso sperare
da quando si intorbidarono i miei desideri più chiari
e da quando non posso camminare.
Se qualche giorno ritornassi, bionda amata perduta,
farò seta la stanchezza e ti sorriderò
ma sarai la piaga più profonda della mia vita
se alle mie disperazioni arrivassi un'altra volta.
8 febbraio di 1920
La piccola allegria
(Per pubblicare su Siembra)
Il mio cuore da bambino dolorante e precoce
infossato nell'usura del sentiero ombroso
ha avuto un umile ed agitato tremore.
È che, Signore, oggi ebbi un'allegria.
Nel chiarore tinto di pace crepuscolare
vibrò il mio cuore come una sorgente
e la mia fronte vistata dalle rotte lunari
ebbe un brivido sereno di umiltà.
È che, Signore, oggi ebbi un'allegria,
io volli raccoglierla con le mie mani stanche:
era un lieve minuto che cagliava i miei giorni
nella diceria sedativa della notte di luna.
Era un lieve minuto ma io lo volevo
imprigionare interamente tra le mie mani deboli:
io volevo averlo come una melodia
germogliata tra la rovina della giornata sterile.
Il mio cuore da bambino pensoso e precoce
ebbe la trasparenza di una fonte tranquilla.
(Chiedere all'alba, all'albero, alla terra o a Dio
che quel canto vibrasse per sempre nei miei giorni.)
E diventare tutto suppliche, svuotarmi le mani,
spiegarmi nei frutti bianchi della mia bontà
e chiusi gli occhi tramutare all'Arcano
questo forte battito di dolore ed ansietà.
Per sperare in qualche montagna di leggenda
un armonioso pezzo di allegria, Signore,
per nascondere il torvo camminare per il sentiero,
per illuminare di un chiaro di luna il cuore.
E per quel motivo, Signore, per tutti i miei giorni
devo aspettare le ore miracolose.
Oggi ebbi un'allegria,
poi entrai nell'enorme lentezza delle cose.
6 febbraio 1920
Testo datato "Temuco, febbraio 1920" in
Siembra, núm.5, Valparaíso, maggio 1920.
[Mi varerò nella pianura più chiara della mia vita]
Mi varerò nella pianura più chiara della mia vita:
né l'alba né la notte mi tireranno fuori da lei!
E vibrerò con tutte questi forze addormentate
che hanno nella mia carne ansie d’alba.
Per tutta la vita, per tutta la vita
infossato nel vibrante miracolo del mio essere.
E quando entri nella pianura di seta fiorita
né l'alba né la notte mi tireranno fuori da lei!
4 febbraio 1920
Grazie [2]
Grazie, donna ignota che in questo giorno grigio
mettesti la fragrante nota di un'illusione,
gli spicchi tremuli di un miele giovanile
nei vecchi grappoli del mio cattivo cuore.
Grazie, donna.
Grazie per questo pazzo minuto di inquietudine
che mi aprì una finestra d’alba
tra le nuvole della mia gioventù.
Grazie perché non devo aspettarti domani
nell'orto chiuso che non deve fiorire:
grazie, donna lontana,
perché non sei venuta mai, perché non devi ritornare.
Febbraio 1920
La pace esterna
Nell'aria inondato di un aroma impossibile
e nella terra addormentata, dolorosa e sensuale,
si agitano queste mani bianche ma invisibili
che circondano la mia vita con l'unzione della pace.
Ed addormentate, silenziose, le cose e gli esseri
continuano a farsi stringere di luce il cuore,
con la sorda stanchezza dell'animale che muore
nell'atroce incoscienza della pace esterna.
Poi sarò un'isola sensitiva ed il mondo
sarà un lontano tocco di campane di ieri
e le mie braccia vibranti saranno un canto muto
desolato nella bianchezza di qualche alba.
Nel chiaro mattino di silenzio, la fuga
degli uccelli pazzi ferirà la mia emozione
e questa isola sanguinante ed ardente della mia vita
si sgretolerà nei ghiacci della pace esterna.
18 febbraio 1920
Non mi sento cambiare
NO ME SIENTO CAMBIAR. (Pagine 149-150.) L’edizione CDT de Farías trascrive: nel v. 9, «Mi padre está muy viejo» in luogo di «Mi padre está más viejo» che riporta il manoscritto (e che chiede il contesto); nel v. 11, «hay más niñas» per «hay más niños»; nel v. 15, «demás» per «de más»; e alla fine del v. 16 un inspiegabile «ni un poquito de mundo» dove il manoscritto ripotta «ni un poquito de amor» che tanto la rima come il contesto sollecitano.
Non mi sento cambiare. Ieri io ero la stessa cosa:
il tempo passa lento sui miei entusiasmi,
ogni giorno più rari sono i miei scetticismi,
non sono stato mai vittima né di un piccolo orgasmo
mentale che abbattesse la canzone dei miei giorni,
rompesse i miei dubbi che cancellasse il mio nome.
Non ho cambiato. È un po' più di malinconia
ed il pochino di tedio che mi diedero gli uomini.
Non sono cambiato. Non cambio. Mio padre è più vecchio
i roseti fioriscono, le donne vanno via,
ogni giorno ci sono più bambini per ogni consiglio,
per ogni stanchezza, per ogni bontà.
Ma io sono lo stesso. Nelle tombe anziane
i vermi rabbiosi disfano il dolore,
tutti gli uomini chiedono di più per domani
ed io non chiedo niente, né un pochino di amore.
Ma in un giorno amaro, in un giorno lontano,
io sentirò la rabbia di non tendere le mani,
di non elevare le ali del rinnovamento.
Magari ci sarà un po' più di malinconia
ma nella certezza della crisi tardiva
io farò una primavera per il mio cuore.
1920
La strofa umile
Andare per la strada con una strofa dolce
tra le labbra ogni volta più nostre.
Lasciare che passino gli uomini stanchi,
i bambini che hanno gli occhi umili.
Ma la strofa disfatta nelle labbra
ha una lenta carezza di miele.
La strada si allunga.
Tutte le donne
hanno negli occhi un chiarore di bestie
sensuali.
I bambini si perdono. I cani anche.
E gli uomini passano con occhi brutali,
con occhi che chiedono qualcosa che andò via.
Ma la strofa ci guida.
Disfa i suoi mieli intatti
come una pastiglia di piacere, di vita, di fede.
21 marzo 1920
Allegro in a chiarissima
ALLEGRO EN «A» CLARÍSIMA. (Página 151.) In CDT i versi 1-2 sono: «Alguna clara llama / rebelaba en toda la santidad del alba». Il manoscritto riporta «se rebelaba», multo probabile errore ortografico de Neftalí per «se revelaba» che suona meglio nel contesto. Nell’eliminare «se» nel v. 2, Farías corregge arbitrariamente, sin annotare né spiegare.
Qualche chiara fiamma
si rivelava in tutta la santità dell'alba.
Le ore speravano
tremanti e silenziose.
Un'ombra danzava ed un'altra inarcava
la persa fragranza della calma.
Il sole, maschio rabbioso, non ci diceva niente
mentre la gloria bionda dell'anima andava via.
Qualche fiamma ignota ci cantava parole
e l'alba c'entrava ingenua nelle anime.
1920
Già sento che va via la mia adolescenza
Già sento che va via la mia adolescenza
in un tremore che incanta la quiete del mio sangue
si appannarono le bianche trame della mia innocenza
ed un fiume di oro torbido fluisce sulla mia carne.
