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1956 - NUOVE ODI ELEMENTARI
ODE ALLO SPAZIO MARINO
Umido il cuore, l’onda
colpisce
pura, sicura, amara.
Dentro di te il sale,
la trasparenza,
l’acqua si ripetono:
la moltitudine del mare
lava la tua vita
e non solo la spiaggia
ma anche il tuo cuore è circondato
dalla insistente schiuma.
Dieci anni o quindici anni,
non ricordo,
arrivai in queste solitudini,
fondai
la mia casa
sulla perfida sabbia,
e come sabbia fui sminuzzato
le ore della mia vita
granello per granello:
luce, ombra, sangue, frumento,
repulsione o dolcezza.
I muri,
le finestre,
i mattoni, le porte della casa,
non solamente
si consumarono
con l’umidità e il passaggio
del viaggiatore,
ma anche con il mio canto
e con la schiuma
che insiste sulle sabbie.
Con il mio canto e il vento
si consumarono
i muri
e del mare e le pietre
della costa
raccolsi resistenza,
spazio e ali
per il suono,
raccolsi la sostanza
della notte marina.
Qui in primo luogo
della sabbia,
estasiato,
sollevai l’alga fredda
ondulata nell’onda
o la chiocciola del Cile,
rosa dura,
sommersa anca
di colomba,
o l’agata
marina,
traslucida
come vino giallo.
Dopo
cercai
le piante tempestose,
il firmamento fine
dei fiori
perduti nella duna,
nella calcarea
verginità rocciosa:
amai la flora
della ardente sabbia,
grosse foglie, spine,
fiori delle intemperie,
minute
stelle
invariabili
incollate alla terra.
Si, i fiori,
le alghe,
le sabbie,
ma dietro tutto
il mare come un cavallo
sfrenato
nel vento,
cavallo azzurro, cavallo
dalla chioma bianca,
sempre
galoppando,
il mare,
marmitta
sempre
cucinando,
il mare
molto più ampio
delle isole,
cintura frenetica
di terra e cielo.
E sulle rive
pietre
in abbondanza,
edifici
di roccia
disposti contro il mare e la sua battaglia,
scavati dalla stessa goccia
ripetuta nei secoli.
Contro il granito grigio
il mare esplode:
invasioni di schiuma,
eserciti di sale,
soldati verdi
abbattendo grappoli invisibili.
Fitti palombari
scendono,
militanti
della profondità:
la nave attende
nel viavai del seno dell’onda,
tornano
con
una manciata
di palpitanti
frutti
sottomarini,
gotiche chiocciole,
spinosi ricci:
il palombaro
emerge
dalla mitologia
nel suo scafandro, poté
ballare con le meduse,
rimanere
nel profondo hotel
delle sirene,
ma è tornato: un piccolo
pescatore dalla riva
esce dalle sue scarpe
e è aereo
come una carta o un uccello.
Rapida razza
dei miei compagni,
più che il mare è la tosse
che li colpiva
e come in reti rotte
le loro difficile vite
senza unità, scivolano
verso la morte.
L’uomo
della costa
si vede minuscolo
come pulce marina.
Non è vero.
Si è appeso
come un ragno
alle pietre, in
un terreno incolto marino
la sua dimora miserabile,
l’uomo
delle terre sdentate
con pezzi di ottone, con tavole rotte
pose il tetto sopra i figli
e salì ogni giorno
al martello, al cemento,
alle navi.
Qui stanno
i porti,
le case, le dogane:
l’ometto
della costa elevò le strutture
e ritornò alle colline,
alla sua caverna.
Si, oceano, solenne
è il tuo insistente
vaticinio, l’eternità
del canto in movimento,
il tuo coro
entra nel mio cuore, spazza le foglie
del morto autunno.
Oceano,
la tua debordante coppa
apre
come nella roccia
il suo foro
nella mia piccola fronte di poeta,
e sabbia, fiori duri, uccelli
di tempesta, fischiante cielo,
attorniano la mia esistenza.
Ma il minuscolo
uomo delle sabbie
è per me più grande.
Adesso, vedetelo:
passa con la sua moglie, con cinque cani
affamati, con il suo carico
di mare, alghe, pesci pescati.
Io non sono mare, sono uomo.
Io non conosco il vento.
Cosa dicono queste onde?
E chiudo la mia finestra.
Oceano,
bella è la tua voce, di sale e sole la tua statua,
ma
per l’uomo è il mio canto.
ODE ALLE STELLE
Serene pietre pure
della notte, coperte
di solitudine, vuote
per l’uomo,
buchi
perforati
nel diamante nero,
frecce
del velluto
tremante,
cereale
di platino
spolverato
nell’ombra,
ebbene,
basta!
