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1954 - L'UVA E IL VENTO
V
CONVERSAZIONE DI PRAGA
(A Julius Fucik) (*)
(*) Giornalista ceco (Praga 1903 – Berlino 1943). Iscritto al P.C.C. dal 1921, collaborò ai giornali comunisti e per tale attività nel 1942, durante l’occupazione nazista della Cecoslovacchia, fu arrestato dalla Gestapo.. È autore di due libri di reportages sul soggiorno nell’U.R.S.S., Nel paese dove domani già significa ieri (1932) e Nella terra amata (postumo 1950), ma il suo lavoro più conosciuto è Scritto sulla forca (postumo 1945), taccuino della sua prigionia. I suoi studi di saggistica e critica sono di stretta osservanza marxista.
I
IL MIO AMICO DELLE STRADE
Per le strade di Praga in inverno ogni giorno
passai vicino al muro della casa di pietra
in cui fu torturato Julius Fucik.
La casa non dice niente, pietra color dell’inverno,
sbarre di ferro, finestre silenziose.
Ma ogni giorno io passai di lì,
guardai, toccai i muri, cercai l’eco,
la parola, la voce, la l’impronta pura
dell’eroe.
E così spuntò la sua fronte,
una volta, e le sue mani un’altra volta,
e poi tutto l’uomo mi accompagnò,
mi accompagnò,
attraverso la Piazza Wenceslas, un buon amico,
con me per il vecchio mercato di Havelska,
per il giardino di Starhov, da dove
Praga si eleva come una rosa grigia.
II
COSÌ SAREBBE PASSATO
Così sarebbe passato, così saresti passato,
se non fossi anche, quasi invisibile,
entrato per sempre nella storia.
Ci saremmo visto ogni giorno,
avremmo cambiato certi libri che amiamo,
io ti avrei raccontato
racconti di pescatori e minatori
della mia patria marina,
e avremmo riso
in tal modo che i passanti
avrebbero trovato pericolosa
la nostra grande allegria.
III
TU LO FACESTI
Ha avuto molti uomini,
molti Fucik,
che fecero bene tutte le cose della vita.
Anche tu, Julius Fucik,
le facesti.
I piccoli e grandi doveri dolorosi
e gli indispensabili
piccoli movimenti,
adempiere, adempiere:
la rettitudine è un punto rigoroso
che si ripete fino a essere una linea,
una norma, una strada,
e questo punto lo facesti
come tutti gli uomini semplici
per dover e per allegria,
perché così dobbiamo essere.
IV
IL DOVERE DI MORIRE
Ma quando all’orologio arrivò la lunga ora
della morte, adempisti,
adempisti con la stessa tranquillità allegra,
adempisti il dovere di morire.
Niente si spezza nella tua vita e nella tua morte:
è una sola linea senza rottura
quella costruita.
La linea continua viva,
continua diritta e crescente
andando, andando sempre,
dalla tua morte ad altre vite,
andando, andando sempre, accumulando esseri,
accumulando esseri, esistenze,
come un gran fiume si riempie di altri fiumi,
come nella musica il suono
si arricchisce e si alza,
così la tua voce, la tua vita continuano
andando per tutta la terra.
Non esiste eredità bensì sangue vivo,
non esiste ricordo bensì azione sicura,
e sei l’eroe umano
non il semidio di pietra,
quello che riempì la sua dimensione di uomo
con tutto il contenuto della vita,
non della sua sola vita
ma di tutte,
di tutte le nostre vite,
e in te la libertà non sono due ali
su uno scudo, né una statua morta,
bensì la ferma mano del Partito
che sostiene la tua
e anche la tua fermezza,
che in te crebbe di molte altre vite,
le nuove vite raccolsero
e seminarono sementi.
Gli uomini continuarono,
dal momento in cui cadde il tuo volto,
la lotta, e si tinse la nostra bandiera
con il sacro sangue
del tuo cuore invincibile.
V
ERI LA VITA
Per tutte le strade di Praga
La tua figura,
ma non un dio alato,
bensì il pallido viso perseguitato
che dopo la morte ci sorride.
L’eroe che non porta
sul suo capo immobile
gli allori di pietra dimenticata,
bensì un cappello vecchio
e nel taschino l’ultimo
messaggio del Partito,
il clandestino della mezzanotte
e dell’alba organizzata,
la circolare che macchia
col suo inchiostro fresco,
e così strada dopo strada
Fucik, con le tue consegne,
Fucik, con i tuoi opuscoli,
con il tuo vecchio cappello, senza orgoglio
né umiltà, fortificando
le armi della resistenza,
e andando verso la morte
con la tranquillità del passante
che deve vederla al prossimo angolo,
per le strade di perla antica
dell’inverno di Praga,
mentre il nemico nel castello
latrava alla sua muta di cani,
da una strada a un’altra
organizzavi
la unità del tuo popolo, la vittoria
che oggi corona la pace della tua patria.
VI
STAI IN OGNI PARTE
Stirpe di Fucik, lignaggio
di allegri silenziosi,
per tutta la terra spargete
il marchio umano inestinguibile.
Corea, terra amata, dimostrasti
ai bestiali invasori
di Filadelfia che la razza
di Fucik, sulla cenere,
sull’incendio ed il martirio,
continua accesa e vince la morte.
Lontano, nel Paraguay oscuro
e velenosamente verde,
i piccoli incarcerati,
i perseguitati nella selva,
al cadere sopra le foglie
insanguinate, vicino al fiume,
chiudono per sempre la stessa
bocca sovrumana di Fucik.
Nell’Iran il petrolio
torna nelle mani del popolo
scrivendo con lettere rosse
il tuo nome, Julio di Praga.
E la ragazza del Vietnam
che con dolci mani di fiori
maneggia la mitragliatrice,
nella sua cartella lacerata
dalle spine della selva,
porta il tuo libro in caratteri
che tu non potresti leggere:
il libro che negli ultimi giorni
i giustiziati di Atene
portano scritto sui nobili volti
perché gli assassini
trovino nuovamente le tue parole
sopra il sangue polveroso.
VII
SE GLI PARLO …
Migliaia di anni fa un uomo fu crocifisso,
morì per la sua fede, pensando al di là della terra.
La sua croce pesò sulla vita umana
e impastò l’angoscia e la speranza.
Noi abbiamo milioni di crocifissi
e la nostra speranza è sulla terra.
