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1954 - L'UVA E IL VENTO
L’UVA E IL VENTO (1954)
I
L’UVA D’EUROPA
IV - Deviando il fiume
Fu nell’estate della Romania, acciaio
verde delle pinete verso il mare,
e verso il mare incontrai un fiume che scorreva:
il Danubio giallo della Romania.
Tuttavia non scorreva
per volontà di fiume,
bensì perché l’uomo gli stava aprendo la strada.
L’uomo lo costringeva,
lo attaccava con mani violente
che scavavano la terra.
La dinamite alzava
nuvole di fumo di color violetto.
Si scuoteva la vita
del fiume, e scorreva.
Per altre regioni marciava.
Senza volere continuava a scorrere,
fertilizzando sabbie,
partorendo frutta e frumento.
Il fiume non voleva,
ma, da dietro, l’uomo
lo costringeva,
gli frustava le anche,
lo colpiva nella schiuma,
lo frenava e lo vinceva,
e verso un altro lato del mare marciava il fiume
e con il fiume marciava la vita.
Io vidi i ragazzi macchiati
di polvere e sudore, piccoletti
di fronte alla terra ostile e sterile,
orgogliosi e piccoletti,
aprendo il cammino del fiume,
e mostrandomi la centrale
futura della forza, quando
l’acqua darà la luce
in quelle regioni oscure.
Li vidi, li toccai. Io credo
che i grandi dei di una volta
somigliavano ai bambini
sorridenti che correggevano
il corso giallo del fiume
perché domani comparissero
le nuove uve nella terra.
VI - I ponti
Nuovi ponti di Praga, siete nati
nella vecchia città, rosa e cenere,
affinché l’uomo nuovo
passi il fiume.
Mille anni consumarono gli occhi
degli dei di pietra
che dal vecchio Ponte Carlo
hanno visto andare e venire e non tornare
le vecchie vite,
da Malá Strana i piedi che verso Moravia
si diressero, gli affaticati
piedi del tempo,
i piedi del vecchio cimitero ebraico
sotto venti cappe di tempo e polvere
passarono e ballarono sopra il ponte,
mentre le acque color di fumo
scorrevano dal passato, verso la pietra.
Moldava, poco a poco
ti stavi diventando statua,
statua grigia di un fiume che moriva
con la sua vecchia corona di ferro sulla fronte,
tuttavia all’improvviso il vento
della storia scuote
i tuoi piedi e le tue ginocchia,
e canti, fiume, e balli, e cammini
con una nuova vita.
Le officine lavorano in altro modo.
Il ritratto dimenticato
del popolo nelle finestre
sorride salutando,
e ecco ora
i nuovi ponti:
la chiarezza li riempie,
la sua rettitudine invita
e dice: “Popolo, avanti,
verso tutti gli anni che vengono,
verso tutte le terre del frumento,
verso il tesoro scuro della miniera
ripartito fra tutti gli uomini”.
E scorre il fiume
sotto i nuovi ponti
cantando con la storia
parole pure
che riempiranno la terra.
Non sono piedi invasori quelli che attraversano
i nuovi ponti, né i crudeli carri
dell’odio e della guerra:
sono i piedi piccoli dei bambini, fermi
passi di operaio.
Sopra i nuovi ponti
passi, oh primavera,
con la tua cesta di pane ed il tuo vestito fresco,
mentre l’uomo, l’acqua, il vento
appaiono cantando.
VII - Picasso
A Vallauris in ciascuna casa
c’è un prigioniero.
È sempre lo stesso.
È il fumo.
A turno lo vigilano
Padri dalle sopracciglia bianche,
ragazze di colore avena.
Quando passi
Guarda se i guardiani
del fumo
hanno dormito,
e per i tetti, tra recipienti rotti,
una conversazione azzurra
tra il cieli ed il fumo.
Tuttavia nel luogo ove lavora
in libertà il fuoco,
e il fumo è una rosa di catrame
che ha tinto di nero le pareti,
lì Picasso,
tra le linee e l’inferno,
con il suo pane di argilla,
cuocendolo,
pulendolo, rompendolo
finché l’argilla prende vita,
petalo di sirena,
chitarra di oro bagnato.
Ed allora con un pennello lo liscia,
e viene l’oceano
o la vendemmia.
L’argilla consegna il suo grappolo occulto
e alla fine immobilizza il suo fianco calcareo.
Poi Picasso torna al suo laboratorio.
I piccoli centauri che sperano
Cresca, galoppano.
Il silenzio è nato
Nelle mammelle
Della capra di ferro.
E un’altra volta Picasso nella sua grotta
Entra o esce lasciando
Pareti graffiate,
stalattiti rosse
impronte genitali.
E durante le ore che seguono
parla con un barbiere.
VIII - Ehremburg
Quanti cani irsuti
musetti dalla punta brillante,
code dietro un mobile,
e improvvisamente più cappelli,
ciuffi grigi, occhi
più vecchi che il mondo,
e una mano
sopra il foglio,
instaurando la pace,
abbattendo miti,
rovesciando fuoco e fischiando,
o parlando di semplice amore
con la tenerezza
di un povero panettiere.
È Ehremburg.
È la sua casa
a Mosca.
Ahi! quante volte,
chiuso nella sua casa,
pensai che non aveva pareti.
Lì entro quattro mura
Il fiume della vita,
il fiume umano
entra e esce lasciando
vite, fatti, combattimenti,
e l’antico Ehremburg,
il giovane Ilya,
con quel fiume di terre e vite
raccogli qua e là
frammenti, scintille,
onde, baci, cappelli,
ed elabora
come un mago.
Tutto versa nella sua fornace,
di giorno e di notte.
Da lì escono metalli,
escono spade rosse,
grandi pani di fuoco,
escono onde d’ira,
bandiere,
armi per due secoli,
ferro per milioni,
e lui molto tranquillo,
irsuto,
con i suoi ciuffi grigi,
fumando e pieno
di cenere.
Di quando in quando
esce dalla fornace
e quando credi
che ti va a fulminare,
lo vedi camminare,
sorridente,
con i più grinzosi pantaloni del mondo:
va a piantare un gelsomino
nella sua casa di campagna:
apre un buco,
pone le mani,
come se fossero di seta,
tratta le radici,
le interra,
le irriga,
e intanto con passetti corti,
con cenere, con argilla, con foglie,
con gelsomino, con storia,
con tutte le cose del mondo
sopra le spalle,
si allontana fumando.
Se desiderate sapere qualcosa sui gelsomini,
scrivetegli una lettera.
II
IL VENTO NELL’ASIA
I - Volando verso il sole
Dalle estensioni rugose
del Nord, Nord-ovest, volai
verso Pechino arancione e verde.
Yennan sotto il mio volo
Era un solo guscio giallo
di luna minerale e di vuoto.
