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1956 - NUOVE ODI ELEMENTARI
ODE ALLA TIPOGRAFIA
Lettere lunghe, severe,
verticali,
fatte
di linea
pura,
erette
come l’albero
della nave
nel mezzo
della pagina
piena
di confusione e turbolenza,
Bodoni
algebrici,
lettere
esatte,
slanciate
come levrieri,
sottomesse
al rettangolo bianco
della geometria,
vocali
elzeviri
coniati
nel piccolo acciaio
del laboratorio vicino all’acqua,
nelle Fiandre, nel nord
ricco di canali,
cifre
dell’ancora,
caratteri di Aldus,
stabili come
la statura
marina
di Venezia
nelle cui acque madri,
come vela
inclinata,
naviga il corsivo
curvando l’alfabeto:
l’aria
degli scopritori
oceanici
si chinò
per sempre al profilo della scrittura.
Dalle
mani medioevali
avanzò fino ai tuoi occhi
questa
N
questo 8
doppio
questo
J
questa
R
di re e di rugiada.
Lì
si lavorarono
come se fossero
denti, unghie
metallici martelli
dell’idioma.
Batterono ogni lettera,
la eressero,
piccola statua scura
nel biancore,
petalo
e piede stellato
del pensiero che prendeva forma
di copioso fiume
e che al mare dei popoli navigava
con tutto
l’alfabeto
illuminando
la foce.
Il cuore, gli occhi
degli uomini
si riempirono di lettere,
di messaggi,
di parole,
e il vento passeggero
o permanente
sollevò libri
pazzi
o sacri.
Sotto
le nuove piramidi scritte
la scrittura
era viva,
l’alfabeto bruciava,
le vocali,
le consonanti come
fiori curvi.
Gli occhi
della carta, quelli che guardarono
gli uomini
che cercavano
i loro regali,
la loro storia, i loro amori,
che estendevano
il tesoro
accumulato,
che divulgavano improvvisamente
la lentezza della saggezza
sopra la tavola
come un mazzo di carte,
tutto
l’humus
segreto
dei secoli,
il canto, la memoria,
la rivolta,
la parabola cieca,
improvvisamente
furono
fecondità,
granaio,
lettere,
lettere
che camminarono
e incendiarono,
lettere
che camminarono
e vinsero,
lettere
che si svegliarono
e crebbero,
lettere
che liberarono,
lettere
a forma di colomba
che volarono,
lettere
rosse sopra la neve,
punteggiature,
strade,
edifici
di lettere
e Villon e Berceo,
trovatori
della memoria
appena
scritta sopra il cuoio
come sopra il tamburo
della battaglia,
arrivarono
alla spaziosa nave
dei libri,
alla tipografia
navigante.
Ma
la lettera
non fu solamente bellezza,
ma anche vita.
fu pace per il soldato,
scese nelle solitudini
della miniera
e il minatore
lesse
il volantino duro
e clandestino,
lo nascose nelle pieghe
del segreto
cuore,
e in alto,
sopra la terra,
fu un altro
e un’altra
fu la sua parola.
La lettera
fu la madre
delle nuove bandiere,
le lettere
procrearono
le stelle
terrestri
e il canto, l’inno ardente
che riunisce
i popoli,
da
una
lettera
unita
a un’altra
lettera
e a un’altra,
da popolo a popolo andò elevando
la sua autorità sonora
e crebbe nella gola degli uomini
fino a imporre la chiarezza del suo canto.
Ma,
tipografia,
lasciami
lodarti
nella purezza
dei tuoi
puri profili,
nel matraccio
della lettera
O,
nel fresco
vaso da fiori
della
Y
greca,
nella
Q
di Quevedo
(come può passare
la mia poesia
davanti a questa lettera
senza sentire l’antico brivido
del saggio moribondo?),
al giglio
multi
moltiplicato
della
V
di vittoria,
nella
E
scaglionata
per salire al cielo,
nella
Z
con il suo volto di fulmine,
nella P
arancione.