Adesso
quale uso,
in che maniera,
come e quando
servirete a qualcosa?
Sono stanco,
siamo,
da tanta
inutile
e magnanima
bellezza.
Siete le più delicate
fanciulle
dei settanta cieli,
con scarpe di raso,
con occhi di diamante,
ragazze
che non sanno
cucinare,
né maneggiare trattori,
statue
di lontano
cuore,
fino a quando?
Vogliamo
che
siate
piene di grappoli,
raggianti,
ma gravide,
magnetiche,
si,
però ne vogliamo una
piena come una botte
di millenario vino,
un’altra
che sia
fabbrica
carica
di orologi,
un’altra
con odore di cammello,
di bue, di mucca,
un’altra
piena di pesci pescati,
un’altra
con i mattoni che necessitano
sulla terra
per costruire case alle vedove
degli operai morti,
un’altra
stella
con pani,
se è possibile
con burro in mezzo.
Non dimenticarti, poeta,
mi gridano,
di una stella
con agnelli,
di un’altra con insalate,
con materassi,
di una con mobili,
un’altra con libri!
Stelle,
non per questo
mi creaste
sciocco,
insistendo,
come negli uffici,
con
vaghe
petizioni.
Ascoltatemi:
la terra
è la nostra stella.
Per prima cosa
la feconderemo
finché sia piena
come un canestro verde
con i doni
che
le estrarremo,
e allora,
evviva!
Alle altre stelle!
All’aria!
Al sole!
Al vento!
Alla splendida costa
dei nuovi spazi
arriveremo,
alla remota stella,
con una pala
e un profondo libro,
con cuori semplici,
rifiutata
l’antica astronomia
verrà
l’agricoltura
degli astri,
mungeremo
i seni della stella,
e nella notte
muggirà nella distanza
dei cieli
il nostro allevamento.
Inutili
stelle,
ogni notte
della mia crescente vita
più belle
mi sembrate, più alte:
contemplatele
attraverso la fredda trasparenza
della notte del Cile.
Man mano
che i miei anni aumentano
dormo più con voi
o vigilo
sotto la vostra
bellezza
innumerevole,
per questo
in questa intimità
degli
amori,
lasciatemi,
poligamo
dello spazioso talamo
notturno,
lasciatemi
alzare
alla più alta altezza
la mia mano di poeta
e lasciare
all’ombra costellata,
alle remote, alle tremanti
stelle,
un’avvertenza, un colpo
alle sue glaciali
porte,
una raffica
di semenze umane,
un documento, una ode
che anticipi
nel cielo
la terrestre
invasione
progenitrice.
ODE ALLA FARMACIA
Che odore di bosco
ha
la farmacia!
Di ciascuna
radice salì l’essenza
a profumare
la pace
del farmacista,
si sminuzzarono
sali
che producono
prodigiosi unguenti,
la secca solfatara
macinò, macinò, macinò
lo zolfo
nel suo mulino
e qui è
unito
con la resina
del copale favoloso:
tutto
si fece capsula,
polvere,
particella
impalpabile,
preservatore
principio.
Il mortaio
pestò minuti
asterischi,
aromi,
palle di bismuto,
spugne secche,
calce.
Nel fondo
della sua farmacia
vive
l’alchimista
antico,
i suoi occhiali
sopra
una moltiplicata
narice,
il suo prestigio
nei flaconi,
circondato
da numeri
misteriosi:
la noce vomica,
l’alcale,
il solfato,
la gomma
delle isole,
il muschio,
il rabarbaro,
l’infermale belladonna,
e l’arcangelico bicarbonato.
Poi le vitamine
invasero
con i loro abbecedari
saggi scaffali.
Dalla terra,
dall’humus,
dai funghi,
germogliarono
i bastoni
della penicillina.
Da ciascuna
viscera
morta
volarono
come api
gli ormoni
e occuparono
il loro posto nella farmacia.
A mano a mano
che nel laboratorio
si combatte
la morte
avanza
la bandiera
della vita,
si registra
un movimento
nell’aroma
della vecchia farmacia:
i lenti
balsami
del passato
fanno
posto
all’istantanea scatola
di iniezioni
e concentra una capsula la nuova
velocità
della gara
dell’uomo con la morte.
Farmacia, che sacro
odore di bosco
e di conoscenza
sale dalle tue
scaffalature,
che diversa
profondità di aromi
e regioni:
il miele
di un legno,
la purissima polvere
di una rosa
o il lutto
di un veleno.
Tutto
nel tuo ambito chiaro,
nella tua università
di flaconi e cassetti,
attende
l’ora della battaglia nel nostro corpo.