È la carne intoccata di qualche primavera
che mi ha gettato le linfe vergini del suo amore,
è il passo tremante dell'ombra prima
che rediviva è morta per il mio cuore.
(Piano, piano a lutto dei pomeriggi romantici,
non puoi cantare oramai
non sogno oramai nei pomeriggi le ombre estatiche,
che piovevano i suoi baci sulla mia solitudine.)
(Alberi, cani tristi, maledettamente muti
un vino canterino dissolse il mio dolore
e nella notte giammai bacerò i nudi
tronchi fratelli di desolazione.)
Nelle mie vene enormemente deboli
sento un galoppo di cavalli, ebbri di sangue e di inquietudine,
e nelle mie arterie candide i poemetti
disorientati della gioventù.
Nei miei stagni si è rannuvolata la santa e buona trasparenza
ed un vento nero ha abbattuto la lucidità della mia emozione:
è che già sento che va via la mia adolescenza
e continua a lasciare che facciano scoppiare i frutti neri del dolore.
1920
La piaga mistica
Ed avere rovesciato nella tua alba le rose del desiderio
dall'enorme spinta dove corre il mio sentiero,
averti amato come Gonzalo di Berceo
poté amare la vergine sacra della leggenda.
Amarti, amarti, amarti su tutta la mia vita,
amarti coi tristi grappoli del mio essere
e disfare le rose del mio podere fiorito
affinché si fecondi la tua carne di donna.
E dopo guarderei oi miei occhi lontani
la tua bellezza persa, le tue trecce e le tue mani
ed il roseto di stanchezze che si inondò di luce.
E vorrei consegnarti le rose del desiderio
che nella sua cella piagato Gonzalo di Berceo
offriva alla vergine fiorita di azzurro.
1920
L'ora dell'amore
Io vado tutto ubriaco di amore in questa ora,
si alzano nella mia anima le dolcezze perdute
le tremanti campane della vita sonora
si portano le celesti stanchezze della mia vita.
Vedono crepuscolo tiepido, vedono aurora rosata,
vedono fragranza di baci, vedono caldo di donna.
È già tanto tempo che non aspetto l'amata
che mi mordono i cani del desiderio e la sete.
Ma se vado ubriaco di amore oramai non mi importa
il sogno lontano che non può ritornare,
porto tutte le mie rose perchè la vita è breve
e, è chiaro! i miei roseti devono fiorire.
Ma se porto tutti i miei roseti cagliati,
dammi una mano amica, dammi un frutto, Signore,
dammi due seni tiepidi e due occhi amati,
se non me li consegni, che cosa sarà del mio amore?
Maggio 1920
I racconti vecchi
LOS CUENTOS VEJOS. (Pagine 154-155.) A questa versione del poema segue nel manoscritto quello che è senza dubbio una variante della sezione III:
Camminando, camminando, camminando sono passato gli anni,
hanno passato i mesi, hanno passato i giorni.
I miei due fratelli morti in paesi strani,
morti senza la ricchezza né la saggezza.
Ma
io ti cerco la stessa cosa che nei primi giorni
perché è da tanto tempo che ti aspetto
e quello racconto diceva...
Il diverso inchiostro usato e la diversa modulazione della grafia segnalano che questa variante fu scritta nel quaderno 2 con posteriorità. Ma il fatto di non avere cancellato la prima forma della sezione III ne sembra un segno di vacillazione - almeno iniziale - e per ciò la ho preferita in questo posto. Un'altra versione, nel quaderno 3, porterà invece la seconda forma della sezione III.
I
Quel racconto diceva...
Ma perché ti cerco, perché ti cerco tanto?
Ho attraversato i deserti, ho bagnato con pianto
la mia defunta allegria,
e perché amata mio,
perché ti cerco tanto?
Ho attraversato pianure, monti e campi di grano
per cercare il tesoro
delle tue mani di seta
e le tue trecce di oro...
(Io conobbi le tue trecce e le tue mani un giorno
perché il racconto diceva...)
II
Eravamo tre fratelli.
Uscì il maggiore un giorno per mari e per pianure
per un vecchio tesoro che non avrà,
e mio fratello secondo
uscì a percorrere il mondo
per essere un uomo e per sapere...
Eravamo tre fratelli e nessuno ritornò.
(L'altro matto ero
io.)
III
Sono passato gli anni e già nessuno mi aspetta
e così stanno passando i mesi ed i giorni,
io non mi stanco di aspettare...
ed i tre matti tristi non ritornano ancora
camminando nella terra e sperando nel mare.
Io ti aspetto e ti cerco come nel primo giorno,
perché è da tanto tempo che ti aspetto
ed quel conti diceva…
1920
Ratos Ilustrados, núm. XXII, Chillan, 3.12.1920.
La dolce ballata
LA DULCE BALADA. (Pagine 155-156.) Testo forse inspirato per quella pecorella di lana che Neruda evocherà in "Infancia e poesía" del 1954. Notare la poetazione di tipo tradizionale e popolare
Rimase pensando la bambina
agli agnellini bianchi,
mentre la luna baciava
le strade desolate.
Acqua, sole e luna ardenti
nei corpicini bianchi,
tutta la luce ed la soave
canzone dell'amore vicino.
Rimase pensando la bambina
agli agnellini bianchi.
Lana bianca e perduta
nelle braccia della nebbia,
che portarono gli agnelli
dal fondo della luna.
Dalle buone strade,
dalle terre remote
dove ci sono pastori di cielo
ed acqua, e sole, e luna, e rose.
Rimase pensando la bambina
agli agnellini bianchi...
Mucchio di lana fatto cielo,
lana crespa, lana bianca,
lana come quella di quegli
agnelli di Terra Santa...
INVIO
Uomini lontani e tristi
con gli occhi più lontani
bisogna guardare la lana
degli agnellini bianchi...
1920
Il cantare generoso
Anime di sogni ed anime di canzoni
già toccano le campane della morte,
e rimangono tanti baci da baciare, tanti fiori
che non si fecondarono in nessun versante,
ma noi siamo il mondo. Ogni giorno
nasce un mondo per ogni nascita di amore,
e la dimenticanza rinasce morendo nelle pupille
astrali che portiamo dentro il cuore...
E se c'è rosa baciamola. E se c'è ventre ricurvo
diamogli acqua, molta acqua, molto pane, molto amore,
e quasi senza parole diamogli le nostre labbra come una benedizione...
1920
Pantheos
PANTHEOS. (Pagina. 157.) Questa è la prima versione del poema che riprenderà il quaderno 3 che dopo si pubblicherà su Claridad núm. 12, Santiago, 22.1.1921, e che posteriormente sarà il più antico dei poemi compresi in Crepusculario, 1923, con notevoli varianti nei versi 8, 10 e 11.
Oh pezzo, pezzo di miseria, in che vita
hai le tue mani bianche e la tua testa triste?
E tanto camminare e tanto piangere le cose andate
senza sapere che dolori furono quelli che avesti,
senza sapere che pane bianco ti nutrì, né che duna
ti avvolse con la sua sabbia, ti fuse nel suo calore,
senza sapere se sei carne, se sei sole, se sei luna,
senza sapere se soffristi il nostro stesso dolore.
Se stai in questo albero o se piangi con me,
che cosa è quello che sei pezzo di miseria ed amico
di ogni carne chiara che non vuole perderti?
