Menu principale:
1956 - NUOVE ODI ELEMENTARI
ODE AL COLIBRÌ
Al colibrì,
volante
scintilla di acqua,
incandescente goccia
di fuoco
americano,
riassunto
incendiato
della selva,
arcobaleno
di precisione
celeste:
al
colibrì
un arco,
un
filo
d’oro,
un falò
verde!
Oh
minimo
lampo
vivente,
quando
si sostiene
nell’aria
la tua
struttura
di polline,
piuma
o brace,
ti domando,
che cosa sei,
da dove
ti origini?
Forse nella età cieca
del diluvio,
nel fango
della fertilità,
quando
la rosa
si congelò in un pugno di antracite
e si iscrissero i metalli,
ciascuno nella
sua segreta
galleria,
forse allora
del rettile
ferito
girò un frammento,
un atomo
d’oro,
l’ultima
squama cosmica, una
goccia
dell’incendio terrestre
e volò
respingendo la tua bellezza,
il tuo iridescente
e rapido zaffiro.
Dormi
in una noce,
entri in una
minuscola corolla,
freccia,
proposito,
scudo,
vibrazione
del miele, raggio di polline,
sei
tanto valoroso
che il falco
con il suo nero piumaggio
non ti spaventa:
giri
come luce nella luce,
aria nell’aria,
e entri
volando
nell’involucro umido
dei fiori tremanti
senza paura
che il suo miele nuziale ti decapiti.
Dallo scarlatto all’oro spolverato,
al giallo che arde,
al raro
smeraldo cenerino,
al velluto arancione e nero
del tuo iridescente corsetto,
fino al disegno
che come
spina di ambra
ti inizia,
piccolo essere supremo,
sei miracolo,
e ardi
dalla
California infuocata
fino al sibilo
del vento amaro della Patagonia.
Semenza del sole
sei,
fuoco
impiumato,
minuscola
bandiera
volatrice,
petalo dei popoli che tacquero,
sillaba
del sangue seppellito,
pennacchio
dell’antico
cuore
sommerso.
ODE A PIEDI DI FUOCO
Con codesti
piedi
piccoli
rassomiglianti
ad api,
come
consumi
le scarpe!
Io so
che vai e vieni
che corri sulle scale,
che superi il vento.
Prima
che
ti chiami
già sei arrivato,
e giunto alla aggressiva
cintura della costa,
sabbia, pietra, spine,
vai
al mio fianco,
nei boschi
calpestando tronchi, mute
acque verdi,
o nelle strade
camminando
per intransitabili
suburbi, pavimenti
di catrame affaticato,
in quell’ora
in cui la luce
del mondo
si sfilaccia come
una bandiera,
tu, per strade e boschi,
al mio fianco
cammini,
selvaggia, intramontabile
compagna,
ma,
Dio mio!
come consumi
le scarpe!
A fatica
mi sembra
che arrivarono
alla sua cassa
e per aprirla
eliminarono
bruniture
come due
piccoli attrezzi
da combattimento,
intatti
come
due monete
di
oro,
come due campanelli,
e oggi,
che vedo?
Sui tuoi piedi
due ricci
grinzosi,
due pugni aperti,
due informi
cetrioli,
due batraci
di cuoio
sbiadito,
quello,
quello
sono arrivati
a essere
le due stelle
dopo un mese, solamente un mese
usciti
dalla calzoleria.
Come
fiore giallo di bellezza,
aperto sul precipizio,
o rampicante vivo sui rami,
come
la calceolaria
o il copihue
o come l’amaranto elettrizzato,
così,
mia cristallina, mia fragrante,
così tu, fiorendo, mi accompagni,
e uno stormo di uccelli, una cascata
degli australi
monti
è
il tuo cuore
che canta
vicino al mio,
ma,
come
ti mangi
le scarpe,
Piedi di Fuoco!
Calceolaria: pianta delle Scrofulariacee, dai fiori variamente e vivacemente colorati.
Copihue: pianta rampicante appartenente alla famiglia delle Liliacee.