I motori e il vento,
il sole aereo,
salutarono la terra sacra,
le grotte da dove
la libertà accumulò la sua polvere esplosiva.
Ora gli eroi non stavano
dentro le cicatrici della terra:
il suo seme
alto e libero cresceva
sgranato e riunito.
Ardeva la pelle arida
del deserto di Gobi, le regioni
dalle frontiere lunari,
i rami sabbiosi
del tuo ampio mondo, Cina,
finché il volo basso
decifrò le praterie,
le acque, i giardini,
e improvvisamente nelle tue rive,
Pechino antica e nuova,
mi ricevesti. Allora
rumore di terra e frumento e primavera,
passi nelle strade,
vie popolate fino all’infinito,
come se riunissi
in una coppa pura
tutto il rumore dell’acqua
verso cui mi elevarono
le vite del tuo popolo:
gli acuti fischietti,
il rumore dell’acciaio,
tremore di cielo e seta.
Io sollevai nella mia coppa
le tue numerose vite
e l’antico silenzio.
Era il dono che mi davi, una forza
di antica pietra che canta,
di vecchio fiume che feconda
la giovane primavera.
Vidi improvvisamente
il vecchio albero del mondo
coperto di fiori e frutti.
Sentii improvvisamente
il fiume della vita
passare colmo e fermo
di idiomi cristallini.
Bevvi nella tua antica coppa
la dura trasparenza,
il nuovo giorno:
sapore di stella e terra si fusero
nella mia bocca. E dividerò il tuo viso tra i visi,
antica e giovane madre
sorridente,
seminando con il tuo vestito di guerriglia,
e proteggendo il frumento
e la pace del tuo popolo
con il tuo sorriso armato
e la tua dolcezza di acciaio.
II – La sfilata
Davanti a Mao Tse-tung
il popolo sfilava.
Non erano quelli
affamati e scalzi
che discesero
dalle aride gole,
che vissero in caverne,
che mangiarono radici,
e che quando calarono
furono vento di acciaio,
vento di acciaio di Yennan e del Nord.
Oggi altri uomini sfilavano,
sorridenti e sicuri,
decisi e allegri,
calpestando fortemente la terra liberata
della patria più ampia.
E così passò la gioventù orgogliosa, vestita
di azzurro operaio, e vicino al suo sorriso,
come una cascata di neve,
quarantamila bocche tessili,
le fabbriche di seta che marciano e sorridono,
i nuovi costruttori di motori,
i vecchi artigiani dell’avorio,
passando, passando,
di fronte a Mao,
tutta la vasta Cina, grano a grano,
di ferrei cereali,
e la seta scarlatta palpitando nel cielo
come i petali finalmente riuniti
della rosa terrestre,
ed il gran tamburo passava
di fronte a Mao,
e un tuono oscuro
da lui saliva
salutandolo.
Era la voce antica
della Cina, voce di cuoio,
voce del tempo sepolto,
la vecchia voce, i secoli
lo salutavano.
E allora come un albero
di fiori repentini
i bambini,
a migliaia,
salutarono, e così
i nuovi frutti e la vecchia terra,
il tempo, il frumento,
le bandiere dell’uomo alla fine riunite,
lì stavano.
Lì stavano, e Mao sorrideva
perché dalle alture
assetate del Nord
nacque questo fiume umano,
perché dalle teste
delle ragazze
tagliate dai nordamericani
(o da Chiang, loro lacchè)
nelle piazze,
nacque questa grande vita.
Perché dall’insegnamento del Partito,
in piccoli libri mal stampati,
nacque questa lezione per il mondo.
Sorrideva, pensando
ai duri anni
passati,
la terra piena di stranieri, la fame
nelle umili baracche,
lo Yang Tzé che mostrava sul suo lombo
i rettili di acciaio
corazzato
degli imperialisti invasori,
la patria saccheggiata
e oggi, adesso,
ripulita la terra,
la vasta Cina ripulita,
e calpestava il suo.
Respirando la patria
sfilavano gli uomini
davanti a Mao
e con scarpe nuove
colpivano la terra,
sfilando,
mentre il vendo sulle bandiere rosse
giocava e in alto
Mao Tse-tung sorrideva.
III - Dando una medaglia a Madame Sun Yat Sen
Questa medaglia che Eremburg ti ha appuntato sul petto
È una spiga d’oro del raccolto del gran paese della pace, dell’Unione Sovietica.
Il tuo petto è degno di questa spiga d’oro, Sung Sin Ling.
Ti conosciamo da quei tempi in cui la Cina si svegliò,
e poi quando la Cina fu tradita e martirizzata, una volta ancora, dai suoi vecchi nemici,
e dal primo giorno quando la Cina fu liberata ti vedemmo in prima fila, all’avanguardia con i liberatori.
Così ti vedemmo, cara amica, all’arrivo in aeroporto: ci sembrasti più giovane di quanto pensassimo e più semplice,
come il tuo popolo che ha sofferto e combattuto tanto
e che, nella vittoria, sorride e saluta tutti i popoli del mondo.
Noi, gli uomini dell’America Latina, conosciamo i vostri nemici.
Il nostro continente possiede tutta la ricchezza, il petrolio, il rame, lo zucchero, il nitrato, lo stagno,
però tutto questo appartiene ai nostri nemici, agli stessi che avete espulso per sempre,
mentre la nostra gente dei campi e villaggi non possiede scarpe né cultura,
essi hanno costruito, con il prodotto del saccheggio, case di cinquanta piani a New York
e con le nostre ricchezze hanno fabbricato le armi per schiavizzare altri popoli.
Per questo la vittoria del popolo cinese è la nostra vittoria.
Per questo la nuova Cina è amata e rispettata da tutti i popoli.
Alcuni diplomatici a San Francisco e a Washington chiedono di non “riconoscere” la Cina Popolare. Questi signori non sanno che esiste.
Potranno anche non “riconoscere” questa Terra e tuttavia questa si muove,
e si muove in avanti, non all’indietro come essi vorrebbero.
I signori di San Francisco” non “riconosceranno” la nuova Cina,
però potranno fare una inchiesta in tutta l’America
e se lo chiederanno a migliaia di minatori, di contadini, al professore e al poeta, al vecchio e al giovane,
dall’Alaska fino al Polo Sud, otterranno la risposta:
“Riconosciamo e amiamo Mao Tse-Tung. È un nostro grande fratello”.
Per questo, cara amica della pace, Sung Sin Ling,
questa spiga d’oro che dalla generosa terra di Stalin
è arrivata al tuo petto di donna grande e semplice,
e non è arrivata lì per casualità o capriccio, ma perché ti amiamo,
e amiamo la pace che tu difendi non solo per il tuo popolo, ma perché tutti i popoli
si riconoscano e possano costruire liberamente la loro vita.
IV – Tutto è tanto semplice
Di mattina nel villaggio
i bambini e la luce mi accolsero.