Amore,
amo
le lettere
dei tuoi capelli,
la
U
del tuo sguardo,
le
S
della tua vita.
Nelle foglie
della giovane primavera
risplende l’alfabeto
diamantino,
gli smeraldi
scrivono il tuo nome
con iniziali fresche di rugiada.
Mio amore,
la tua chioma
profonda
come selva o dizionario
mi copre
con la sua totalità
di idioma
rosso.
In tutto,
nella scia
del verme
si legge,
nella rosa si legge,
le radici
sono piene di lettere
contorte
dalla umidità del bosco
e nel cielo
di Isla Negra, nella notte,
leggo,
leggo
nel
firmamento freddo
della costa,
intenso,
diafano di bellezza,
dispiegato,
con le stelle maiuscole
e minuscole
e esclamazioni
di diamante gelato,
leggo, leggo
nella notte del Cile
australe, perduto
nelle celesti solitudini
del cielo,
come in un libro
leggo
tutte
le avventure
e nell’erba
leggo,
leggo
la verde, la sabbiosa
tipografia
della terra agreste,
leggo
le navi, i volti
e le mani,
leggo
il tuo cuore
dove
vivono
intrecciate
la iniziale
provinciale
del tuo nome
e
la scogliera
dei miei cognomi.
Leggo
la tua fronte,
leggo
la tua chioma
e nel gelsomino
le lettere
nascoste
elevano
l’incessante
primavera
finché io decifro
la sotterrata
punteggiatura
del papavero
e la lettera
scarlatta
dell’estate:
sono gli esatti fiori del mio canto.
Ma,
quando
dispiega
i suoi roseti
la scrittura,
la lettera
il suo essenziale
giardinaggio,
quando leggi
le vecchie e le nuove
parole, le verità
e le esplorazioni,
ti chiedo
un pensiero
per quello che le ordina
e le costruisce,
per quello che ferma
il carattere,
per il linotipista
con la sua lampada
come un pilota
sopra
le onde del linguaggio
che ordina
i venti e la schiuma,
l’ombra e le stelle
nel libro:
l’uomo
e l’acciaio
un’altra volta riuniti
contro l’ala notturna
del mistero,
che navigano,
che perforano,
che compongono.
Tipografia,
sono
solamente un poeta
e sei
il fiorito
gioco della ragione,
il movimento
degli alfieri
dell’intelligenza.
Non dormire
di notte
né d’inverno,
circola
nelle vene
della nostra
anatomia
e se dormi
volando
durante
qualche notte o sciopero
o fatica o rottura
di linotipia
scendi nuovamente sul libro
o sul giornale
come nube
di uccelli al nido.
Ritorna
al sistema,
all’ordine
inappellabile
dell’intelligenza.
Lettere,
continuate a cadere
come precisa pioggia
sul mio cammino.
Lettere di tutto
quello che vive
e muore,
lettere di luce, di luna,
di silenzio,
di acqua,
vi amo,
e in voi
raccolgo
non solo il pensiero
e il combattimento,
ma anche i vostri vestiti,
significati
e suoni:
A
di gloriosa avena,
T
di trigo e di torre
e
M
come il tuo nome
di mela.
Trigo = frumento
ODE AL FRUMENTO DEGLI INDIOS
Lontano
nacqui,
più lontano
di dove tu nascesti.
Io nacqui
lontano,
lontano
nella
bagnata
e
rossa
Araucania,
e
nel
l’estate
rossa
della mia infanzia
si muoveva la terra:
un masso,
un albero spinoso,
un crepaccio:
ero un indio,
un indio
che veniva
su un cavallo.
Fui alle colline, attraversai,
le foci,
gli scoscesi, feriti
territori,
i laghi
incendiati
sotto
i loro diademi innevati,
la mia terra
verde e rossa,
sonora
e pura
come
una campana,
terra,
terra,
color cannella,
un profumo
indicibile
di radici
tanto profondo
come
se la terra
fosse una sola rosa
inumidita.
