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1954 - L'UVA E IL VENTO
XIII
PASSANDO PER LA NEBBIA
I
LONDRA
A notte fonda, Londra,
a fatica intravista,
occhi innumerevoli,
dura segreta ombra,
botteghe piene di sedie,
sedie e sedie, sedie.
Il cielo scuro
seduto sopra Londra,
sopra la sua nebbia nera,
scarpe e scarpe,
fiume e fiume,
strade demolite dai denti
della miseria colore del ferro,
e sotto la spazzatura
il poeta Elliot
con il suo vecchio frac
leggeva ai vermi.
Mi chiesero quando
nacqui, perché venni
a disturbare l’Impero.
Tutto era polizia
con libri e manganelli.
Mi chiesero
di mio nonno e dei miei zii,
dei miei personalissimi affari.
Erano freddi
i giovani coltelli
sopra i quali
si siede
siede
siede
la matrona Inghilterra,
sempre seduta
sopra milioni di lacerazioni,
sopra povere nazioni cenciose,
seduta
sopra il suo oceano
di riservato uso personale,
oceano
di sudore, sangue e lacrime
di altri popoli.
Lì seduta
con i suoi vecchi merletti
prendendo tè e udendo
gli stessi pettegolezzi sciocchi
di principesse,
incoronazioni
e duchi coniugali.
Tutto succede nelle fiabe.
Nel frattempo
fa la ronda la morte con cappello
vittoriano
e scheletro logoro
per gli anneriti vermicai
degli scuri sobborghi.
Nel frattempo
la polizia ti interroga:
è la parola pace che li inchioda
come una baionetta.
Questa parola pace
essi vorrebbero
sotterrarla,
ma
non possono per ora.
Le lanciano sopra ombra,
nebbia
di polizia,
la legano e la rinchiudono,
la colpiscono,
la spruzzano di sangue e martirio,
la interrogano,
la gettano nel mare profondo
con una pietra in ciascuna
sillaba,
la bruciano con un ferro,
con una sciabola
la tagliano,
le gettano aceto, fiele, menzogna,
la impacchettano,
la coprono di cenere,
la gettano.
Ma allora
vola di nuovo
la colomba:
è la parola pace con piume nuove,
è il gelsomino del mondo
che avanza con i suoi petali,
è la stella del sogno e del lavoro,
l’uccello bianco
del velo immacolato,
la rosa che naviga,
il pane di tutte le vite,
la stella di tutti gli uomini.
II
IL GRANDE AMORE
Tuttavia,
Inghilterra,
c’è qualcosa di mogano
nella tua vita,
vecchio legno usato
dalla mano dell’uomo,
sedia di chiesa, coro
di cattedrale nella nebbia..
Qualcosa
a te ci unisce,
è qualcosa
contenuto
dietro le tue finestre,
un vento brusco, un uccello
di litorale selvaggio,
una malinconia mattutina,
qualcosa di impossibilmente solitario.
Amai la vita
dei tuoi uomini, falsi
conquistatori conquistati,
sparsi ai quattro venti del pianeta
per riempire la tua cassa. Tuttavia
se l’oro li mosse con la sua onda nera,
non furono solo quello
ma esseri
timidi esseri nelle tenebre, soli,
mentre lo stendardo coi leoni
soffocava la lotta dei popoli.
Poveri bambini inglesi, padroni poveri
di un mondo sgranato,
io so che per voi
è naturale
l’usignolo terrestre.
Shelley canta nella pioggia
e decora la pioggia
la sua cetra scarlatta.
Nasce nel tuo litorale l’aggressivo
pugnale di prua verso tutti i mari,
ma nella tua sabbia il perseguitato
incontrò il pane e costruì la sua casa.
Lenin sotto la nebbia
entrava nel Museo
alla ricerca di uno scritto,
di una data, di un nome,
mentre tutta la terra
sembrava oppressa,
solitudine sola, steppa impenetrabile,
lì, con i suoi occhiali
e il suo libro,
Lenin,
cambiava in luce la nebbia
Ebbene, ciò eri,
Inghilterra,
torre di asilo,
cattedrale di rifugio,
e quelli che ora
chiudono con la polizia
le righe scritte, le parole,
il tesoro
della saggezza che proteggi,
quelli che negano la tua sabbia
al pellegrino della pace errante,
non sono degni
della tua antica verità, del tuo legname,
ma ti accoltellano,
uccidono in te quello che ti proteggeva,
non il cuore, ma il decoro.
Patria di uccelli marini,
a me hai insegnato
quanto so degli uccelli.
Mi mostraste la squama
brunita dei pesci,
il tesoro plenario
della natura,
catalogasti fiumi, fiori,
molluschi e vulcani.
Alle accanite
regioni della mia patria
arrivo il giovane Darwin,
con la sua lampada
e la sua luce illuminò la terra
e il mare profondo
tutto quello che abbiamo:
piante, metalli, vite
che tessono la struttura
della nostra oscura stella.
Più tardi Hudson
nelle praterie
si occupò degli uccelli che erano
stati dimenticati dai libri
e con essi
riempì la geografia
che ci sta partorendo poco a poco.
Inghilterra,
sei dolce
scopritrice
di piume e radici,
hai potuto
essere la conoscenza innamorata,
e ora
perché permetti
che nella tua grondaia
vivano i distruttori di uccelli,
i rapaci, i becchini?