ODE AL PRESENTE
Questo
presente
liscio
come una tavola,
fresco,
questa ora,
questo giorno
limpido
come una coppa nuova
- del passato
non hai una
ragnatela -,
tocchiamo
con le dita
il presente,
tagliamo
la sua misura,
dirigiamo
il suo germoglio,
è vivente,
vivo,
niente ha
di ieri irrimediabile,
di passato perduto,
è la nostra
creatura,
sta crescendo
in questo
momento, sta sollevando
sabbia, sta mangiando
nelle nostre mani,
afferralo,
che non scivoli,
che non si perda in sogni
né parole,
afferralo,
sottomettilo
e ordinagli
finché ti obbedisca,
fallo cammino,
campana,
macchina,
bacio, libro,
carezza,
recidi la sua deliziosa
fragranza di legno
e da essa
fatti una sedia,
intreccia
il suo schienale,
provala
oppure
scala!
Sì,
scala,
sali
nel presente,
gradino
dopo gradino,
stabili
i piedi sul legno
del presente,
verso l’alto,
verso l’alto,
non molto alto,
tanto solamente
finché possa
riparare
le grondaie
del tetto,
non molto alto,
non andare al cielo,
raggiungi
le mele,
non le nubi,
codeste
lasciale
andare per il cielo, andar via
verso il passato.
Tu
sei
il tuo presente,
la tua mela:
prendila
dal tuo albero,
sollevala
nella tua
mano
brilla
come una stella,
toccala,
mordila e andate
fischiando per la strada.
ODE A PAUL ROBESON
Robeson, Paul (Princeton, New Jersey 1898 - Philadelphia 1976), attore e cantante statunitense. Dopo la laurea in legge, abbandonò la carriera forense per il teatro e raccolse i suoi maggiori successi in palcoscenico nel 1924 quando interpretò Tutti i figli di Dio hanno le ali e L'Imperatore Jones, entrambi di Eugene O'Neill. Optò poi nel 1925 per l'attività di cantante, debuttando in concerto a New York. Noto per la voce vibrante ed espressiva, Robeson fu uno degli interpreti più amati dell'epoca e, nel 1928, fu il primo interprete di Porgy and Bess di Gershwin. Robeson fu anche attore cinematografico; lo si ricorda in Show Boat (1936, tratto dal musical di Jerome Kern), splendido interprete della canzone Ol' Man River. Le sue aperte simpatie per il socialismo, i rapporti con l'Unione Sovietica e l'impegno nelle cause civili lo resero oggetto della campagna persecutoria scatenata da Joseph McCarthy; e fu per ciò costretto all'inattività per tutti gli anni Cinquanta. Robeson poté riprendere la sua attività di cantante solo nel 1958, quando gli venne restituito il passaporto e concesso il visto per effettuare una tournée in Europa.
Prima
ancora non esisteva.
Ma la sua voce
stava
lì, aspettando.
La luce
si separò dall’ombra,
il giorno
dalla notte,
la terra
dalle prime acque.
E la voce di Paul Robeson
si separò dal silenzio.
Le tenebre volevano
nutrirsi. E sotto
crescevano le radici.
Combattevano
per conoscere la luce
le piante cieche,
il sole tremava, l’acqua
era una bocca muta,
gli animali
stavano trasformandosi:
lenta,
lentamente
si adattavano al vento
e alla pioggia.
La voce dell’uomo fosti
da allora
e il canto della terra
che germina,
il fiume, il movimento
della natura.
Scatenò la cascata
il suo inesauribile tuono
sopra il tuo cuore, come se un fiume
cadesse su una pietra
e la pietra cantasse
con la bocca
di tutti i taciturni,
finché tutto e tutti
nella tua voce
alzarono
verso la luce il suo sangue,
e terra e cielo, fuoco e ombra e acqua,
crebbero con il tuo canto.
Ma
più tardi
il mondo
si oscurò nuovamente.
Terrore, guerra
e dolori
spensero
la fiamma verde,
il fuoco
della rosa
e sopra
le città
cadde
polvere
terribile,
cenere
degli assassinati.