Se vuoi non ci dire di che grappolo siamo,
non ci dire il quando, non ci dire il come,
ma dicci dove ci porterà la morte!
Maggio 1920
Le porte
Ho due porte chiare
come l'aria ed il sole,
ho due porte chiare:
le porte chiare del mio cuore,
aperte ai venti
ed alla luce e l'amore
come si aprono le porte multiformi
di tutte le strade del dolore.
Come l'uccello tiepido
che guarda a Dio io ascolto
e guardo i roseti che fioriscono
come il mio cuore di sperare molto.
La foglia cade,
cade il dolce germoglio,
ed il frutto vibra come un seno soave
presentendo le rotte dell'autunno.
Trema la terra ed ogni frutto nuovo
si apre ai cammini del dolore
ed apro come due rose di silenzio
le porte chiare del mio cuore...
1920
Sensazione autobiografica
SENSACIÓN AUTOBIOGRÁFICA. (Pagina 158.) Questo mini-memoriale sotto forma di sonetto non riporta data nel manoscritto, ma ovviamente fu composto il giorno del 16.° compleanno del poeta, 12.7.1920 (secondo conferma il testo sucessivo, che riporta precisamente questa data). Lo publicai io stesso per la prima voltra dentro il mio saggio «Los modos de autorreferencia en la obra de Pablo Neruda», Aurora, 2a época, núm. 3-4, Santiago (julio-diciembre 1964), p. 68. Un importante commento a questo testo in Concha 1972, pp. 10 y ss.
Sedici anni fa nacqui in un polveroso
paese bianco e lontano che non conosco ancora,
e come questo è un po' volgare ed ingenuo,
fratello errante, andiamo verso la mia gioventù.
Sei molto poche cose nella vita. La vita
non mi ha consegnato tutto quello che io gli consegnai
ed equazionale ed altezzoso rido della ferita:
il dolore è alla mia anima come due è a tre!
Nient'altro. Ah! mi ricordo che avendo dieci anni
delineai la mia strada contro tutti i danni
che nel lungo sentiero potessero vincermi:
avere amato una donna ed avere scritto
un libro. Non ho vinto, perché è manoscritto
il libro e non amai una, ma a cinque o sei...
12 Luglio 1920
Le mani dei ciechi
LOS MANOS DE LOS CIEGOS. (Pagina 159.) Il v. 13 portava nel manoscritto questa forma primitiva: "e seicubren de oro como viehos milagros", verso dopo cancellato da per Neftalí e sostituito con "y parecen dos santas palomas de milagro". La correzione manoscritta da Neftalí si legge nella pagina 264 - in bianco - del quaderno 2, giusto di fronte al verso tacciato nella pagina 265. - Questo poema, col suo titolo modificato in "Manos de ciego", darà più avanti origine ad un trittico sulle mani (di cieco, di contadino, di tisico).
Dammi le tue mani, cieco. Le mani dei ciechi
sono come le radici di questi uomini inerti,
si scottano ritostate dal sole in gennaio
e nell'autunno sentono come arriva la Morte...
Tagliate e sottomesse nel silenzio vivono
spolpando nelle loro dita la sfilacciatura del dolore,
e la filano raccolte come frati umili
che stessero filando le parole di Dio.
... I ciechi hanno tutta la loro anima in queste mani
aspre di sfiorarsi coi membri umani
oltrepassate di dolore, tremule d’amore.
Tremano come cordami le lunghe dita magre
e sembrano due sacre colombe di miracolo
tagliate e sanguinanti di notte e di dolore!
12 Luglio 1920
Il liceo
EL LICEO. (Pagine 159-161.) Sul titolo del poema un altro titolo: Las canciones del odio, uno più di quelli che introdusse Neftalí nel quaderno 2 annunciando immaginari i suoi libri "per presentarsi".
-Progressivamente la vita personale diviene materia di poesia. Neftalí si distanzia sempre di più dai suoi primi modelli convenzionali e contemporaneamente sviluppa un nuovo atteggiamento poetico, meno rassegnato e più aggressivo. Momenti di sarcastica ironia danno tono e forma ad incipienti tentativi di critica rispetto ad una società che gli appare ostile alla sua realizzazione individuale (e che lo margina vicino ad altri diseredati del sistema, coi quali tende a sua volta a solidarizzarsi).
-Frammenti di questo poema apparvero nel mio trattato del 1964 (vedere nota a "Sensazione autobiografica") ed in RIV, p. 49.
E questa sala, questa sala di Liceo, questa sala
che per i dolori mi hai tagliato le ali
e per i sogni me li lasci crescere!
Questa sala egoista che mi ha lasciato essere
tirchio come tutti, come molti piccolo.
Tutti i giorni, tutti i giorni come ora,
aspettare che passino ben leggere le ore
e quotidianamente conversare con gli stessi,
ammazzando ogni giorno gli stessi miraggi...
Arrivai quando avevo sei anni al Liceo.
Avevo nei versanti della mia vita il desiderio
di conoscere almeno quello che era l'allegria.
E pensare che non posso sentirla ancora!
È stato lo stesso eterno racconto della delusione
passando per la mia vita come passano gli anni,
come passano le nuvole, come passano i venti
lasciando piogge tristi e dolori violenti.
E così continuare a camminare dolorante. Domani
chiuderò di più la mia porta ed aprirò la mia finestra
per non fare quello che fanno questi uomini piccoli
che non soffrono dolori e che non sognano sogni...
Ma, chiaro! è inutile perché in un certo giorno
comprerò una valigia e senza un'allegria
andrò via dove vanno tutti questi "che hanno studiato."
Che cosa mi importa? Ingegnere, medico o avvocato,
continuerò sempre ad essere quello che fino ad ora sono stato:
un ragazzo che ha molto di dolorante,
molto di ingenuo, molto di disgraziato!
Ed in tutti questi anni di Liceo non ho amato:
appena se negli occhi di una bionda lontana
credei terminare il mio esodo per cercare una sorella,
per cercare i ristagni di sogno di una fonte
dove mettere le mie mani febbricitanti ed ardenti.
Ora so che non era la sorella promessa
perché come venne se la prese la vita!
Ed amando, amando sempre i nostri poveri fratelli
per tutto quello che hanno di desideri umani
sacrificati sotto la potenza del giogo,
lavorando nella miniera, disfacendo i succhi
delle loro vite in dolori, in sudori e sputi,
allattando tigri e sopportando brutali...
E giustizia e diritto del futuro che gemono
sotto il peso tremendo del dolore e del crimine!
Sangue, sangue caldo degli uomini: dove
lasci tutto il tuo carico di energie? Rispondi!
Questo è il mio santo grido contro le mani fiacche
che sopportano tiranni fatti di fango e merda...
Il Liceo, il Liceo! Tutta la mia povera vita
in una gabbia triste... La mia gioventù persa!
Ma non importa, andiamo! perché oggi o passato
sarò borghese la stesso che qualunque avvocato,
che qualunque dottore che usa lenti e porta
chiuse le strade verso la luna nuova...
Che diavoli, e nella vita come in una rivista
un poeta deve regolarsi da dentista!
E pensare che io spero che arrivi una donna
immensa, buona e dolce per tutto il mio essere!
Magari domani stesso per la mia rotta la sentirò
ed avrò un dolore grande che non stava nei miei conti:
col dolore biconcavo di essere uomo e poeta
andrò via coi miei sogni e due o tre valigie...!