Fosti
penetratrice
del più segreto
labirinto
della vita e delle vite,
e ora,
quando ascoltiamo
la tua voce
udiamo la cenere,
la distruzione della polvere, l’agonia.
Io so che canti
e sei
semplice come la tua smarrita gente
dei sobborghi e miniere,
grave e scoppiettante
come il carbone che scavano.
Ti chiedo,
Inghilterra,
di tornare
a essere
inglese,
mi senti?
Si, che sia
inglese,
che non ti rendano simile a Chicago,
che non ti rendano simile alla polizia, che respiri,
che sia e che sia
quello che sei stata
nel tuo campo e nei tuoi paesi,
orto fruttifero di uccelli e genti,
umanità semplice,
rifugio di uomini perseguitati,
scopritrice di uccelli.
Inghilterra,
ti chiedo
di essere una regina delle isole,
non una vassalla isolana,
di obbedire
al tuo coro di uccelli marini,
alla tua semplice stirpe
mineraria e marinara.
Io vengo a dirti in segreto
che vogliamo amarti.
È difficile,
tu sai
quante cose accaddero
nei distanti territori,
sangue, esplosioni,
eccetera e eccetera.
Ebbene, ora,
nell’ora dell’amore
ti vogliamo amare.
Preparati come un tempo
per l’amore che torna,
per l’amore che cresce
nell’onda più alta
dell’oceano umano.
Preparati
alla pace,
e allora,
torna a essere quello che amiamo,
uomini come noi,
terra come la nostra,
questo è quello che vogliamo.
Tutti
viviamo
sulla terra
sotto gli stessi boschi,
sopra la medesima sabbia.
Non possiamo
contrastare l’autunno,
o lottare
contro la primavera,
dobbiamo
vivere
sopra le stesse onde.
Sono nostre, degli uomini,
dei bambini.
Tutte
le onde,
non hanno marchio alcuno,
né la terra
ha marchio,
per questo
uomini di tante razze e regioni
in questa epoca
della fertilità, dei destini
e delle invenzioni,
possiamo scoprire
il grande amore
e impiantarlo
sui mari e sulla terra.
XIV
LA LUCE BRUCIATA
I
LA FIAMMA SCURA
Sta la rosa di oggi nell’annuncio
di ieri sopra il ramo.
È solo chiarore, luce costruita,
gorgoglio di bellezza,
piccolo raggio rosso
sollevatosi dalla terra.
I pini nel vento
spandono il loro suono ed i loro aghi,
il sale del mare raccoglie
il peso azzurro, opprimente del cielo.
Di pace è questo giorno
libero e aperto e chiaro
come il nuovo edificio di una scuola.
Di pace è fatto il vento
che attraversa le altezze dei pini.
Di pace, amore mio, è questa
luce delle tua capigliatura
che cade nelle mie mani
quando reclini la testa e chiudi,
per un solo minuto,
le porte della terra,
del mare e dei pini.
Non è petalo, non è rosa,
non è fiammata scura:
è sangue, ora,
in questo giorno oltre il vento.
II
LA TERRA TEMPESTOSA
Amore, amore, ora
perfora con i tuoi occhi
lo spessore.
È in Vietnam, un aspro
odore di luce bruciata,
in vento di essenze e sepoltura.
Avanza
con i tuoi occhi,
apri tra liane e canneti
il cammino del raggio dei tuoi occhi.
Vedo
gli eroi
lacerati,
da sole a sole, senza notte, senza rugiada,
piccoli capitani
del sudore e della polvere
che difendono la pelle aggrovigliata,
la terra tempestosa,
i fiori della patria.
Giovani del Vietnam oscurati
dalla selva, dal silenzio
e dalla menzogna:
io non merito il mare,
io non merito
questo giorno di pace e di gelsomini.
Per voi è, per voi,
il tesoro terrestre,
per tutti
quelli che dall’invasore e dal suo fuoco
centimetro per centimetro,
con il loro sangue ed le proprie ossa,
riconquistarono la patria.
Per essi
la pace del giorno e della mattina
che riunite
in un nascondiglio di selva o di cemento
avremo riconquistato
per tutti gli uomini.
XV
LA LAMPADA MARIMA
I
IL PORTO COLOR DEL CIELO
Quando sbarchi
a Lisbona,
cielo celeste e rosa rosa,
stucco bianco e oro,
petali di mattone,
le case,
le porte,
i tetti,
le finestre
spruzzate dell’oro dei limoni,
dell’azzurro oltremare delle navi.
Quando sbarchi
non conosci,
non sai che dietro le finestre
ascoltano,
fanno la ronda
carcerieri di lutto,
retorici, corretti,
inviando prigionieri alle isole,
condannando al silenzio,
pullulando
come squadre di ombre
sotto finestre verdi,
tra monti azzurri,
la polizia
sotto le autunnali cornucopie
ricercando portoghesi,
grattando il suolo,
destinando gli uomini all’ombra.
II
LA CETRA DIMENTICATA
Oh Portogallo bello,
cesta di frutti e fiori,
emergi
dalla riva argentata dell’oceano,
nella schiuma dell’Europa,
con la cetra d’oro
che ti dette Camoens,
cantando con dolcezza,
spargendo nella foce dell’Atlantico
il tuo tempestoso odore di osterie,
di zagare marine,
la tua luminosa luna intersecata
da nubi e tempeste.