Farmacia, chiesa
dei disperati
con un piccolo
dio
in ciascuna pillola:
spesso eri
troppo cara,
il prezzo
di un rimedio
chiude le tue chiare porte
e i poveri
con la bocca stretta
tornano alla camera oscura del malato,
che arrivi un giorno
gratis
di farmacia,
che non continui
a vendere
la speranza,
e che siano
vittorie
della vita,
di ogni
vita
umana
contro
la poderosa
morte,
le tue vittorie.
E cos’ saranno migliori
i tuoi allori,
saranno più odorosi i solfati,
più azzurri l’azzurro del metilene
e più dolce la pace del chinino.
ODE AI FIORI DELLA COSTA
Si sono aperti i fiori
silvestri di Isla Negra,
non hanno nome, alcuni
sembrano zagare della sabbia,
altri
accendono
sul suolo un lampo giallo.
Sono poeta pastorale.
Mi alimento
come i cacciatori,
faccio fuoco
vicino al mare, nella notte.
Solo questo fiore, solo queste
solitudini marine
e tu, allegra,
e semplice come rosa della terra.
La vita
mi chiese di combattere
e organizzò il mio cuore a lottare
e sollevare la speranza:
fratello
dell’uomo sono, di tutti.
Dovere e amore si chiamano
le mie due mani.
Guardando
fra le pietre
della costa,
i fiori che attesero
attraverso la dimenticanza
e l’inverno
per elevare un raggio minuto
di luce e di fragranza,
a salutare
una volta ancora
del fuoco,
della legna,
del bosco,
della sabbia,
mi dispiace fare un passo,
qui
rimarrei,
non nelle strade.
Sono poeta pastorale.
Ma dovere e amore sono le mie due mani.
ODE AL GABBIANO
Al gabbiano
sopra
i pini
della costa,
nel vento
la sillaba
fischiante della mia ode.
Navighi
barca lucida,
bandiera di due ali,
nel mio verso,
corpo di argento,
sale
la tua insegna attraversata
nella camicia
del firmamento freddo,
oh volatore,
soave
serenata del volo,
freccia di neve, nave
tranquilla nella tormenta trasparente
alza il tuo equilibrio
mentre
il rauco vento spazza
le praterie del cielo.
Dopo il lungo viaggio,
tu, magnolia piumata,
triangolo sostenuto
dall’aria nell’altezza,
con lentezza ritorni
alla tua forma
chiudendo
la tua argentata veste,
ovalizzando il tuo nitido tesoro,
ritornando ad essere
bottone bianco del volo,
germe
rotondo,
uovo della bellezza.
Un altro poeta
qui
terminerebbe
la sua vittoriosa ode.
Io non posso permettermi
solamente
il lusso bianco
della inutile schiuma.
Perdonami,
gabbiano,
sono
poeta
realista,
fotografo del cielo.
Mangi,
mangi,
mangi,
non c’è
niente che non divori,
sopra l’acqua del porto
latri
come cane di povero,
corri
dietro l’ultimo
pezzo d’intestino
di pesce,
becchi
le tue sorelle bianche,
rubi
la deprecabile preda,
il disarmato cumulo
di spazzatura marina,
spii i
pomodori
decaduti,
gli scartati
avanzi della cala.
Ma
tutto
lo trasformi
in ala limpida,
in bianca geometria,
nella estatica linea del tuo volo.
Per questo,
ancora di neve,
volatrice,
ti celebro completa:
con la tua voracità opprimente,
con il tuo grido nella pioggia
o il tuo riposo
di fiocco generoso
nella tempesta,
con la tua pace o il tuo volo,
gabbiano,
ti consacro
mia parola terrestre,
lenta prova di volo,
a vedere se tu sgrani
la tua semenza di uccello nella mia ode.
ODE AL FEGATO
Modesto
organizzato
amico,
lavoratore
profondo,
lasciami darti l’ala
del mio canto,
il colpo
d’aria,
il salto
della mia ode:
essa nasce
dalla tua invisibile
macchina,
essa vola
dal tuo infaticabile
e chiuso mulino,
viscera
delicata
e poderosa,
sempre
viva e oscura.
Mentre
il cuore suona e attrae
la partitura del mandolino,
lì dentro
tu filtri
e riparti,
separi
e dividi,
moltiplichi
e lubrifichi,
aumenti
e riunisci
i fili e i grammi
della vita, gli ultimi
liquori,
le ultime essenze.
Viscera
sottomarina,
misuratore
del sangue,
vivi
pieno di mani
e di occhi,
misurando e travasando
nella tua nascosta
camera
di alchimista.
Giallo
è il tuo sistema
di idrografia rossa,
palombaro
della più pericolosa
profondità dell’uomo,
lì nascosto
sempre,
sempiterno,
nella fabbrica,
silenzioso.