Luglio 1920
Elegia della pena che passa
ELEGÍA DE LA PENA QUE PASA. (Pagine 161-162.) Proseguendo con le sue esplorazioni, Neftalí propone qui un’altro poema romanzato de ispirazione popolare spagnola (adesso in endecasillabi e dodecasillabi), in linea con il precedente «La dulce balada» in octosillabi (pp. 155-156). - En CDT Farías omette por «illeggibile» il v. 4 della parte II, senza dubbio por carenza delle sue fotocopie perchè nel manoscritto il verso si legge molto chiaramente: «de muchachita que es ya una mujer...».
Questa mattina passarono cantando
i tre soldati che vanno alla caserma
per i viali fioriti d’oro
sotto gli ori dell'alba,
oro sanguinante delle albe,
trionfo celeste del sole e del bene:
come brillavano le foglie e come
sanguinavano gli ori dell'alba!
I tre cantavano canzoni ardenti
di amori soavi, di pene silenti,
di cose lontane che non devono ritornare.
Piegarono cantando la polverosa ansa,
cantando, cantando andarono e tutto
si arrese all'oro dell'alba...
Dolce ragazza degli occhi grigi,
non avere pene che debbano tornare
a consolare le tue ferite umili
di ragazzina che è già una donna...
Non piangere tanto, ragazza dolente,
tutte le cose se ne vanno e se ne vanno
come questa mattina le voci ardenti
passarono cantando per la città.
La vita è un po' stancante, ragazza,
ci fa male, ci fa male come una campana
che vibra nell'oro dell'alba,
e quando guardiamo per i viali
sentiamo canzoni e voci dolenti
cantate da uomini che non devono ritornare.
Luglio 1920
Il romanzo rurale
EL ROMANCE RURAL. (Pagine 162-163.) Un nuovo tono, più sicuro, governa la scrittura di questo poema. Una maggiore confidenza in sé stesso permette adesso a Neftalí non solo un linguaggio distanziato rispecto all’amore mancato anche incluse delle disinvolte parentesi di meta-linguaggio nei vv. 10 e 16.
Ragazzina dagli occhi bruni e dal dolce sguardo
perché non lo volesti non avesti il mio amore,
qui tra questi borghesi di villaggio morto
dove un poeta è quasi la stessa cosa che un ladro.
Io che portai i miei versi come un mal di denti
che tutte queste genti tentavano di curare
guardai i tuoi occhi dolci ed il tuo egoismo buono:
ebbi il presentimento di ciò che arriva.
E dopo in un pomeriggio, mentre un treno fischiava
(io credo che fischi e che non fumi un treno),
averti detto alcuni ingenue parole
con un po' di sogno ed un altro poco di miele.
E dopo un idillio che sognava. Tre baci:
per la tua bocca, per la tua voce, per il tuo essere:
un idillio di paese fragrante e sereno
(dimenticato senza dubbio a Trigo e Lorrain).
Ma la vita volle, ragazzina, che quello pomeriggio
cadessero le mie parole come possono cadere
le pietre dolorose nel recinto soave...
e le mie parole erano luci d’alba!
Ragazzina (io mi ricordo che usavi tacco basso),
ere semplice e buona come la semplicità!
E tuttavia mai ti potei aprire le mie braccia,
mostrarti i miei favi e consegnarti il miele.
Graciela ti chiamavi, Graciela dagli occhi dolci.
Ora che ho sofferto ti ringrazio. Io
al che mi dà emozioni come si danno profumi
le lascio nei miei ricordi qualcosa di cuore...
Giugno 1920
[Un dolore in più...! Che cosa importa!
Cose di villaggio, cose]
Un dolore in più...! Che cosa importa! Cose di villaggio, cose
che mi fanno vedere la vita più o meno sincera.
Grazie per il pochino di emozione dolorosa:
l'inverno è a volte come la primavera!
Così... Ma è la vita! La mia vita da studente,
la mia vita di ragazzo senza entusiasmi, senza
le rose del futuro e gli iris di prima,
questi fiori che portano in un sonno fino al fine.
Questi fiori che mi hanno mancato sempre, questi fiori
che in un quadro sono come la luce ed i colori
ed in un verso il chiaro miele della pienezza.
Fiori che non arrivarono e che non ho sentito mai.
Ma vale la pena sentirsi grato
quando nonostante tutto si tiene gioventù!
Circa Luglio 1920
La chair est triste, hèlas!
[La carne è triste, ahimè!]
LA CHAIR EST TRISTE, HÉLAS! (Pagine 164-165.) Ancora nell'ambito del 16° compleanno, questo nuovo mini-memoriale (in sonetto) documenta in particolare alcune letture di Neftalí. Dei poeti francesi, Verlaine e Mallarmé raffiguravano nell'antologia di Díez Cañedo e Fortún (1913), Notare la precoce menzione di Schopenhauer il cui influenza sarà importante per la scrittura di Residencia.
Povera, povera la mia vita avvelenata e cattiva!
Quando ebbi tredici anni leggevo Juan Lorrain
e dopo ho spremuto l'emozione delle mie ali
ungendo i miei dolori con versi di Verlaine.
Nel mio sentiero ben triste furono libri amici
quelli che mi diedero acqua, quelli che mi diedero pane.
(Amai le bionde vergini che amò Felipe Trigo
ed amai il decadentismo feudale di Valle-Inclán.)
E dopo Schopenhauer si prese la mia allegria.
La carne mi crede più triste ogni giorno
e più triste la mia vita si riempie di perché.
E penso lentamente, quasi senza amarezza,
che in libri e donne andarono via le mie dolcezze
come in quello dolente verso di Mallarmé!
1920
Sensazione di classe di Chimica
SENSACIÓN DE CLASE DE QUÍMICA. (Pagina 165.) Giocare con versi sdruccioli è un’altra forma di conquistare distanza e libertà creatrice. Neftalí vive un periodo di prove e tentativi. Davanti al titolo del poema, e sopra gli inizi dei tre ultimi versi, ci sono nel manoscritto tracciate righe con lapis azzurro (fatte senza dubbio da Neftalí) che tendo a leggere come segni di insoddisfazione verso lo scritto in questi momenti. Il testo si pubblicò in Ratos Ilustrados, núm. 27, Chillan, 18.9.1920, sotto un nuovo titolo: «Clase de química en ultra-gris».
Gli alunni fanno parallelepipedi
o copiano incisioni dal libro di Chimica,
mi rode il fastidio mordente del bipede
che sente la ferita della metafisica.
Odiosa mugugna la voce pedagogica!
... acido stearico... chimica sintetica...
tante indiavolate curve psicologiche
nella gelatina delle mie energie!
La pioggia nei vetri lascia le sue rose
ed io penso, penso come un poeta
che a volte detesto ed a volte... invidio...
La ferita, che diavolo! di vecchia si avvizzisce
e sulla sedia mi china l'angoscia...
Angoscia? Fastidio, fastidio, fastidio!
Clase de Química, Luglio 1920
Ratos Ilustrados, num. 27, Chillan, 18.9.1920,
sotto il titolo "Clase de Química en ultragrís."
Elogio delle mani
ELOGIO DI LAS MANOS. (Pagine 166-167.) Il trittico si pubblicò su Selva Austral, núm. 3, Temuco, 1920.
MANI DI CONTADINO
Mani rozze ed oneste. Mani buone
che nel pomeriggio si addormentano, miracolose,
sotto l'influsso della luna piena
benedicendo i seni della moglie.