III
I CARCERI
Ma,
portoghese della strada,
detto tra noi,
nessuno ci ascolta,
sapete
dove
è Álvaro Cunhal?
Riconosci l’assenza
del valente
militante?
Ragazza portoghese,
passi come ballando
per le strade
rosate di Lisbona,
ma,
sai dove cadde Bento Gonçalves,
il portoghese più puro,
l’onore del tuo mare e della tua sabbia?
Sai
che esiste
una isola,
l’Isola de la Sal,
e Tarrafal in quella
sparsa ombra?
Si, lo sai, ragazza,
ragazzo, si, lo sai.
In silenzio
la parola
cammina con lentezza ma percorre,
non solo il Portogallo, ma tutta la terra.
Si sappiamo,
in remoti paesi,
che da trenta anni
una lapide
spessa come una tomba o tunica
di clericale pipistrello,
soffoca, Portogallo, il tuo triste trillo,
spruzza la tua dolcezza
con gocce di martirio
e ti mantiene sotto cupole d’ombra.
IV
IL MARE E I GELSOMINI
Dalla tua piccola mano in un’altra ora
salirono creature
sgranate
nello stupore della geografia.
Così ritornò Camoens
a lasciarti un ramo di gelsomino
che continuò a fiorire.
L’intelligenza bruciò come una vigna
di trasparenti uve
nella tua razza.
Guerra Junquiero tra le onde
lasciò cadere il suo tuono
di libertà selvaggia
che trasportò l’oceano nel suo canto,
e altri moltiplicarono
il tuo splendore di rosai e grappoli
come se dal tuo territorio stretto
uscissero grandi mani
spargendo sementi
per tutta la terra.
Tuttavia,
il tempo ti ha seppellito.
La polvere clericale
accumulata a Coimbra
cadde sul tuo volto
di arancia oceanica
e coprì lo splendore della tua vita.
V
LA LAMPADA MARINA
Portogallo,
ritorna al mare, alle tue navi,
Portogallo, ritorna all’uomo, al marinaio,
ritorna alla tua terra, alla tua fragranza,
alla tua ragione libera nel vento,
di nuovo
alla luce mattutina
del garofano e della schiuma.
Mostraci il tuo tesoro,
i tuoi uomini, le tue donne.
Non nascondere più il tuo volto
di imbarcazione valorosa
posta negli avamposti dell’Oceano.
Portogallo, navigatore,
scopritore di isole,
inventore di pepi,
scopri l’uomo nuovo,
le isole assolate,
scopri l’arcipelago nel tempo.
L’improvvisa
apparizione
del pane
sulla tavola,
l’aurora,
tu, scoprila,
scopritore di aurore.
Com’è questo?
Come puoi negarti
al cielo della luce tu, che mostrasti
strade ai ciechi?
Tu, dolce e ferreo e vecchio,
stretto e ampio padre
dell’orizzonte, come
puoi chiudere la porta
ai nuovi grappoli
e al vento con le stelle dell’Oriente?
Prua dell’Europa, ricerca
nella corrente
le onde ancestrali,
la marittima barba
di Camoens.
Rompi
le ragnatele
che copre il tuo fragrante fallimento
e allora
a noi i figli dei tuoi figli,
quelli per i quali
scopristi la sabbia
fino ad allora oscura
della geografia affascinante,
mostraci che tu puoi
attraversare di nuovo
il nuovo mare oscuro
e scoprire l’uomo che è nato
nell’isola più grande della terra.
Naviga, Portogallo, l’ora
arrivò, alza
la tua statura di prua
e tra le isole e gli uomini ritorna
a essere cammino.
In questa età aggrega
la tua luce, torna a essere lampada:
imparerai di nuovo ad essere stella.
XVI
LA TERRA E LA PITTURA
I
ARRIVO A PORTO PICASSO
Sbarcato a Picasso alle sei del mattino d’autunno, appena
il cielo annunciava la sua crescita rosa, guardai intorno, Picasso
si estendeva e si incendiava come il fuoco dell’alba. Lontano indietro
stavano le cordigliere azzurre e tra loro si alzava nella valle dell’Arlequín di cenere.
Ecco: io venivo da Antofagasta e da Maracaibo, io venivo da Tucumán
e dalla terza Patagonia, quella dai denti gelati rosi dal tuono, quella dalla bandiera sommersa dalla neve perenne.
E allora sbarcai e vidi grandi donne dal colore di mela
alla rive di Picasso, occhi smisurati, braccia che riconobbi:
tale l’Amazonia, tale era la Forma.
E all’ovest erano burattinai derelitti che rotolavano verso il giallo,
e musicisti con tutti i quadri della musica, e ancor più, là la geografia
si popolò di una lacerante emigrazione di donne, di artisti,
di petali e fiamme
e in mezzo Picasso tra le due pianure e l’albero di vetro,
vidi una Guernica in cui rimase il sangue come un gran fiume, la cui corrente
si trasformò nella chioma del cavallo e nella lampada:
ardente sangue sale ai musi,
umida luce che accusa per sempre.
Così, quindi, nella terra di Picasso da Sud a Ovest,
tutta la vita e le vite facevano la dimora
e il mare e il mondo lì accumularono
il suo cereale e il suo spruzzo.