Che alzi gli occhi chi vuole vederla.
Dammi la mano se vuoi toccarla.
Nelle nuove risaie della Cina sta la nostra speranza.
E quando i denti bianchi del riso sorridono
non è vero che la terra è felice?
Non è vero che il grano e la carne, non è vero che la scuola,
la casa pulita, il lavoro assicurato e giusto,
la pace per i figli, l’amore,
il libro in cui l’allegria e la saggezza si unirono,
non è vero che sono queste le conquiste dell’uomo,
e queste semplici verità formano la nostra speranza?
Perché volete che ai contadini aymarás (*) della sfortunata Bolivia,
dimagriti dalla fame e dal freddo delle grandi altezze,
io vada domani a promettere il cielo?
Non mi crocifiggerete perché essi mi seguirebbero affamati.
Ma se gli parlo di una cooperativa agricola che vidi in Polonia,
dove il latte, il pane ed il libro erano comuni tesori,
allora mi colpirete con un palo nelle costole
e mi crocifiggerete se non mi difenderanno i miei.
Abbiamo un crocifisso per ogni chilometro di terra,
e vicino alla prospera New York, vicino allo Stork Club,
crocifiggono un negro e un bianco ogni giorno.
Ma noi non rimaniamo tranquilli
aspettando il martirio o l’incenso,
noi lotteremo ogni giorno della nostra vita,
noi vinceremo e adesso ti chiamiamo,
e così dalla sua forca e dalla sua croce, come la chiami non mi importa,
il cuore morto di Julius Fucik sconfisse i suoi carnefici.
(*) Indios che abitavano la regione del lago Titicaca e da cui si presume discenda la dinastia Incas.
VIII
RAGGIANTE JULIUS
Raggiante Julius – del favo delle vite
cellula ferra e dolce, fatta di miele a fuoco! –
dacci oggi come il pane di ogni giorno
la tua essenza, la tua presenza,
la tua semplice rettitudine di raggio puro.
Vieni a noi oggi, domani, sempre,
perché, ingenuo eroe,
sei l’architettura
dell’uomo di domani,
Quando la morte ti colpì, la luce
brillò sopra il pianeta
con il colore di ape dei tuoi occhi,
e il germe del miele e della lotta,
della dolcezza e della durezza,
rimasero piantati
nella vita dell’uomo.
La tua decisione distrusse la paura,
e la tua tenerezza, le tenebre.
Entrasti, uomo nudo,
nella bocca del nostro inferno
e con il corpo lacerato,
intatta, senza rotture fu la tua eleganza
e la verità attiva
che malgrado la morte preservasti.
IX
CON IL MIO AMICO DI PRAGA
Felice tu patria, Cecoslovacchia, madre
dagli occhi di acciaio, petalo preferito
dell’Europa, incoronata
dalla pace del tuo popolo!
Dolci colline, acque, tetti rossi,
e tremanti come pioggia verde
eleva il luppolo i suoi fili verticali,
mentre in Gotwaldov (*) un alveare
di intelligenza e di ragionamento sostiene
la nuova rosa del lavoro umano.
O Fucik, vieni, visita
con ne,
con me il puro suolo della tua patria,
verde, bianco e dorato,
e in essa illuminandola,
la chiarezza del paese!
Onore al nuovo solco
e alla nuova giornata,
e all’acciaio invincibile di Kladno! (**)
All’uomo nuovo che entra
nelle officine e nelle piazze,
ai nuovi ponti sicuri
sopra il tremore del vecchio fiume,
attraverso Fucik, il mio amico,
il mio compagno silenzioso,
che stette con me mostrandomi tutto
nel colore dell’inverno di Praga,
con il suo vecchio cappello invisibile
ed il suo dolce sorriso muto,
attraverso la vita e la morte,
l’eredità e il dono che ci dette.
Julius Fucik, io ti saluto,
Cecoslovacchia rinnovata,
madre di ragazzi semplici,
terra di silenziosi eroi,
repubblica di nebbia e di cristallo,
grappolo, spiga, acciaio, popolo!
(*) Godwaldov --> Klín. Città della Repubblica Ceca, Moravia Meridionale; 81000 abitanti; centro industriale delle calzature e chimico; dal 1848 al 1900 si chiamò Goltwaldov in onore di Gottwald Klement (uomo politico).
(**) Città vicino a Praga; 71000 abitanti; centro minerario (carbone) e industriale (siderurgia).
VI
È AMPIO IL NUOVO MONDO
CON TE PER LE STRADE
Voglio raccontare e cantare le cose
dell’ampia terra russa.
Solo poche cose,
perché non ne stanno tante nel mio canto.
Umili fatti, piante,
persone,
uccelli,
imprese degli uomini.
Molte sempre esistettero,
altre
stanno nascendo,
perché quella è la terra
della nascita infinita.
E così comincio, andando
con te per le strade,
per i campi,
vicino al mare in inverno.
Sei mio amico, vieni,
continiamo a camminare.
I
CAMBIA LA STORIA
Era il tempo di Pushkin,
la primavera arriva,
un’onda d’aria
come la vela pura
di una barca trasparente
andava per le praterie
alzando l’erba e l’aroma
delle germinazioni.
Vicino a Leningrado gli abeti
ballavano un valzer lento
di orizzonte marino.
Verso Est
marciavano i motori,
le ruote, l’energia,
i ragazzi e le ragazze.
Trepidava la steppa,
gli agnelli sembravano
una punteggiatura innevata
nella immensa estensione della dolcezza.
Ampia è l’Unione Sovietica,
come nessuna terra.
Ha spazio
per il più piccolo fiore azzurro
e per la gigantesca centrale elettrica.
Tremano e cantano grandi fiumi
sulla sua pelle estesa
e lì vive
lo storione che conserva avvolti nell’argento
minuti grappoli
di freschezza e delizia.
L’orso nelle montagne
va con piedi delicati
come un vecchio monaco nell’aurora
di una basilica verde.
Ma è l’uomo il re
delle terre sovietiche,
il piccolo uomo
che è appena nato,
si chiama Ivan o Pietro,
e piange
e chiede latte:
è lui, l’erede.
Ampio è il regno e imbottito
con tappezzeria di erba e neve.
La notte appena copre
con il suo diadema freddo
il capo, la cima
dei monti Urali,
e il mare lambisce il contorno
del cielo o terra dolce,
glaciali territori
o paesi d’uva.