E si addormentano stanche del lavoro vinto
come nello sfregamento di un fluente incantesimo,
hanno tra i muscoli fiori induriti
di avere coltivato molto ed avere seminato tanto!
Santificate siano in ogni litania:
ci danno il grano biondo ed il pane di ogni giorno
e seguono i precetti che desse loro il Signore.
Dovrebbero riempirle di perle e di gemme:
mani di contadino che sono come poemi
in cui i versi annusano la terra ed il sudore!
MANI DI CIECO
MANOS DE CIEGO. (Pagine 166-167.) Seconda versione dentro il quaderno 2 che rispetto alla prima, pagina 159, porta il titolo definitivo ed i varianti "monaci" per "frati" nel v. 7. Il manoscritto portava "lunghe dita nere" nel v. 12, senza dubbio per disattenzione della copista Laura Reyes che trascrisse questa pagina. Correggo secondo la prima versione di questo quaderno e secondo la terza che viene nel quaderno 3, uguale a questa seconda, entrambe manoscritto per Neftalí. - Questa versione definitiva del poema si pubblicò dentro il trittico "Elogio de los manos" su Selva Austral, núm. 3, Temuco, 1920 separatamente in Claridad, núm. 12, Santiago, 22.1.1921, ed in Silva Castro, p. 32.
Dammi le tue mani, cieco. Le mani dei ciechi
sono come le radici di questi uomini inerti:
si scottano ritostate dal sole in gennaio
e nell'autunno sentono come arriva la morte.
Tagliate e sottomesse nel silenzio vivono
spolpando nelle loro dita il filo del dolore
e lo filano raccolte come monaci umili
che stessero filando le parole di Dio.
I ciechi hanno tutta la loro anima in queste mani
aspre di sfiorarsi coi membri umani,
oltrepassate di dolore, tremule d’amore...
Tremano come cordami le lunghe dita magre
e sembrano due sacre colombe di miracolo
tagliate e sanguinanti di notte e di dolore...
MANI DI TISICO
MANOS DE TÍSICO. (Pagina 167.) Versione trascritta anche da Laura Reyes, con un'altra disattenzione nel v. 4: "cansancio que este nunca deja florecer (stanchezza che mai questa smette di fiorire)" (verso corretto per Neftalí nel quaderno 3).
Mani che furono buone come un canto sorridente
sentendo la tristezza di una strada di ieri
perse nella profonda stanchezza del sogno,
stanchezza questa che non smette mai di fiorire...
Mani di malato, mani tisicamente buone,
austeramente sacre nella loro triste virtù.
(Io ho visto nella bianchezza di quei due gigli
la rotta peccatrice di una vena azzurra...)
Mani che col tempo, tubercolosamente,
hanno sentito la fuga delle anime ardenti
lontane compagne dei suoi 18 aprili.
E che ora nel pomeriggio si avviliscono tremanti
perché mentre passano desolanti le ore
si vanno coprendo di oro come vecchi avori.
1920
I tre sonetti furono pubblicati in Selva Austral,
num. 3, Temuco, 1920. Solo "Manos de ciego" in
Claridad, num. 12, Santiago, 22.1.1921.
[L'uomo è un sterile silenzio contadino]
L'uomo è un sterile silenzio contadino
dove il dubbio muore, dove muore il perdono:
non ha né la consolazione di sapere se la strada
piega per dove deve piegare il suo cuore.
Nella nostra vita triste ha un qualcosa di sfida
questa supplica alla vita affinché non faccia male
e diamo in parole tutto il nostro segreto:
segreto più semplice di una vergine rurale.
Norma di disubbidienza
NORMA DE REBELDÍA. (Pagina 168.) Il titolo primitivo del poema era Norma, scritto con inchiostro e sottolineato da Neftalí che più tardi, con matita e senza sottolineare, aggiunse de rebeldía.
Essere un albero con ali. Nella terra potente
denudare le radici e consegnarle al suolo
e quando sia molto più ampio il nostro ambiente
con le ali aperte consegnarci al volo.
La ricerca
LA BUSCA. (Pagina 168-169.) Anche precoce la menzione di Nietzsche, come prima quella di Schopenhauer. "Adolescenti eravamo, stupidi innamorati / dell'aspro tenore di Sils-María, / quello sì ci piaceva / [...] / briciole di pane nelle tasche rotte, / briciole di Nietzsche nelle povere teste" (Defectos escogidos, "Paseando con Laforgue"). Al proposito cfr. «Migas de Nietzsche: el subtexto de El hondero entusiasta», articolo di Alfredo Lozada in Revista Iberoamericana núm. 123-124, Pittsburgh (1983). - Verso 9: la contracción quel, así en el manuscrito.
Il buon matto di Nietzsche diceva:
nella casa piena smetti di cantare
ma canta e canta nella casa vuota:
la tua voce sia un grido sciolto nel mare.
Canta nel silenzio la tua canzone prima,
lancia nel silenzio la tua ultima canzone
di fronte al miracolo della primavera
che continua a fiorire il villaggio interno.
Questo è quello che il pazzo Nietzsche diceva
ed io continuo a cercare la casa vuota
pensante e vibrante come un cuore.
Già mi sto stancando di cercare in vano:
non trovano i miei occhi, i miei piedi né le mie mani
la casa in cui devo cantare la mia canzone.
1920
Alba
Questa mattina il sole uscì presto:
io stavo nel lavoro della mattina.
Alzai le mie due mani,
feci un'azione di grazie.
Come canzoni due uccelli volarono
e si persero nella lontananza,
ed i due monti come due miracoli
mi sorridevano...
Tremò il mio cuore al nuovo giorno
che la luce aveva appena partorito.
Grazie incandescenti come quelle mie
nessuno poté sentire.
Conficcai le mani nel solco nuovo
tremante d’amore.
Questa mattina sui terreni
uscì presto il sole.
1920
Egloga semplice
ÉGLOGA SIMPLE. (Pagine 170-171.) Questo poema va nelle pp. 291-292 del quaderno 2. La p. 290 porta una sola parola al centro: Biografas, scritta con lettera grande, ovviamente un titolo per un nuovo ciclo di poemi, o per un altro libro "per presentarsi". Nel manoscritto la lettera di Neftalí tende a cambiare dal tratto inclinato, predominante fino a qui, verso una grafia verticale e rotonda, più grossa e di maggiore pretesa. Ma in realtà si tratta solo di una variante della sua lettera abituale, qualcosa più "artistico" magari.
Egloga: antico componimento poetico di tema pastorale
Il paesaggio semplice mi è entrato nelle retine
come una strada nuova piena di chiarezza.
Le foglie gialle
si stancano di sperare
ed i tronchi nodosi si mettono in ginocchio
davanti al miracolo unanime di un dorato campo di grano.
I pioppi si alzano
e raggrinziscono le ramature supplicanti
in una petizione di carità
che fa loro più soavi
che la stessa bontà.
Il fiume corre, bolle e scivola
in un miracolo di tranquillità
che fa più dolce l'acqua campagnola
alle mie pupille di uomo di città.
Il fiume fluisce come uno spiovente
che invece di acqua porta castità.
Due donne
parlano e bevono acqua e mangiano pane.
... Pane campagnolo, aspro e saporito,
pane che la madre impasta mentre lo sala
e che oltre a misericordioso
è aromatico
e materno.