Incontrai lì un graffiato frammento
di gesso, la buccia del rame,
e il ferro di cavallo morto che dalle sue ferite
verso l’eternità dei metalli cresce,
e vidi la terra entrare come il pane nei forni
e la vidi apparire con un figlio sacro.
Anche il gallo nero della encefalica schiuma
incontrai, con un ramo di filo di ferro e sobborghi,
il gatto azzurro con il suo ventaglio di unghie,
la tigre che avanzava sopra gli scheletri.
Io riconobbi i marchi che tremarono
nella foce dell’acqua in cui nacqui.
Per primo fu questa pietra con spine, da dove
sporse, illusoria, il ramo lacerato,
e il legno nella cui rotta genealogia
nascono i bruschi uccelli del mio ardore natale.
Ma il toro spuntò dai corridoi
nel centro terrestre, io vidi la sua voce, arrivava
frugando le terre di Picasso, si copriva
l’effigie con i mantelli dalla tinta violetta,
e vidi venire il collo della sua oscura catastrofe
e tutti i ricami della sua bava invincibile.
Picasso di Altamira, Toro dell’Orinoco,
torre di acque per gli amori induriti,
terra di minerali mani che trasformarono
come l’aratro, in parto l’innocenza del muschio.
Qui sta il toro la cui coda trascina
il sale e la asprezza, e nella sua sabbia
trema il collare della Spagna con un suono secco,
come un sacco di ossa che la luna sparge.
Oh circo in cui la seta continua a bruciare
come una dimenticanza di papaveri nella sabbia,
e non ci sono ormai bensì giorno, tempo, terra, destino
per affrontarsi, toro dall’aria sfrenata.
Questa corrida ha tutto il violaceo lutto,
la bandiera del vino che ruppe le stoviglie:
e ancor più: è la piana di polvere del mulattiere
e gli accumulati paramenti sacri che conservano
il distante silenzio della carneficina.
Sali Spagna per queste scale, increspati
d’oro e di fame, e il volto chiuso dalla collera
e ancor più, esaminate il suo ventaglio: non ha palpebre.
C’è una nera luce che ci guarda senza occhi.
Padre della Colomba, che con lei
spiegata nella luce arrivasti al giorno,
appena fondata sulla sua carta di rosa,
appena pulita di sangue e di rugiada,
alla chiara riunione delle bandiere.
Pace o colomba, eleganza brillante!
Circolo, riunione del terrestre!
Spiga pura tra le frecce rosse!
Improvvisa direzione della speranza!
Con te stiamo nel fondo disordinato
dell’argilla, e oggi nel duraturo
metallo della speranza.
“È Picasso”,
dice la pescatrice, legando argento,
e il nuovo autunno raccoglie
lo stendardo
del pastore: l’agnello che riceve una foglia
del cielo in Vallauris,
e ode passare le corporazioni al suo alveare, vicino
al mare e alla sua corona di cedro simultaneo.
Forte è la nostra misura quando
gettiamo – amando il semplice uomo –
le tue braccia nella bilancia, nella bandiera.
Non era nei progetti dello scorpione il tuo volto.
Volle mordere talvolta e incontrò il tuo vetro
smisurato,
la tua lampada sotto la terra,
e allora?
Allora per il bordo della terra cresciamo
verso l’altro bordo della terra cresciamo.
Chi non ascolta questi passi ode i tuoi passi. Ode
dall’infinità del tempo questo cammino.
Ampia è la terra. Non sta la tua mano sola.
Ampia è la luce. Accendila sopra di noi.
XVII
IL MIELE DI UNGHERIA
I
IO VENIVO DA LONTANO
Io portavo sulla schiena
un sacco
di nere sofferenze,
la notte delle miniere
della mia patria.
Quando il carbone
di Lota
nella locomotiva
arde
si presenta rosso
e brucia
non è fuoco,
è sangue,
sangue dei minatori della mia patria,
scuro sangue che accusa.
E così
piegato
sotto il mio sacco nero
di sangue e di carbone trasgredii
i cammini d’Europa,
la luna d’argento consumata
dagli occhi umani,
i vecchi ponti rotti
dalla guerra,
le città vuote
con le loro finestre cieche
e le loro macerie su cui cresce il foraggio,
le ortiche,
il triste dente di leone,
con paura,
senza radici.
Così andai per le strade bombardate
cercando la verde speranza,
finché la incontrai
vestita di acqua e oro
nelle rive doppie
di Budapest un giorno.
II
CRESCONO GLI ANNI
Ungheria,
doppio è il tuo volto come una medaglia.
Io ti incontrai in estate
ed era
il tuo aspetto bosco e frumento:
la rapida estate
col suo manto d’oro
il tuo dolce corpo verde ricopriva.
Più tardi
ti vidi piena di neve,
oh bella rosa
dai denti bianchi e dalla corona bianca,
stella dell’inverno,
patria della bianchezza!
E così il tuo doppio volto di medaglia
amai passando sopra le tue pupille
i miei baci benvenuti nell’aurora,
perché tu costruivi
il sole che stava nascendo,
la tua bandiera,
il passaggio del tuo popolo
nelle steppe,
gli attrezzi puri
della liberazione, l’acciaio
con cui si costruirono le stelle.