I contadini mi mostrarono tutte
le loro terre conquistate,
il raccolto comune,
i granai, le case
del proprietario antico.
Mi mostrarono il luogo
in cui le madri povere
gettavano le proprie figlie
o le vendevano, non molto tempo fa,
ahi!, non molto tempo fa. Adesso sembra
un brutto sogno,
la peste, la fame,
i nordamericani,
i giapponesi, i banchieri
di Londra e di Francia,
tutti venivano a civilizzare
la Cina estraendole le viscere,
vendendola
nelle Borse del Mondo,
prostituendola a Shanghai.
Desideravano fare di essa
un vasto cabaret per le truppe
da sbarco, un luogo
di seta e di fame.
Andavano gli scheletri
vicino al fiume
ammucchiandosi,
i villaggi piangevano
fumo nero
e pestilenza.
“Ahi! come cadono
nella morte
tanti morti della Cina”,
esclamava
la signora elegante
leggendo i giornali.
Vicino al fiume i morti
erano montagne di cenere, la fame
camminava nelle strade della Cina
e a New York, Chiang Kai Shek
acquistava edifici
in società con Truman e Eisenhower.
Odorava di sterco e oppio
la vecchia cittadella
della melanconia.
I carceri si riempivano
anche di morti.
Gli studenti erano decapitati
per un decreto nordamericano
nella piazza del paese,
e nel frattempo la rivista “Life”
pubblicava la foto
della Signora Chiang Kai Shek, ogni volta
più elegante.
Allontanati, cattivo sogno!
Allontanati dalla Cina!
Allontanati dal mondo!
Vieni con me al villaggio!
Entro
e guardo i granai,
il sorriso
della Cina
liberata:
i contadini
si dividesero la terra.
Da Yennan
scese la libertà
con i piedi scalzi o scarpe rotte
di contadino e soldato.
Oh! Libertà della Cina
eri la mia musa,
vai vestita di azzurro
in un cammino
polveroso.
Non hai potuto lavarti
né asciugarti il sangue, però marci e marci
e con te
la terra oscura marcia,
marcia la Bolivia dimenticata
dalla libertà, marcia il Cile,
verrà l’Iran con te,
entrano con te nel villaggio,
con la mia musa.
Ragazzetta vestita
di azzurro guerriero,
musa del vento,
delle terre libere,
a te io canto:
al cinturone di cuoio e al tuo fucile,
alla tua bocca secca,
io canto.
Musa mia,
entra con fuoco e polvere esplosiva
in tutte le strade del mondo,
entra con sudore e sangue,
e avrai il tempo
di lavarti, adesso
avanza, avanza, avanza!
Tutto lo vidi nel villaggio
della Cina liberata.
Niente mi dissero.
I bambini sparsi
non mi lasciavano transitare.
Mangiai il loro riso, la loro frutta,
bevvi il loro vino di riso pallido.
Tutto mi mostrarono
con un orgoglio
che conobbi in Romania,
che conobbi in Polonia,
che conobbi in Ungheria.
È l’orgoglio nuovo
del contadino che alla luce del mondo
di domani,
per la prima volta vede la farina,
per la prima volta guarda la frutta,
per la prima volta vede crescere il frumento,
e allora
benché sia più vecchio del mondo
ti mostra il riso e l’uva,
le uova di gallina,
e non sanno cosa dire.
Tutto è suo
per la prima volta.
Tutto il riso,
tutta la terra,
tutta la vita.
Che cosa facile è quando si è conseguita
la felicità, che cosa semplice
è tutto.
Quando tu ed io, amor mio, ci baciamo,
che semplicità è essere felici.
Però tu dimentichi
quanto camminasti
senza incontrarmi
e quante volte
tu deviasti
fino a crollare stanca.
Ebbene,
tu non sapevi
che io stavo cercandoti
e che il mio cuore
stava deviando
verso l’amarezza
o il vuoto.
Noi sapevano
che se marciavamo
avanti, avanti,
dritto, dritto,
sempre, sempre,
tu mi avresti trovato
e io ti avrei trovato.
Come a te, anche ai popoli
succede:
non sanno,
non comprendono,
possono sbagliarsi,
però procedono sempre
e si incontrano,
si incontrano allo stesso modo,
come tu mi incontrasti,
e allora
tutto sembra semplice,
però non fu semplice
camminare alla cieca.
Avevo da imparare dalla vita,
dal nemico, dall’oscurità,
con i suoi testi,
e lì stava Mao insegnando
e lì stava il Partito
con la sua severità e la sua tenerezza,
e adesso ragazzi cinesi,
dai campi,
giovane musa,
non dimentichiamo:
tutto sembra semplice
come l’acqua.
Non è la verità.
La lotta non è l’acqua,
è il sangue.
Viene da lontano.
Ha morti:
nostri fratelli caduti.
Tutto il cammino
è pieno di morti
che non dimenticheremo.
E il villaggio
non è semplice,
l’aria non è semplice,
richiede parole,
richiede canzoni,
richiede volti,
richiede giorni passati,
richiede carceri,
richiede muri
schizzati di sangue
e adesso
dolce è il villaggio,
dolce è la vittoria.
Eleviamo la coppa
per la musa,
per quelli che non dimentichiamo,
e quelli che ricostruiscono,
per quelli che caddero
e continuano a vivrere
in ogni parte,
perché grande è il mondo
e in ogni parte sempre
cadde il sangue,
lo stesso:
il nostro sangue.
Adesso
entro nel villaggio
nel campo liberato
e dolce è l’aria
come nessuno
e respiro la vita,
la terra,
la vittoria.
La terra, se stendiamo
sopra la sua pelle le mani,
è la medesima,
qui o in Patagonia
o nelle isole del mare.
La terra è sempre
la medesima,
e adesso
entrando nel tuo villaggio,
odore di pane,
odore di fumo,
odore di frumento, odore di acqua e di vino,
è la mia terra,
è tutta la terra.
E allora
salutai con rispetto
il territorio antico,
la sua bellezza,
la sua agricoltura collettiva,
il suo volto di polvere e rugiada,
la libertà brillando
nel sorriso,
e pensai alle mie rive,
alla mia bandiera,
alla mia sabbia, alla mia schiuma,
a tutte le mie stelle.
E così in questa mattina
nel villaggio della Cina
entrai cantando,
perché il mio cuore
si trasformò in chitarra
e tutte le corde suonarono
ricordando la mia terra,
cantarono
ricordando la mia patria,
là, in America.
Quando una volta io arrivo
alla casa del popolo
in una terra libera,
tutto
sembrerà tanto semplice,
tanto naturale,
come il bacio che adesso
ci diamo, amor mio.
V – Le cicale
Riempiva la mattina del villaggio
l’autunno stridente
delle cicale sonore.
Mi avvicinai: le prigioniere
nella loro piccola gabbia
erano la compagnia dei bambini,
erano il violoncello innumerevole
del piccolo villaggio
e il rumore della Cina
e il movimento dell’oro.