Andavano
verso i forni
con un numero
sulla fronte
e senza capelli,
gli uomini, le donne,
gli anziani, i bambini
raccolti
in Polonia, in Ucraina,
a Amsterdam, a Praga.
Ancora
furono
tristi
le città
e il silenzio
fu grande,
duro,
come pietra di tomba
sopra il cuore vivo,
come una mano morta
sopra la voce di un bambino.
Allora
tu, Paul Robeson,
cantasti.
Ancora
di udì sopra la terra
la poderosa
voce
dell’acqua
sopra il fuoco,
la solenne, lenta, rauca, pura
voce della terra
ricordandoci
che ancora
eravamo uomini,
che condividevamo
il duello e la speranza.
La tua voce
ci divise dal crimine,
una volta di più
separò
la luce dalle tenebre.
Poi
a Hiroshima
cadde
tutto il silenzio,
tutto.
Niente
rimase:
né un uccello
sbagliato in una
finestra morta,
né una madre
con un
bambino che piange,
né l’eco
di una fabbrica,
né
la
voce
di
un
violino
agonizzante.
Niente.
Dal cielo
cadde tutto il silenzio
della morte.
E allora
Un’altra
volta,
padre,
fratello,
voce
dell’uomo
nella sua resurrezione
sonora,
alla sua
profondità,
nella sua speranza,
Paul,
cantasti.
Ancora
il tuo cuore di fiume
fu più alto,
più
largo
del silenzio.
Io sarei
meschino
se ti incoronassi
re dalla voce
di negro,
solo
grande nella tua razza,
tra il tuo bel
gregge
di musica e avorio,
che solamente per oscuri
bambini
incatenati da padroni crudeli,
canti.
No,
Paul Robeson,
tu,
vicino
a Lincoln
cantavi,
coprendo
il cielo con la tua voce sacra,
non solamente
per i negri,
per i poveri negri,
bensì per i poveri
bianchi,
per
i poveri indios,
per tutti
i poveri.
Tu,
Paul
Robeson,
non
rimanesti muto
quando
a Pedro o a Juan
gli misero i mobili
nella strada, nella pioggia,
o quando
i millenari sacrificatori
bruciarono
il doppio cuore
di quelli che osarono
come quando
nella mia patria
il frumento cresce sulla terra dei vulcani,
mai
abbandonasti
la tua canzone: cadeva
l’uomo e tu
lo sollevavi,
eri forse
un sotterraneo
fiume,
qualcosa
che appena
sosteneva la luce
nelle tenebre,
l’ultima spada
dell’onore
che moriva,
l’ultimo raggio
ferito,
il tuono inestinguibile.
Il pane dell’uomo,
onore,
lotta,
speranza,
tu lo difendi,
Paul
Robeson.
La luce dell’uomo,
figlio
del sole,
del nostro
sole
del sobborgo
americano
e delle nevi
rosse
delle Ande:
tu
proteggi la nostra luce.
Canta,
compagno,
canta,
fratello
della terra,
canta
buon
padre
del fuoco,
canta
per tutti noi,
quello che vivono
pescando,
conficcando chiodi con
vecchi martelli,
filando
crudeli
fili di seta,
pestando la polpa
della carta, imprimendo,
per
tutti
quelli
che
a fatica
possono chiudere gli occhi
nel carcere,
svegliati
a mezzanotte,
a fatica
esseri
umani
nelle torture,
per quelli che combattono
con il rame
nella
nuda
solitudine andina,
a quattro
mila
metri di altezza.
Canta,
amico
mio,
non cessare
di cantare:
tu
sconfiggesti
il silenzio
dei fiumi
che non avevano voce
perché portavano
sangue,
la tua voce parla per essi,
canta,
la tua voce
riunisce
molti uomini
che non
si conoscono.
Ora
lontano,
nei magnetici Urali
e nella perduta
neve
patagonica,
tu, cantando,
attraversi
ombra,
distanza,
odori
del mare e boscaglie,
e le orecchie
del
giovane
fuochista,
del cacciatore errante,
del vaquero
che rimase improvvisamente solo con la sua chitarra,
ti ascoltano.