Vicino a me cresce
questo tempo,
questa epoca,
come un rapido bosco,
come pianta vulcanica
piena di vita e foglie,
la mia epoca
di sangue e chiarezza, di notte fredda
e splendore mattutino.
Nuove città crescono,
albeggiano bandiere,
si affermano le repubbliche
del socialismo in marcia,
Il Vietnam palpita
perché sul sangue e dolori
nasce una nuova vita.
La mia epoca
alloro e luna piena,
amore e polvere esplosiva!
Io ho visto
nascere, crescere gli anni,
partorire la vecchia terra
robuste, nuove cose.
Io penso
all’uomo perduto
dell’altro tempo
che non vide nascere nulla,
che si precipitò di strada in strada,
di notte in notte fredda,
salì scale,
si riempì di fumo,
e mai vide dove terminavano
i gradini né il fumo.
Quell’uomo
fu come un fungo nella selva,
nella umidità oscura
dissipò la sua eredità,
non vide sopra il bosco l’altitudine
tatuata con stelle,
non vide sotto i suoi piedi
intrecciarsi tutti
i germi del bosco.
Io sento, guardo, tocco
la crescita
di quello che sopraggiunge,
vedo da una terra all’altra constatando,
sommando l’indelebile,
aggregando i passi,
riunendo le sillabe
del canto del vento sulla terra.
III
AVANTI!
URSS,
Cina,
Repubbliche
popolari,
oh mondo
socialista,
mondo
mio,
produci,
hai boschi, canali,
riso, acciaio,
cereali, fabbriche,
libri, locomotive,
trattori e bestiame.
Togli dal mare i tuoi pesci
e dalla terra ricca i raccolti
più dorati del mondo.
Che dalle le stelle
si scorgano
brillando come mine scoperte
i tuoi granai,
che trepidino i piedi sul pianeta
con il ritmo di assalto
delle perforatrici,
che il carbone dalla sua culla
esca con un grido rosso
verso le fonderie eminenti,
e il pane di ciascun giorno
sia eccedente,
il miele, la carne,
siano puri oceani,
le ruote verdi dei macchinari
si adattino agli assi oceanici.
Cerca sotto la neve,
e sull’altura,
che le tue ali di pace abbagliante
popolino di musica motorizzata
le ultime sfere
della patria celeste.
Io abito
nel mondo dell’odio.
Leggo la stampa dell’odio.
Vogliono
che un vento atroce distrugga i raccolti.
Che non si reincorporino le città.
Vogliono
che esplodano i tuoi motori
e che non arrivino né pane né vino
alle molteplici bocche dei tuoi popoli.
Vogliono negarti l’acqua,
la vita, l’aria.
Perciò,
uomo del mondo socialista, affacciati,
affacciati sorridente,
incoronato di fiori e di fabbriche,
eretto sopra tutti
i frutti di questo mondo.
XVIII
FRANCIA FLORIDA, RITORNA!
Francia, un tempo ci si saziava nominandoti
In tutti i paesi, il tesoro della nobiltà
Ciascuno poteva in te trovare
Bontà, lealtà, gentilezza,
Scienza, sensi, cortesia, altruismo.
Tutti gli stranieri amavano seguirti.
Ed ora di ciò che vedo ho dispiacere
CHARLES D’ORLEANS (1430)
I
LA STAGIONE SI INAUGURA
Quando sotto la terra
si preparano
le stagioni,
le linfe, le radici,
i semi,
il fuoco
e l’acqua
parlano
cercando ornamenti,
pulendo il mogano
della castagna futura,
indurendo il niveo
avorio delle mandorle,
combinando i fili
dei rampicanti,
elevando lo zucchero
verde dei grappoli,
allora
tutto è pronto:
l’autunno dalle mani rosse,
o la primavera pura,
o l’estate nei fiumi,
o l’inverno color di stella,
e la Francia apre le porte:
si è inaugurato il tempo.
Perché lì sono più belli
i balli delle foglie,
la seta crepitante
dell’autunno nei boschi.
Lì le acque sanno
cantare d’accordo
con il violino del vento.
Cattedrale e pianura
da molti anni
fioriscono ricevendo
lo stesso bacio doppio dalla pioggia.
Lì nel paese di Francia
nacque il vino,
quindi nella trasparenza del bicchiere
le palpebre trovarono
forma e suono di cristallo maturo
e gli uomini cantarono.
Lì
sempre gli uomini cantarono.
Arrivò la guerra
come un catrame implacabile,
ma dal lutto
la Francia uscì cantando.
Cantarono i valorosi al muro
della fucilazione. Cantarono
i comunisti della Comune.
Cantò, decapitata,
la figlia di Jean Richard. Canta
il popolo di Francia,
mentre i mercanti
atlantici
stanno preparando la carneficina.
Ma non solo soggiorno di spazioso autunno
o primavera domanderei
essere, giardino
di Francia, strada
di Francia,
lottatrice
hai scritto con pietra e sangue
il tuo nome sulla muraglia
del destino,
e come in te i fiumi sono sicuri
della loro armoniosa abbondanza,
così il tuo popolo,
verso la pienezza, di riva in riva,
ripieno di lotte e doni,
restaurerà, cantando,
l’allegria.
II
E TUTTAVIA …
Io feci uso
di Rabelais per la mia vita
come dei pomodori.