Scorsi appena le prigioniere
nelle loro gabbie minuscole
di bambù fresco,
ma quando mi preparai a partire
i contadini
posero il castello di cicale
nelle mie mani.
Io ricordo nella mia infanzia i peones
del treno in cui mio padre lavorava,
i collerici figli
delle intemperie, appena
vestiti con stracci,
i volti maltrattati dalla pioggia o dalla sabbia,
le fronti divise
da cicatrici aspre,
e quelli mi portavano
uova impavonate di pernice,
scarabei verdi,
cantaridi del colore della luna,
e tutto questo tesoro
dalle mani giganti maltrattate
alle mie mani di bambino,
e tutto questo
mi faceva ridere e piangere
mi faceva pensare e cantare,
là ai boschi
piovosi
della mia infanzia.
E adesso
queste cicale
nel loro castello di bambù odoroso,
dalla profondità della terra cinese,
raschiando la loro stridente
nota d’oro,
passavano nelle mie mani
dalle mani battezzate dalla polvere da sparo
che conquistò la libertà, passavano
dalle ampie terre
liberate,
ma erano le mani del popolo,
le grandi mani,
che nelle mie lasciavano
il loro tesoro.
Io ricordai la mia infanzia
e quanto per la terra
andavo guardando
e cantando,
ma niente,
niente come questo,
questo tesoro vivo.
E allora con me vennero,
mi accompagnarono
durante i miei giorni in Cina.
La mattina, nella mia stanza d’albergo,
trenta cicale
dicevano il mio nome
con un suono acuto
di acciaio verde
e io gli davo foglie
che mangiavano,
togliendo dalle loro gabbie piccole maschere
di guerrieri dipinti, e alla sera,
quando nelle vaste terre
il sole cala,
un giorno in più aveva consolidato nella patria
la libertà del popolo.
Alla mia finestra
le cicale con una sola voce
metallica,
cantavano
verso i campi,
verso i bambini,
verso le altre cicale,
verso le foglie e verso i raccolti,
verso tutta la terra:
salutavano il giorno
con l’altezza incredibile del loro canto,
e così, dalla mia finestra,
di giorno e di notte,
ti salutava, Cina,
una voce della terra
che le mani del popolo
mi consegnarono,
una moltiplicata voce che continua a cantare
con me nel cammino.
VI - Cina
Cina, per molto tempo ci mostrarono la tua effigie
dipinta specialmente dagli occidentali:
era una vecchietta rugosa,
infinitamente povera,
con una ciotola vuota di riso
alla porta del tempio.
Entravano e uscivano i soldati
di tutti i paesi,
il sangue schizzava le pareti,
ti saccheggiavano come un casa senza padrone,
e tu davi al mondo un aroma strano,
miscuglio di tè e cenere,
mentre alla porta del tempio con tuo piatto
vuoto, ci guardavi col tuo sguardo antico.
A Buenos Aires si vendeva il tuo ritratto
fatto specialmente per le signore colte,
e nelle conferenze le tue sillabe magiche
sorgevano all’improvviso come luce sepolta.
Tutti sappiamo qualcosa delle dinastie
e al dire Ming o Celadon si corrugano le labbra
come se si mangiassero una fragola,
e così vorrebbero che per noi fossi
una terra senza uomini, una patria
dove il vento entrava nei templi vuoti
e saliva cantando, solo, per le montagne.
Volevano che credessimo
che dormivi,
che dormirai un sogno eterno,
che eri la “misteriosa”,
intraducibile, sconosciuta,
una madre mendicante con stracci di seta,
mentre da ciascuno dei tuoi porti
salpavano le navi cariche di tesori
e gli avventurieri si contendevano
la tua eredità: minerali
e avori, progettando,
dopo il tuo dissanguamento, come portarsi via
una bella nave carica delle tue ossa.
VII – La grande marcia
Ma succedeva qualche cosa nel mondo.
Il tuo ritratto non ci soddisfaceva.
Era bella la tua povera maestà,
ma non ci bastava.
La bandiera sovietica sventolava
baciata dalla polvere da sparo
nei cuori degli uomini.
tu, Cina, ci mancavi, e attraverso i mari
udiamo all’improvviso che la voce del vento
adesso non cantava solo per le tue ampie strade.
Si solleva Mao
e infine la Cina
e alla fine
di tante sofferenze,
vediamo alzarsi i suoi uomini
avvolti dall’aurora.
Da lontano, dall’America, alla cui riva
il mio popolo sente ogni onda del mare,
vediamo ergersi la sua tranquilla testa,
e le sue scarpe dirigersi verso il Nord.
Verso Yennan con polveroso vestito
si dirige il suo serio movimento:
e vediamo da allora che le nude terre
della Cina gli consegnavano uomini,
piccoli uomini, rugosi vecchi,
sorrisi infantili.
Vediamo la vita.
Non era solo il vecchio territorio.
Non era lo specchio di acqua
Che riepiva la spettrale archeologia.
Da ciascuna pietra un uomo,
un nuovo cuore con un fucile,
e ti vediamo popolata, Cina, dai tuoi soldati,
dai tuoi, finalmente, che mangiavano foraggio,
senza pane, senza acqua, che camminavano il lungo giorno
perché l’alba potesse nascere.
VIII – Il gigante
Non eri mistero, né giada celeste.
Eri come noi, popolo puro,
e quando piedi nudi e scarpe,
contadino o soldato, nella distanza
marciarono difendendo
la tua integrità, vedemmo il volto,
vedemmo le mani
di chi lavora il ferro, le nostre mani,
e nel lungo cammino distinguemmo
i nomi del tuo popolo: erano i nostri.
Suonavano in altro modo, però sotto
le sillabe acute
erano al fine i volti e i passi
che con Mao marciavano
attraverso il deserto e la neve
a preservare il germe
della nostra propria primavera.
Alto stava il gigante misurando passo a passo
il suo riso, il suo pane, la sua terra, la sua dimora,
e fu riconosciuto dai popoli del mondo:
“Come sei cresciuto improvvisamente, fratello”.
Ma anche il nemico lo guardò.
Dai banchi grigi di New York e la City
i borsellini che lì si alimentano di sangue
si dissero con paura: Chi è costui?
Il tranquillo gigante non replicò: Guardava
le ampie terre dure della Cina. Riuniva
con una sola mano tutta la pena
e la miseria, e con l’altra
mostrava il rosso frumento di domani,
tutto quello che la terra consegnerebbe,
e sul suo grande volto crebbe
un sorriso che oscillava al vento,
un sorriso come un cereale,
un sorriso come stelle d’oro
sopra tutto il sangue versato.
E così si levarono le tue bandiere.
E i popoli ti videro ripulire la tua vasta terra,
unità, uragano nella minaccia,
martello sopra il male, luce vincitrice
sopra il vecchio nemico, vittoriosa.