Tutto possiede:
la terra in movimento
come una vasta impresa
nella quale egli deve,
da quando nasce,
cantare e lavorare,
perché il regno fecondo
è opera degli uomini.
Un tempo fu oscura la terra,
fame e dolore riempirono
il tempo e lo spazio.
Prima nella storia,
venne Lenin,
cambiò la terra,
poi Stalin
cambiò l’uomo.
Poi la pace, la guerra,
il sangue, il frumento:
difficilmente tutto
si poté compiere
con forza ed allegria,
e oggi Ivan ereditò
da mare a mare la primavera rossa,
da dove io ti conduco per mano.
Ascolta, ascolta
questo canto di uccelli:
fischia l’argento nel tremore bagnato
della sua voce mattutina,
lo inseguo tra aghi
e ventagli di pini,
un altro canto risponde,
si popola il bosco
di voci nell’altitudine.
Di bosco in bosco cantano,
di settimana in settimana,
di aurora in aurora cambiano
trilli i neonati.
Di villaggio in villaggio si rispondono,
di centrale in centrale,
di fiume in fiume,
di metallo in metallo, di canto in canto,
Il vasto regno canta,
si risponde cantando.
Rugiada hanno le foglie
nella chiara mattina.
Sapore di stella fresca
ha il bosco.
Come per un pianeta
sta lentamente camminando
la primavera per la terra russa,
e spighe e uomini nascono
sotto i suoi piedi di argento.
II
TRANSIBERIANO
Attraverso l’autunno siberiano:
ogni betulla è un candelabro d’oro.
Improvvisamente un albero nero, un albero roso,
mostra una ferita o una fiammata.
La steppa, il volto
di aspra intensità, ampiezza verde,
pianeta cereale, terrestre oceano.
Passai di notte
Novosibirsk, fondata
dalla nuova energia.
Nell’estensione le sue luci lavoravano
in mezzo alla notte, l’uomo nuovo
aveva una nuova naturalezza.
E tu, gran fiume Jenisej, mi dicesti
con orgogliosa voce al passaggio, la tua parola:
“Adesso non corrono invano le mie acque.
Sono sangue della vita che si sveglia”.
La piccola stagione in cui la pioggia
dona un ricordo di acqua agli angoli
e in alto le antiche, dolci case
di legno, frammenti dei boschi,
hanno ospiti nuovi, una fila
di ferro: sono i nuovi trattori
che ieri arrivarono, rigidi, uniformi
soldati della terra,
armi del pane, esercito
della pace e della vita.
Frumenti, legnami, frutti
della Siberia, benvenuti
nella casa dell’uomo:
nessuno vi dava diritto a nascere,
nessuno poteva sapere che esistevate,
finché si spezzò la neve
e tra le ali bianche del disgelo
entrò l’uomo sovietico
a spargere la semenza.
Oh terre siberiane,
alla luce gialla
del più esteso autunno della terra,
allegre sono le foglie d’oro,
tutta la luce vi coprì con la sua chioma rivoltata!
Il treno transiberiano
sta divorando il pianeta.
Ogni giorno un’ora
scompare davanti a noi,
cade dietro al treno,
si fa semenza.
Giunto agli Urali
lasciamo il buon freddo dell’autunno
e davanti a Krasnoyarsk , avanti di un giorno, (*)
la primavera invisibile
vesti nuovamente il suo tiepido vestito azzurro.
Nella cabina seguente
viaggia il giovane geologo
con sua moglie ed un bambino piccolo.
la isola di Sajalin li attende
con i suoi quaranta gradi
di freddo e solitudine,
ma aspettano anche i metalli
che hanno dato appuntamento agli scopritori.
Avanti, bambino sovietico!
Come vinceremo la solitudine,
come vinceremo il freddo,
come guadagneremo la pace
se tu non vai per il transiberiano
a fecondare le isole?
Il treno sta ripartendo
fino a Vladivostock, e ancora
tra gli arcipelaghi del colore dell’acciaio,
ai ragazzi che cambieranno la vita,
che cambieranno freddo e solitudine e vento
in fiori e metalli.
Avanti ragazzi
che in questo treno transiberiano,
durante sette giorni di marcia
sognate sonni precisi
di ferro e di raccolti.
Avanti, treno siberiano
la tua volontà tranquilla
quasi trasforma il globo!
Estensione, ampia terra, percorrendoti,
scivolando nel treno giorni e giorni,
amai le tue latitudini steppose,
le tue coltivazioni, i tuoi popoli, le tue fabbriche,
i tuoi uomini riducendoti a essenza
e il tuo autunno infinito che mi copriva d’oro
mentre il treno vinceva la luce e la distanza!
Da ora ti porterò nei miei occhi,
Siberia, madre
gialla, incircondabile
primavera futura!
(*)Krasnojarsk, citta della Siberia orientale; miniere di manganese, lignite, oro.
III
TERZO CANTO DI AMORE A STALINGRADO
Stalingrado con le ali torride
dell’estate, le bianche
costruzioni si alzano:
una città qualunque.
La gente frettolosa
al suo lavoro.
Un cane attraversa
il giorno polveroso.
Una ragazza corre
con un foglio in mano.
Non succede niente,
ma il Volga
ha acque oscure.
Ad una ad una le case
si elevarono
dal petto dell’uomo,
e restituirono i timbri della posta,
le buche delle lettere,
gli alberi,
restituirono i bambini,
gli scolari,
restituì l’amore,
le madri
hanno partorito,
restituirono le ciliegie
ai rami,
il vento
al cielo,
e allora?
Si, è la stessa,
non c’è dubbio.
Qui stette la linea,
la strada,
l’angolo,
il metro e il centimetro,
dove la nostra vita e la ragione
di tutte le nostre vite
fu guadagnata
col sangue.
Qui si tagliò il nodo
che strinse la gola
della storia.
Qui fu. Se sembra impossibile
che possiamo
calpestare la strada e vedere
la ragazza e il cane,
scrivere una lettera,
mandare un telegramma,
ma talvolta
per questo,
per questo giorno uguale
a ciascun giorno,
per questo sole semplice
sulla pace degli uomini
stette la vittoria,
qui, in questa cenere
della terra sacra.