Pane che si offre all'uomo del villaggio
affinché sia forte, affinché coltivi di più,
e getti la semina ubertosa
nel solco, contento della sua animalità.
Pane campagnolo, dammi le tue viscere,
Pane,
per la mia primavera desolata,
Pane,
come una benedizione di questo paesaggio
nella consolazione del mio canto.
1920
Autunno
Tanto male che mi facesti
donna degli occhi lontani!
Le strade migliori stanno diventando tristi
e tutti i desideri mi diventano anziani.
Ma alla primavera
cureranno i miei germogli
ed astrale e santa sarà la prima
rotta degli autunni!
Saprò guardare la nuova fonte dei miei incantesimi,
come una rondine saprò guardare il sole:
dirò una strofa dolce in ogni disincanto
ed in ogni imbrunire dipingerò un rosso.
Tutto il male che mi hai fatto, tutto il male che mi hai fatto,
con la nuova speranza sparirà.
Ed sotto il vecchio soffitto
tutto secco mi vedrà.
Un po' più dolente, un po' più anziano,
Ma con un miele più sereno nel petto.
Come saprò piacere, donna degli occhi lontani,
tutto il male che mi hai fatto!
1920
Ballata dell'infanzia triste
La mia infanzia triste come un canto che continua
per perdersi nella nebbia, nella luce o nel mare.
Infanzia mia triste
e chiara come un bianco voto di castità.
Le mie ore lontane, le mie ore perse
che tra la lontananza si santificano più.
Né un fratello. Né affetti. Appena la foschia
delle cose lontane che poterono arrivare...
Chi intorbidò la mia infanzia, chi mi varò ceneri
di morto? Che cosa mi diedero, che cosa mi diedero, Signore?
Chi raccolse l'affetto delle mie dolci bontà,
i liquori rosati del mio buon cuore?
Mi imputridirono il vino gli odi ancestrali?
Ebbero le mie ferite uomini di altre età
che non conosco ancora?
Infanzia mia triste come un giorno di pioggia,
in cui disfeci tutta la sete della mia dolcezza
nel guardare la strada, sempre di più azzurra!
INVIO
Pioppi della strada, questo cantare che abbia
tre parti di stanchezza ed una di benedizione,
stanchezza, le mie passeggiate sotto gli albereti.
Che benedetta sia la prima canzone!
Pioppi, sono uscito dalla mia infanzia muschiosa
in cui solo la strada mi parlava di emozione:
imparai [a] amare gli alberi e contemplare le cose
mettendo nelle mie pupille un po' di emozione.
Pioppi, per le mie ore
lontane benediciamo la prima canzone!
1920
Prugni fioriti
Nell'orto piccolo tanto dolce
di intimità che accecano le più minime cose,
le lattughe umili hanno qualche profumo
e la terra è amica, plasmata ed aromatica.
I prugni alzano le corolle
fiorite e tremano di un tranquillo amore.
Ristagna così un'onda
un profumo di terra ed un battito di sole.
1920
[La collegiale aveva]
[LA COLEGIALA TENÍA] (Pagine 173-174.) Sotto la data "1920" il manoscritto aggrega in tre linee: "Bianca / amore / terminato" e più sotto una croce. Nel 1962 scrisse Neruda queste linee che dopo passarono a Confieso que he vivido:
I primi amori, i puri, si sviluppavano in lettere inviate a Blanca Wilson. Questa ragazza era la figlia del fabbro ed uno dei ragazzi, perso di amore per lei, mi chiese che gli scrivessi le sue lettere di amore. Non ricordo come erano queste lettere, ma forse furono le mie prime opere letterarie perché una certa volta, trovandomi colla collegiale, questa mi domandò se io ero l'autore delle lettere che gli portava il suo innamorato. Non osai rinnegare le mie opere e molto turbato gli risposi che sì. Allora mi donò una cotogna che ovviamente non volli mangiare e conservai come un tesoro. Spostato così il mio compagno nel cuore della ragazza, continuai scrivendole interminabili lettere di amore e ricevendo cotogne.
La collegiale aveva
gli occhi tanto carini!
Io me la incontrai nel pomeriggio
di un giorno
di domenica.
La collegiale aveva
gli occhi profondi,
io mi sentii buono come
un alberello nudo...
Da quello pomeriggio noi
andiamo insieme alla scuola..
1920
Il sonetto pagano
EL SONETO PAGANO. (Pagina 174.) Nel manoscritto i vv. 7-8 che riproduco sostituirono i seguenti: «... y el pasado que baja... y el porvenir que llega / en el anegamiento del goce sufridor...»; e il v. 10 riporta il verbo abrazó, che credo pertinente sostituire con abrasó, come prima in «Los sonetos del diablo» (vedere sopra la mia nota ai predetti sonetti).
Come un solco in riposo sentii il tuo corpo aprirsi
per ricevere l'offerta massima del mio essere.
... Sentire, tremar, ed oh terra! affondare, affondare, affondare,
così come i soli nell'imbrunire...
E la semina calda che discende e che consegna
il suo tesoro istintivo di sangue e di caldo,
mentre nel vuoto tremano le mani cieche
d’aver toccato tanto grappolo di splendore.
Soli d’autunno, venti del nord, getti di trillo!
Chi mi bruciò le mani? Chi mi perse la strada?
Uve di quali vigneti spremerono in me?
... Ed ora tra la nebbia totale dei miei sensi
so che nella mia vita vergine il tuo corpo si è terminato
e che benché mi vincessi, anche io ti vinsi!
1920
L'angoscia
LA ANGUSTIA. (Pagine 174-175.) Nel manoscritto, con lapis azzurro, Neftalí scrisse «La angustia» sopra il titolo originale del poema che era «El silencio» (e che CDT conserva, sicuramente perchè la fotocopia non registrò la correzione). Altra copia del testo, includendo il facsimile, in Silva Castro, pp. 145 y 2.37. Lo stesso facsimile in CEG.
Bovara, le strade si sono riempite di fiori
ed i tuoi piedi si disfano di stanchezza, perché?
Il male di quale origine bagnò la tua primavera
che ieri era di rosa e prima era di miele?
E - oh! silenzio, silenzio - è che tu, contadina,
morrai anche?
Facsimile del manoscritto in Silva Castro, p. 145.
La maestrina quella...
Quella maestra bionda come le messi
- tanto bionda che all'inizio la crederono inglese -
è triste come prima, tanto triste!
Se sembra
che dal suo arrivo si ammalò di tristezza!
Alcuni gli dicono Celia ed altri gli dicono Marta:
ella risponde sempre con tutta indifferenza.
È già tanto tempo che non riceve lettere
che sembra che nessuno si dispiacesse della sua assenza!
La vogliono i ragazzini della classe benché lei
stia molto più triste ogni volta,
triste quando parla loro di lontane stelle,
triste quando domanda quanto fa otto per tre.
Ed ieri sillabandogli un nome del dettato
salì agli occhi la nebbia del passato
e dietro il banco rimase senza parlare...
Allora sotto il peso di un dolore infinito
i bambini della classe - povero cuoricini
che non sanno quello che fanno! - scoppiarono a piangere...
1920
[La tua lunga chioma straziata]
[TU LARGA CABELLERA DESGARRADA.] (Pagina 176.) Neftalí corresse il v. 2, che in origine era: «tus ojos azules machucados».
La tua lunga chioma straziata,
le tue pupille brune pestate
per l'odio del sole ti farà morire
e così la mia primavera desolata
riceverà ogni residuo in ogni
vuoto delle due mani che ti tendo.
