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NERUDIANA DISPERSA - vol. I (1915-1964) > da 1915 a 1919
Ti persi già
Ti persi già, donna. Nel cammino
mi prendesti una lampada fragrante,
allora si aromatizzarono e diventarono divini
tutte queste stanchezze umili e costanti.
Non so se appena eri una leggenda o eri
un fiume che affluiva per ogni dolore
ma se fu leggenda per la mia primavera
fiorirono aromi dentro la mia canzone.
Facesti un semenzaio di illusioni
che visse ingenuamente nella mia tristezza.
Lentamente. Fu il succo di rancori
cacciati sul manto dell'illusione ingenua.
Nella mia torre di odi avesti una finestra
(un vetro illuso, trasparente e gentile).
Si rovinò già. È inutile che ti chiami la mia amata
perché, donna, in una nerezza) ti persi.
Novembre 1919
Mai
Si farà notte la mia vita perché non sentii la tua voce
nella tortura del più aspro dubbio
ed io che sognai il sacro poema dell'amore
avrò nelle mie labbra tristi una smorfia nuda.
La Primavera si farà frantumi. Mai
canterò nel silenzio la mia divina canzone
... Mai... e come un nodo vibrerà la mia dolcezza
per i venti feriti della mia desolazione.
23 ottobre 1919
Fuoco morto
In alto, nella rotta, col canto vuoto
spuntando nelle labbra, perforazione in dolore
e le rose umili, spietate di freddo
per il fuoco spento di tutta l'emozione.
Ed i giorni, i giorni, filtratori nascosti
del velenoso aroma gestore di sonnolenze.
(Davanti alla strada lunga del dolore insepolto
il rimare multifoglio dell'amore si tace.)
Fuso l'oro triste rimaniamo deserti,
c'illuminano appena i vecchi fuochi morti,
si disfano, stanche, le rose di emozione.
E il ragno condensa le sue concave tele,
consunte, umili voci dei dispiaceri
che si addolorano in una pienezza di dolore.
5 novembre 1919
Dolore
Bere l'acqua dell'ora crudele
andare nella sottomissione dei sentieri
oltre ai sacrilegi del dolore.
E nient'altro. Dentro all'abisso
affondare, affondare, affondare lentamente
perforando il tessuto della carne.
(Io non la potei vedere
dentro alla mia vita,
girarono i crepuscoli enormi
in un legame di giuramenti.)
E nelle complessità dello spirito,
ci furono sole forte, soave e armonioso
che girava e girava.
(... Andare nella sottomissione dei sentieri
e non poterla vedere oltre a quel prisma
oscuro...)
Quel "noi" mi rimase inchiodato
profondo ed eternamente oscuro.
6 novembre 1919
La cosa sterile
Dentro alla mia vita continuo a gettare il mio sogno
in pioggerelline sottili d’amore e di veleno.
Mi fecondò l'abisso, si disfece il mio incantesimo
e nel dolore mi rimane dolorante il pensare.
(Era un canto addormentato
in seta triste e soffice,
si addormentò nello sterile squarcio dei venti
e la vita, fatti frantumi come un albero deserto
rimase.)
Oh! Dolgono, dolgono e dolgono i dolori umili!
8 novembre 1919
Stanchezza [2]
Una carezza di lampo luminoso
che si perse nella volta del vuoto
io volli cercare e graffiai invano
il brivido dell'ombra.
I miei cieli furono amabilmente azzurri
ed i miei marmi duri, morbidamente bianchi
nel minuto delle Trasformazioni
e del cantare annunciatore venuto.
E germogliò l'albero nel canto muto
che avevamo morso sterilmente.
Tutto il soavemente buono arrivò.
Ma si aprì la piaga delle labbra ferite
agitarono le ali gli uccelli velenosi
ed un'altra volta, come prima, sconsolatamente
unii le ripiegature del dolore in me stesso.
6 novembre 1919
La sinfonia nebbiosa
Sali crepuscolari amaramente pieni
di questi dolori profondi che rimangono dentro
infecondi ed ardenti come la terra secca.
Spremono le spiacenti fiammate del grido
germogliano le acque rozze dell'infecondità
dentro le caverne del nostro parossismo.
E sentiamo il soffio della morte che arriva,
spaventati parliamo verso l'eternità
e rimaniamo gettati sulla terra secca.
Sapore di piaga o profondo splendore di infinito
bagniamo le nostre labbra nella terra infeconda
e guardiamo l'alveo di dolore dell'abisso.
Magari...! Non vibra il soffio delle cose che furono
gestazione di allegria sulla terra triste
ed umiltà di carezze nei dolori buoni.
Ma nello spasmodico scuotere della vita
in stanchezze ed in vaghe trame di disgusto
vibrano, uccelli ciechi, le parole sottomesse.
(Nel sangue stanca luce ferma di inquietudine,
oro santo di nobili stanchezze che passarono,
i giorni raccolti
nelle nostre mani albe
santificate per Nostro Signore,
quello delle foglie e quello dei momenti
che non ebbero la profondità di dimenticanza
e che crocifissero in dolore.
Nostro Signore dolore,
per tutti i minuti
e per le acque rozze dell'infecondità,
Signore, Signore, Signore.)
La rotta è una piaga dolorosa. Proseguiamo.
Ha voci dorate il disamore del Male,
e l'infinito lancia lo spremuto discorso.
11 novembre 1919
Le trasparenze crudeli
LAS TRANSPARENCIAS CRUELES. (Pagina 118.) Dietro questo sonetto mancavano nel manoscritto (quaderno 2) i due fogli centrali del libretto corrispondente che forse si staccarono col tempo e si persero. Quei due fogli significavano quattro pagine che presumibilmente portavano un paio di poemi brevi ed il principio, perso, del poema "[ Me bañé en las lumínicas aguas de tu mirada (mi lavai nelle luminose acque del tuo sguardo)]" che riproduco di seguito secondo lo stato del quaderno 2 in 1965.
In un tremore di vita ed in un cerchio a lutto
vedere girare i momenti allucinatamente
e seguire e seguire con gli occhi chiusi
lacerando la crepa della ferita dolente.
Ma si polverizzano lentamente i crudeli
fumi sacrificanti del dolore e della vita
cadono languidamente sulle mani fedeli
ed aromatizzano la stanchezza con aroma suicida.
Guardare... Nella cosa infinita la luce si fece montagna
e chiudiamo gli occhi perché tessé il ragno
della stanchezza l'usura del suo tessuto fatale,
e nella notte temuta, oltre al cerchio a lutto
guardiamo come girano i momenti ricurvi
nella sacrificante carovana spettrale.
15 novembre 1919
[Mi lavai nelle luminose acque del tuo sguardo]
[ME BAÑÉ EN LAS LUMÍNICAS AGUAS DE TU MIRADA] (Pagine 118-119.) In CDT il v. 17 è: " aquellas manos albas me negaron su álbum", dove per evitarsi tanto penoso álbum bastava mettere attenzione alla rima: " aquellas manos albas me negaron su albura (bianchezza)", rimando a amargura e dura dei versi prossimi. Inoltre, nel fine del v. 2 il manoscritto porta "hondura (profondità)" (CDT) "honduras (profondo)".
Mi lavai nelle luminose acque del tuo sguardo
e pessimisticamente ti guardai con profondità.
Rimaneva un'amarezza
una cosa silenziosa
come un camminare sordo lentamente abitato.
Una cosa dolente
sorda come una dimenticanza
qualcosa che affonderebbe nei mari nascosti,
che avrebbe la spiacente richiesta della semenza
rimanendo nei fianchi del ciottolo insepolto.
Era un'ombra oscura,
qualcosa che si allungava
per i sentieri più duri,
qualcosa che si rannuvolava
agitando le ali nere dell'amarezza...
Si fece tutto sanguinanti fioriture mozze,
quelle mani albe mi negarono la loro bianchezza
e l'ombra allungata
coprì coi suoi fatali segni il sentiero duro.
Quello tu lo sapesti,
aveva in tutta la tua anima le mie profondità amare
e quell'ombra triste
ti aveva coperto già con la sua nebbia più lunga...
Ora che andasti via,
ora che mi gettasti
polvere di dimenticanza per la mia rotta triste
e che nella desolazione
fosti come una nuvola amara e più amara,
perché guardava il cielo
perché guardava la profondità palpitare delle ore
come dietro un velo
in che tu mi guardavi lenta e desolante,
ora,
può essere che non passi sconsolatamente,
che non perfori la grotta della mia ombra totale,
che sia un bianco sogno dell'assente
nell'abisso pieno di dolore e di male.