Per me
fu essenziale la sua carnivora tromba,
la sua principale gazzarra.
E tuttavia …
Quella notte sola,
passai nella costa dei poveri ricchi,
nella Francia lunatica del Sud.
Io venivo terrestre,
con la polvere del Sud, la neve rossa,
la zagara di tutte le strade.
Io venivo felice.
Io mi svegliavo
con il collo dorato
dell’allegria
sotto il mio braccio sinistro,
con il capezzolo violaceo di una rosa
sotto i miei nuovi baci,
e allora
la polizia,
molto corretta,
mi offrì sigarette
e mi espulse dalla Francia.
Era dopo la prima notte
in Francia. Tra la sua terra
ed il mio corpo addormentato
il tempo era passato
e quella notte, in sogno,
a me salì la terra
con strofe e vigne.
Tremò il mio cuore mentre dormivo:
la terra lo riempiva
di elettrica bellezza,
lo tingeva di verde,
acqua di Francia e vino,
pampini e radici.
Antichi morti amati,
zafferano e gelsomini,
mi avvolsero addormentato,
e io per le fragranze della terra
navigai, trapassato,
finché il giorno fece entrare la sua spada bianca
con gocce di rugiada,
e allora
venne
chi, bensì essa,
la Francia di oggi,
la polizia,
e benché la nave mi aspettasse ancorata
per ritornare in Cile,
lì, tra sigarette, mi espulsero
da quasi tutto quello che amo,
e non servì a niente che io ricordassi
la memoria
di Charles d’Orleans, pulendo ogni giorno
la sua chitarra di lutto,
non mi servì a niente che Rimbaud viva
clandestino
nella mia casa,
da molti anni.
Ahi, di niente,
ahi, di niente.
Né gli occhi di Eluard come due lampade
di fuoco azzurro sulle mie spalle.
Niente servì.
La polizia
parlava di istruzioni superiori,
e che sia ben chiaro:
non devo ritornare mai.
Non posso
posare un solo piede
in questo proibito territorio.
Debbo comprendere le cose:
né di transito,
né sorvolare,
né attraversare di sotto,
né sussurrare vicino al mare, alle onde
della Normandia che amo.
Non posso
mascherarmi da albero e ricevere la pioggia,
dormire vicino ai crescioni.
Non debbo vicino a un fiume
cantare o piangere di allegria.
Non posso
mangiare formaggio silvestre
con le lattughe
che lì sono come labbra. Non posso
a Sain Louis de la Isla
bere il mio vino bianco,
nessuna,
nessuna
sera più
della mia vita.
Furono completamente chiari
e eternamente oscuri.
Mi espellono. È chiaro.
Perché mi espellono? Oscuro.
Così, la polizia
prese nelle sue mani
la onorificenza che in altro tempo
il conte di Dampierre mi lasciò sul risvolto,
la guardarono
come se fosse un aglio sporco
o un mozzicone con gusto di sapone.
Essi avevano
istruzioni
eminentemente superiori,
e così fu, signori e signore,
come andai via dalla Francia.
È naturale,
non necessito
spiegarmi.
Tutti sappiamo
che l’Ambasciata
del Far West,
con i suoi bovari,
sputano nelle lampade di cristallo di Versailles.
Che con tabacco in bocca
Jim Coca Cola
orina sulle statue
di Fontainbleau, le cieche
statue delle regine addormentate.
Tutti sappiamo questo,
ma,
non voglio parlar di ciò,
non è il mio tema.
Se io avessi avuto
venti anni
e così mi avessero
strappato
la Francia dalla vita,
questo sarebbe stato un lungo
lamento, un lungo pianto.
Io avrei scritto
la morte e le esequie
della mia odorosa
primavera.
Ma, adesso,
con tante cicatrici
che ancora non sono riuscite
a uccidere il mio cuore,
con l’allegria
senza svegliare ancora nelle mie braccia,
con tutta la vita davanti,
con la speranza,
con tutto quello che viene
quando noi non saremo più,
con la Francia che domani
si sveglierà ancora,
perché mai ha dormito,
con tutti i gelsomini e le vigne,
le strade, i cammini,
e le canzoni che amo,
e che nessuno nemmeno
la polizia
potranno strapparmi dall’anima,
posso dire, signori
e signore,
che amo la dolce Francia,
dalla quale mi espulsero.
E che continuo
a vivere
come se lì vivessi,
con la sua terra ed i suoi eroi,
con il suo vino ed il suo popolo,
e che non mi sono svegliato ufficialmente
da quella unica notte
in cui tutto l’aroma
della sua profondità e della sua dolcezza
salì il mio sonno per salutarmi.
III
PIÚ DI UNA FRANCIA
Trasparente
è la terra:
bolla di acqua e ferro,
coppa verde
di oceani, praterie,
distanze,
onde di quarzo e rame
in essa si calmarono.
Il carbone nelle profondità
dei corridoi ciechi
riposa la sua energia.
Frutta e cereali
come il manto
di un antico monarca
la coprono con stelle
gialle:
straripante è la coppa
della terra:
tutta la luce e tutta
l’ombra la accendono
e la spengono,
aspra, con spine
dell’inverno,
dolce, piena di tutte
le dolcezze:
pianeta, osserva qualcosa
più vivente
e elettrico
di tutti i metalli:
è l’uomo,
il piccoletto
essere che trema,
cade e solleva
la fronte più ferita
e con il braccio appena graffiato
impugna i lampi.