E nella sua prigione perduta, in Venezuela,
Jesús Faría,
il nobile, il luminoso,
udì il ttuono sereno
del tuo canto.
Poiché tu canti
sanno che esiste il mare
e che il mare canta.
Sanno che è libero il mare, ampio e florido,
e così è la tua voce, fratello.
È nostro il sole. La terra sarà nostra.
Torre del mare, tu continuerai a cantare.
ODE ALLA ROSA
Alla rosa,
a questa rosa,
all’unica,
a questa elegante, aperta,
adulta rosa,
alla sua profondità di velluto,
all’esplosione del suo seno rosso.
Credevano,
si,
credevano
che rinunciassi a te,
che non ti cantassi,
che non sei mia, rosa,
ma estranea,
che io
andassi per il mondo
senza guardarti,
preoccupato
solamente
dell’uomo
e del suo conflitto.
Non è vero, rosa,
ti amo.
Adolescente
preferii le spighe,
le melegrane,
preferii aspri fiori
di boscaglia, silvestri
gigli.
Da elegante
disprezzai la tua elevata
pienezza,
il raso mattutino del tuo corpetto,
l’indolente insolenza
della tua agonia, quando
lasci cadere un petalo
e con gli altri
continui ardente
finché si sparge tutto il tesoro.
Mi appartieni,
rosa,
come tutto
quello che è sulla terra,
e non può
il poeta
chiudere gli occhi
alla tua coppa incendiata,
chiudere il cuore alla tua fragranza.
Rosa, sei forte:
ho visto
cadere la neve nel mio giardino:
il gelo
paralizzò la vita,
i grandi alberi
spezzarono i loro rami,
solo,
rosaio,
sopravvivesti,
ostinato,
nudo, lì nel freddo,
rassomigliante alla terra,
parente
dell’agricoltore, del fango,
della brina,
e più tardi
puntuale, la nascita
di una rosa,
la crescita di una fiammata.
Rosa operaia,
lavori
il tuo profumo,
elabori
la tua esplosione scarlatta o la tua bianchezza,
tutto l’inverno
cerchi nella terra,
scavi
minerali,
miniatrice,
togli fuoco
dal fondo
e poi
ti apri,
splendore della luce, labbro di fuoco,
lampada di bellezza.
A me,
mi appartieni,
a me ed a tutti,
sebbene
appena
abbiamo
tempo per guardarti,
vita per
dedicare alle tue fiamme
le attenzioni,
rosa,
sei nostra,
vieni
dal tempo consumato
e avanzi,
sali dai giardini
al futuro.
Cammini
il cammino
degli uomini,
irremovibile e vittoriosa sei
un piccolo
bocciolo di bandiera.
Sotto il tuo resistente e delicato
baldacchino di fragranza
la grave terra sconfisse la morte
e la vittoria fu la tua fiammata.
ODE A JEAN ARTHUR RIMBAUD
Rimbaud, Arthur (Charleville 1854 - Marsiglia 1891), poeta francese. Fin dalla prima infanzia si distinse per i successi scolastici, che spinsero gli insegnanti a incoraggiare i suoi primi, geniali esperimenti poetici, già audaci nell'uso della sintassi e della versificazione. Il suo carattere impulsivo e incline all'avventura lo condusse più volte alla fuga, coinvolgendolo in traversie che lo portarono anche all'arresto. Nel 1871 Paul Verlaine, avendo intuito la grande modernità delle poesie che Rimbaud gli aveva inviato, lo invitò a Parigi; Rimbaud partì immediatamente portando con sé il suo celebre poemetto Il battello ebbro, che riscosse grande successo tra i poeti simbolisti e nell'ambiente intellettuale parigino. Tornato a Charleville nel 1872, continuò tuttavia a frequentare Verlaine, che l'accompagnò a Londra e poi a Bruxelles, dove Rimbaud scrisse una parte delle Illuminazioni e di Una stagione all'inferno. La burrascosa relazione tra i due poeti terminò nel 1873, quando Verlaine ferì Rimbaud con un colpo di pistola. Dopo una permanenza a Charleville, Rimbaud si mise di nuovo in viaggio e cominciò una vita avventurosa: fu insegnante a Londra nel 1874, scaricatore di porto a Marsiglia nel 1875, mercenario nelle Indie olandesi e disertore a Giava nel 1876, al seguito di un circo nel 1877 e capomastro a Cipro nel 1878. Infine, nel 1880 si stabilì in Abissinia dove lavorò come agente di commercio, arricchendosi in traffici poco leciti. Colpito da una forma di tumore osseo al ginocchio, nel 1891 fece ritorno in Francia, ma a nulla valse l’amputazione della gamba in un ospedale di Marsiglia, dove, pochi mesi dopo, morì.