E così saprai che i miei dolori muti
più tristi e più grandi e più profondi
resisteranno nel supremo orgoglio
di sapere che sapendomi nudo
ed offrendoti tutto quello che nascondo
morranno le mie ossa con le tue.
1920
[Non essere come l'albero primifloro]
[NO SEAS COMO EL ÁRBOL PRIMIFLORO] (Pagina 176.) Senza data nel quaderno 2, il facsimile di una versione manoscritto riprodotta in Silva Castro (p. 65) permette di stabilire che questo poema fu scritto nell’ottobre di 1920. Molto probabilmente è il primo poema che Neftalí firmò collo pseudonimo appena inventato. Nella prima sopraccoperta interna del quaderno 2 è una firma: Neftalí Reyes. Immediatamente sotto il poeta manoscrisse: Pablo Neruda - da ottobre 1920. Non tornerà ad usare il nome Neftalí Reyes nei suoi scritti letterari. Sull'origine del pseudonimo, richiamo l’attenzione alle straordinarie rivelazioni di Robertson (1999).
Non essere come l'albero primifloro
che dopo avere dato foglie e esser morto
comincia a fiorire.
Il tua vita
ha bisogno di terra rimossa
germinatrice e buona. Ogni passo
di autunni deve essere come una rotta
che ti illumini di sole le gemme nuove.
Poi ardere, affondare nello spasmo
di fiorire e fiorire...
Più tardi
la primavera passerà cantando...
1920
Facsimile del manoscritto in Silva Castro, p. 65.
Sensazione di odore
SENSACION DE OLOR. (Pagina 177.) Prima versione del poema che dopo sarà compreso in Crepusculario. Il manoscritto non porta data ma le allusioni religiose (campane, novene, messe, i "lilla conventuali") potrebbero trarre origine del fervore collettivo e provinciale intorno al Mese di Maria in novembre (che a Neftalí interessava piuttosto per ragioni profane di ordine sentimentale).
-Titolo originario del poema: "Nostalgia", sul quale Neftalí scrisse con matita azzurra il nuovo titolo.
-Correzione anche nel v. 10 che diceva: "vergines que tenían azules la pupilas".
Fragranza
di lilla...
Oh dolci imbrunire della mia lontana infanzia
che fluì come l'alveo di alcune acque tranquille.
E dopo un fazzoletto tremando nella distanza.
Nel cielo di seta la stella che tremola...
Nient'altro... Piedi stanchi nel lungo errare
ed un dolore che trema che si solleva che si assottiglia...
Là lontano campane, novene, messe, ansie,
vergini che avevano tanto dolci le pupille...
Fragranza
di lilla...
Questo poema passò a Crepusculario, 1923, con varianti.
Contadina
CAMPESINA. (Pagine 177-178.) Prima versione di un altro dei cinque poemi del quaderno 2 che passeranno a Crepusculario, in questo caso con varianti nei vv. 11-12 e 15-16, cfr. il volume I di queste OCGC, p. 141.
Tra i solchi il tuo corpo bruno
è un grappolo che arriva alla terra.
Gira gli occhi, guardati i seni
sono due semi acidi e ciechi.
La tua carne è terra che sarà matura
quando l'autunno ti tende le mani
ed il solco che sarà la tua sepoltura
tremerà, tremerà come un umano
ricevendo le tue carni e le tue ossa,
rose di polpa con rose di calce,
inumidite nel fascino
di essere pulite come un vetro.
La parola di che concetto pieno
sarà il tuo corpo? Non devo saperlo!
Gira gli occhi, guardati i seni.
Forse non riuscirai a fiorire!
Novembre 1920
Questo poema passò a Crepuscuiario, 1923, con lievi varianti.
[Sul marciume dei riti umani]
[SOBRE LA PODREDUMBRE DE LOS RITOS HUMANO] (Pagina 178.) Dal 16° compleanno si nota un cambiamento di mentalità o di ideologia nei testi di Neftalí, che ha lasciato dietro la scettica amarezza e l'intima diminuzione per assumere invece, crescentemente, un ideale di perfezionamento spirituale (rispetto a sé stesso) e di fraternità solidale o compassionevole (rispetto agli altri). Il presente sonetto illustra egregiamente questa fase della poesia di Neftalí (ora Pablo), forse influenzata da letture di Tagore, di scrittori russi e di umanisti europei confrontati con gli effetti della prima guerra mondiale. Fase che si prolungherà con variazioni e sfumature diverse fino a metà del 1922, con sarcastico riassunto ed epitaffio nel 1923 con "El estribillo del turco" di Crepusculario, volume I di queste OCGC, pp. 118-120.
Sul marciume dei riti umani
fratello, ogni giorno devi essere migliore
sebbene il giorno che viene ci porti una delusione
sebbene domani stesso muoia l'illusione.
Che la strada che finisce ci elevi ad un'altra strada
che il fiore che inaridisce fiorirà dopo
fratello non curarti di macchiare la dimenticanza
se invece di carne porti un grappolo di miele!
Più dolce ogni giorno sui marciumi
carne che fosse frutta di sacre dolcezze
di sacri entusiasmi e di sacra emozione.
Fratello, le strade si vanno facendo rette:
che il roseto che ti fiorisce veda più perfetto:
fratello ogni giorno devi essere migliore!
1920
Primavera [2]
La pioggia cade, pagliacci,
sulle strade bagnate.
Occhi che niente guardarono,
bocca che non disse niente.
(Oh Primavera di grumi
dolci, di carni rosate,
cieli di un azzurro oscuro
ed acque di colore di acqua.)
Ora
carminio su bocche morte,
scherzo,
festa.
Per chi arrivasti, per
chi arrivasti, Primavera?
1920
Ratos Ilustrados, núm. 27, Chillan, 18.9.1920,
sotto il titolo «La primavera nueva».
L'amore che non vuoi
Un amore di carezze letali. Un lontano
fiorire di dolcezze sulla tua primavera!
Non è certo. Appena questo che ti dicono le mie mani,
neanche la mia bocca ti dirà quello che voglia.
Semplice. Chiaro. Dolce come una meraviglia
ignorata la mia anima ti consegnerà il suo amore:
ci diremo quelle parole tanto semplici
che tutti sanno sebbene nessuno le insegnò!
Niente di cinema. La tua anima deve darmi la stessa cosa
che un sorso di buon vino o un pezzo di buon pane.
Un amore senza dolori, un amore senza abissi
e senza romanticismo
banale.
... Un bacio, un bacio lungo ma come
tutti i baci
che si danno...
1920
[Per ogni primavera che nasce, fratello mio]
[POR CADA PRIMAVERA QUE NACE, HERMANO MIO.] BALLADA DE LA DESPERACIÓN. (Pagine 180-182.) La nuova fase di Neftalí, in generale positiva ed ottimista, si sviluppa in dialettica contraddizione con un'inquietudine, sempre di più acuta, di fronte al mistero della morte individuale (presente almeno da "Pantheos"). Tanto precoce contraddizione attraverserà - con diverse modulazioni ed accenti - tutte le fasi della poesia moderna di Neruda raggiungendo momenti di eccezionale creatività, per esempio nei poemi "Galope muerto" e "Entrada a la madera" di Residencia, ed elaborando perfino un estremo tentativo di risoluzione del conflitto in "Alturas de Macchu Picchu" di Canto general.