Perché poiché avesti la stele dolorante
sarai tristezza santamente vissuta
e nel mio bicchiere stanco, poco più di emozione,
dentro la desolazione fermamente chiusa
(sentirai il mio pianto essere un pianto strillato
che fluisce ed è buono come un discorso...)
20 novembre 1919
Grazie [I]
Questo filo invisibile dovrà abbandonarmi
e lasciarmi il dolore dei miei vani sensi,
questo filo invisibile dovrà abbandonarmi
oltre ai possessi della stanchezza vissuta.
Questo filo invisibile che mi lega alle cose
più umili, che mi fa battere il cuore
quando colla sua trama che mi lega alle cose
mette un alito amico dentro l'emozione.
Sentirò che sei andato via, povero piccolo filo dorato,
non sentirò già mai l'umiltà generosa
con che entri le mie stanchezze, povero piccolo filo dorato,
fecondavi le mie lunghe inquietudini torbide.
Povera trama buona! Fedele amico vicino!
Unico che nella mia vita tesse un laccio d’amore
con le cose umili, coi fumi lontani
e con queste sottili ansie del mio dolore.
Circa, 20-25.11.1919
Revista Cultural, núm. 2, Valdivia, maggio 1920, sotto il
titolo "El poema de gracias".
Queste crepe enormi...
Queste crepe enormi dell'impossibile, queste
trasmutazioni profonde per la cosa ignorata
quando nella trasparenza delle ore che rimangono
suonano le sferzate di quello che non è venuto.
E scalare, scalare (le ginocchia sanguinanti
e le mani ferite) per quello che non verrà
e tra il polverone di roseti inutili
vedere affondare la rotta del Dolore e del Male.
Ma seguire... ragni delle crepe più tristi
con le mani ferite facendosi umili
e continuare, e continuare per mai ritornare...
E nel miracolo lungo della strada infinita
piangere pianti umani per quello che non è venuto,
per quello che fatalmente non potremo vincere.
25 novembre 1919
[Come fanno male le note dei piani!]
[CÓMO DUELEN LAS NOTAS DE LOS PIANOS!] (Pagine 121-122.) CDT trascrive così il v. 11: " alargando las hondas sierras de la amargura (allungando le profonde catene montuose dell'amarezza)". È chiaro che le aggettivali hondas va molto meglio coi sostantivo simas del manoscritto. E che il verbo brotara del manoscritto sembra più adeguato del verbo botara di CDT nell'ultimo verso.
Come fanno male le note dei piani!
Amata
hai messo un male di pena sul mio cuore,
prima aveva una malinconia soffice
che fioriva in rose di sconsolatezza.
Ma ora - oh amata! - mi hai dato questo veleno
che sotterraneamente mina i miei entusiasmi,
continua a gettare pietre tristi per le mie strade cieche
e quando chiedo rose piene mi dà spasmi.
Male di pena tagliente sulla vita troncata!
Queste eterne ansie di sentirmi allontanare
allungando i profondi precipizi dell'amarezza
nelle rocce, misteri della fatalità.
Oh! Dovresti essere rose fatte miracolo,
dovresti essere acqua di divina bontà,
e dovresti andare fino a tutti i piani,
dir loro che non facciano male alla mia solitudine!
E dovresti andare alla vita insepolta,
e togliermi queste ansie sterili, ed essere
vapore di soavità, pienezza di dolcezza
altrimenti io non potrei ritornare.
E questo male che mi hai messo sul mio petto triste
questo dissanguamento fuori della mia illusione,
magari si facesse pioggia aromatizzata e ferma
e germogliasse un altro prisma per il tuo cuore...
26 novembre 1919
Pioggia lenta
LLUVIA LENTA. (Pagine 122-123.) Neftalí prova una nuova canzone in eneasillabi. Entra in scena un personaggio chiave: la pioggia, sebbene ancora in un contesto poetico convenzionale. Neftalí avanza verso il suo.
Non deve venire perché la attendi,
non deve venire! Non deve venire!
Dovrai essere tutto promesse
illuse, fino al fine...
Pioggia di vita pietosa
sopra ai nostri sensi,
ansia di bersi le rose,
e non è venuto. Non è venuto!
(Come si inzuppano le divine regioni delle mie cose.)
Sarai fuoco sacro: un semenzaio di allegrie!
Pioggia, stanchezza pietosa,
mi farai di nuovo il cuore?
Farai che sanguinino le mie opinioni
dietro la mia rottura di illusione?
Illuse e lontane
vibrano i pomeriggi, fino al fine.
Non deve venire perché la attendi.
Non deve venire! Non deve venire!
30 novembre 1919
[Aroma ingenuo e bianco di queste rose più bianche]
Aroma ingenuo e bianco di queste rose più bianche,
devo salire la cima che non posso salire
e devo prendere le rose migliori e più sacre
e devo bruciarle nell'altare del futuro,
e devo gridare scavate le tempie in me
per queste rose bianche del mio migliore altare
e spremendo la stanchezza col mio sangue fatto dimenticanza
mi vedrò desolatamente solo nel Male.
Poi... fili incrociati dell'angoscia. La vita
consumando il sangue fresco delle ferite
riassumendo le ansie in un solo dolore,
oh! buon aroma semplice di queste ingenue rose
amare in un minuto la bontà delle cose
ed in una stanchezza inutile sperare di essere migliore.
1 dicembre 1919
[Salmo di ricordi]
Salmo di ricordi,
pienezza di dolori di allegrie o
dell'infinita tortura delle meditazioni.
Salmo della vita invisibile
(tutte le cose rare, tutte le cose tristi
che si dissanguano sopra al nostro cuore):
per tutta l'emozione,
e per questo luminoso sentiero della nostra luce
fa' che il salmo ci arda come una canzone,
fa' che sia silenziosa fioritura di quiete
e che il suo aroma sia la nostra profumazione.
Salmo di ricordi.
Salmo della vita triste
estendi i telai delle purificazioni
su nostri umili
stanchezze nostalgiche, luce, dolore o dolori.
E sarai l'unica, l’aromatizzata canzone,
salmo della vita invisibile,
bicchiere per ogni emozione.
1 dicembre 1919
[Porterò sempre per tutte le mie emozioni]
Porterò per sempre tutte le mie emozioni
tra gli infecondi dolori paralleli,
queste stesse essenze del mio torture
infossate nel fango, sotto gli stessi cieli.
Domani ricordare,
polvere triste e cenere dolorosa, le stesse
strade abissali verso l'eternità
con cui vibrò la tunica dei sette miraggi.
E sarò come il lungo singhiozzare della morte
fuso nel ritmo delle immensità,
distaccato nel bacio più sereno e più forte
con la quiete aperta per le mie solitudini.
Oro unico e buono! Sacra quiete eterna.
Non devo trascinare cambiati i miei desideri finali
e porterò il mio carico di emozioni malate
per questa stessa rotta di stanchezze uguali...
2 dicembre 1919
[Oh! tocchi dei violini nel pomeriggio morente]
Oh!
tocchi dei violini nel pomeriggio morente
i nostri cordami intimi, vibratori in lui.
Nei baci spasmi gelati della morte
mandarci a rotoli come un bicchiere di fiele.
Ed essere amari come la dura eternità
legarci i dubbi in un nodo di dolori
che ci esamini il profondo desiderio di bontà
tra la barriera di veleni.
Benché tutti i pomeriggi si profumino di vita
saremo anime di silenzi distanti,
venti aspri che riempiono nella pioggia suicida
i remoti cordami di violini stancanti.
6 dicembre 1919
Serata familiare
L'anima di Chopin nebbioso sulla vita volgare
tra le ragnatele di questi incantesimi
che portano, oro fatto sete, in pienezza di bontà,
e chiusi gli occhi per i divini sentieri
camminare, camminare.
(Continuare a presentire un'agonia
languidamente spirituale
sepolcri della melodia
malaticcia... il sentiero... e camminare
e camminare...)
Oh! Non come quello delle estranee canzoni
noi, anime semplici, continuare a rimare i suoni
della musica triste con la rotta interiore.
Oh! Non come quel mago pallido dalle pupille lontane
noi, anime semplici, ieri come domani
crudelmente illusi per sempre, Signore.
(L'anima di Chopin nebbioso, sulla vita volgare.