Adesso,
in questo ottobre
compirai
cento anni,
amico laceratore.
Mi permetti
parlarti?
Sono solo,
nella mia finestra
il Pacifico rompe
il suo eterno tuono scuro.
È notte.
La legna che arde getta
Sopra l’ovale
del tuo antico ritratto
un raggio fuggitivo.
Eri un bambino
dalla ciocche ritorte,
occhi semichiusi,
bocca amara.
Perdonami
se ti parlo
come sono, come credo
che saresti ora,
ti parlo di acqua marina
e di legna che arde,
di semplici cose e semplici esseri.
Ti torturarono
e bruciarono la tua anima,
ti rinchiusero
nelle mura dell’Europa
e colpivi
frenetico
le porte.
E quando
infine potesti
partire
andasti ferito,
ferito e muto,
morto.
Molto bene, altri poeti
lasciarono
un corvo, un cigno,
un salice,
un petalo nella lira,
tu lasciasti un fantasma
lacerato
che maledice
e sputa
e cammini
ancora
senza rotta,
senza domicilio fisso,
senza numero,
per le strade d’Europa,
ritornando a Marsiglia,
con sabbia africana
nelle scarpe,
urgente
come un brivido,
assetato,
insanguinato,
con le tasche rotte,
sfidante,
perduto,
sfortunato.
Non è vero
che rubasti il fuoco,
che correvi
con la furia celeste
e con la pietra preziosa
ultravioletta
dell’inferno,
non è così,
non lo credo,
ti negavano
la semplicità, la casa,
la legna,
ti respingevano,
ti chiudevano le porte,
e volavi allora,
arcangelo iracondo,
alle dimore
della lontananza,
e moneta dopo moneta,
sudando e dissanguando
la tua statura
volevi
accumulare l’oro
necessario
per la semplicità, per la chiave,
per la quieta sposa,
per il figlio,
per la tua sedia,
il pane e la birra.
Nel tuo tempo
sopra le ragnatele
ampio
come un ombrello
si chiudeva il crepuscolo
e il gas vacillava
sonnolento.
Per la Comune passasti,
bambino rosso,
e desti alla tua poesia
fiammate
che ancora salgono punendo
le parete
delle fucilazioni.
Con occhi
di pugnale
forasti
l’ombra
tarlata,
la guerra, l’errabonda
croce dell’Europa.
Per questo oggi, a cento anni
di distanza,
ti invito
alla semplice
verità che non raggiunse
la tua fronte uraganata,
in America ti invito,
ai nostri fiumi,
al vapore della luna
sopra le cordigliere,
alla emancipazione
degli operai,
alla estesa patria
dei popoli,
al Volga
elettrizzato
dai grappoli e dalle spighe,
a quanto l’uomo
conquistò senza mistero,
con la forza
e il sangue,
con una mano e l’altra,
con milioni di mani.
Ti fecero impazzire,
Rimbaud, ti condannarono
e ti precipitarono
all’inferno.
Abbandonasti la causa
del germe, scopritore
del fuoco, seppellisti
la fiamma
e nella deserta solitudine
eseguisti
la tua condanna.
Oggi è più semplice, siamo
paesi, siamo
popoli,
quelli che garantiamo
la crescita della poesia,
la divisione del pane, il patrimonio
del dimenticato. Adesso
non staresti
solitario.