IX – Per te le spighe
Repubblica, estendesti
le tue ampie braccia per tutto il tuo corpo
e fondasti la pace sul tuo destino!
I malvagi che vengono da oltre il mare
a saccheggiare la tua esistenza, furono bene accolti,
e verso l’incanetata Formosa volano
a alimentare il nido di scorpioni.
Poi scesero in Corea. Sangue
e dolore e distruzioni, il loro abituale
compito: muri vuoti e donne morte,
ma improvvisamente un giorno
arrivò il baluardo dei tuoi volontari
a compiere la sacra fraternità dell’uomo.
Da mare a mare, da terra a neve,
tutti gli uomini di contemplano, Cina.
Che poderosa sorella giovane ci è nata!
L’uomo nelle Americhe, piegato sul suo solco,
circondato dal metallo della sua macchina ardente,
il povero dei tropici, il coraggioso
minatore della Bolivia, e anche l’operaio
del profondo Brasile, il pastore
della Patagonia infinita,
ti guardano Cina Popolare, ti salutano
e con me ti inviano questo bacio sulla fronte.
Non sei per noi quello che vollero: l’immagine
di una mendicante cieca vicona al tempio,
bensì una dolce e forte capitana del popolo,
ancora con le tue vittoriose armi in una mano,
con un crescente ramo di spighe sul petto
e sopra la tua testa
la stella di tutti i popoli!
III
RITORNÒ LA SIRENA
I – Io canto e racconto
Dall’estate baltica,
azzurro acciaio, ambra e schiuma,
fino a dove Carpazi incoronano
le tempie della Polonia
coi diademi pallidi dell’Europa,
io attraversai la terra
dei martirii e delle nascite,
la pelle squartata,
l’infinito grano che rinasce,
le grotte del carbone, e mi mostrarono
antico sangue nella neve
raschiando le praterie,
l’uomo e la sua cucina seppellita,
il bambino ed la sua piccola carrozzina,
il fiore sopra le ossa della madre.
Testimone di questi giorni
io sono e sento e canto
e non ci sono archi d’oro
per me in questo tempo.
L’arpa e la sua dolcezza si bruciarono
con l’incendio del mondo
e a raccontare e cantare resurrezioni
sono venuto.
Ricevimi
e guarda ciò che io estraggo dalla terra devastata,
un pezzo di violino, un anello morto
e l’oblio.
Accettate ciò che porto,
canto e racconto,
perché non solo il sangue sommerso,
rovina, pianto e cenere,
vengono con me ora.
Porto nel mio sacco
la pioggia grigia del Nord:
sopra nuovi seminati
cade e cade,
ed il pane immenso cresce
come mai sulla terra.
Il martello batte,
la pala si alza e si abbassa,
suonano le pietre nelle costruzioni,
cresce la vita.
Oh Polonia, oh amore,
oh primavera,
vieni con me
perché io ti mostri
raccontando e cantando
per tutte le strade,
e nel fondo,
oltre i morti,
canta e racconta la vita,
perché questo è il canto e il racconto,
quello che tu mi insegnasti,
Polonia, e quello che insegno:
la fede nella vita, più profonda
quando da più lontano è venuta,
della morte,
la fede nell’uomo quando poté trionfare
sull’uomo stesso,
la fede nella casa quando poté nascere
dalla cenere immensa,
la fede nel canto che si poté cantare
quando ormai non aveva bocca!
Polonia mi hai insegnato a esistere
di nuovo
e a cantare di nuovo,
e questo è quello che il pellegrino con la chitarra
toglie dal sacco e lo mostra cantando:
il fiore indistruttibile
e la nuova speranza,
gli antichi dolori seppelliti
e la ricostruzione dell’allegria.
II - Primavera nel nord
Io percorsi la primavera
verde e ardente
della Polonia.
Tremavano nella luce i cereali
dell’abbondanza, il latte scivolava
in un fiume bianco
verso il mare
dall’agricoltura collettiva,
i campi umidi, odor di suolo,
fiori come lampi azzurri
o punteggiature rapide di sangue.
Dall’inverno lungo le pinete
muovevano i suoi fianchi di vascello
come imbarcandosi nella primavera,
e di sotto, nell’ombra turbatrice,
le fragole socchiudevano i piccioli.
L’aria era metallica,
un’aria nuova di resurrezione,
perché non solo il bosco,
il mare, la terra,
bensì l’uomo,
lì risuscitavano.
Lì il diluvio fu di sangue,
l’arca clandestina della lotta
navigò tra i morti.
Perciò la violenta primavera
della Polonia aveva
sapore ferruginoso
per la mia bocca, era
un elettrico liquido,
il bacio della terra,
il cuore dell’uomo
nella coppa stellata della vita!
III – Le rovine nel Baltico
Danzica, crivellata dalla guerra,
rosa spezzata,
come spettro tra spettri,
tra l’odore marino
e l’alto cielo bianco,
camminai tra le tue rovine,
tra pezzi di argento arancione.
la nebbia entrò con me,
i vapori glaciali,
e errante
sbrogliai le strade
senza case e senza uomini.
Io conosco la guerra
e quel volto senza occhi e senza labbra,
quelle finestra morte
le conosco,
le vidi a Madrid, a Berlino, a Varsavia,
però questa gotica nave
con la sua cenere di mattoni rossi
vicino al mare, sulla porta
degli antichi viaggi,
questa figura mercantile di prua,
cutter verde dei mari freddi,
con le sue laceranti fenditure,
con suoi muri a monconi,
il suo orgoglio demolito,
mi entrarono nell’anima
come raffiche di neve, polvere e fumo,
qualcosa di accecante, disperato.
La casa dei sindacati
con le sue insegne abbattute,
i banchi in cui l’oro tintinnava
cadendo nella gola dell’Europa
i moli rossi da cui un fiume
di cereali portò
come una onda terrestre
l’odore dell’estate,
tutto era polvere, monti
di materia disfatta,
e il vento del Baltico ferreo
volava nel vuoto.
IV – Costruendo la pace
Ma la vita
anche lì stava.
In altre parti e in altre ore
della mia vita, la morte
mi aspettò negli angoli.
Qui la vita spera.
Ho visto in Danzica la vita
ripopolarsi.
Mi baciarono
i motori con labbra di acciaio.
L’acqua trepidava.
Ho visto maestose
passare come castelli sopra l’acqua
le gru di ferro marino,
appena ricostruite.
Ho visto il gigantesco
groviglio schiacciato
di ferro sopra il ferro
bombardato
dare alla luce poco a poco
la forma delle gru,
e svegliarsi dalla profondità della morte
la maestà azzurra del cantiere navale.
Ho visto con i miei occhi
pullulare la spuma dell’onda
nella resurrezione delle carene,
delle prue ricamate
dall’uomo appena dissotterrato.