Oh! il sentiero senza stanchezze... e camminare... e camminare.
[Devo rovesciarmi in un poema]
Devo rovesciarmi in un poema
che sia un grido di vetro
infossato sopra alla malata
pioggia umiliante del mio male.
Le mie solitudini pietose
ed i miei battiti di emozione
tutto il cammino della mia vita
nel mio deserto di dolore,
tale una messa di stanchezze
pregata per il mio cuore.
(Questo poema l'ho portato per il sentiero
tra un battito di momenti fervorosi
e tra il sangue della pena
che getta i suoi alvei dolorosi.)
Rovesciarmi tutto in un poema
ed in lui vibrare, vibrare, vibrare,
con tutte questi voci piene
nate nella solitudine.
La mia aspra rotta desolata,
le mie litanie di sentire,
saranno la piaga profumata
che farà la strofa vibrante del vivere.
Ma questo bicchiere di impotenza
mi ha lacerato il cuore
mi ha contagiato in una malata
crisi di disorientamento.
(E dopo fare acque, disfarsi in tenerezza,
non mostrare mai a nessuno i grappoli del male
e tessere, come tutte le volte, l'amarezza
in un filo rotto in soavità.)
Profondo poema della mia vita
che non potrò mai scrivere
con questo sangue della mia ferita
con questo desiderio senza fine.
E solitudine, luce e dolore,
aspro carico di veleni,
devo accecarmi nell'emozione:
e devo essere solo, muto ed acceco?
13 dicembre 1919
[Poeta]
A Daniel de la Vega
Poeta,
non sapesti cantare la vita provinciale
tu non stesti dentro, tu non lasciasti piena
la tua anima di emozioni ardenti e sane.
Tu cantasti solamente guardando le tue altezze
e credesti trovarti con la vita più pura,
più semplice e migliore,
non pensasti a spasmi di strazianti pene
che vivono come fiori sanguinanti nella vita
che credesti un fagotto di emozioni serene
dove il dolore era forse una menzogna
e malata eccitazione verso la cosa artificiale.
Ma, Poeta, tu non vivesti nel male,
non trascinasti qualche carro di dolore per la rotta,
in queste solitudini non fosti solitudine,
qui non credesti che fosse una maga rozza
la vita nei sentieri della fatalità.
Non conoscesti l'aspro camminare degli uomini
che stanno nel veleno di questi crudeli angoli
e che sono un grappolo triste di cuori
stretti e soli.
Ognuno leccandosi la sua piaga dolorosa
e guardando stanchi come passano i matti
incensi profanati della vita tediosa,
ciascuno sforzandosi a vivere in se stesso,
ferendosi le mani per tagliare la marea
dei dolori profondi e dei fatalismi.
Ma tutti si stancano, si buttano via nella terra
sterile, e muoiono, muoiono e muoiono.
Carne sterile, umile congiunzione di fallimenti
sono una sola corda tesa nel dolore,
gettano più mieli verso i giorni che passarono
e pregano alla vita che li tratti meglio.
È inutile, passano lentamente i giorni,
si esauriscono, vanno via, ma sempre la vita
getta per gli uomini tensione di parossismi
e gridano, e muoiono... Saranno sempre gli stessi.
Così. Tosando al soffio di tutti i dolori
tutte le nascoste ebollizioni dell'essere
e sentendo l'enorme
dolore di vivere soli tra la gente e
nella vita tutta, intera.
(Dolore quello degli occhi, di non vedere dopo
dietro le stanchezze di questo mucchio di cellule
finite ed ansiose di rivivere più forti
pensando alle marce montagne della morte.)
Poeta, tu magari
non sapevi il carico di dolori infossati
Tra gli abissi pieni di solitudine.
Poeta,
tu volesti cantare semplicemente
le emozioni buone
ma tu non cercasti i sentieri ardenti
catturati dalle cinque lampade del dolore
e che diventano più duri in un aspro angolo.
Non sapesti cantare la vita provinciale,
non tutti sono sogni né dicerie di ali,
quello è superficiale:
qui vanno gli uomini già stanchi di camminare
e portando nelle labbra come un discorso
il fiele tremolante che gettò loro il dolore...
14 dicembre 1919
La visione semplice
Per questo nobile prato ti guardavo danzare,
oh Visione! Io credevo che non venissi mai.
Io credevo che l'oro del giorno ti andasse a dare
le lampade gloriose che illuminavano la sua tunica.
E tutte le estranee virtù del suo ventre
affinché facessero ritmi ai tuoi seni tremanti
e gettassero boccate di fumate ardenti
al leggendario suono delle tue voci vibranti.
Ma tutto tremava perché eri venuto:
la terra era un bottone cieco di tempesta.
Le nuvole si arrendevano in un brivido!
Finché quel nobile prato sentì la sua solitudine!
Io ero l'unico uomo, ubriaco di dolcezza
vibrai nell'insensibile concerto delle cose,
ebbi il tremore di quelle inestinguibili cellule
in cui tu eri il semplice miracolo di una dea.
Oh Visione, poiché non verrai mai più alla mia vita
perché la terra cieca ti dovrebbe portare,
fa' che mi faccia una fonte di miracoli, una semplice
vibrazione di cellule per la tua eternità.
Dorami per sempre col tuo fuoco illusorio
col filo semplice della tua canzone
affinché quando muova le labbra nella tua ricerca
si dissolvano le mie braccia perché tu eri l'unica
che fu per le mie labbra solo un discorso...
17 dicembre 1919
Nella mia notte calda
Forse perché camminiamo maldicenti
farò germogliare la pioggia del mio dolore finale,
nel torvo miracolo della mia notte calda
o in questa stessa solitudine!
Domani per il torbido dolore del mio silenzio
magari se sarò cieco degli stessi cilici...
Una piaga, due labbra che gli uomini non videro:
tutta sarà una nera lampada di supplizio.
(Era, il mio cuore, troppo ragazzino
e spremevano le quattro pareti del mio petto
i ritmi non toccati del tuo battere semplice.)
Col viso inondato dal soffio più duro
taglierò gli inutili fiumi della mia pietà.
Allora verranno venti lancinanti ed oscuri,
io sarò un miracoloso vibrare di eternità.
Domani, ma sempre per la mia notte calda
questa lampada nera della mia piaga finale
in tutte le strade ostili e mordenti
dove vadano i miei occhi deserti di bontà.
... Ed attraversate le braccia nel torbido momento
sentirò come scendono le linfe dal dolore,
passerà per il mio corpo
il tremore di una pioggia cagliata di emozione.
La terra sarà un seno tremante di infinito
infossata nel sopore dell'incantesimo nascente...
(Eri, il mio cuore, troppo ragazzino
nel torvo miracolo della mia notte calda,
26 dicembre 1919
Sonata del disorientamento
(Il 16 dicembre in ore di stanchezza)
SONATA DE LA DESORIENTACIÓN. (Pagine 132-135.) Strofa 4, v. 3, in CDT Farías legge: " dejó plenas las crácaras copas de mi deseo". Incredibile. Passi che la fotocopia non era chiara, ma mi domando come possa immaginarsi almeno in Neruda (aai 15 o i 65 anni di età) una parolaccia del tipo crácaras come aggettivo a copas (bicchieri). Ammetto come attenuante che in quel punto il manoscritto non era facilmente decifrabile perché credo di ricordare che rifiutai perfino il termine affine cráteras perché non era utilizzabile come aggettivo e per incompatibilità semantico-poetica, (cratera o crátera: "Stoviglia grande e larga dove si mischiava il vino con acqua prima di servirlo in bicchieri durante i pranzi in Grecia ed a Roma", DRAE). e Neftalí era meticoloso in queste cose. , La mia lettura del manoscritto è perfino ovvia: cóncavas copas (concavi bicchieri).
I
A me la vita non ha messo mi triste:
solo sono stato me stesso,
io ho vissuto la profondità del mio orgoglio impossibile,
io ho scaldato la profondità del mio oscuro supplizio.
Ed io stesso ho tessuto
tutti questi telai velenosi ed amari
per dove continuo a filtrare il mio dolore di essere vivo
sopra al mucchio delle mie aspre stanchezze.
Io non so in che lontano trasmutazione malata
diedero per le mie braccia questi profondi dolori,
io non so se sono fango di una addolorata terra
che in carnali desideri incantò i suoi angoli,
io non so che veleno
di fatalismi sordi si rovesciò dietro la mia rotta,
lasciò pieni i concavi bicchieri del mio desiderio
con emozioni rare che non ho sentito mai.