E ogni
sentimento
o stimolo
crebbe nel tuo macchinario,
ricevette alcune gocce
della tua elaborazione
infaticabile,
all’amore aggregasti
fuoco o melanconia,
una piccola
cellula sbagliata
o una fibra
guastata dal tuo lavoro
e l’aviatore si sbaglia in cielo,
il tenore crolla in un fischio,
l’astronomo si perde un pianeta.
Come brillano sopra
gli affascinanti occhi
della rosa,
le labbra
del garofano
mattutino!
Come ride
nel fiume
la fanciulla!
E sotto
il filtro e la bilancia,
la delicata chimica
del fegato,
il magazzino
dei cambiamenti sottili:
nessuno
lo vede o lo canta,
ma,
quando
invecchia
o logora il suo mortaio,
gli occhi della rosa si estinsero,
il garofano appassì la sua dentatura,
la fanciulla non cantò nel fiume.
Austera parte
o tutto
di me stesso,
nonno
del cuore,
mulino
di energia:
ti canto
e temo
come se fossi giudice,
metro,
fedele implacabile,
e si non posso
abbandonarmi legato alla purezza,
se l’eccessivo
mangiare
o il vino ereditario della mia patria
pretesero
perturbare la mia salute
o l’equilibrio della mia poesia,
da te,
monarca oscuro,
distributore di miele e veleni,
regolatore dei sali,
da te attendo giustizia:
Amo la vita: Rispettami! Lavora!
Non fermare il mio canto.
ODE AL SAPONE
Avvicinando
il
sapone
vicino alla mia faccia
la sua candida fragranza
mi turba:
Non so
da dove vieni,
aroma,
dalla provincia
vieni?
Da mia cugina?
Dal mio vestito nell’armadio
tra le mani
stellate del freddo?
Dai lillà
quelli,
ahi!, da quelli?
Dagli occhi
di Maria campestre?
Dalle susine verdi
sul ramo?
Dal campo di calcio
e dal bagno
sotto i
tremolanti
salici?
Odori di pergolato,
di dolce amore o di torta
di onomastico? odori
di cuore bagnato?
Che cosa mi porti,
sapone,
alle narici
all’improvviso,
nella mattina,
prima di entrare nell’acqua
mattutina
e uscire per le strade
tra uomini oppressi
dalle loro mercanzie?
Quale odore di paese
lontano,
quale fiore
di sottoveste,
miele di ragazze silvestri?
O forse
è il vecchio
dimenticato
odore dell’emporio
di generi coloniali
e deprezzati,
le bianche tele forti
tra le mani dei contadini,
lo spessore
felice
della chancaca,
o nella credenza della casa
dei miei zii
un garofano rosso
come un raggio rosso,
come una freccia rossa?
È questo
tuo acuto
odore
di negozio
economico, di colonia
indimenticabile, di negozio di parrucchiere,
della provincia pura,
dell’acqua limpida?
Questo
sei,
sapone, delizia pura,
aroma transitorio
che scivola
e naufraga
come un
pesce cieco
nella profondità della vasca.
Chancaca: torta di farina di frumento o di mais con miele
ODE ALLA LUCERTOLA
Vicino alla sabbia
una
lucertola
dalla coda coperta di sabbia.
Sotto
una foglia
la sua testa
di foglia.
Da quale pianeta
o brace
fredda e verde,
cadesti?
Dalla luna?
Dal più lontano freddo?
O dallo
smeraldo
salirono i tuoi colori
in un rampicante?
Del tronco
tarlato
sei
vivissimo
germoglio,
freccia
del suo fogliame.
Nella pietra
sei pietra
con due piccoli occhi
antichi:
gli occhi della pietra.
Vicino
all’acqua
sei
melma taciturna
che scivola.
Vicino
alla mosca
sei il dardo
del drago che annienta.
E per me,
l’infanzia,
la primavera
vicino
al fiume
pigro,
sei
tu!,
lucertola
fredda, piccola
e verde:
sei una remota
siesta
vicino alla frescura
con i libri chiusi.
L’acqua corre e canta.
Il cielo, in alto, è una
corolla calorosa.
ODE A UNA LAVANDAIA NOTTURNA
Dal giardino, in alto,
guardai la lavandaia.
Era di notte.
Lavava, sfregava,
scuoteva,
un secondo le sue mani
brillavano nella schiuma,
poi
cadevano nell’ombra.