Ho visto
come nasceva un porto,
ma non dalle acque e dalle terre
lavate e lustrate,
ma dalla catastrofe.
E io ti ho visto, titanica colomba,
bianca e azzurra, marina,
nascere e sollevarti
volando ferma e forte
dalla distruzione aggrovigliata
e dalla sanguinante solitudine
del vento e delle ceneri.
V - I boschi
Verso i boschi freddi e i laghi
del Nord verde,
le acque masuriane, (*)
entrando in tutte le parti,
pallidi stagni invasi
dal pallido cielo,
lagune come guglie,
tutte le forme placide dell’acqua
lì stettero come se una stella
si fosse distrutta
o luna verde in gocce
cadenti dall’alto.
Bella è l’aria, e il vento
pettina le irsute chiome
delle pinete d’acciaio.
Bella è l’aria, fresca
Ed azzurra sotto i pini.
Improvvisamente il vento vestì
il suo tremulo vestito
di ossigeno e aghi.
Solenne è il vento nella selva.
Fa piccoli rumori
come carte che cadono,
o suona con un pianto di bottiglia
o rompe pietre, ricerca
frammenti di legno
che trascina con mani di padre
o soffia e sale
da un albero all’altro
spaventando gli uccelli.
Bello è il vento del Nord,
fratello della neve,
nella profondità delle pinete.
E marcio senza cappello.
Sulla mia testa l’aria
mi incorona di freddo,
fresche labbra mi mordono.
Entro cantando
nella freschezza verde
come in un profondo oceano.
Canto
e calpesto l’erba
appena decorata
con piccole stelle gialle.
Felice Nord di ampie spalle,
di laghi e pinete,
ti saluto:
lasciami respirarti,
camminare tra i pini e le acque
cantando e fischiando
e riposare sul tuo umido tappeto
come un albero caduto
sotto il tuo sogno verde.
(*) zona lacustre della Polonia nord-orientale tra i fiumi Vistola e Njemen;
la zona fu teatro di scontri fra truppe russe e tedesche.
VI – Ritornò la sirena
Amore, come se un giorno
tu morissi,
e io scaverò
e io scaverò
notte e giorno
sul tuo sepolcro
e ti ricomporrò,
solleverò i tuoi seni dalla polvere,
la bocca che adorai, dalle sue ceneri,
costruirò di nuovo
le tue braccia e le tue gambe e i tuoi occhi,
la tua capigliatura di metallo contorto,
e ti darò la vita
con l’amore che ti ama,
ti farò camminare di nuovo,
palpitare un’altra volta nella mia vita,
così, amore, costruirono nuovamente
la città di Varsavia.
Mi avvicinerei cieco alle tue ceneri
ma ti cercherei,
e a poco a poco andresti elevando
gli edifici dolci del tuo corpo,
e così incontrarono essi
nella città amata,
solo vento e ceneri,
frammenti devastati,
carboni che piangevano nella pioggia,
sorrisi di donna sotto la neve.
Morta stava la bella,
non esistevano finestre,
la notte si coricava sopra la bianca morta,
il giorno illuminava la prateria vuota.
E così la costruirono,
con amore, e arrivarono
ciechi e piangenti,
ma scavarono profondo,
ripulirono la cenere.
Era tardi, la notte,
la fatica, la neve
fermavano la pala,
ed essi scavando trovarono
prima la testa,
i bianchi seni della dolce morta,
il suo vestito da sirena,
e infine il cuore sotto la terra,
interrato e bruciato ma vivo,
e oggi vive vivo, palpitando nel mezzo
della ricostruzione della sua bellezza.
Adesso capisci come
l’amore costruì le strade,
fece cantare la luna nei giardini.
Oggi quando
petalo a petalo cade la neve
sopra i tetti e i ponti
e l’inverno colpisce
le porte di Varsavia,
il fuoco, il canto
vivono di nuovo nei focolari
che edificò l’amore sopra la morte.
Ahi! di quelli che fuggirono e credettero
di scappare con la poesia:
non sanno che l’amore abita a Varsavia,
e quando la morte
lì fu sconfitta,
e quando il fiume passa,
riconoscendo esseri e destini,
come due fiori di profumo e argento,
città e poesia,
Varsavia e poesia,
sulle sue cupole chiare
conservano la luce, il fuoco e il pane del suo destino.
Varsavia miracolosa,
cuore sepolto
di nuovo vivo e libero,
città in cui si dimostra
come l’uomo è più grande
di tutta la sfortuna,
Varsavia, lasciami
toccare i tuoi muri.
Non sono fatti di pietra o di legno,
di speranza sono fatti,
e chi voglia toccare la speranza,
materia solida e dura,
terra tenace che canta,
metallo che ricostruisce,
sabbia indistruttibile,
cereale infinito,
miele per tutti i secoli,
martello eterno,
stella vincitrice,
attrezzo invincibile,
cemento della vita,
la speranza,
che qui la tocchino,
che qui sentano come in essa aumenta
la vita e di nuovo il sangue,
perché l’amore, Varsavia,
alzò la tua statura di sirena
e se tocco i tuoi muri,
la tua pelle sacra,
comprendo
che eri la vita e che nei tuoi muri
è morta, finalmente, la morte.
VII – Canta la Polonia
La guerra lì nel fondo
dei grandi boschi,
la guerra vicino all’acqua
lenta e moltiplicata
uscì ad insultarmi, malgrado
la pace
nel regno silvestre:
lì stava.
Goering aveva lasciato
i suoi cubi di cemento.
Lì stava la orribile architettura,
inumana,angolosa,
scanalature socchiuse
come occhi di rettili, forme nude
di crudeltà, li, nascosto,
nelle nuove tane delle fiere,
progettarono l’attacco
contro la luce sovietica.
Lì dall’ombra
attaccarono la stella
riunendo tutta la forza repulsiva,
unendo i vermi ed il veleno,
le fiamme distruttrici,
i progetti di morte.
Già il bosco stava coprendo
con il suo splendore oscuro
i segnali maligni,
ma lì i fortini nascosti,
le reti stracciate che li nascondevano,
erano la voce del metallo terribile,
la bocca sdentata della guerra.
Come oggi nei tranquilli saloni chiari
dei collegi militari
dell’America del Nord,
con ostinata precisione si studia
il potere del microbo
affinché nei villaggi
entri con il suo carico di vomito
e assassini i bambini con l’acqua,
così i pensieri dell’incendio
e dell’assassinio covarono
in queste grotte dei freddi boschi.
Ma la onda assassina si fermò
contro un muro di pietra:
la unanime muraglia
del socialismo, il peso
del pugno di Stalin,
e dall’Est innevato
riportarono la pace al bosco.
Gli invasori che da qui partirono
non ritornarono, ma
l’aria luminosa
da Stalingrado venne,
attraversò i boschi della Polonia,
aprì le porte
dell’invasore sanguinario
e crebbero da allora
le liane nel bosco,
l’acqua attende le foglie che cadono,
gli scoiattoli elettrici
ballano con il vestito nuovo.