Forse in qualche lago di fiele caliginoso
fecero passare uno alla volta i miei sensi
e mi piovvero tedio per tutte le ore
perfino per il secondo più umile e più mio!
E forse per sempre! Lasciare tutte le mie ansie
in moncherini sanguinanti, morbosamente tristi.
E per la rotta lunga
invece di quell'orgoglio essere come un cane umile.
Così, insensibilmente continuo a fare più larga
la ferita nella profondità del mio orgoglio impossibile.
Devo crocifiggermi per tutte le mie ansie
infossato nella stanchezza della rotta più triste!
II
Nel sentiero aspro il mio dolore è un punto
disperatamente tagliato in solitudine.
Io non dovetti agli uomini essere stato solo
incendiato da lente unzioni di malvagità.
Nel vivere di tutto il mio sangue pietoso
né spremuto la malata promessa della mia sete.
(Tutto il battere rotondo della mia vita nebbiosa
allagato nella sfera di un torrente di miele.)
Mentre arriva, andiamo. Porto stanchezza, ma
nelle membra stanche porto la mia vita piena.
Forse in qualche giorno solo saprò essere preghiera
per gli uomini, per gli uccelli, per la terra.
E se no, essere aroma sgretolato di infinito
concretato a questo punto tagliato in solitudine.
(Forse non verrà nessuno per il mia stanchezza
e sarò solo un torbido squarcio di malvagità!)
III
Senza sete, senza nessuna fame di allegria
bevo nelle sorgenti ringrinzite del dolore.
Io non ho bevuto mai quello che chiesi alla Vita
perché mi ubriacarono i succhi che mi diede.
E come il corvo quello di torturanti ali
bevo nella fonte nera di un fatalismo idiota:
se non potei bere di rugiada acqua chiara
devo sperare bocconi che venga qualche cosa...
Qualche cosa sana che mi riempia qualche giorno
e che copra la profondità della mia fonte addolorata.
Poiché non ho sete, né fame di allegria,
berrò trucemente i rastrelli della vita.
Lacererò gli spicchi della mia quiete malata
per diventare un riposo dove vivermi suolo
e senza piagare il mio corpo
liquiderò le mie cellule in un torrente di odio.
Perché? Perché? Se nei miei chiari desideri
lasciai sciolta la tunica della mia vita serena.
E perché questi desideri di vedere quello che non vedo,
di buttar via alla terra le mie illusioni buone.
Allora non fui buono?
In quali trame complesse si avvelenò la mia vita?
Perché asciugarono tutto il latte dei seni
materni e rimaniamo rigidi aspri e pieni
di tenerezze disfatte in una sola ferita?
E tutti, tutti, tutti. Domani, ieri. Magari
se sulla testa degli uomini piovvero
i succhi raggrinziti della stanchezza e del male,
e magari se vollero
che fossimo un frutto nero di solitudine
un gregge di carne pensante e dolorosa
e forse nient'altro...
Tutte, tutte le buone ed non incontrate rose
se le devono portare. Se le devono portare!
Tutti continuare trucemente a maledire le cose,
se le devono portare. Se le devono portare!
... Un gregge spremuto di dolore e stanchezza,
e forse nient'altro!...
La voce desolata
I
Non potrò oramai non amare mai, non potrò oramai non amare mai,
tutti i ghiacci brutti si inchiodarono in me,
per quel motivo devo rimanere e devo vivere solo
guardando le ferite rosa del futuro.
Io che non sono stato brace per il braciere sacro
sarò un nodo di carne silenziosa
magari un filo torbido, ma fragile e buono,
teso tra le piaghe della notte nebbiosa.
Ma gettai la fragranza di tutte le mie bontà,
di tutta l'ansia ferma delle mie voci prime
e dopo nella terra aspra di solitudini
vibrai nel canto buono
di voler fare cellule di nuove primavere.
Non potrò oramai non amare mai,
disfai già il mucchio delle mie suppliche scaldate
e sciolsi già le vergine linfe della mia dolcezza
affinché aprissero alvei profondi e desolati.
II
Amore, se non mi fu lontano
niente degli ardenti sonni della mia tenerezza,
se incendiasti la mia vita con la tua fiamma più triste,
per che motivo mi lasciasti
le mie mani infantili asciutte e nude?
Io congelai la profondità serena della mia fonte
(quella delle acque vergine, umili e pie)
per irrigare il sangue delle mie vene ardenti,
infossate nel chiaro veleno delle tue rose.
Io, quello dalle mani semplici,
aspettai la tua leggenda rosata ed ardente
e strinsi i piccoli desideri infantili
affinché alzassi le tue ali odorose.
Ed affinché passassi
dovetti essere tutto questo che tu sai ora.
(Continuare ad ammazzare nella mia vita le illusioni chiare
e sentire che erano lente ed inutili le ore.)
Ora, amore, ora
tu sai che sono solo un fagotto di dubbi
e perché lo volesti
porto aperte le mie mani candide e nude.
E, Amore, benché lo voglia
benché vibrino i versi di tutte le tue dolcezze,
benché le tue voci cantino le canzoni più pure,
con la mia voce desolata ti dirò sempre
non potrò oramai non amare mai,
non potrò oramai non amare mai!
[Una luce irreale mi illumina durante il tragitto]
Una luce irreale mi illumina durante il tragitto
e copre i miei dolori e le mie contentezze con
il raro sortilegio del suo manto divino.
È come un'illusione
inaspettatamente serena e benevola,
succo soave e strano per ogni dolore
che fa che si maturino irrealmente miei buoni
sogni. Rimangono come le ragnatele
le dimenticanze che hanno acredine di veleni.
... E la luce viene lenta, viene lenta e mi lava
nel suo languido crepuscolo sereno
di rose luminose irrealmente strane.
Novembre 1919
I tre moschettieri
Nella valorosa leggenda di quei moschettieri
noi traducemmo un poema gentile,
oro e sangue, il sangue dei sogni primi
un po' doloroso ed un altro poco infantile.
Ma benché io fossi già carico di veleni
aspettavo quel vecchio racconto dell'ottimismo.
Mi accontentai pensando che voi erano buoni,
che mi getterebbero mieli dentro all'abisso.
E così fu: ebbi un vago rinascere di allegria,
trovai più umili e più soavi i giorni
e trovai alcuni bontà per il mio cuore.
Per quel motivo in questa ora nostalgica e ferita
ho riempito di grazie la profondità della mia vita
e ho chiesto che mai li maltratti il dolore.
20 dicembre 1919
Gli alberi [I]
I
GLI ALBERI DIRITTI
Si alzano soli, aspri nel silenzio. Vivono
nelle serene ansie delle loro rinnovazioni,
sono come le campane di una dolcezza triste
denudate in una chiusura di dolori.
Nell'autunno vivono sereni e fiduciosi
addormentando l'oro delle loro foglie ultime
e sperando, sperando che ritornino dal passato
i sussulti di qualche primavera.
E così sono... Vivono... Alzano in quieti estatiche
le dita trapanate del ramo più forte
e si fanno un miracolo di dolcezza e silenzio
affinché quando venga non li porti la morte.
II
PAUSA SONORA
Acque, divine acque, che nel torbido silenzio
fate vibrare le chiare campane dell'amore,
è rimasto taciuto come un uccello il vento
sentendo questa magia profana fatta discorso.
(Io non so se il fragrante battere di Primavera
che ha inondato le acque allegre e cantanti
portò la preghiera ignorata delle acque parlatrici
che inumidiscono di paura gli alberi distanti.)
(La strada deserta,
ed acque, divine acque immergendosi in lui.)
E come pesa il profondo battito del silenzio,
acque, divine acque, su quello che andò via.
Sono un chiaro di luna rovesciato in armonie
queste acque in mezzo agli alberi muti
e sentiamo, tremolante la carne di allegria,
il battere innocente del cuore nudo.
III
GLI ASSETATI
Li rispettò l'inverno quando passò. Rimasero
in un solo mucchio doloroso e vinto.
Sono uno che riassume autunni che passarono
ed asciugarono i germogli che non erano nati.
Ed il sangue, la linfa che fu potenza ferma
quando li allagavano i suoi fiumi di dolcezza,
è una fonte morta per tutto l'umile
cordame dei tronchi sulla terra dura.