Pane di oggi, libro di oggi, pino recente
piantato questa mattina,
luminoso viale
appena uscita dalla carta
da cui l’ingegnere
la progettò sotto il vento della guerra,
bambina che passi, cane
che attraversi il giorno polveroso,
oh miracoli,
miracoli del sangue,
miracoli dell’acciaio e del Partito,
miracoli del nostro nuovo mondo.
Ramo di acacia con spine e fiori,
dove, dove
avrai maggior profumo
che in questo luogo in cui tutto il profumo fu cancellato,
in cui tutto cadde
tranne l’uomo,
l’uomo di questi giorni,
il soldato sovietico?
Oh ramo profumato,
odori
qui
più che una riunita primavera!
Qui odori di uomo e di speranza,
qui, ramo di acacia,
non poté bruciarti il fuoco
né seppellirti il vento della morte.
Qui resuscitasti ogni giorno
senza esser mai morto,
e oggi nel tuo aroma l’infinito umano
di ieri e di domani,
di dopodomani,
ci vuol dare la sua eternità florida.
Sei come la fabbrica di trattori:
oggi fioriscono ancora
grandi fiori metallici
che entreranno nella terra
perché la semina
sia moltiplicata.
Anche la fabbrica
fu cenere,
ferro contorto, schiuma
sanguinosa della guerra,
ma il suo cuore non si fermò,
stava apprendendo a morire e a rinascere.
Stalingrado insegnò al mondo
la suprema lezione della vita:
nascere, nascere, nascere,
e nasceva
morendo,
sparava
nascendo,
andò bocconi e si alzava
con un fulmine nella mano.
Tutta la notte andò dissanguandosi
e già nell’aurora
poteva prestare sangue
a tutte le città della terra.
Impallidiva con la neve nera
e tutta la notte cadeva
e quando tu guardavi
per vederla cadere, quando piangevamo
la fine della sua resistenza,
essa ci sorrideva,
Stalingrado
ci sorrideva.
E ora
la morte se ne è andata:
solo alcune pareti,
alcune contorsioni di ferro
bombardato e ritorto,
solo alcune tracce
come una cicatrice di orgoglio,
oggi tutto è chiarezza, luna e spazio,
decisione e bianchezza,
e in alto
un ramo di acacia,
foglie, fiori, spine difensore,
la estesa primavera
di Stalingrado,
l’invincibile aroma
di Stalingrado!
IV
L’ANGELO SOVIETICO
Erano centocinquanta anni
che giaceva sepolto.
A Petrograd di seta e sangue
cadde con una pallottola sporca
in qualche parte del petto.
Passò il tempo.
Per più di cento inverni cadde la neve
sopra tetti e strade,
ma aperta e sanguinante
stava quella
piccola ferita rossa
nel petto di pietra, seta e oro
di Petrograd. Un filo
di sangue accusava. Andava
e veniva,
saliva per le cupole,
correva per la seta
della casacche ricamate,
improvvisamente appariva
come pietra preziosa
sopra il decolleté
di una bellezza,
e ahi, era solo un coagulo
i sangue che accusava.
Così era,
così era in sangue di Pushkin
assassinato.
andava da tutte le parti
come un filo
infinito.
Nel silenzio
di Petrograd, nella pietra e nell’acqua
della città addormentata,
nella statua di Pietro ed il suo cavallo,
il filo,
il filo di sangue
camminava,
camminava cercando.
Finché un giorno
albeggiò l’aurora sparando.
Sulle scale
del Palazzo d’Inverno
si presentò un tappeto
di strana struttura:
era uomo e collera,
era speranza e fuoco,
erano teste giovani e grigie,
la fronte delle genti.
E poi Lenin
con la sua firma
base della speranza
cambiò la storia.
Allora
quel filo di sangue che accusava
tornò indietro
e chiaro, aereo e rosso,
l’angelo pensieroso
visse di nuovo.
Pushkin
si guardò la camicia:
già non sanguinava il foro sporco
che lasciava la pallottola assassina.
Il popolo
aveva espulso
gli spadaccini
dalle casacche dorate,
i carnefici
decorati con gocce di sangue
e adesso
con la ferita chiusa
ricevette in testa
il vento di alloro
e si mie a camminare per le strade,
accompagnò il suo popolo.
E, vivo di nuovo,
sfolgorante nella sua statua,
ondulando nel cielo
come un grande bandiera,
mescolandosi agli uomini
all’uscita dello stabilimento,
nella campagna
con i capelli bagnati
o riposando un poco
giunto ai fasci di frumento,
vidi il giovane Pushkin.
Il mio amico
non parlava,
dovevo leggerlo.
Io camminai la vasta geografia
dell’URSS
guardandolo e leggendolo,
e lui con la sua antica voce mi decifrava
la vita e le terre.
Un tranquillo orgoglio,
come un sonno,
invadeva il suo volto
quando al mio fianco
stava volando
trasparente nell’aria trasparente,
sopra la libertà spaziosa
delle città e delle praterie.
V
SULLA SUA MORTE (*)
(*) Stalin. Pseudonimo di Josif Vissarionoviè Džugašvili (Gori, Georgia 1879 - Mosca 1953),
Compagno Stalin, ero vicino al mare a Isla Negra,
riposando dalla lotta e dai viaggi,
quando la notizia della tua morte arrivò come un colpo di oceano.
Fu per primo il silenzio, lo stupore delle cose, e dopo arrivò dal mare una grande onda.
Di alghe, metalli e uomini, pietre, schiuma e lacrime era fatta questa onda.
Di storia, spazio e tempo riunì la sua materia
e si elevò piangendo sopra il mondo
finché di fronte a me venne a colpire la costa
e abbatté alle mie porte il suo messaggio di lutto
con un grido gigante
come se bruscamente si spaccasse la terra.
Era il 1914.
Nelle fabbriche si accumulavano immondizie e dolori.
I ricchi del nuovo secolo
si ripartivano a morsi il petrolio e le isole, il rame e i canali.
Nessuna bandiera levò i suoi colori
senza gli schizzi di sangue.
Da Hong Kong a Chicago la polizia
cercava documenti e collaudava
le mitragliatrici sulla carne del popolo.
Le marce militari dall’alba
mandavano soldatini a morire.
Frenetico era il ballo dei gringos
nelle boites di Parigi piene di fumo.
Si dissanguava l’uomo.
Una pioggia di sangue
calò sul pianeta,
macchiava le stelle.
La morte inaugurò allora armature di acciaio.