Densa è l’aria come un liquido
che riempie la coppa della terra,
affondano i miei passi nel muschio
come se camminassi nell’oblio,
un frammento di legna
si riempì di aderenze
come un violino di musica,
le foglie tessono fili che attraversano
da un albero all’altro
filando il perforato
silenzio della selva.
Ai piedi del bosco le praterie
sentono nascere il frumento,
ma là il carbone corre
verso l’acciaio,
le città si popolano,
marcia l’uomo,
marciano gli uomini,
crescono le navi,
di notte il cielo mostra
una Polonia con lunga
luce di stelle
dicendo: “Uomini di tutte
le terre ed i mari,
guardate come cresce
la figlia di acciaio”.
E la luna si sbalordisce
perché nel vuoto
di ieri, carbonizzato,
oggi un soffitto restituisce
la dolce luce notturna,
il sole entra presto
nelle panetterie,
si sente nelle scuole,
vive la vita,
costruisce l’uomo,
un braccio forte lega
una cintura di colomba.
Buon giorno, Polonia!
Buona notte, Polonia!
Domani, ti amo!
Buoni giorni e notti!
Buoni anni e secoli!
Ti amo,Polonia, e da te mi congedo
prendendomi un fiore e dando sulla tua fronte
un lungo bacio che prende la forma
di tutti i miei baci: di un canto.
IV
IL PASTORE PERDUTO
RITORNA, SPAGNA
Spagna, Spagna, cuore viola,
mi sei mancata nel petto, tu mi manchi
non come manca il sole nella vita,
ma come il sale nella gola,
come il pane nei denti, come l’odio
nell’alveare nero, come il giorno
sui sobbalzi dell’aurora,
ma non è solo questo, come il tessuto
dell’elemento viscerale, profonda
palpebra che non guarda e che non rinuncia,
terreno minerale, rosa di osso
aperta nulla mia ragione come un castello.
Chi posso chiamare fuorché la tua bocca?
Ho altre labbra che mi rappresentano?
Sei abbandonata o sono muto?
Che significa la tua silenziosa sfera?
Dove vaso senza la tua voce, sabbia madre?
Che cosa sono senza la tua lanterna crocifissa?
Dove sono senza l’acqua della tua roccia?
Chi eri tu se non mi desti sangue?
Oh tormento! Recuperami, ricevimi
prima che il mio nome e le mie spighe
scompaiano nella primavera.
Perché alle tue solitudini iraconde
va il mio destino incatenato, al peso
della tua vittoria. A te voglio essere condotto.
Spagna, sei più seria di una data,
di un presagio, di una tormenta,
e non importa la torre crudele
della tua voce perduta, bensì la dura
resistenza, la pietra che sostiene.
Però perché, se sono sabbia tua,
acqua nelle tue acque, sangue nelle tue ferite,
oggi mi neghi la bocca che mi chiama,
la tua voce, la costruzione della mia esistenza?
Chiedo a quello che nel tuo essere è la mia sostanza,
alla tua lacerazione di coltelli,
che si aprono oggi, sopra la sventura,
le illuminazioni del tuo volto,
e ti sollevi, perforando il cielo,
rompendo le tenebre e i simboli,
fino a sorgere, farina e alba
luna incendiata sopra gli ossari.
Ucciderai, Uccidi, Spagna, vergine santa,
alzati impugnando la tenerezza
come una rosa cieca scatenata
sopra le pietre infernali.
Vieni a me, restituiscimi la torre
che mi rubarono,
restituiscimi la lingua
e il popolo che mi attendono, sbalordiscimi
con la unità finale della tua bellezza.
Alzati sul tuo sangue e sul tuo fuoco:
il sangue che tu desti, per prima,
e il fuoco, nido della tua luce sacra.
I - SE IO TI RICORDASSI
Spagna, non sono ricordi
tuoi, non sei memoria.
Se voglio ricordare
le zagare,
o il mercato giallo
o le acide ombre di Valencia,
serro la fronte,
apro gli occhi
e mi mordo la bocca.
No non possiedo ricordi.
Non voglio niente con la tua forma secca
né con la tua generosa chioma,
non voglio le tue spighe,
non voglio continuare a raccoglierle
nella melanconia di un viaggio.
Ti voglio intatta, intera,
restituita a me
con fatti e parole,
con tutti i tuoi sensi,
sciolta e libera,
metallica e aperta!
Granata rossa e dura,
topazio nero, Spagna,
amor mio, anca
e scheletro del mondo,
chitarra incandescente,
fuoco che non brucia, oh dolorosa
pietra amata,
se io ti ricordassi
il cuore se mi dissanguassi
e necessitassi sangue
per riconquistar le tue bellezze,
affinché il tuo silenzio
d’improvviso si inginocchi
vinto, finito,
e si oda la voce del tuo popolo
nel nuovo coro del mondo.
II – ARRIVERÀ NOSTRO FRATELLO
C’è qualcosa,
fermentazioni, lacrime,
lune, duelli, dolori.
Si avverte
che accade qualcosa,
un punto, qualcosa,
come una cometa
di colore scarlatto:
sono tutte le tue stelle,
Spagna,
i tuoi uomini, le tue donne,
Spagna.
C’è un oceano,
un vasto vento elettrico
che fabbrica lampi,
qualcosa cresce nel tuo ventre,
Spagna.
Riconosciamo
al fratello che viene,
sollevalo alla luce,
nutrilo col tuo sangue,
che corra
appena sia nato,
che muoia
adesso,
dagli
latte di pietra selvaggia,
forza di terra atomica,
dagli tutte le tue ossa,
le ossa che non dimenticano,
dagli le orbite vuote
dei nostri fucilati,
dagli la tua vita e la mia,
se la chiede,
consegnali coltelli,
fucili nascosti.
Graffia
sotto il tuo letto,
cerca
nelle semine,
tira fuori dall’aria le armi,
e lascialo lottare,
Spagna, che lotti il tuo figlio,
che lotti il tuo figlio, Spagna.
Spezza
la tua prigione, apri
tutti i tuoi occhi,
solleva
il tuo antico cuore
perché questa è la tua bandiera,
la nuova stella nel mezzo
del tuo sangue versato.
Sollevati
e grida,
sollevati
e abbatti,
sollevati e costruisci,
mietitrice,
metti al mondo tuo figlio,
impasta il tuo pane nuovamente,
la terra sta aspettando
le tue mani e la tua farina.
È la tua vittoria
quello che ci occorre,
quello che cerchiamo prima di dormire,
quello che speriamo
prima di svegliarci.
La tua vittoria dimenticata
va errante nelle strade,
lasciala entrare,
lascia entrare la tua vittoria,
apri le porte,
che tuo figlio apra la porta
con robuste rosse mani da minatore,
che si aprano le porte della Spagna,
perché questa è la vittoria
che a noi manca
e senza questa vittoria
non c’è onore sulla terra.