Le radici frugano. Sono stanche, hanno
ansie, strane ansie di salire all'altezza,
hanno aspettato tante primavere che vengono
ma che sono il prologo nero dell'amarezza.
E le dita umili si sono strappate invano,
gli anelli febbrili della sete arriveranno
ed affondano nelle marce viscere del pantano
tutta la disgregante sensazione del suo male.
Ed un'altra volta, niente, niente. Sconsolatamente
l'autunno disfa le buone foglie appassite
e mentre le spreme la sete stancamente
vibrano nello spasmo supremo dell'angoscia.
IV
PAUSA SILENZIOSA
Una voce di donna che nella notte vibrava
si dissolse nel vento saturo di amore,
gli alberi parlarono delle cose lontane
e gli uccelli ebbri scorsero Dio.
... E niente, nient'altro. Fino a nel cielo
piovvero le ignote lacrime del silenzio.
V
I ROSETI DI LA SOLITUDINE
1
Già si congelò il cuore degli uomini del mondo
e tu, roseto, stringi la tua solitudine umile,
fa vivere eterno e fa vibrare profondo
come un solco nel piano dei minuti grigi.
E viziati gli uomini, ti nutrirono i dubbi
strapparono la chiara canzone del tuo profumo,
e mentre tu mostravi i rami nudi
taceva il miracolo dei cieli azzurri.
2
Roseti, oh roseti di solitudine! Io credo
che questi buoni roseti saranno una semente,
una sacra semente che agiteranno i venti
sopra al gelato cuore della gente.
E quando nutrano questi roseti il seme
gli uomini saranno dolci grappoli di umiltà,
giardinieri cagliati di virtù semplici
che vanno nel cammino per l'eternità.
… E fioriranno rose immense e fiduciose
dei roseti della solitudine...
3
Roseto, roseto, un giorno si piacerà di baci
il complesso tesoro delle tue caste radici,
è che allora, roseto, fioriranno le ossa
di questi enormi giorni grigi.
E la tua carne fragrante
si disferà nella gloria potente dei giorni,
amerai la distanza
delle cose che furono serene di allegria.
Ma almeno allora nel tuo aroma divino
crepiterà la stanchezza di tutte le strade
ed in una fiamma nera di dolore ed allegria
roseto, roseto, farai che si perdano i giorni.
Apre il solco, trapana le viscere serene,
piove aroma di luna sulle anime buone,
che le tue radici siano una sola bontà
per gli uomini tutti, per la terra, per
le crepe raggrinzite delle vite più rare, roseto di solitudine.
1920
Il discorso nella notte
Senza luna e senza amore, come due orfani
si sono chiusi i miei occhi. È venuta
una scossa desolata,
qualcosa come un brivido.
Nella notte deserta e fragorosa
ho ricordato la profonda chiarezza della luna
che gettava la sua alba bianca su tutte le cose
con una soffice pena, quasi senza amarezza.
Ed in una febbre di suppliche umiliate
sono caduto bocconi sulla terra buona
e nei cieli azzurri per gli uomini stanchi
ho desiderato essere buono come una luna piena.
Ed agli uomini che soli vanno per la loro solitudine
scendere per dar loro tutta la chiarezza.
E che bevano che bevano dalla fonte serena
senza odio, senza stanchezza, senza dolore e senza pena.
1920
Solitudine
(Il pomeriggio è come un presentimento.)
Annodo le mie ferite disperatamente
in un torbido mucchio di sole, di acqua e di vento.
Vivo nella lentezza stanca della mia vita
ed affondo i miei denti giovani nelle mele tristi
del sogno annodato per tutte le mie ferite.
Maledizione di sentirsi straziatamente
solitario nel dubbio e nel dolore! Domani
si rovinerà il mio nodo di sole e vento ardente.
1920
[Ho bisogno di comprendermi]
[TENGO NECESIDAD DE COMPRENDERME.] (Página 144.) Quepe era un villaggio vicino a Temuco.
Ho bisogno di comprendermi,
di entrare in me come una nuvola chiara
in un cielo cagliato di eccessi di febbre.
E strappare nella mia anima
la quiete più umile, l'amore più semplice,
il cantare degli alberi, la passione delle acque.
Tutto come una gloria sensitiva e fragrante
che rovesciasse nell'ombra della mia vita dimenticata
il ritmo indimenticabile delle cose distanti,
l'oro sacro e buono
che gli uccelli sanno trovare nel fango.
In Quepe, 1920
Il silenzio
Apre il clamore del tuo peccato triste
e vive e vibra solo e lentamente.
Quando passano gli uccelli umili,
uomo sconsolato, devi abbassare la fronte.
Nella cima sonora
devi avere un gesto deciso e potente
che annodi la cagliata santità delle ore
nella pallida bianchezza delle tue mani ardenti.
Che nel nobile silenzio della tua vita penetrata
le parole non abbiano segni spiacenti
che in tutte le mattine,
uomo, tu solo sia il padrone della tua vita.
E come il lacerante lume di un incendio
sommerso nella montagna delle tue ore serene
fa che regni nella tua vita la canzone del silenzio
come un immenso discorso buono.
2 febbraio 1920
Nella finestra
Ieri, ieri non più, come un carico
era il mio cuore un ritmo buono.
E non passò un'amata,
non passò un canto gentile fiorito di sogno.
Non passò un'alba.
Non passarono gli uccelli gorgheggianti di luce.
Non passò niente, niente.
(Gli uomini tacevano. Io guardavo l'azzurro,
passò una nuvola bionda, ma mai ritornò.)
(A che mondo? A che mondo
andasti via, nuvola bionda, ingenua e codarda?)
Continuare a vivere, Signor! come un miracolo
addormentato nelle stanchezze del pomeriggio.
2 febbraio 1920
Se qualche giorno ritornassi
Amata, bionda amata dei miei giorni primi
sei andato via della mia vita senza che tu lo sapessi
e come venisti per i miei giorni buoni
farai tremare la mia primavera.
Amata, bionda amata che aspettò la mia stanchezza
fa già molto tempo che non posso sperare
da quando si intorbidarono i miei desideri più chiari
e da quando non posso camminare.
Se qualche giorno ritornassi, bionda amata perduta,
farò seta la stanchezza e ti sorriderò
ma sarai la piaga più profonda della mia vita
se alle mie disperazioni arrivassi un'altra volta.
8 febbraio di 1920
La piccola allegria
(Per pubblicare su Siembra)
Il mio cuore da bambino dolorante e precoce
infossato nell'usura del sentiero ombroso
ha avuto un umile ed agitato tremore.
È che, Signore, oggi ebbi un'allegria.
Nel chiarore tinto di pace crepuscolare
vibrò il mio cuore come una sorgente
e la mia fronte vistata dalle rotte lunari
ebbe un brivido sereno di umiltà.
È che, Signore, oggi ebbi un'allegria,
io volli raccoglierla con le mie mani stanche:
era un lieve minuto che cagliava i miei giorni
nella diceria sedativa della notte di luna.
Era un lieve minuto ma io lo volevo
imprigionare interamente tra le mie mani deboli:
io volevo averlo come una melodia
germogliata tra la rovina della giornata sterile.
Il mio cuore da bambino pensoso e precoce
ebbe la trasparenza di una fonte tranquilla.
(Chiedere all'alba, all'albero, alla terra o a Dio
che quel canto vibrasse per sempre nei miei giorni.)
E diventare tutto suppliche, svuotarmi le mani,
spiegarmi nei frutti bianchi della mia bontà
e chiusi gli occhi tramutare all'Arcano
questo forte battito di dolore ed ansietà.
Per sperare in qualche montagna di leggenda
un armonioso pezzo di allegria, Signore,
per nascondere il torvo camminare per il sentiero,
per illuminare di un chiaro di luna il cuore.
E per quel motivo, Signore, per tutti i miei giorni
devo aspettare le ore miracolose.
Oggi ebbi un'allegria,
poi entrai nell'enorme lentezza delle cose.
6 febbraio 1920
Testo datato "Temuco, febbraio 1920" in
Siembra, núm.5, Valparaíso, maggio 1920.
[Mi varerò nella pianura più chiara della mia vita]
Mi varerò nella pianura più chiara della mia vita:
né l'alba né la notte mi tireranno fuori da lei!
E vibrerò con tutte questi forze addormentate
che hanno nella mia carne ansie d’alba.
Per tutta la vita, per tutta la vita
infossato nel vibrante miracolo del mio essere.