Vedo
i boschi calorosi,
la selva
nel Laos,
insetti come foglie,
leopardi
dalla forza silenziosa
e vita fosforica,
i grandi alberi intrecciati
alla antica terra,
i monumenti umidi
con le loro narici rotte
e gli occhi da cui
irrompe il fogliame.
Niente di questo
ci interessa:
attendi,
spera,
guarda!
Qui sta quello che ami:
Un piccolo
uomo libero
con una carabina,
aspetta.
È lui,
il guerrigliero
della Cambogia.
Aspetta
il meccanico passo
dell’invasore blindato.
Non pensa
alla febbre che spia,
al serpente
di elettrico veleno:
solo attende
il soldato
straniero.
Lì nella selva
le foglie
sono la sua patria,
ogni suono di uccello
o acqua,
ogni volo
di farfalla o di palpebra,
è la sua patria.
La patria è un fogliame
e alla sua ombra
l’uomo,
l’uomo piccoletto,
difende
ciascuna
delle sue foglie.
Vietnam dall’altro lato.
Hai fiumi bruni, tremanti
di vite e messaggi
che vanno di terra in terra.
I francesi
dalle città
guardano il bisbiglio
del fogliame.
Perché lasciarono
la fruttifera primavera
della Francia?
Gli dissero
che essi portavano
la cultura
e da allora
le mitragliatrici
e il napalm
di Eisenhower,
la rovina e l’incendio,
sbarcano
con essi, i francesi.
I nipoti
di Victor Hugo,
non portano
libri
bensì
terribili pallottole,
dolori,
sangue.
Per questo
sa Saigon di alza
un nero
mormorio
di fumo e paura
che attraversa la terra
e cade
sopra la Francia,
sopra certe piccole
case povere
cade
la paura dell’Indocina.
La morte,
una notizia
con un nome di lutto,
arriva
come un’aquila nera
dalle alture dell’Asia
e entra
nella primavera
mattutina della Francia
con una ombra rapida
di artigli.
IV
HENRI MARTIN
Henri Martin ascolta
il rumore
che fanno la paura e il sangue.
Nel sua prigione in Francia
ode
le bandiere del bosco.
I suoi muoiono
inutilmente,
si putrefanno, se li portano
scarabei color di stagno.
Cadono
figli di Francia
là lontani.
Perché?
Henri Martin si oppose
alla carneficina
senza gloria,
e adesso
con un vestito rigato,
con un numero sulle spalle,
lavora incarcerato
il raggiante
onore della Francia.
Per sbarcare con acquazzone
caldo, tra le mosche,
carri armati e pustole,
maledizioni, disgrazie,
per sbarcare
ragazzi
nati dalla rosa
della Francia,
figli
del gelsomino e delle uve,
per ucciderli,
per decorarli
e assassinarli,
il governetto
di Francia
deve crocifiggere l’onore,
cancellarlo,
mettergli vestito a righe,
numerarlo,
deve industrializzare il suo letamaio
per venderlo
ai cowboys di Washington,
deve rompere le ossa
dell’antico
onore mai estinto.
Perciò
Henri Martin,
raggiante,
indomabile
attraverso le sbarre
che imprigionano
gli occhi tricolori
del suo popolo,
guarda
come cade
il sangue nei pantani,
là lontano,
senza gloria,
sotto le ali torride,
e scarabei
con le loro piccole
bocche di stagno
trasportando
alle umide tane,
uomini,
frammenti di ragazzi,
la forza e la dolcezza
della Francia
sacrificata
perché i cowboys
di Filadelfia
ballino con la soavissima signora
dell’ambasciatore di Francia.
Henri Martin: il trifoglio
del pasto mattutino,
le cose più umili,
il banco
del carpentiere,
il fiore azzurro senza nome
tra le pietre,
il terribile
vento solforico
di Chuquicamata nella notte,
gli uomini
ammucchiati
nelle miniere,
il pane,
il guerrigliero
della nostra dolorosa,
materna, sfortunata,
erioca
Grecia di oggi,
tutto
ciò che è semplice,
ciò che senza apprendere e senza saperlo
canta in tutte le terre ed i fiumi,
tutto
ti saluta,
Henri Martin, fratello
di quanto esiste, fratello
della chiarezza e del sogno,
fratello
della rettitudine del giorno
di tutta la speranza,
marinaio.
Io passo e vedo il mondo.
Lì stetti,
lì dove steste.
Conosco
il sangue e la morte.
Perciò, perché eri
il fratello
della vita,
Henri Martin, onore
della Francia, foglia
della più alta quercia,
alloro delle praterie,
eroe
della pace e della purezza,
ti saluto
con la semplicità
della sabbia e della neve
della mia patria distante.
XIX
ADESSO CANTA IL DANUBIO
… Danubio, fiume divino
che per fiere nazioni
scorri con le tue onde chiare.
GARCILASO DE LA VEDA
(Canción III)
I
DITA BRUCIATE
Romania antica, Bucarest dorata,
come assomigli
alle nostre infernali e celesti
repubbliche
d’America.
Pastorale eri e ombrosa.