La fame
nelle strade dell’Europa
fu come un vento gelato sparpagliando foglie secche e spezzando ossa.
L’autunno gonfiava gli stracci.
La guerra si era rizzata nelle strade.
Odore di inverno e sangue
emanava dall’Europa
come da un mattatoio abbandonato.
Nel frattempo i padroni
del carbone,
del ferro,
dell’acciaio,
del fumo,
delle banche,
del gas,
dell’oro,
della farina,
del salnitro,
del giornale “El Mercurio”,
i padroni del bordelli
i senatori nordamericani,
i filibustieri
carichi di oro e sangue
di tutti i paesi,
erano anche i padroni
della Storia.
Lì stavano seduti
in frac, occupatissimi
a dispensarsi decorazioni,
a regalarsi assegni all’ingresso,
a rubarseli all’uscita,
a regalarsi azioni della carneficina
e ripartirsi a morsi
pezzi di paese e di geografia.
Allora con modesto
vestito e berretto operaio,
entrò il vento,
entrò il vento del popolo.
Era Lenin.
Cambiò la terra, l’uomo, la vita.
L’aria libera rivoluzionaria
scompigliò le carte
disonorate. Nacque una patria
che non ha smesso di crescere.
È grande come il mondo, ma entra
fin nel cuore del più
piccolo
lavoratore di fabbrica o di ufficio,
di agricoltura o imbarcazione.
Era l’Unione Sovietica.
Vicino a Lenin
Stalin avanzava
e così, con blusa bianca,
con berretto grigio di operaio,
Stalin,
col suo passo tranquillo,
entrò nella Storia accompagnato
da Lenin e dal vento.
Stalin da allora
fu costruttore. Tutto
occorreva. Lenin
ricevette dagli zar
ragnatele e stracci.
Lenin lasciò una eredità
di patria libera e orgogliosa.
Stalin la popolò
con scuole e farina,
tipografie e mele.
Stalin dal Volga
fino alla neve
del Nord inaccessibile
pose la sua mano e nella sua mano un uomo
cominciò a costruire.
Le città nacquero.
I deserti cantarono
per la prima volta con la voce dell’acqua.
I minerali
accorsero,
spuntarono
dai loro sonni oscuri,
si sollevarono,
si fecero rotaie, ruote,
locomotive, fili
che portarono le sillabe elettriche
per tutta l’estensione e la distanza.
Stalin
costruiva.
Nacquero
dalle sue mani
cereali,
trattori,
insegnamenti,
strade,
e lui lì,
semplice come te e come me,
se tu ed io otterremo
di essere semplici come lui.
Ma lo impareremo.
La sua semplicità e la sua saggezza,
la sua struttura
di buon pane e di acciaio inflessibile
ci aiuta a essere uomini ogni giorno,
ogni giorno ci aiuta ad essere uomini.
Essere uomini! È questa
la legge staliniana.
Essere comunista è difficile.
Devi imparare a esserlo.
Essere uomini comunisti
è ancora più difficile,
e devi imparare da Stalin
la sua intensità serena,
la sua chiarezza concreta,
il suo disprezzo
all’orpello vuoto,
alla cieca astrazione editoriale.
Egli visse direttamente
sviscerando il nodo
e mostrando la retta
chiarezza della linea,
entrando nei problemi
senza le frasi che nascondono
il vuoto,
diretto al centro debole
che nella nostra lotta rettificheremo
potando il fogliame
e mostrando il progetto dei frutti.
Stalin è il mezzogiorno,
la maturità dell’uomo e dei popoli.
Nella guerra lo videro
le città bruciate
estrarre dalle macerie
la speranza,
rifonderla di nuovo,
farla acciaio,
e attaccare con i suoi fulmini
distruggendo
la fortificazione delle tenebre.
Ma anche aiutò i meli
della Siberia
a dare i loro frutti sotto la tormenta.
Insegnò a tutti
a crescere, a crescere,
a piante e metalli,
a creature e fiumi
gli insegnò a crescere,
a dar frutti e fuoco.
Gli insegnò la Pace
e così fermò
col suo petto disteso
i lupi della guerra.
Staliniani. Portiamo questo nome con orgoglio.
Staliniani. È questa la gerarchia del nostro tempo!
Lavoratori, pescatori, musicisti staliniani!
Forgiatori di acciaio, padri del rame, staliniani!
Medici, minatori del nitrato, poeti staliniani!
Letterati, studenti,contadini staliniani!
Operai, impiegati, donne staliniane,
salve in questo giorno! Non è scomparsa la luce,
non è scomparso il fuoco,
finché si accresce
la luce, il pane, il fuoco e la speranza
dell’invincibile tempo staliniano!
Nei suoi ultimi anni la colomba,
la Pace, la errante rosa perseguitata,
si fermò sulle sue spalle e Stalin, il gigante,
la elevò all’altezza della sua fronte.
Così videro la pace popoli distanti.
Da steppe e mari, praterie, riunioni,
gli occhi degli uomini diressero
i loro sguardi a questo faro con colombe,
e né il selvaggio rancore né il veleno arrogante
degli incrudeliti, né la smorfia
di Churchill o Eisenhower o Trujillo,
né il latrato radiale dei venduti,
né il gutturale grugnito dello sciacallo sconfitto,
diminuirono la sua epica statura
né scalfissero la sua semplice forza.
Di fronte al mar di Isla Negra, nel mattino,
issai a mezz’asta la bandiera del Cile.
Era solitaria la costa e una nebbia d’argento
si mescolava alla schiuma solenne dell’oceano.
A metà del suo palo, nel campo azzurro,
la stella solitaria della mia patria
sembrava una lacrima tra il cielo e la terra.
Passò un uomo del popolo, salutò comprendendo,
e si levò il cappello.
Venne un ragazzo e mi strinse la mano.
Più tardi il pescatore di ricci, il vecchio palombaro
e poeta,
Gonzalito, si avvicino per accompagnarmi sotto la bandiera.
“Era più saggio che tutti gli uomini uniti”, mi disse
guardando il mare con i suoi vecchi occhi, con i vecchi
occhi del popolo.
E poi per lunghi momenti non ci dicemmo niente.
Una onda
scosse le pietre della riva.
“Ma Malenkov ora continuerà la sua opera”, proseguì
levandosi il povero pescatore la giacca logora.