E allora
più in alto
c’era il frumento,
il frumento degli indios,
l’ultimo, il meschino,
il cencioso
oro
della povera Araucania.
Vidi arrivare i signori,
aspetto duro,
radi baffi,
ponchos
discreditati,
e non mi sorridevano
perché
per l’ultimo re
io sono straniero.
Era
la raccolta del frumento.
Paglia
secca
volava,
la trebbiatrice
bruciava
e le povere spighe
sgranavano
l’ultimo,
l’affamato,
il logoro
oro
del pane
della povera Araucania.
Le donne indio,
sedute
come brocche
di creta,
guardavano
dal tempo,
dall’acqua,
remote.
Talvolta
nel circolo
del frumento
un grido
o una
bruciante risata
erano come due pietre
che cadevano
nell’acqua.
I sacchi
si riempivano
di cereali, improvvisamente
la trebbiatrice
fermava
il suo affanno
e gli indios
seduti
come sacchi
di terra
e i sacchi
di frumento
come spettri
dell’antica Araucania,
testimoni
della povertà, muti,
vigilanti,
e in alto
il cielo
duro,
la pietra azzurra del cielo,
e sotto
terra povera e piovosa,
frumento povero
e i sacchi:
gli spettri
della mia patria.
Ricordo
quelle terre
saccheggiate
da giudici
e ladroni,
il raccolto,
gli indios
dell’estate
con meno terra e frumento
ad ogni stagione,
che guardao
la terribile
trebbiatrice,
lo sgranato
pane delle semine,
lì in alto,
nella mia terra,
nella montagna
e
sotto
i feudali,
i loro avvocati e la loro polizia,
li uccidono
con carte,
li accantonano
con sentenze, provvidenze,
esortazioni,
li guariscono
consigliando loro il cielo
con i migliori terreni
per il frumento.
Quella zona verde
e rossa,
neve, boschi,
quella terra con
rami di nocciolo,
che sono
come le braccia di una stella,
fu
la mia culla, la mia ragione,
la mia nascita,
e adesso
gli domando:
a chi do il frumento,
a chi lascio
l’oro,
di chi
è la terra?
Araucani,
padri
della nazione,
amici nemici
dello spagnolo Ercilla:
un altro
poeta
viene
cantando:
giammai più
la guerra,
invece il frumento,
giammai più il sangue,
bensì l’ultimo
pane dei suoi fratelli,
l’ultimo
raccolto
per
il suo povero
popolo.
Un altro
poeta
viene
adesso
a difendere
la spiga
e sale
per le rocce
spinose,
attraversa
i laghi accostati
sotto il fuoco
dei vecchi vulcani
e si siede
tra
sacchi
silenziosi
attendendo
la luce
della battaglia,
reclamando nel suo canto
la giustizia,
esigendo una patria
per i suoi fratelli,
riconquistando
il frumento
degli indios.
ODE A WALT WHITMAN
Walt Whitman (1819-1892) è l'autore di Leaves of grass (trad. it. Foglie d'erba, Torino, Einaudi, 1965), un poema di vigorosa ed originalissima intonazione epica, in cui l'autore canta, in tutti i suoi aspetti, la realtà americana a lui contemporanea, esaltando l'eguaglianza, la democrazia e il lavoro come valori fondamentali. Per questo il nome di Whitman — cui Neruda si sentiva legato anche per ragioni poetiche, vedendo in Foglie d'erba una sorta di Canto Generale nordamericano — ritorna
spesso nelle opere del poeta cileno, come simbolo di quello spirito e di quella tradizione democratica che la politica imperialista nordamericana ha tradito. Così ad esempio in Que dispierte el lenador (trad. it. Si desti il taglialegna, Canto Generale, ed. cit., vol. II, p. 125), Neruda si rivolge a Whitman e
dice: « ...Walt Witman alza la tua barba d'erba, / guarda con me da questo bosco, / da queste montagne profumate / ...Dammi la tua voce e il peso del tuo petto sepolto / Walt Whitman, e le gravi / radici del tuo volto / per cantare queste ricostruzioni! / Insieme cantiamo ciò che sorge / da tutte le pene... ». E ancora nell'ultima opera edita in vita da Neruda, Incitación al nixonicidio, il poeta inizia il suo canto dicendo: « Per un atto d'amore al mio paese, / io ti reclamo, fratello necessario, / vecchio Walt Whitman dalla mano grigia, / affinché col tuo appoggio straordinario / verso a verso uccidiamo alla radice / Nixon, presidente sanguinario... » (Comincio invocando Walt Whitman, in Incitamento al nixonicidio, Roma, Editori Riuniti, 1973).