Spine e asprezze proteggevano
la tua miseria terribile,
mentre Mme. Charmante
divagava in francese per i saloni.
La frusta cadeva
sopra le cicatrici del tuo popolo,
mentre gli eleganti letterati
nella loro rivista Sur (sicuramente)
studiavano Lawrence, la spia,
o Heidegger o “notre petit Drieu”.
“Tout allait bien a Bucarest”.
Il petrolio
lasciava bruciature sulle dita
e anneriva volti
di rumeni senza nome,
ma assentiva
alle lire sterline
a New York e a Londra.
Perciò
era tanto elegante Bucarest,
tanto soavi le signore.
“Ah quel charme monsieur”.
Mentre la fame
girava in tondo alzando
la sua forchetta vuota
per i sobborghi neri
e la campagna sfortunata.
Ah, si signori, era
esattamente come Buenos Aires,
come Santiago o Lima,
Bogotà e San Paolo.
Ballavano in pochi nella sala
scambiandosi sospiri,
il Club e le riviste letterarie
erano molto europei
la fame era rumena,
il freddo era rumeno,
il duello dei poveri
nel comune ossario era rumeno,
e così andava la vita
di fiore in fiore come nel mio continente
con le prigioni piene
e i buoni nei loro giardini.
Oui, Madame, che mondo
se ne andò, che irreparabile
perdita per tutta
la gente distinta!
Bucarest ormai non esiste.
Codesto gusto, codesta linea,
codesta squisita miscela
di putrefazione e di “patisserie”!
Terribile mi sembrava.
Mi dicono
che perfino il colore locale,
i pittoreschi vestiti cenciosi,
i medicanti storti come povere radici,
le bambine che tremando
aspettavano di notte
alla porta del ballo,
tutto ciò, orrore, è scomparso.
Che faremo, chère Madame?
In un’altra parte faremo
una rivista Sur di allevatori
profondamente preoccupati
della metaphyfisique.
II
LA BOCCA CHE CANTA
Vado dalle pinete
fino alle foci basse del Danubio,
l’aria azzurra scuote
le vite e la vita.
L’aria ripulisce il fondo
dei saloni, entra
per le finestre
un vento di bandiere popolari.
Cancellando in questa ora,
Romania, con le tue mani gli stracci
del tuo popolo,
hai mostrato
una nuova testa, nuovi occhi,
nuova bocca che canta,
e non solo una razza di pastori
mostri oggi sulla terra,
ma una abbagliante
costruzione che cammina.
III
UNA TIPOGRAFIA
Io vidi una tipografia alzarsi
tanto poderosa
come nella mia terra una Banca.
Vidi mattoni e mattoni
prendere la forma
di quella cattedrale della parola,
salire i muri
e subito
risplendevano le linotipie,
l’acciaio oliato,
e entrare la rotativa
come il carro armato più grande
della tipografia.
Era bello
vedere come entrava
la ferrea madre
della luce scritta.
Cigolando
avanzava
e al suo fianco,
come formiche azzurre,
gli operai.
Odorava di vento
con olio ferreo,
odorava di frutta nuova
e di silenzio,
odorava di tempo grande che veniva.
Era bello,
più bello delle foglie e degli alberi,
più bello dei fiori,
vedere come verso l’alto
camminava la tipografia.
Lì dove le dame
anticamente
si inchinavano
davanti a un piccolo libertino d’Europa,
l’incoronato Carol,
lì cresceva come
la cattedrale del vento
una tipografia
più grande
che una Banca di Occidente,
più grande di una fabbrica
di fucili,
più bella
di un vivaio di gigli accesi,
più alta
dei nostri alberi americani.
IV
GLI DEI DEL FIUME
Ovidio e Garcilaso abbandonati
ieri sulle tue rive,
Romania, ti incoronino,
ti incoronino e cantino.
Che l’acqua porti via il tuo fiume fecondando
le vite e la sabbia,
popoli l’amore le tue case e i tuoi boschi,
con grappoli si coprano
le tue braccia e i tuoi tempie.
Non solo l’uomo
libero
delle tue nuove città e campagne
festeggio.
Non solo ai lavori creatori
di scuole e di fabbriche
io dedico il mio canto.
Non solo ai canali
aperti nella roccia e nella terra
perché continuino a distribuire spighe
le acque del Danubio
io la mia lira dedico,
ma a te, Romania,
al tuo nobile sapore di terra e di vino,
al tuo pane generoso
distribuito al popolo,
all’aroma di pini e mimose
che il vento ti regala.
Io canto
alla buccia delle tue uve,
allo splendore degli occhi
che da lì si uniscono ai miei
come dei raggi scuri,
alle tue danze antiche
che oggi brillano nella luce che hai conquistato
come fiori o fuoco,
all’amicizia di tutti,
alla mano serena del Partito,
alla allegria
della pace rumena,
al tuo ricordo innumerevole
che canta come un fiume.
Romania,
oggi dalle sabbie della mia patria
io ti scrivo questa lettera.
Ricevila, Romania.
Porta spruzzi del Pacifico,
porta voci e baci,
porta neve di altissime montagne,
porta canti e lotte
del mio paese.
Onore e amore, Romania,
salgano in te come due vigne nuove.
L’intelligenza guarda con i tuoi occhi.
Sulla tua bocca sorridono i grappoli.