Io lo guardai sorpreso pensando: Come, come lo sa?
Da dove, in questa costa solitaria?
E compresi che il mare glielo aveva insegnato.
E lì vegliammo riuniti, un poeta,
un pescatore e il mare
il Capitano lontano che all’entrare nella morte
dette a tutti i popoli, come eredità, la sua vita.
VIII
LONTANO, NEI DESERTI
I
TERRA E CIELO
Alture della Mongolia,
desertiche alture,
improvvisamente vidi la mia patria,
il Grande Nord, Cile,
la pelle secca, graffiata
della terra ai limiti del cielo.
Vidi i monti di sabbia,
l’estensione taciturna:
mi concentrai ascoltando
il vento atroce di Gobi,
le tormente
nel “tetto del mondo”
tutto tanto rassomigliante
alle regioni
di rame e sale e cielo
del mio paese andino.
Poi il vento
porta odore di cammello,
una briciola bruciata
si trasformò in incenso,
la luce fermò
un dito
sopra la seta
di una bandiera rossa,
e vidi che ero lontano
dalla mia patria.
I mongoli ormai non erano
gli erranti
cavalieri
del vento e della sabbia:
erano i miei camerata.
Mi mostrarono
i loro laboratori.
Dolce lì in alto era
la parola
metallurgia.
Lì dove i maghi
tessero
saggezza e ragnatele,
in Durga, negra Durga, (*)
adesso
riluceva
il nuovo nome,
Ulan Bator, (**)
il nome
di una capitale del popolo.
E era tutto
tanto semplice.
I giovani,
gli universitari del deserto,
chini
sopra i microscopi.
Nelle sabbie fredde
dell’altura
rilucevano
i nuovi istituti,
si perforavano le miniere,
i libri e la musica
cantavano nel coro
del vento
e l’uomo
rinasceva.
(*) Durga – città della Mongolia
(**) Ulan Bator – capitale della Mongolia
II
LÌ STAVA IL MIO FRATELLO
Lì stetti.
Lì ho visto
non solo sabbia e aria,
non solo
cammelli e metalli,
ma anche l’uomo,
il lontano
fratello mio,
che nasceva adesso nel mezzo
della solitudine planetaria,
differenziandosi
dalla natura,
che conosceva
il mistero dell’elettricità e della vita,
che dava la mano all’Est
e all’Ovest,
che dava la mano al cielo
ed al la terra
che distribuiva,
che esisteva,
che assicurava
il pane e la tenerezza
tra i suoi figli.
Oh territori duri,
contrafforti lunari,
in voi
sale
la semenza
del tempo socialista
e sale
dalla pietra
il fiore e la bellezza,
la fabbrica che guarda al cielo
con palpebre di fumo
e con i minerali dominati
elabora attrezzi e allegria.
III
MA DETTE FRUTTO
Ma quando
tra gli aridi
sistemi delle sommità
appare
l’uomo,
trasformato,
quando
dalla yurta
sale un uomo
che lotterà con la natura,
l’uomo che è non solo
di una tribù,
ma anche della accesa massa umana,
non l’errante
profugo delle alte solitudini,
cavaliere della sabbia,
ma anche mio compagno,
associato al destino del suo popolo,
solidale con tutto il genere umano,
figlio e continuatore della speranza,
allora,
si compì il compito
tra le cicatrici dei monti:
lì anche l’uomo è nostro fratello.
Lì la terra dura dette il suo frutto.
IX
IL CAPITELLO SPEZZATO
I
IN QUESTI ANNI
Adesso
in questi anni
dopo il mezzo secolo,
un silenzio pauroso
dall’Occidente
trema, spaventato.
Un’altra volta, un’altra volta
forse la guerra.
La mappa fredda
attraversata dai cipressi,
da ombre verticali,
la notte attraversata
da pugnali o lampi.
È così la minaccia
sopra il tetto e il pane.
Silenzio
di albero con occhi scuri,
l’ombra
copre la Grecia.
Un’altra volta acqua amara
sopra l’età raggiante
delle statue cieche.
Che succede?
Dove siamo?
Un tempo un re e una regina
furono prefabbricati,
“made in England”.
Dopo è la storia
di questo tempo terribile,
i crudeli ufficiali
resuscitati
dall’opera sanguinosa,
i nordamericani che amministrano
la rosa
di Prassitele
devastando
con questo o con quello.
Chi lo avrebbe pensato,
chi
si sarebbe
azzardato
a pensare che le pietre
più pure,
tagliate con il filo dell’aurora,
stavano per essere macchiate,
che la Grecia andava a cadere
in una fossa scura
di Chicago.
Chi lo dirà
invece agli astri greci,
le righe
della tragica musa
del tempo più antico,
che così stava succedendo.
Le api
ronzano
elaborando
miele con sangue,
luce di martirio,
alveoli
di architettura oltraggiata.
II
BELOJANNIS L’EROE
Così, tra le colonne,
Belojannis:
dorica è l’aureola
della luce nelle sue tempie.
Non sono le automobili
a illuminare il crimine.
È un pianeta,
è una stella rossa,
è un igneo scintillio
dell’antica e della nuova
chiarezza della terra …
Cade,
gli hanno sparato
dal Pentagono
pallottole che attraversarono
il mare per conficcarsi
nel suo petto illustrissimo,
pallottole che raccolsero
spine inumane
per entrare nella grotta
verde e bianca della Grecia,
lacerando i muri,
schizzando
di sangue
le foglie dell’acanto.
III
SGUARDO ALLA GRECIA
Oh lacrime, non è tempo
di accorrere ai miei occhi,
non è ora
di accorrere agli occhi degli uomini,
palpebre, sollevantesi
dall’oscurità del sonno, chiare
o oscure pupille,
occhi senza lacrime, guardate la Grecia
crocifissa sulla sua trave.
Guardatela tutta
la notte, l’anno, il giorno,
versandosi il sangue del suo popolo,
colpendosi le tempie
col suo terribile capitello di spine.
Guarda, occhi del mondo,
quello che la Grecia, la pura,
sopporta, la frustata
del mercante di schiavi,
e così di notte e anno e mese e giorno
vedete come si alza la testa
del suo popolo orgoglioso.
Da ciascuna goccia
caduta dal martirio,
cresce di nuovo l’uomo,
il pensiero tesse le sue bandiere,
l’azione conferma pietra a pietra
e mano a mano
l’altezza del castello.