III – IL PASTORE PERDUTO
Si chiamava Miguel. Era un piccolo
pastore delle rive
dell’Orihuela.
Lo amai e posi sul suo petto
la mia maschia mano,
e crebbe la sua statura poderosa
finché nell’asprezza
della terra spagnola
si stagliò il suo canto
come una brusca quercia
nella quale si unirono
tutti i sepolti usignoli,
tutti gli uccelli del sonoro cielo,
lo splendore dell’uomo duplicato
nell’amore della donna amata,
il ronzio odoroso
dei biondi alveari,
l’agro odore materno
delle capre partorite,
il telegrafo puro
delle cicale rosse.
Miguel fece di tutto
- territorio e ape,
sposa, vento e soldato –
fango per la sua stirpe vincitrice
di poeta del paese,
e così uscì camminando
sopra le spine della Spagna
con una voce che adesso
i suoi carnefici
devono sentire, ascoltare,
quelli
che conservano le mani
macchiate
con il suo sangue indelebile,
odono il suo canto
e credono
che è solo terra
e acqua.
Non è così.
È sangue,
sangue,
sangue della Spagna, sangue
di tutti i paesi della Spagna,
è il suo sangue che canta
e nomina
e chiama,
nomina tutte le cose
perché lui tutte le amava,
ma quella voce non dimentica,
quel sangue non dimentica
da dove viene
e per chi canta.
Canta
perché si aprano le carceri
e cammini la libertà per le strade.
Mi chiama
per mostrarmi tutti i luoghi
dove lo trascinarono,
a lui, luce dei paesi,
lampo di idiomi,
per mostrarmi
il carcere di Ocaña,
dove goccia a goccia
lo dissanguarono,
e dove mozzarono
la sua gola,
e dove lo uccisero sette anni
accanendosi
sul suo canto
perché quando uccisero quelle labbra
si spensero le lampade della Spagna.
E così mi chiama e mi dice:
“Qui mi giustiziarono lentamente.”
Così lui che amò e portava
sotto il suo povero vestito
tutte le sorgenti spagnole
fu assassinato sotto
l’ombra delle mura
mentre suonavano tutte le campane
in onore del carnefice,
ma
le zagare
diedero odore al mondo quei giorni
e quell’aroma era
il cuore martirizzato
del pastore di Orihuela
e era Miguel il suo nome.
Quei giorni e anni
mentre agonizzò,
nella storia
si seppellì la luce,
ma lì palpitò
e tornerà domani.
Quei giorni e secoli
in cui a Miguel Hernández
i carcerieri
diedero tormento ed agonia
la terra rimpianse
i suoi passi di pastore sui monti
e il guerrigliero morto,
cadendo, vittorioso,
sentì dalla terra
levarsi un rumore, un battito,
come se si socchiudessero le stelle
di un gelsomino silenzioso:
era la poesia di Miguel.
Dalla terra parlava,
dalla terra
parlerà per sempre,
è la voce del suo popolo,
egli fu tra i soldati
come una torre ardente.
Egli era
forza
di canti ed esplosioni,
fu come un panettiere:
con la sua mano produsse
i suoi sonetti.
Tutta la sua poesia
contiene terra porosa,
cereali, sabbia,
fango e vento,
ha forma
di brocca levantina,
di fianco ripieno,
di pancia di ape,
ha odore
di trifoglio nella pioggia,
di cenere amaranto,
di fumo di sterco, di sera,
sulle colline.
La sua poesia
è mais raggruppato
in un grappolo d’oro,
è vigna di uva nera, è bottiglia
di cristallo abbagliante
piena di vino ed acqua, notte e giorno,
è spiga scarlatta,
stella annunciatrice,
falce e martello scritti con diamanti
nell’ombra della Spagna.
Miguel Hernández, tutta
l’arancione creta o lievito
della tua terra ed il tuo popolo
rivivrà con te.
Tu la conservasti
con la mano più goffa, nell’agonia,
perché eri fatto
per l’alba e la vittoria,
eri fatto di acqua e terra vergine,
di stupore insaziabile,
di piante e di nidi.
Eri
la germinazione invincibile
della materia che canta,
eri
patria dell’integrità e disputasti
contro i nemici,
l’arabo e il franchista,
una mano pesante
piana di rampicanti e metalli.
Con la tua spada al braccio, invincibile,
morivi,
ma non eri solo.
Non solo l’erba bruciata
sulle povere colline di Orihuela
sparsero la tua voce ed il tuo profumo
per il mondo.
Il tuo popolo
sembrava
muto,
non guardava
la tua morte,
non udiva
le messe di disprezzo,
ma, va,
va e domanda,
va e vedi se c’è qualcuno
che non sappia il tuo nome.
Tutti sapevano
nelle carceri,
mentre i carcerieri
cenavano con Cossío,
il tuo nome.
Era uno splendore bagnato
dalle tue lacrime
la tua voce di miele selvatico.
La tua rivoluzionaria
poesia
era, in silenzio, in cella,
da un carcere all’altro,
ripetuta,
tesoreggiata,
e adesso
spunta il germe,
sale il tuo grano alla luce,
il tuo cereale violento
accusa,
in ogni strada,
la tua voce
riprende il cammino
delle insurrezioni.
Nessuno, Miguel, ti ha dimenticato.
Qui ti portiamo tutti
in mezzo al petto.
Figlio mio, ricorda
quando
ti ricevetti e ti posi
la mia amicizia di pietra nelle mani?
Ebbene, adesso,
morto,
tutto mi restituisci.
Sei cresciuto e cresciuto,
eri,
eri eterno,
eri la Spagna,
eri il tuo popolo,
ora non possono ucciderti.
Ora hai elevato
il tuo petto di granaio,
il tuo capo
si riempie di raggi rossi,
ora non possono fermarti.
Adesso
vogliono conficcarsi
come frati tardivi
nel tuo ricordo,
vogliono annaffiare con bava
il tuo volto, guerrigliero comunista.
Non possono.
non lo permetteremo.
Adesso
rimani puro,
rimani silenzioso,
rimani sonoro,
lascia
che preghino,
lascia
che cada il filo nero
dai suoi catafalchi marci
e bocche medioevali.
Non sanno altro.
Ora arriverà
il tuo vento,
il vento del popolo,
il viso di Dolores,
il passo vittorioso
della nostra mai morta
Spagna,
e allora,
arcangelo delle capre,
pastore caduto,
gigantesco poeta del tuo popolo,
figlio mio,
vedrai
che il tuo volto grinzoso
che il tuo volto grinzoso
starà sulle bandiere,
vivrà nella vittoria,
rivivrà quando arriva il popolo,
marcerà con noi affinché nessuno
possa separarti mai dal grembo della Spagna.