ODE AL SEGRETO AMORE
Tu sai
che predicono
il mistero:
mi vedono,
ci vedono,
e niente
si è detto,
né i tuoi occhi,
ne la tua voce, né i tuoi capelli,
né il tuo amore hanno parlato,
e lo sanno
improvvisamente,
senza saperlo
lo sanno:
mi accomiato e cammino
dall’altra parte
e sanno
che mi aspetti.
Allegro
vivo
e canto
e sogno,
sicuro
di me stesso,
e conoscono
in ogni modo
che tu sei la mia allegria.
Vedono
attraverso il pantalone scuro
le chiavi
della tua porta,
le chiavi
del documento, della luna,
dei gelsomini,
del canto della cascata.
Tu, senza aprire la bocca,
sfrenata,
tu, chiudendo gli occhi,
cristallina,
tu, custodendo
tra le foglie nere
una colomba rossa,
il volo
di un nascosto cuore,
e dunque
una sillaba,
una goccia
del cielo,
un suono
soave di ombra e polline
nell’orecchio,
e tutti
lo sanno,
amore mio,
circola
tra gli uomini,
nelle librerie,
vicino
alle donne,
presso
il mercato
ruota
l’anello
del nostro
segreto
amore
segreto.
Lascialo
che vada
girando
per le strade,
che spaventi
i ritratti,
i muri,
che vada e ritorni
e salga
con i nuovi
legumi del mercato,
ha
terra,
radici,
e sopra
un papavero:
la tua bocca:
un papavero.
Tutto
il nostro segreto,
la nostra chiave,
parola
occulta,
ombra,
mormorio,
questo
che qualcuno
disse
quando noi eravamo presenti,
è solo un papavero,
un papavero.
Amore,
amore,
amore,
oh fiore segreto,
fiamma
invisibile,
chiara
bruciatura!
ODE A SETTEMBRE
Mese di bandiere,
mese secco, mese
bagnato,
con quindici giorni verdi,
con quindici giorni rossi,
a metà
ti esce fumo
dal tetto,
poi
apri d’improvviso le finestre,
mese un cui spunta al sole
il fiore dell’inverno
e bagna una volta di più
la sua piccola
corolla temeraria,
mese attraversato da mille
frecce di pioggia
e da mille
lance di sole bruciante,
settembre,
perché balli,
la terra
mette sotto i tuoi piedi
il festival d’erba
dei sui pascoli,
e nella tua testa
un arcobaleno pazzo,
un nastro celeste
di chitarra.
Balla, settembre, balla
con i piedi della patria,
canta, settembre, canta
con la voce
dei poveri:
altri
mesi
sono lunghi
e nudi,
altri
sono gialli,
altri vanno a cavallo verso la guerra,
tu, settembre,
sei un vento, un rapimento,
una nave di vino.
Balla,
nelle strade,
scendi
con il mio popolo,
scendi con il Cile, con
la primavera,
coronati
di pampini copiosi
e di pesce fritto.
Togli dalla cassapanca
le tue
bandiere
scompigliate,
togli dal tuo suburbio
una camicia,
dalla tua miniera
vestita a lutto
un paio
di rose,
dal tuo abbandono
una canzone fiorita,
dal tuo petto che lotta
una chitarra,
e il resto
il sole,
il cielo puro
della primavera,
la patria lo anticipa
perché qualcosa
ti suoni nelle tasche:
la speranza.
ODE AL SOLE
Non conoscevo il sole.
Vissi in inverno.
Ero
nei monti australi.
Le acque
invaditrici
proteggevano
la terra,
il firmamento era
un pallido ombrello
straripato,
una medusa
oceanica
dalla chioma
verde.
Pioveva
sopra al tetto,
sopra le foglie scure
della notte,
scendeva
acqua celeste
dagli sdentati
ghiacciai.
Poi incontrasti i climi.
E nel deserto,
rotondo, in alto, solo,
il sole di fuoco
con la sue abbagliante
criniera rossa,
il leone nel suo cerchio
di spade,
il fiore centrale
del cielo.