Da sopra
alla luce della candela
era nella notte l’unica
vivente,
l’unica che viveva:
quello
scuotendosi
nella schiuma,
i bracci nella stoffa,
il movimento,
l’instancabile energia:
va e viene
il movimento,
cadendo e alzandosi
con precisione celeste,
vanno e vengono
le mani sommerse,
le mani, vecchie mani
che lavano nella notte,
fino a tardi, nella notte,
che lavano
vestiti altrui,
che estraggono dall’acqua
l’impronta
del lavoro,
la macchia
dei corpi,
il ricordo impregnato
dei piedi che camminarono,
le camicie
pesanti,
i calzoni
sgualciti,
lava
e lava
di notte.
La notturna
lavandaia
a volte
alzava
la testa
e ardevano nei suoi capelli
le stelle
perché
l’ombra
confondeva
il suo capo
e era la notte, il cielo
della notte
la chioma
della lavandaia,
e la sua candela
un astro
minuto
che incendiava
le sue mani
che alzavano
e muovevano
i vestiti,
salendo
e
discendendo,
brandendo
l’aria, l’acqua,
il sapone vivo,
la magnetica schiuma.
Io non udivo,
non udivo
il sussurro
della stoffa nelle sue mani.
I miei occhi
nella notte
la guardavano
sola
come un pianeta.
Ardeva
la notturna
lavandaia,
lavando,
sfregando
i vestiti,
lavorando
nel freddo,
nella durezza,
lavando nel silenzio notturno dell’inverno,
lava e lava
la povera
lavandaia.
ODE ALLA LUNA
Orologio del cielo,
misuri
l’eternità celeste,
un’ora
bianca,
un secolo
che scivola
nella tua neve,
nel frattempo
la terra
rannuvolata,
umida,
calda:
i martelli
colpiscono,
ardono
gli alti forni,
si scuote nella sua lamina
il petrolio,
l’uomo ricerca, affamato,
la materia,
si sbaglia,
corregge
la sua bandiera,
si raggruppano i fratelli,
camminano,
ascoltano,
sorgono
le città,
in alto
cantarono
le campane,
le stoffe si tessero,
saltò via
la trasparenza
dei vetri.
Nel frattempo
gelsomino
o luce
di neve,
luna
chiarissima,
alta
azione di platino,
soave
morta,
scivoli
nella notte
senza che
sappiamo
chi sono i tuoi uomini,
se hai
farfalle,
se alla mattina
vendi
pane di luna,
latte di stella bianca,
se sei
di vetro,
di sughero arancione,
se respiri,
se nelle tue praterie corrono
serpenti smussati,
fragili.
Vogliamo
avvicinarti,
guardiamo
fino a rimanere ciechi
la tua implacabile
bianchezza,
adattiamo
al monte il telescopio
e incolliamo l’occhio
fino ad addormentarci:
non parli,
non ti svesti,
non accendi
un solo falò,
guardi
verso l’altro lato,
conti,
conti
il tempo
della notte,
tic
tac
soave,
soave
tac
tic
tac
come goccia nella neve,
rotondo
orologio di acqua,
corolla
del tempo
sommersa
nel cielo.
Non sarà, non sarà
sempre,
prometto
in nome
di tutti
i poeti
che ti amarono
inutilmente:
apriremo
la tua pace di pietra pallida,
entreremo
nella tua luce sotterranea,
si accenderà
fuoco
nei tuoi occhi morti,
feconderemo
la tua struttura gelata,
raccoglieremo
frumento
e uccelli
davanti a te,
navigheremo
nel tuo oceano bianco,
e segnerai
allora
le ore
degli uomini,
nell’altezza
del cielo:
sarai
nostra,
avrò la tua neve
petali
di donne,
scoperta
di uomini,
e non sarai inutile
orologio
notturno,
magnolia
dell’albero della notte,
ma anche
legume,
formaggio puro,
vacca celeste,
mammella
prodiga,
sorgente
di latte,
utile
come la spiga,
traboccante,
regnante
e necessaria.
ODE ALLA LUNA DEL MARE
Luna
della città,
mi sembri
stanca,
oscura
mi sembri
o gialla,
con un poco
di unghia consumata
o uncino di lucchetto,
cadaverica,
vecchia,
burrascosa,
vacillante
come una
religiosa ossidata
nel trascorso
delle metalliche
rivoluzioni:
luna
trasmigratoria,
rispettabile,
impassibile:
il tuo
pallore
ha visto
barricate
sanguinanti,
rivolte
di popolo che scuote
le sue catene,
papaveri
aperti
sopra
la guerra
e i suoi
sterminati
e lì, stanca, arrivi
con le tue palpebre vecchie
ogni volta
più stanca,
più
triste,
più ripiena con fumo,
con sangue, con tabacco,
con infinite interrogazioni,
con il sudore notturno
delle panetterie,
luna
consumata
come
l’unica macina
del cielo
della notte
sdentata.