E quando entri nella pianura di seta fiorita
né l'alba né la notte mi tireranno fuori da lei!
4 febbraio 1920
Grazie [2]
Grazie, donna ignota che in questo giorno grigio
mettesti la fragrante nota di un'illusione,
gli spicchi tremuli di un miele giovanile
nei vecchi grappoli del mio cattivo cuore.
Grazie, donna.
Grazie per questo pazzo minuto di inquietudine
che mi aprì una finestra d’alba
tra le nuvole della mia gioventù.
Grazie perché non devo aspettarti domani
nell'orto chiuso che non deve fiorire:
grazie, donna lontana,
perché non sei venuta mai, perché non devi ritornare.
Febbraio 1920
La pace esterna
Nell'aria inondato di un aroma impossibile
e nella terra addormentata, dolorosa e sensuale,
si agitano queste mani bianche ma invisibili
che circondano la mia vita con l'unzione della pace.
Ed addormentate, silenziose, le cose e gli esseri
continuano a farsi stringere di luce il cuore,
con la sorda stanchezza dell'animale che muore
nell'atroce incoscienza della pace esterna.
Poi sarò un'isola sensitiva ed il mondo
sarà un lontano tocco di campane di ieri
e le mie braccia vibranti saranno un canto muto
desolato nella bianchezza di qualche alba.
Nel chiaro mattino di silenzio, la fuga
degli uccelli pazzi ferirà la mia emozione
e questa isola sanguinante ed ardente della mia vita
si sgretolerà nei ghiacci della pace esterna.
18 febbraio 1920
Non mi sento cambiare
NO ME SIENTO CAMBIAR. (Pagine 149-150.) L’edizione CDT de Farías trascrive: nel v. 9, «Mi padre está muy viejo» in luogo di «Mi padre está más viejo» che riporta il manoscritto (e che chiede il contesto); nel v. 11, «hay más niñas» per «hay más niños»; nel v. 15, «demás» per «de más»; e alla fine del v. 16 un inspiegabile «ni un poquito de mundo» dove il manoscritto ripotta «ni un poquito de amor» che tanto la rima come il contesto sollecitano.
Non mi sento cambiare. Ieri io ero la stessa cosa:
il tempo passa lento sui miei entusiasmi,
ogni giorno più rari sono i miei scetticismi,
non sono stato mai vittima né di un piccolo orgasmo
mentale che abbattesse la canzone dei miei giorni,
rompesse i miei dubbi che cancellasse il mio nome.
Non ho cambiato. È un po' più di malinconia
ed il pochino di tedio che mi diedero gli uomini.
Non sono cambiato. Non cambio. Mio padre è più vecchio
i roseti fioriscono, le donne vanno via,
ogni giorno ci sono più bambini per ogni consiglio,
per ogni stanchezza, per ogni bontà.
Ma io sono lo stesso. Nelle tombe anziane
i vermi rabbiosi disfano il dolore,
tutti gli uomini chiedono di più per domani
ed io non chiedo niente, né un pochino di amore.
Ma in un giorno amaro, in un giorno lontano,
io sentirò la rabbia di non tendere le mani,
di non elevare le ali del rinnovamento.
Magari ci sarà un po' più di malinconia
ma nella certezza della crisi tardiva
io farò una primavera per il mio cuore.
1920
La strofa umile
Andare per la strada con una strofa dolce
tra le labbra ogni volta più nostre.
Lasciare che passino gli uomini stanchi,
i bambini che hanno gli occhi umili.
Ma la strofa disfatta nelle labbra
ha una lenta carezza di miele.
La strada si allunga.
Tutte le donne
hanno negli occhi un chiarore di bestie
sensuali.
I bambini si perdono. I cani anche.
E gli uomini passano con occhi brutali,
con occhi che chiedono qualcosa che andò via.
Ma la strofa ci guida.
Disfa i suoi mieli intatti
come una pastiglia di piacere, di vita, di fede.
21 marzo 1920
Allegro in a chiarissima
ALLEGRO EN «A» CLARÍSIMA. (Página 151.) In CDT i versi 1-2 sono: «Alguna clara llama / rebelaba en toda la santidad del alba». Il manoscritto riporta «se rebelaba», multo probabile errore ortografico de Neftalí per «se revelaba» che suona meglio nel contesto. Nell’eliminare «se» nel v. 2, Farías corregge arbitrariamente, sin annotare né spiegare.
Qualche chiara fiamma
si rivelava in tutta la santità dell'alba.
Le ore speravano
tremanti e silenziose.
Un'ombra danzava ed un'altra inarcava
la persa fragranza della calma.
Il sole, maschio rabbioso, non ci diceva niente
mentre la gloria bionda dell'anima andava via.
Qualche fiamma ignota ci cantava parole
e l'alba c'entrava ingenua nelle anime.
1920
Già sento che va via la mia adolescenza
Già sento che va via la mia adolescenza
in un tremore che incanta la quiete del mio sangue
si appannarono le bianche trame della mia innocenza
ed un fiume di oro torbido fluisce sulla mia carne.
È la carne intoccata di qualche primavera
che mi ha gettato le linfe vergini del suo amore,
è il passo tremante dell'ombra prima
che rediviva è morta per il mio cuore.
(Piano, piano a lutto dei pomeriggi romantici,
non puoi cantare oramai
non sogno oramai nei pomeriggi le ombre estatiche,
che piovevano i suoi baci sulla mia solitudine.)
(Alberi, cani tristi, maledettamente muti
un vino canterino dissolse il mio dolore
e nella notte giammai bacerò i nudi
tronchi fratelli di desolazione.)
Nelle mie vene enormemente deboli
sento un galoppo di cavalli, ebbri di sangue e di inquietudine,
e nelle mie arterie candide i poemetti
disorientati della gioventù.
Nei miei stagni si è rannuvolata la santa e buona trasparenza
ed un vento nero ha abbattuto la lucidità della mia emozione:
è che già sento che va via la mia adolescenza
e continua a lasciare che facciano scoppiare i frutti neri del dolore.
1920
La piaga mistica
Ed avere rovesciato nella tua alba le rose del desiderio
dall'enorme spinta dove corre il mio sentiero,
averti amato come Gonzalo di Berceo
poté amare la vergine sacra della leggenda.
Amarti, amarti, amarti su tutta la mia vita,
amarti coi tristi grappoli del mio essere
e disfare le rose del mio podere fiorito
affinché si fecondi la tua carne di donna.
E dopo guarderei oi miei occhi lontani
la tua bellezza persa, le tue trecce e le tue mani
ed il roseto di stanchezze che si inondò di luce.
E vorrei consegnarti le rose del desiderio
che nella sua cella piagato Gonzalo di Berceo
offriva alla vergine fiorita di azzurro.
1920
L'ora dell'amore
Io vado tutto ubriaco di amore in questa ora,
si alzano nella mia anima le dolcezze perdute
le tremanti campane della vita sonora
si portano le celesti stanchezze della mia vita.
Vedono crepuscolo tiepido, vedono aurora rosata,
vedono fragranza di baci, vedono caldo di donna.
È già tanto tempo che non aspetto l'amata
che mi mordono i cani del desiderio e la sete.
Ma se vado ubriaco di amore oramai non mi importa
il sogno lontano che non può ritornare,
porto tutte le mie rose perchè la vita è breve
e, è chiaro! i miei roseti devono fiorire.
Ma se porto tutti i miei roseti cagliati,
dammi una mano amica, dammi un frutto, Signore,
dammi due seni tiepidi e due occhi amati,
se non me li consegni, che cosa sarà del mio amore?
Maggio 1920
I racconti vecchi
LOS CUENTOS VEJOS. (Pagine 154-155.) A questa versione del poema segue nel manoscritto quello che è senza dubbio una variante della sezione III:
Camminando, camminando, camminando sono passato gli anni,
hanno passato i mesi, hanno passato i giorni.
I miei due fratelli morti in paesi strani,
morti senza la ricchezza né la saggezza.
Ma
io ti cerco la stessa cosa che nei primi giorni
perché è da tanto tempo che ti aspetto
e quello racconto diceva...
Il diverso inchiostro usato e la diversa modulazione della grafia segnalano che questa variante fu scritta nel quaderno 2 con posteriorità. Ma il fatto di non avere cancellato la prima forma della sezione III ne sembra un segno di vacillazione - almeno iniziale - e per ciò la ho preferita in questo posto. Un'altra versione, nel quaderno 3, porterà invece la seconda forma della sezione III.