Oh sole,
cristallo paterno,
orario
e potere,
pianeta progenitore,
gigantesca
rosa bionda
sempre
bollente di fuoco,
sempre
consumandoti
incendiato,
cucina
zenitale,
palpebra
pura,
collerico e tranquillo,
focolare e fuochista,
sole,
io voglio
guardarti
con i vecchi
occhi dell’America:
guanaco
uraganato,
capo
del mais,
cuore giallo,
neo d’oro,
corpo bruciante,
carota ardente,
bella
è la tua vista,
appena
tocchi
i rami
nasce
la primavera,
appena,
coda di ambra,
tocchi
i campi di grano
e si sparge il frumento
ripetendo
il tuo operato,
pane,
pane del cielo,
forno sacro,
tu non fosti
stella bianca,
gelo,
diamante congelato
nello sguardo
della notte:
fosti
energia,
diurno,
forte fecondatore, puledro celeste,
seminale semenzaio
e sotto
il tuo palpitante battito
la semenza
crebbe,
la terra
si spogliò della sua forma verde
e noi
solleviamo
le uve
e la terra
in una coppa
ardente:
ti ereditiamo:
siamo
figli
del sole e della terra.
Uomini
d’America
così fummo creati,
nel nostro sangue
terra e sole circolano
come calamite nutritive,
e ti rispettiamo,
sfera tutelare, rosa di fosforo,
volatore
vulcano del cielo,
padre delle cordigliere,
tigre germogliatrice,
patriarca d’oro,
anello
crepitante,
germe totale, incubatore profondo,
gallo dell’universo.
ODE ALLA SOLIDARIETÀ
E lì che fecero?
Sai?
Sei d’accordo?
Chi?
Qualcosa accade ed è colpa tua.
Ma tu non saprai.
Ora
io ti avverto.
Non puoi
lasciare così le cose.
Dove
hai il cuore?
Tu hai una bocca.
Mi stai guardando
in modo strano.
Sembra
che improvvisamente
sappia
che ti manca una mano,
i due occhi,
la lingua,
o la speranza.
Ma
è possibile, Pedro
o Juan o Diego,
che perda
qualcosa
di tanto necessario
senza che tu ne renda conto?
Camminavi
addormentato?
Che mangiavi?
Non guardasti
gli occhi della gente?
Non entrasti
in un treno, in una baracca,
in una cucina,
non notasti la luce
mascherata,
non hai visto che le mani
di chi va e viene
non sono solamente le sue mani:
è qualcuno
e qualcosa che ti cercava?
E te, non guardare
da un’altra parte,
perché
non chiamo il tuo vicino,
è te
che sto chiamando.
Gli altri mi dissero:
“Chiamalo,
siamo soli”.
Le foglie
appena nate della primavera
domandarono:
“ Che fai Pedro?”.
Io non seppi, non potei
rispondere
e dopo
il pane di ogni giorno
e il cielo con stelle
tutto
domanda
dove vive
Juan,
e
se Diego
si è perduto,
e essi,
essi
lì soli
e ogni giorno
soli,
tra
silenzio
e mura
mentre
tu,
io,
fumiamo.
Fumo,
circoli, arabeschi,
anelli
di fumo
e fumo,
anelli di fumo e fumo,
sono la vita?
No di certo.
Non fuggire.
Ora
mi aiuterai. Un dito,
una parola,
un segno
tuo
e quando
dita, segni, parole
camminano e lavorano
qualcosa
apparirà nell’area immobile,
un
solitario suono dalla finestra,
una
stella nella terribile pace notturna,
allora
tu dormirai tranquillo:
tu vivrai tranquillo:
sarai parte
del suono che arriva alla finestra,
della luce che spezzò la solitudine.
ODE A JUAN TARREA
Si, conosce l’America,
Tarrea.
La conosce.
Nell’abbandonato
Perù, saccheggiò le tombe.
Il piccolo montanaro,
l’indio andino,
il protettore Terrea
dette la mano,
ma la ritirò con i suoi anelli.