Io non ricordo
a quale età,
né dove,
si nel grande Sud bagnato
o nella costa
temibile, sotto il breve
grido dei gabbiani,
toccai una mano e era
la mano di Walt Whitman:
calpestai la terra
con i piedi nudi,
camminai sul foraggio,
sopra Ia stabile rugiada
di Walt Whitman.
Durante
la mia gioventù
tutta
mi accompagnò questa mano,
questa rugiada,
la sua fermezza di retto patriarca, la sua estensione di prateria,
e la sua missione di pace circolatoria.
Senza
disdegnare
i frutti
della terra,
la copiosa
curva del capitello,
né la iniziale
purpurea
della saggezza,
tu
mi insegnasti
a essere americano,
alzasti
i miei occhi
ai libri,
verso
il tesoro
dei cereali:
ampio,
nella chiarezza
delle pianure,
mi facesti vedere
l’alto
monte
tutelare. Dell’eco
sotterraneo,
per me
raccogliesti
tutto,
tutto quello che nasceva,
ottenesti
galoppando nell’erba medica,
falciando per me i papaveri,
visitando
i fiumi,
accorrendo nella sera
alle cucine.
Ma non solamente
terra
fece uscire alla luce
la tua pala:
dissotterrasti
l’uomo,
e lo
schiavo
umiliato
con te, dondolando
la scura dignità della sua statura,
camminò conquistando
l’allegria.
Al fuochista,
sotto,
nella caldaia,
mandasti
un cesto
di frutti,
a tutti gli angoli del tuo paese
un verso
tuo arrivò in visita
e era come un pezzo
di corpo limpido
il verso che arrivava,
come
la tua propria barba da pescatore
o il solenne cammino delle tue gambe di acacia.
Passò tra i soldati
la tua sagoma
di bardo, di infermiere,
di sorvegliante notturno
che riconosce
il suono
della respirazione nell’agonia
e aspetta con l’aurora
il silenzioso
ritorno
della vita.
Buon panettiere!
Primo fratello maggiore
delle mie radici,
cupola
di araucaria,
sono
ormai
cento
anni
che sopra il tuo foraggio
e le sue germinazioni,
il vento
passa
senza logorare i tuoi occhi.
Nuovi
e crudeli anni nella tua patria:
persecuzioni,
lacrime,
prigioni,
armi avvelenate
e guerre iraconde,
non hanno schiacciato
l’erba del tuo libro,
la sorgente vitale
della sua freschezza.
E, ahi!
quelli
che assassinarono
Lincoln
adesso
si coricano nel suo letto,
abbattono
il suo seggio
di profumato legno
e erigono un trono
di sventura e di sangue
schizzato.
Ma
canta nelle
stazioni
suburbane
la tua voce,
negli
imbarcaderi
vespertini
sguazza
come
acqua scura
la tua parola,
il tuo popolo
bianco
e negro,
popolo
di poveri,
popolo semplice
come
tutti
i popoli,
non dimentica
la tua campana:
si riunisce cantando
sotto
la grandezza
della tua spaziosa vita:
tra i popoli con il tuo amore cammini
accarezzando
lo sviluppo puro
della fraternità sopra la terra.