I
Quel racconto diceva...
Ma perché ti cerco, perché ti cerco tanto?
Ho attraversato i deserti, ho bagnato con pianto
la mia defunta allegria,
e perché amata mio,
perché ti cerco tanto?
Ho attraversato pianure, monti e campi di grano
per cercare il tesoro
delle tue mani di seta
e le tue trecce di oro...
(Io conobbi le tue trecce e le tue mani un giorno
perché il racconto diceva...)
II
Eravamo tre fratelli.
Uscì il maggiore un giorno per mari e per pianure
per un vecchio tesoro che non avrà,
e mio fratello secondo
uscì a percorrere il mondo
per essere un uomo e per sapere...
Eravamo tre fratelli e nessuno ritornò.
(L'altro matto ero
io.)
III
Sono passato gli anni e già nessuno mi aspetta
e così stanno passando i mesi ed i giorni,
io non mi stanco di aspettare...
ed i tre matti tristi non ritornano ancora
camminando nella terra e sperando nel mare.
Io ti aspetto e ti cerco come nel primo giorno,
perché è da tanto tempo che ti aspetto
ed quel conti diceva…
1920
Ratos Ilustrados, núm. XXII, Chillan, 3.12.1920.
La dolce ballata
LA DULCE BALADA. (Pagine 155-156.) Testo forse inspirato per quella pecorella di lana che Neruda evocherà in "Infancia e poesía" del 1954. Notare la poetazione di tipo tradizionale e popolare
Rimase pensando la bambina
agli agnellini bianchi,
mentre la luna baciava
le strade desolate.
Acqua, sole e luna ardenti
nei corpicini bianchi,
tutta la luce ed la soave
canzone dell'amore vicino.
Rimase pensando la bambina
agli agnellini bianchi.
Lana bianca e perduta
nelle braccia della nebbia,
che portarono gli agnelli
dal fondo della luna.
Dalle buone strade,
dalle terre remote
dove ci sono pastori di cielo
ed acqua, e sole, e luna, e rose.
Rimase pensando la bambina
agli agnellini bianchi...
Mucchio di lana fatto cielo,
lana crespa, lana bianca,
lana come quella di quegli
agnelli di Terra Santa...
INVIO
Uomini lontani e tristi
con gli occhi più lontani
bisogna guardare la lana
degli agnellini bianchi...
1920
Il cantare generoso
Anime di sogni ed anime di canzoni
già toccano le campane della morte,
e rimangono tanti baci da baciare, tanti fiori
che non si fecondarono in nessun versante,
ma noi siamo il mondo. Ogni giorno
nasce un mondo per ogni nascita di amore,
e la dimenticanza rinasce morendo nelle pupille
astrali che portiamo dentro il cuore...
E se c'è rosa baciamola. E se c'è ventre ricurvo
diamogli acqua, molta acqua, molto pane, molto amore,
e quasi senza parole diamogli le nostre labbra come una benedizione...
1920
Pantheos
PANTHEOS. (Pagina. 157.) Questa è la prima versione del poema che riprenderà il quaderno 3 che dopo si pubblicherà su Claridad núm. 12, Santiago, 22.1.1921, e che posteriormente sarà il più antico dei poemi compresi in Crepusculario, 1923, con notevoli varianti nei versi 8, 10 e 11.
Oh pezzo, pezzo di miseria, in che vita
hai le tue mani bianche e la tua testa triste?
E tanto camminare e tanto piangere le cose andate
senza sapere che dolori furono quelli che avesti,
senza sapere che pane bianco ti nutrì, né che duna
ti avvolse con la sua sabbia, ti fuse nel suo calore,
senza sapere se sei carne, se sei sole, se sei luna,
senza sapere se soffristi il nostro stesso dolore.
Se stai in questo albero o se piangi con me,
che cosa è quello che sei pezzo di miseria ed amico
di ogni carne chiara che non vuole perderti?
Se vuoi non ci dire di che grappolo siamo,
non ci dire il quando, non ci dire il come,
ma dicci dove ci porterà la morte!
Maggio 1920
Le porte
Ho due porte chiare
come l'aria ed il sole,
ho due porte chiare:
le porte chiare del mio cuore,
aperte ai venti
ed alla luce e l'amore
come si aprono le porte multiformi
di tutte le strade del dolore.
Come l'uccello tiepido
che guarda a Dio io ascolto
e guardo i roseti che fioriscono
come il mio cuore di sperare molto.
La foglia cade,
cade il dolce germoglio,
ed il frutto vibra come un seno soave
presentendo le rotte dell'autunno.
Trema la terra ed ogni frutto nuovo
si apre ai cammini del dolore
ed apro come due rose di silenzio
le porte chiare del mio cuore...
1920
Sensazione autobiografica
SENSACIÓN AUTOBIOGRÁFICA. (Pagina 158.) Questo mini-memoriale sotto forma di sonetto non riporta data nel manoscritto, ma ovviamente fu composto il giorno del 16.° compleanno del poeta, 12.7.1920 (secondo conferma il testo sucessivo, che riporta precisamente questa data). Lo publicai io stesso per la prima voltra dentro il mio saggio «Los modos de autorreferencia en la obra de Pablo Neruda», Aurora, 2a época, núm. 3-4, Santiago (julio-diciembre 1964), p. 68. Un importante commento a questo testo in Concha 1972, pp. 10 y ss.
Sedici anni fa nacqui in un polveroso
paese bianco e lontano che non conosco ancora,
e come questo è un po' volgare ed ingenuo,
fratello errante, andiamo verso la mia gioventù.
Sei molto poche cose nella vita. La vita
non mi ha consegnato tutto quello che io gli consegnai
ed equazionale ed altezzoso rido della ferita:
il dolore è alla mia anima come due è a tre!
Nient'altro. Ah! mi ricordo che avendo dieci anni
delineai la mia strada contro tutti i danni
che nel lungo sentiero potessero vincermi:
avere amato una donna ed avere scritto
un libro. Non ho vinto, perché è manoscritto
il libro e non amai una, ma a cinque o sei...
12 Luglio 1920
Le mani dei ciechi
LOS MANOS DE LOS CIEGOS. (Pagina 159.) Il v. 13 portava nel manoscritto questa forma primitiva: "e seicubren de oro como viehos milagros", verso dopo cancellato da per Neftalí e sostituito con "y parecen dos santas palomas de milagro". La correzione manoscritta da Neftalí si legge nella pagina 264 - in bianco - del quaderno 2, giusto di fronte al verso tacciato nella pagina 265. - Questo poema, col suo titolo modificato in "Manos de ciego", darà più avanti origine ad un trittico sulle mani (di cieco, di contadino, di tisico).
Dammi le tue mani, cieco. Le mani dei ciechi
sono come le radici di questi uomini inerti,
si scottano ritostate dal sole in gennaio
e nell'autunno sentono come arriva la Morte...
Tagliate e sottomesse nel silenzio vivono
spolpando nelle loro dita la sfilacciatura del dolore,
e la filano raccolte come frati umili
che stessero filando le parole di Dio.
... I ciechi hanno tutta la loro anima in queste mani
aspre di sfiorarsi coi membri umani
oltrepassate di dolore, tremule d’amore.
Tremano come cordami le lunghe dita magre
e sembrano due sacre colombe di miracolo
tagliate e sanguinanti di notte e di dolore!
12 Luglio 1920
Il liceo
EL LICEO. (Pagine 159-161.) Sul titolo del poema un altro titolo: Las canciones del odio, uno più di quelli che introdusse Neftalí nel quaderno 2 annunciando immaginari i suoi libri "per presentarsi".
-Progressivamente la vita personale diviene materia di poesia. Neftalí si distanzia sempre di più dai suoi primi modelli convenzionali e contemporaneamente sviluppa un nuovo atteggiamento poetico, meno rassegnato e più aggressivo. Momenti di sarcastica ironia danno tono e forma ad incipienti tentativi di critica rispetto ad una società che gli appare ostile alla sua realizzazione individuale (e che lo margina vicino ad altri diseredati del sistema, coi quali tende a sua volta a solidarizzarsi).
-Frammenti di questo poema apparvero nel mio trattato del 1964 (vedere nota a "Sensazione autobiografica") ed in RIV, p. 49.
E questa sala, questa sala di Liceo, questa sala
che per i dolori mi hai tagliato le ali
e per i sogni me li lasci crescere!