Improvvisamente
arrivo
al mare
e un’altra luna
mi sembri,
bianca,
bagnata
e fresca
come
cavalla
giovane
che corre
nella rugiada,
giovane
come una perla,
diafana
come fronte
di sirena.
Luna
del mare,
ti lavi
ogni notte
e albeggi
bagnata
per un’aurora eterna,
sposandoti
continuamente con il cielo, con l’aria,
con il vento marino,
sviluppando ogni
nuova ora
con l’interno impulso
vitale della marea,
limpida come le unghie
nel sale
dell’oceano.
Oh, luna dei mari,
luna
mia,
quando
dalle strade
ritorno,
al mio numero
torno,
tu mi lavi
la polvere,
il sudore
e le macchie
della strada,
lavandaia
marina,
lavi
il mio cuore stanco,
la mia camicia.
Nella notte
ti guardo,
pura,
incendiata
lampada
del cielo,
fresca, appena nata
tra le onde,
e mi addormento
sotto la tua sfera limpida,
rilucente,
di universale orologio,
di rosa bianca.
Albeggio
nuovo, appena vestito,
lavato dalle tue mani,
lavandaia,
buona per il lavoro
e la battaglia.
Forse la tua pace, la tua aureola
madreperlacea,
la tua nave
tra le onde,
eterna, rinascendo
con l’ombra,
devono venire con me
e alla tua fresca
eternità d’argento
e di marea
deve il mio cuore
il suo lievito.
ODE ALLA PIOGGIA MARINA
Il grande uccello incrocia
tra acqua e acqua,
il cielo
si sfoglia,
piove
sopra l’oceano del Cile.
Dura
come roccia ondulata
l’acqua madre
muove
il suo ventre
e come da un pino
in movimento
cadono aghi verdi
dal cielo.
Piove
da mare a mare,
dagli arcipelaghi
fino agli scheletri gialli
del litorale peruviano,
piove,
e è come freccia l’acqua
senza arciere,
la trasparenza
obliqua
dei fili,
l’acqua dolce
sopra l’acqua amara.
Nell’azzurro
bagnato,
cenerino,
balla l’albatro
nell’aria pura,
nave orgogliosa, chiave
dell’equazione marina.
E agitando
le piume
nella pioggia,
la candida colomba concimatrice,
la rondine antartica,
l’uccello della spiaggia,
attraversano le solitudini,
mentre
le onde e la schiuma
combattendo
rifiutano e ricevono
l’inondazione
celeste.
Acquazzone
marino,
dalle tue fibre
fu brunito e lavato
come una nave
il mondo:
la partenza
si prepara nella costa,
getti
di forza trasparente
pulirono la struttura,
brillò, brillò la prua
di legno
nella pioggia:
l’uomo,
tra
oceano
e cielo,
terso, nella luce dell’acqua,
termino la sua asprezza,
come un bacio nella sua fronte
si sfogliò
la pioggia
e una raffica
del mare,
un’onda appuntita
come un riccio di cristallo salato
la prelevò dal sonno
e battezzò con sale la sua sfida.
Acque, in questa ora
di solitudine terrestre,
attive acque pure,
somiglianti
alla verità, eterne,
grazie
per la lezione e il movimento,
per il sale tempestoso
e per il ritmo freddo,
perché il pino del cielo
si sfoglia
cristallino, davanti a me,
perché di nuovo esisto,
canto, creo,
fermo, appena lavato
dalla pioggia marina.
ODE ALLE TUE MANI
Io in un mercato
o in un mare di mani
le tue
riconoscerei
come due uccelli bianchi,
differenti
tra tutti gli uccelli:
volano tra le mani,
migratorie,
navigano nell’aria,
trasparenti,
ma
ritornano
al tuo fianco,
al mio fianco,
si ripiegano, addormentate, sul mio petto.
Diafane, sono magre
e nude,
lucide come
una cristalleria,
e vanno
come
ventagli
nell’aria,
come piume del cielo.
Al pane ed anche all’acqua assomigliano,
al frumento, ai piedi della luna,
al profilo della mandorla, al pesce selvaggio
che palpita argentato
durante il tragitto
dalle sorgenti.
Le tue mani vanno e vengono
lavorando,
lontano, suonano
toccando forchette,
fanno fuoco e all’improvviso sguazzano
nell’acqua
nera della cucina,
picchiettano la macchina chiarendo
la boscaglia della mia calligrafia,
conficcano nelle pareti,
lavano vestiti
e tornano un’altra volta alla loro bianchezza.
Per un po’
si dispose nella terra
che dormiva e volò
sopra il mio cuore
questo miracolo.
ODE A DON JORGE MANRIQUE
Jorge Manrique, vissuto tra il 1440 e il 1478, può essere considerato uno dei fondatori della letteratura e della lingua spagnola contemporanea. Particolarmente famose le sue Coplas a la muerte de su padre.