Per ogni primavera che nasce, fratello mio,
un'allegria dolce va morendo in te.
Non credere all'albero che trema nelle rugiade,
non credere al frutto d'oro e di rubino.
Bugiardo è l'albero, la luce, l'acqua, il frutto,
il sole, il padre massimo della nostra gioventù.
Si incurvano all'autunno gli alberi nudi
tremuli di freddo e di inquietudine.
E quando sarai morto
alberi, acqua, luce, frutti maturi
rallegreranno la primavera azzurra.
Perché ti hanno ingannato, fratello mio,
non sentiranno che sia andato via tu!
1920
Ballata della disperazione
Gli occhi verdi sono tristi: la vita passa,
il sole ciascuno giorno esce dallo stesso lato.
Ho già le pupille desolate
di non vedere una strada illusa!
Le strade sono le stesse. Il silenzio
getta la sua croce senza chiodi su me.
Pensare che quando io già sia morto
il sole uscirà...! E perché non deve uscire?
... Le strade, i marciapiedi che si allungano,
gli alberi, mani di bambino neonato...
... non c'è seta su cui scarichino i miei sguardi
... non ci sia oramai dolore che non abbia conosciuto!
Parole, atti, che cosa lontana
muove i miei piedi, disgrega il mio esistere?
Le strade che si allungano,
perché, perché si allungheranno così,..?
Una voce che mi parli,
un pianto che mi bagni,
la parola nuda che mi chiami
come la pioggia bagna ai fiori...
Che mi sia gridato una preghiera,
che mi sia intricato un canto nella gola!
Vento,
acqua!
Sono una spugna, nessuno mi ha spremuto
e sono un vino, nessuno mi ha bevuto...
Se mi riempirono di dolore le mani
Se mi contrassero fino all'infinito...
Chiamami, Sole!
Qui sto
per te e per me.
Per la triste aridità della mia opinione,
per le mani stanche di lottare,
per sperare
e per vivere!
Padre Sole, sono triste.
Dimmi,
le strade che si allungano,
perché, perché si allungheranno così?
1920
Campane mattutine
Rose che cantano, rose che inchiodano, rose che vibrano.
Santificata sia l'emozione
semplice
di oggi.
Acqua che suona dolce,
muscoli puliti, sole
forte, sangue che sale,
che arriva al cuore.
- Mani, che nuove rotte
andranno ad aprire!
In questo autunno che uve
nere e rosse andranno a spremere!
Che carni di donna pulite e pure
faranno loro rivivere!
- Occhi - amici nobili - quanti cose
rimangono da vedere!
Tanti roseti è che fino a questa ora
benché abbiano voluto
non hanno potuto
fiorire...
- Piedi,
quante strade nella lontananza,
quanta allegria
da vincere!
Campane mattutine,
chiare come vetri,
lontane da tutti i mali
delle sensazioni sensuali,
delle perversioni carnali
che frustano al mio cuore.
Grazie tremanti ed enormi le mie
per questa semplice
emozione...!
Novembre 1920
Maestranze di notte
MAESTRANZAS DE NOCHE. (Pagine 183-184.) Con modificazioni in vv. 5, 9-10 e 14, cfr. OCCG, vol. I, pp. 127-128, questo poema passò a Crepusculario. Un importante commento al testo in Concha 1972, pp. 101-105.
Ferro nero che dorme, ferro nero che geme
per ogni poro un grido di disperazione.
Le ceneri baldanzose sulla terra triste
i brodi in cui il bronzo sciolse il suo dolore.
Uccelli di quale lontano paese sconsolato
gracchiarono nella notte dolorosa e senza fine?
Ed il grido mi si è contratto come un nervo attorcigliato
o come la corda rotta di un violino.
(Ogni macchina ha una pupilla aperta
Per guardarmi.)
Nelle pareti appendono le interrogazioni
fiorisce nelle bicornie l'anima dei bronzi
e c'è un tremore di passi nei quarti deserti.
Sondando come bambini neonati corrono
e singhiozzano le anime degli operai morti.
Novembre 1920
Il nuovo sonetto ad Elena
EL NUEVO SONETO A HELENA. (Pagina 184.) Anche questo poema passò a Crepusculario, con modificazioni in vv. 12 e 13, cfr. OCGC, vol. I, p. 113. Mancanza in CDT.
Quando sarai vecchia bambina - Ronsard già te lo disse già -
ti ricorderai di questi versi che io dicevo.
Avrai i seni tristi di allattare i tuoi figli
gli ultimi germogli della tua vita vuota.
Io sarò tanto lontano che le tue mani di cera
areranno il ricordo delle mie rovine nude.
Comprenderai che può nevicare in Primavera
e che nella Primavera le nevi sono più crude.
Io sarò tanto lontano che l'amore e la pena
che prima vuotai nella tua vita come un'anfora piena
saranno condannati a morire nelle mie mani...
E sarà tardi perché morì la mia adolescenza.
Tardi perché i fiori una volta danno la loro essenza
e perché benché mi chiami io sarò tanto lontano!
Novembre 1920
Questo sonetto passò a Crepusculario, 1923, con lievi varianti.
Epitalamio semplice
EPITALAMIO SENCILLO. (Pagina 185.) Questo poema fu pubblicato, includendo il facsimile del manoscritto inviato dall'autore, in Silva Castro 1964, pp. 137 e 236.
Avevi gli occhi tristi
come due corpi stanchi…
Quanta tristezza avevi
nascosta tra le mani!
Arrivai. Arrivasti. La mia vita
fu migliore da quel
giorno in cui tu conoscesti
che io ero triste anche...
1920
Gli alberi [2]
Una tua anima è in ogni albero, una tua anima
che si ritorce in tronchi e si abbandona in frutti,
un'anima che si muove sulla terra pura
come sui seni i capezzoli oscuri.
Un uccello è ogni foglia che vola negli autunni
e che sfilacciata nutre un fiore.
Ogni tronco rassegnato, piagato e resinoso
dona per ogni stria acque di cuore...
Nella pianura l'albero è una piaga viva
che si ritosta in braci e dà ombre ancora.
Impastalo nel tuo sangue, viaggiatore che cammini
prega per che arrivi la Primavera azzurra
che gli darà tremori di linfa ed armonia
(foglia oblunga o rosata pomo di alba)
e così potranno guardare i suoi rami in alto...
È tanto dolce la saggia promessa del miele!
[Novembre 1920]
[Andare per le strade di una città bella e lontana]
[IR POR LA CALLAS DE UNA CIUDAD BELLA Y LEJANA.] (Pagina 186.) Trascritto da Laura Reyes con lettere capricciose o trascurate, il poema si interrompe bruscamente, non si sa se per qualche disaccordo tra la copista e suo fratello, o perché il poema rimase semplicemente così, incompiuto. – CDT, nel v. 5, «sin la duda que agota» (?).
Andare per le strade di una città bella e lontana
tutta piena di rose in un imbrunire,
cappello di ali larghe e mantello sivigliano
ed addolcendo le labbra un nome di donna.
L'anima tutta ragazza, senza il dubbio che agonia
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1920
Giorno mercoledì
Casetta povera.
Le galline che camminano per il patio solo,
la madre che cuce.
La madre che cuce,
che rammenda che rattoppa i vestiti stanchi
di giorno e di notte.
Ci sono negli angoli
della casa molti
fiori.
E dappertutto
la tristezza bianca
delle case povere.
1920