Devastò i turchesi,
A Bilbao lo fece con i vasi.
Poi
si appese a Vallejo,
lo aiutò a ben morire
e dopo preparò
un piccolo emporio
di prologhi e epiloghi.
Adesso
ha parlato con Pineta.
È importante.
Qualcosa starà vendendo.
Ha “scoperto”
il Nuovo Mondo.
Scopriamo noi
questi scopritori!
A Pineta, ragazzo
di cui lessi
nel suo libro
verità
e menzogne,
fiumi ferruginosi,
gente pura,
pani e panettieri,
viaggi con cavalli,
al nostro americano
Pineta,
o a un altro
dalla Spagna con basco
di ecclesiastico e unghie
da prestatore,
Terrea
arriva
e insegnare
quello che lui è, quello che sono
e quello che siamo.
Non sa niente
ma
ci insegna.
“Così è l’America.
Questo è Rubén Darío”,
dice
ponendo sopra la mappa
la grande unghia di Euzkadi.
e scrive il poveretto
lungamente.
Nessuno può leggere
quello che ripete,
ma instancabile
appare
sulle riviste,
si innalza
tra le acropoli,
cade in fallo
dalle accademie,
in ogni parte
arriva con il suo discorso,
con il suo pasticcio
di indecisioni,
con la sua oscillante
nube
di sciocche teorie,
il suo vecchio mercatino
di saldi metafisici,
di pseudo magia
nera
e di messianica
chincaglieria.
È ciò che ora portano
per le nostre innocenti
popolazioni,
supplementi,
riviste,
gli ultimi
o penultimi
filibustieri,
e al povero americano
gli mostrano
una inservibile e sciocca
cianfrusaglia
con
sogni
di verme
o menzogne
di falsa Apocalisse,
e portano via
l’oro
di Pineta,
il vapore
verde
dei nostri fiumi,
la pelle
pura,
il sale
delle nostre assolate spaziosità.
Tarrea,
andatevene presto.
Non toccarmi. Non toccare
Darío, non vendere
Vallejo, non graffiare
il ginocchio
di Neruda.
Lo spagnolo, la spagnola amiamo,
la semplice gente
che lavora e pensa,
il figlio luminoso
della guerra
terribile,
il capitano coraggioso
e l’agricoltore
sincero
desideriamo. Se vogliamo
dissodare terra o dominare i fiumi,
vengano,
si, vengano essi,
ma
tu,
Terrea, ritorna
al tuo negozio di oggetti usati
di Bilbao,
alla sepoltura
di monastero putrido,
bussa
alla porta del Caudillo,
sei la sua emanazione,
la sua aureola nera,
la sua vedovanza vuota.
Ritorna
alle tue seppelliti, all’ossario
con oziose lucertole,
noi,
semplici,
tagliapietre, poveri
mangiatori di mele,
costruttori
di una piccola casa,
non vogliamo
essere scoperti,
no,
non desideriamo
la chiacchiera perduta
dello stupido d’oltremare.
Ritorna adesso
al tuo epitaffio
atlantico, all’estuario
mercantile, marinaro,
e vai con la tua cesta
di monologhi
e grida per le strade
per vedere se qualcuno si impietosisce
e consumi
la tua melanconica mercanzia.
Io non posso.
Non accetto cianfrusaglie.
Non posso
preoccuparmi per te, povero Terrea.
Ho compiti da uomo.
E devo cantare
per tanto tempo
che ti consiglio
di risparmiare
unghia e lingua.
Dura
fu mia madre,
la cordigliera andina,
copioso
fu il tuono dell’oceano
sopra la mia nascita,
vivo nel mio territorio,
mi dissanguo
nella luce della mia battaglia,
faccio i muri
della mia propria casa,
contribuisco
alla pietra con il mio canto,
e non ho necessità di te,
venditore
di morte, cappellano
di fantasmi,
pallido sacrestano
spiritista,
mercante di mule morte,
e non ti do
vasi
contro cianfrusaglie:
io, per tua disgrazia,
sono andato, ho visto,
canto.