Oh Grecia chiara,
se ti rovesciò sopra l’oscurità l suo sacco
di stelle nere, sappi
che in te stessa
sta la chiarezza, che tu accogli
la notte intera nel tuo grembo
finché dalle tue mani
si leva l’aurora,
velo bianco inzuppato di rugiada.
Alla sua luce ti vedremo,
antica e chiara madre degli uomini,
sorridere, vittoriosa,
mostrandoci di nuovo la tua bianchezza
di statua, tra i monti.
X
IL SANGUE DIVISO
I
A BERLINO, LA MATTINA
Mi svegliai. Era Berlino. Dalla finestra
vidi il cuore sdentato,
la pazza sepoltura,
la cenere,
le rovine più profonde,
con rosoni e fregi
feriti gravi,
balconi strappati da una nera mandibola,
muri che adesso decadranno, che non incontreranno
le loro finestre, le loro porte,
i loro uomini, le loro mogli,
e una montagna dentro
le macerie ammucchiate,
sofferenza e superbia confusi
nella farina finale, nel mulino
della morte.
Oh cittadella, oh sangue
inutilmente scomparso,
forse è questa, è questa
la tua prima vittoria,
ancora tra macerie nere
la pace che hai conosciuto,
pulendo le ceneri e elevando
la tua cittadella verso tutti gli uomini,
estraendo dalle tue rovine,
non i morti,
ma anche l’uomo comune,
l’uomo nuovo,
che edificherà le strutture
dell’amore, della pace e della vita.
II
GIOVANI TEDESCHI
Come un ramo rosso
in un albero bruciato
appare e in esso
il fiore del tempo brilla.
Così, Germania, nel tuo volto
bruciato dalla guerra,
la tua nuovo gioventù illumina
le bruciature e le cicatrici
dell’inferno passato.
Io ricevei giunto all’Elba,
vicino alla trasparenza
del suo antico corso,
quando dalla Boemia
il treno arrivò in Germania,
la florida gioventù di adesso
con i suoi solidi sorrisi
e le mani
piene di fiori che mi davano
ragazzi e ragazze
pieni di lillà.
Ma non erano solo i fiori
quello che davano la luce sopra l’acqua,
era il nuovo germoglio umano,
il sorriso strappato alle ciliegie,
il diretto sguardo,
le forti mani che stringevano le tue,
e gli occhi direttamente azzurri.
Lì tremò la terra
con tutta la crudeltà ed il castigo,
e adesso,
giovani
dell’acqua e della terra rinati,
con fiori nella bocca,
alzando l’amore sopra la terra,
con la parola Stalin
in milioni di labbra,
fiorivano.
Oh, prodigio,
è qui di nuovo la vita,
alba di luce, alveare,
granaio interminabile,
la pace e la vita,
ramo e ramo,
acqua e acqua,
grappolo e grappolo,
dalle cicatrici sconfitte
verso la nuova
maturità dell’aurora.
E io dimenticai le rovine,
l’alfabeto di pietra bruciata,
la lezione del fuoco,
dimenticai la guerra,
dimenticai l’odio,
perché vidi la vita.
Oh giovani,
giovani tedeschi,
nuovi preservatori della nuova primavera,
forti e franchi giovani della nuova Germania,
guardate verso l’Est,
guardate verso la vasta Unione
delle Repubbliche amate.
Vedete come anche dalle rovine
albeggia in Polonia
un forte sorriso.
Cina la gigantesca ha scosso
le sue catene piene di sangue
e adesso è nostra immensa sorella.
Davanti a voi
sta il tesoro del mondo,
non solo l’antico tesoro del saccheggio,
anche il nuovo tesoro,
e anche spazio pieno
di esseri fraterni,
la pace, vento delle spighe, l’incontro
con l’uomo remoto
che non viene a rubarcele.
Sta passando e crescendo
per tutte le terre un filo
di acciaio di cui ci prendiamo cura,
il mare sta cantando vicino all’uomo
il suo eterno inno di schiuma,
e come un telegramma di ogni giorno l’aria
ci porta notizie.
Quante fabbriche nuove sono nate,
quante scuole hanno cancellato l’ombra,
quanti ragazzi sanno da oggi
il linguaggio segreto
dei metalli e delle stelle,
come estrarremo pane dal pianeta
per tutti
e daremo freschezza alla terra,
vecchia madre di tutti gli uomini.
Inventeremo acqua nuova,
riso celeste,
motori di vetro.
Estenderemo
più in là delle isole lo spazio.
Nei deserti di fuoco e sabbia
vedremo come danza
la primavera nelle nostre braccia, perchè
niente sarà dimenticato,
né la terra,
né l’uomo.
L’uomo non sarà dimenticato
e questo è il tesoro.
Giovani che dal fondo
della guerra
portaste un sorriso
che non sarà soffocato,
questo è il tesoro:
non dimenticare l’uomo.
Perché così è più grande la terra
che tutti gli astri riuniti.
Così cresceremo ogni giorno e ogni
giorno siamo più ricchi di uomini,
abbiamo più fratelli,
all’aria, nelle miniere,
nelle alte pianure
della Mongolia metallica.
L’uomo,
all’Est, Al Nord, al Sud,
all’Ovest, verso l’alto,
dove si muove il vento,
l’uomo.
Guarda, ragazzo, come ti salutano,
guarda come è cresciuta la tua famiglia,
grande è la terra e tua,
grande è la terra e mia,
è di tutti,
saluta,
saluta il mondo,
il nuovo mondo che è nato
e che con te crescerà
perché tu sei seme.
Crescerai, cresceremo.
E niente può abbattere l’albero
né tagliare le sue radici
perché nel tuo cuore stanno crescendo
e l’albero riempirà tutta la terra
di fiori e canti e frutti.
III
LA CITTÀ FERITA
Berlino tagliata
continuava sanguinando
segreto sangue, oscura
la notte andava e veniva.
Lo splendore del tempo
come un lampo a Berlino Est
illuminava il passo
dei giovani liberi
che costruivano la città di nuovo.
Nell’ombra passai da lato a lato
e la tristezza di una età antica
mi riempì il cuore come una pala
carica di immondizia.