Avanti, gli dissi,
e entrò il buon cavaliere
della morte.
Era di argento verde
la sua armatura
e i suoi occhi
erano
come l’acqua marina.
le sue mani ed il suo viso
erano di frumento.
Parla, gli dissi,
cavaliere
Jorge,
non posso
opporre anche all’aria
le tue strofe.
Di ferro e ombra furono,
di diamanti
oscuri
e tagliati
rimasero
nel freddo
delle torri
di Spagna,
nella pietra, nell’acqua,
nell’idioma.
Allora, egli mi disse:
“È l’ora
della vita.
Ahi
se potessi
mordere
una mela,
toccare la polverosa
soavità della farina.
Ahi se nuovamente
il canto …
Non alla morte
darei
la mia parola …
Credo
che il tempo oscuro
ci accecò
il cuore
e le sue radici
scesero e scesero
alle tombe,
mangiarono
con la morte.
Sentenza e preghiera furono le rose
di quelle sepolte
primavere,
e, solitario giullare,
andavo
silenzioso nelle abitazioni
transitorie:
Tutti i passi andavano
a una solenne
eternità
vuota.
Adesso
mi sembra
che non è solo l’uomo.
Nelle sue mani
ha elaborato
come se fosse un duro
pane, la speranza,
la terrestre
speranza”.
Guardai e il cavaliere
di pietra
era d’aria.
Io non stavo nella sedia.
Per l’aperta finestra
si estendevano le terre,
i paesi,
la lotta, il frumento,
il vento.
Grazie, dissi, Don Jorge, cavaliere.
E tornai al mio dovere di popolo e canto.
ODE AL BAMBINO DELLA LEPRE
Alla luce dell’autunno
nella strada
il bambino
sollevava nelle sue mani
non un fiore
non una lampada,
ma una lepre morta.
Le macchine rigavano
la strada fredda,
i volti non guardavano
dietro
i vetri,
erano occhi
di ferro,
orecchie
nemiche,
rapidi denti
che lampeggiavano
scivolando
verso il mare e le città,
e il bambino
dell’autunno
con la lepre,
scontroso
come un cardo,
duro
come una pietruzza,
lì
sollevava
una mano
verso le esalazioni
dei viaggiatori.
Nessuno
si fermava.
Erano scure
le alte cordigliere,
rocce
colore di puma
perseguitato,
violaceo
era
il silenzio
e come
due braci
di diamante
nero
erano
gli occhi
del bambino con la sua lepre,
due punte
dritte
di coltello,
due coltelli neri,
erano gli occhi
del bambino,
lì smarrito
offrendo la sua lepre
nell’immenso
autunno
della strada.
ODE ALL’OCCHIO
Potente sei, ma
un granello di sabbia,
una zampa di mosca,
la metà di un milligrammo
di polvere
entrò nel tuo occhio destro
e il mondo
si fece nero e confuso,
le strade
si trasformarono in scale,
gli edifici si coprirono di fumo,
il tuo amore, il tuo figlio, il tuo piatto
cambiarono di colore, si trasformarono
in palme o ragni.
Cura l’occhio!
L’occhio,
globo di meraviglia,
piccolo
polpo del nostro abisso
che estrae
la luce dalle tenebre,
perla
elaboratrice,
magnetica
perla nera corvina,
macchinetta
rapida
come niente o come nessuno,
fotografo
vertiginoso,
pittore francese,
rivelatore di stupore.
Occhio,
desti nome
alla luce dello smeraldo,
segui
la crescita
dell’arancio
e controlli
le leggi dell’aurora,
misuri,
avverti del pericolo,
ti incontri con il raggio
degli altri occhi
e arde nel cuore la fiammata,
come un
millenario mollusco,
ti spaventi
all’attacco dell’acido,
leggi,
leggi
numeri di banchieri,
alfabeti
di teneri collegiali della Turchia,
del Paraguai, di Malta,
leggi
liste
e romanzi,
abbracci onde, fiumi,
geografie,
esplori,
riconosci
la tua bandiera
nel remoto mare, tra le navi,
mostri al naufrago
il ritratto
più azzurro del cieli
e di notte
la tua piccola
finestra
che si chiude
si apre dall’altro lato come un tunnel
all’indecisa patria dei sogni.
Io vidi un morto
nella pampa
salnistrica,
era
un uomo del salnitro,
fratello della sabbia.
In uno sciopero
mentre
mangiava
con i suoi compagni
lo abbatterono, poi
nel suo sangue
che nuovamente
tornava alle sue sabbie,
gli uomini
inzupparono
le loro bandiere
e per la dura pampa
camminarono
cantando
e sfidarono i suoi carnefici.