Questa sala egoista che mi ha lasciato essere
tirchio come tutti, come molti piccolo.
Tutti i giorni, tutti i giorni come ora,
aspettare che passino ben leggere le ore
e quotidianamente conversare con gli stessi,
ammazzando ogni giorno gli stessi miraggi...
Arrivai quando avevo sei anni al Liceo.
Avevo nei versanti della mia vita il desiderio
di conoscere almeno quello che era l'allegria.
E pensare che non posso sentirla ancora!
È stato lo stesso eterno racconto della delusione
passando per la mia vita come passano gli anni,
come passano le nuvole, come passano i venti
lasciando piogge tristi e dolori violenti.
E così continuare a camminare dolorante. Domani
chiuderò di più la mia porta ed aprirò la mia finestra
per non fare quello che fanno questi uomini piccoli
che non soffrono dolori e che non sognano sogni...
Ma, chiaro! è inutile perché in un certo giorno
comprerò una valigia e senza un'allegria
andrò via dove vanno tutti questi "che hanno studiato."
Che cosa mi importa? Ingegnere, medico o avvocato,
continuerò sempre ad essere quello che fino ad ora sono stato:
un ragazzo che ha molto di dolorante,
molto di ingenuo, molto di disgraziato!
Ed in tutti questi anni di Liceo non ho amato:
appena se negli occhi di una bionda lontana
credei terminare il mio esodo per cercare una sorella,
per cercare i ristagni di sogno di una fonte
dove mettere le mie mani febbricitanti ed ardenti.
Ora so che non era la sorella promessa
perché come venne se la prese la vita!
Ed amando, amando sempre i nostri poveri fratelli
per tutto quello che hanno di desideri umani
sacrificati sotto la potenza del giogo,
lavorando nella miniera, disfacendo i succhi
delle loro vite in dolori, in sudori e sputi,
allattando tigri e sopportando brutali...
E giustizia e diritto del futuro che gemono
sotto il peso tremendo del dolore e del crimine!
Sangue, sangue caldo degli uomini: dove
lasci tutto il tuo carico di energie? Rispondi!
Questo è il mio santo grido contro le mani fiacche
che sopportano tiranni fatti di fango e merda...
Il Liceo, il Liceo! Tutta la mia povera vita
in una gabbia triste... La mia gioventù persa!
Ma non importa, andiamo! perché oggi o passato
sarò borghese la stesso che qualunque avvocato,
che qualunque dottore che usa lenti e porta
chiuse le strade verso la luna nuova...
Che diavoli, e nella vita come in una rivista
un poeta deve regolarsi da dentista!
E pensare che io spero che arrivi una donna
immensa, buona e dolce per tutto il mio essere!
Magari domani stesso per la mia rotta la sentirò
ed avrò un dolore grande che non stava nei miei conti:
col dolore biconcavo di essere uomo e poeta
andrò via coi miei sogni e due o tre valigie...!
Luglio 1920
Elegia della pena che passa
ELEGÍA DE LA PENA QUE PASA. (Pagine 161-162.) Proseguendo con le sue esplorazioni, Neftalí propone qui un’altro poema romanzato de ispirazione popolare spagnola (adesso in endecasillabi e dodecasillabi), in linea con il precedente «La dulce balada» in octosillabi (pp. 155-156). - En CDT Farías omette por «illeggibile» il v. 4 della parte II, senza dubbio por carenza delle sue fotocopie perchè nel manoscritto il verso si legge molto chiaramente: «de muchachita que es ya una mujer...».
Questa mattina passarono cantando
i tre soldati che vanno alla caserma
per i viali fioriti d’oro
sotto gli ori dell'alba,
oro sanguinante delle albe,
trionfo celeste del sole e del bene:
come brillavano le foglie e come
sanguinavano gli ori dell'alba!
I tre cantavano canzoni ardenti
di amori soavi, di pene silenti,
di cose lontane che non devono ritornare.
Piegarono cantando la polverosa ansa,
cantando, cantando andarono e tutto
si arrese all'oro dell'alba...
Dolce ragazza degli occhi grigi,
non avere pene che debbano tornare
a consolare le tue ferite umili
di ragazzina che è già una donna...
Non piangere tanto, ragazza dolente,
tutte le cose se ne vanno e se ne vanno
come questa mattina le voci ardenti
passarono cantando per la città.
La vita è un po' stancante, ragazza,
ci fa male, ci fa male come una campana
che vibra nell'oro dell'alba,
e quando guardiamo per i viali
sentiamo canzoni e voci dolenti
cantate da uomini che non devono ritornare.
Luglio 1920
Il romanzo rurale
EL ROMANCE RURAL. (Pagine 162-163.) Un nuovo tono, più sicuro, governa la scrittura di questo poema. Una maggiore confidenza in sé stesso permette adesso a Neftalí non solo un linguaggio distanziato rispecto all’amore mancato anche incluse delle disinvolte parentesi di meta-linguaggio nei vv. 10 e 16.
Ragazzina dagli occhi bruni e dal dolce sguardo
perché non lo volesti non avesti il mio amore,
qui tra questi borghesi di villaggio morto
dove un poeta è quasi la stessa cosa che un ladro.
Io che portai i miei versi come un mal di denti
che tutte queste genti tentavano di curare
guardai i tuoi occhi dolci ed il tuo egoismo buono:
ebbi il presentimento di ciò che arriva.
E dopo in un pomeriggio, mentre un treno fischiava
(io credo che fischi e che non fumi un treno),
averti detto alcuni ingenue parole
con un po' di sogno ed un altro poco di miele.
E dopo un idillio che sognava. Tre baci:
per la tua bocca, per la tua voce, per il tuo essere:
un idillio di paese fragrante e sereno
(dimenticato senza dubbio a Trigo e Lorrain).
Ma la vita volle, ragazzina, che quello pomeriggio
cadessero le mie parole come possono cadere
le pietre dolorose nel recinto soave...
e le mie parole erano luci d’alba!
Ragazzina (io mi ricordo che usavi tacco basso),
ere semplice e buona come la semplicità!
E tuttavia mai ti potei aprire le mie braccia,
mostrarti i miei favi e consegnarti il miele.
Graciela ti chiamavi, Graciela dagli occhi dolci.
Ora che ho sofferto ti ringrazio. Io
al che mi dà emozioni come si danno profumi
le lascio nei miei ricordi qualcosa di cuore...
Giugno 1920
[Un dolore in più...! Che cosa importa!
Cose di villaggio, cose]
Un dolore in più...! Che cosa importa! Cose di villaggio, cose
che mi fanno vedere la vita più o meno sincera.
Grazie per il pochino di emozione dolorosa:
l'inverno è a volte come la primavera!
Così... Ma è la vita! La mia vita da studente,
la mia vita di ragazzo senza entusiasmi, senza
le rose del futuro e gli iris di prima,
questi fiori che portano in un sonno fino al fine.
Questi fiori che mi hanno mancato sempre, questi fiori
che in un quadro sono come la luce ed i colori
ed in un verso il chiaro miele della pienezza.
Fiori che non arrivarono e che non ho sentito mai.
Ma vale la pena sentirsi grato
quando nonostante tutto si tiene gioventù!
Circa Luglio 1920
La chair est triste, hèlas!
[La carne è triste, ahimè!]
LA CHAIR EST TRISTE, HÉLAS! (Pagine 164-165.) Ancora nell'ambito del 16° compleanno, questo nuovo mini-memoriale (in sonetto) documenta in particolare alcune letture di Neftalí. Dei poeti francesi, Verlaine e Mallarmé raffiguravano nell'antologia di Díez Cañedo e Fortún (1913), Notare la precoce menzione di Schopenhauer il cui influenza sarà importante per la scrittura di Residencia.
Povera, povera la mia vita avvelenata e cattiva!
Quando ebbi tredici anni leggevo Juan Lorrain
e dopo ho spremuto l'emozione delle mie ali
ungendo i miei dolori con versi di Verlaine.
Nel mio sentiero ben triste furono libri amici
quelli che mi diedero acqua, quelli che mi diedero pane.
(Amai le bionde vergini che amò Felipe Trigo
ed amai il decadentismo feudale di Valle-Inclán.)
E dopo Schopenhauer si prese la mia allegria.
La carne mi crede più triste ogni giorno
e più triste la mia vita si riempie di perché.
E penso lentamente, quasi senza amarezza,
che in libri e donne andarono via le mie dolcezze
come in quello dolente verso di Mallarmé!
1920