In Berlino custodiva l’Occidente
la sua “Libertà” inumana,
e lì anche stava
la statua con la sua falsa
lanterna, la sua maschera lebbrosa
dipinta di alcolico carminio,
e nella mano il randello
appena sbarcato da Chicago,
Berlino Occidentale, con il tuo mercato
di giovani prostitute
e di soldati invasori ebbri,
Berlino Occidentale, per vendere la tua povera
mercanzia
hai riempito i muri
con manifesti con gambe oscene,
con vampire seminude,
e perfino le sigarette un sapore
di vizio nero hanno.
I pederasti ballano stringendosi
ai tecnici dello State Department.
Le lesbiche trovarono
il loro protetto paradiso
e il loro santo: San Ridgway.
Berlino Occidentale, sei la pustola
del volto antico dell’Europa,
le vecchie volpi naziste
scivolano nel muco
delle tue illuminate strade sudice,
e Coca-Cola e antisemitismo
corrono in abbondanza
sopra i tuoi escrementi e le tue rovine.
È la città maledetta, figlia della tartaruga Truman
e del riesumato coccodrillo hitleriano,
e le affilano i denti,
e le danno baionette
mentre il boogy-boogy
scatena il filo delirante
del mercato sessuale per soldati.
“Giovanetta tedesca
di diciannove aprili
cerca un vecchio signore, o commerciante
istruito, per vendergli subito
la sua giovinezza”, dice il giornale.
E all’ombra terribile
della notte che passa
sbarcano i carri armati.
I gas che assassinarono
una metà dell’Europa
tornano a essere fabbricati
con monopolio nordamericano.
Vecchi carnefici nazisti
appaiono nuovamente e latrano
nei caffè, fiutando il sangue,
l’arte astratta e il conflitto dell’”anima”
sono temi dell’arte, spruzzata
con sangue e sesso,
come ai bei tempi di Adolfo
chiudono giornali e colpiscono il ventre
di qualche ragazzetta comunista
che gli sputa in faccia.
Così è la vita,
e in questa Berlino caddero uomini
e tutti i grappoli della morte.
Per questa città scura,
postulare, velenosa,
la Libertà dette le sue più grandi vene,
dissanguandosi dal Volga
fino alle acque nere dello Sprea.
Per questo ballo nordamericano
e questo randellaccio di Washington,
lottarono, ahi, lottarono
tutti gli uomini
da un mare all’altro,
perfino tutte le terre e le isole.
Per questo volo di passo in passo
a Berlino Orientale, anche la notte
copre i soffitti rotti,
ma io vedo il sonno,
perché il lavoro dorme
per accumulare nella notte la sua forza.
Vedo gli ultimi giovani che cantano
tornando dalle fabbriche..
Vedo
la luce attraverso la notte,
il colore dei fiori
che riempivano i treni quando arrivai in Germania.
Respiro perchè l’uomo
qui è mio fratello.
Qui non allenano il lupo,
non affilano i denti
per iniziare la partita di caccia.
Qui odora
di scuola pulita ed annaffiata,
odora di mattoni appena trasportati,
odora di acqua fresca,
odora di panetteria,
odora di verità e di vento.
XII
IL FIORE DI SETA
I
IL GIGLIO LONTANO
Corea, la tua dimora
era un giardino attivo
di nuovi fiori che si costruivano.
Era la tua pace di seta
un manto verde,
un giglio che innalzava
il suo veloce lampo giallo.
Dell’Asia raccoglievi
la luce dissotterrata.
Continuavi tessendo
con fili anteriori
la nuova trama del vestito nuovo.
Il tuo vestito di bambola insanguinata
si stava cambiando in pantaloni da fabbrica
e i fili di seta
raccoglievano ricchezza dalle cascate,
portavano le parole nel vento.
Volevi con le tue mani
ritagliare la tua propria stella ed elevarla
nella edificazione del firmamento.
II
GLI INVAROSI
Vennero.
Quelli che devastarono
prima il Nicaragua.
Quelli che rubarono il Texas.
Quelli che umiliarono Valparaíso.
Quelli che con artigli sporchi
tagliarono la gola
di Puerto Rico.
Arrivarono in Corea.
Arrivarono.
Con napalm e con dollari,
con distruzione, con sangue,
con ceneri e lacrime.
Con la morte.
Arrivarono.
La madre ed il bambino
bruciarono vivi nel villaggio.
Sulla scuola fiorita
diressero
il loro petrolio ardente.
A distruggere le vite e la vita.
A cercare all’aperto
fino all’ultimo
pastore nelle montagne
e ucciderlo.
A mozzare il petto
della raggiante guerrigliera.
A uccidere prigionieri nei loro letti.
Arrivarono.
Con le loro strisce e le loro stelle.
Ed i loro aerei assassini.
Arrivarono.
E subito fu solo morte.
Fumo, ceneri, sangue, morte.
III
LA SPERANZA
Per tutto il tempo l’uomo
dà la sua prova.
Sembra che si estinguano
improvvisamente le semenze e le lampade
e non è vero.
Allora
appare
un uomo, una nazione, una bandiera,
una bandiera che non conoscevamo,
e sopra il palo
e il colore che ondeggia,
più alta del sangue,
torna a vivere la luce tra gli uomini
e la semenza torna a essere seminata.
Onore a te, Corea,
madre della nostra epoca,
madre nostra dalle labbra devastate,
madre nostra spezzata nel martirio,
madre bruciata in tutti i suoi villaggi,
madre cenere, madre macerie, madre patria!
IV
IL TUO SANGUE
Si, sappiamo,
si, lo sappiamo tutto.
I tuoi figli morti e le tue figlie morte
li abbiamo contati
uno ad uno ogni lunga notte.
Non c’è numero non c’è nome
per tanti dolori,
ma neppure c’è numero
per quello che ci deste,
per i dissanguati
eroi che in questa ora
posero nelle tue mani,
Corea,
il tesoro orgoglioso,
la libertà, non soltanto
la tua libertà, Corea,
bensì la libertà intera,
quella di tutti,
la libertà dell’uomo.
V
LA PACE CHE TI DOBBIAMO
Al tuo sangue, Corea,
difensore
dei fiori,
deve la pace il mondo.
Con il tuo sangue, Corea,
con la tua tragica mano lacerata,
ci difendesti tutti!
Con il tuo sangue,Corea,
nella mia epoca, in tutti gli anni duri,
la libertà poté dire il suo nome
e continuare la sua eredità.
Le lampade
rimarranno accese
e le semenze cercheranno la terra.