Io mi chinai
per toccare il suo volto
e nelle pupille
morte,
ritratta,
profonda,
vidi
che era morto
guardando
la sua bandiera,
la stessa che portavano
al combattimento
i suoi fratelli
cantando,
lì
come nel pozzo
di tutta
l’eternità umana
vidi
la sua bandiera
come fuoco scarlatto,
come un papavero
indistruttibile.
Occhio,
tu moristi
nel mio canto
e quando un’altra volta verso l’oceano
andai a dirigere le corde della mia lira
e della mia ode,
tu delicatamente
mi mostrasti
che sciocco sono: vidi la vita, la terra,
tutto
vidi,
meno i miei occhi.
Allora
lasciaste penetrare
sotto le mie palpebre
un atomo di polvere.
Mi si annebbiò la vista.
Vidi il mondo
annerito.
L’oculista
da dietro uno scafandro
mi indirizzò un raggio
e mi lasciò cadere
come a un’ostrica
una goccia d’inferno.
Più tardi,
riflessivo,
recuperando la vista e ammirando
gli scuri, spaziosi
occhi di colei che adoro,
cancellai la mia ingratitudine con questa ode
che i tuoi
sconosciuti occhi
leggono.
ODE ALL’ODORE DELLA LEGNA
Tardi, con le stelle
aperte nel freddo
aprii la porta.
Il mare
galoppava
nella notte.
Come una mano
dalla casa oscrura
salì l’aroma
intenso
della legna riposta.
Visibile era l’aroma
come
se l’albero
fosse vivo.
Come se ancora palpitasse.
Visibile
come un vestito.
Visibile
come un ramo rotto.
Andavo
dentro
la casa
attorniato
da quella balsamica
oscurità.
Fuori
le punte
del cielo scintillavano
come pietre magnetiche
e l’odore della legna
mi toccava
il cuore
come delle dita,
come un gelsomino,
come alcuni ricordi.
Non era l’odore acuto
dei pini,
no,
non era
la rottura nella corteccia
dell’eucaliptus,
non erano
neppure
i profumi verdi
della vigna,
ma
qualcosa di più segreto,
perché quella fragranza
una sola,
una sola
volta esisteva,
e lì, di tutto quello che vidi nel mondo,
nella mia propria
casa, di notte, vicino al mare d’inverno,
lì stava aspettandomi
l’odore
della rosa più profonda,
il cuore tagliato della terra,
qualcosa
che mi invase come una onda
liberatasi
dal tempo
e si perse in me stesso
quando aprii la porta
della notte.
ODE ALLA PAPPA
Pappa
ti chiami,
pappa
e non patata,
non nascesti con barba,
non eri castellana:
eri scura
come
la nostra pelle,
siamo americani,
pappa,
siamo indios.
Profonda
e soave eri,
polpa pura, purissima
rosa bianca
sepolta,
fiorisci
là dentro
nella terra,
nella piovosa
terra
originaria,
nelle isole bagnate
del Cile tempestoso,
nel Chiloé marino
nel mezzo dello smeraldo che apre
la sua luce verde
sopra l’australe oceano.
Pappa,
materia
dolce,
mandorla
della terra,
la madre
lì
non ebbe
metallo morto,
lì nella oscura
morbidezza delle isole
non dispose
il rame e i suoi vulcani
sommersi,
né la crudeltà azzurra
del manganese,
bensì con la sua mano,
come in un nido
nella umidità più soave,
collocò i tuoi redomi,
e quando
il tuono
della guerra
nera,
Spagna
inquisitrice,
nera come l’aquila della sepoltura,
cercò l’oro selvaggio
nella matrice
bruciante
della Araucania,
le sue unghie
avide
furono sterminate,
i suoi capitani
morti,
ma quando alle pietre della Castiglia
ritornarono
i poveri capitani sconfitti,
alzarono nelle loro mani insanguinate
non la coppa d’oro,
ma la pappa
del Chiloé marino.
Onesta sei
come
una mano,
che lavora nella terra,
familiare
sei
come
una gallina,
compatta come un formaggio
che la terra elabora
nelle sue mammelle
nutrici,
nemica della fame,
in tutte
le nazioni
si piantò la tua bandiera
vincitrice
e subito lì,
nel freddo o nella costa
bruciata,
apparve
il tuo fiore
anonimo
annunciando la fitta
e soave
nascita delle tue radici.
Universale delizia,
non attendevi
il mio canto
perché sei sorda
e cieca
e sotterrata.
Appena
stai con l’inferno
dell’olio
o canti
nelle friggitorie
dei porti,
vicino alle chitarre,
silenziosa,
farina della notte
sotterranea,
tesoro interminabile
dei popoli.