Cronache da Oriente
per "La Nación" di Santiago del Cile
(1927-1930)
I dodici testi di questo magnifico blocco li ho disposti secondo il loro ordine cronologico di scrittura e non secondo la sequenza delle loro date di pubblicazione in La Nación, soggetta ai diversi gradi di efficienza della posta intercontinentale. La proiezione che questa esperienza di Oriente ebbe sulla scrittura di Neruda fu riassunta così per Jaime Concha, pp. 74 e 235-236,:
Neruda disintegra, con decisioni della sua propria esistenza, due miti del Modernismo: il mito della Francia come miraggio dell'anima sud-americana ed il mito dell’Oriente. Più tardi, quando pestò le terre dell'India, di Ceylon e del sud-est asiatico, l'Oriente oramai non sarà il nome dell'evasione, bensì l'oscura coscienza della preistoria umana. La stessa cosa che altri grandi poeti di questo secolo - Claudel e Saint-John Perse - il viaggio ad Oriente retrodata Neruda alla sua propria realtà. I due francesi scoprono in lui all'Occidente. Ricordasi la consegna epica del teatro di Claudel: a l'Ouest, e la direzione implacabile nella marcia conquistatrice di Anabase. Nel cileno, [...] grazie all'esperienza di questo primo e volontario esilio si prepara la comprensione del Cile come totalità storico-geografica e si stabilisce una compenetrata equiparazione tra le morfologie umane di tanto dissimile regioni.
[...]
Oscuro rappresentante di un oscuro paese in altre oscure regioni, Neruda si muove come console tra Birmania, Ceylon e Java. Rangún, Colombo e Batavia sono le pietre miliari di questo itinerario di cinque anni che va da 1927 fino a 1932.. Un lungo prologo l'ha preceduto; il viaggio stesso, attraverso le acque dell'Atlantico (da Buenos Aires a Marsiglia), del Mediterraneo, del Mare Rosso e dell'Oceano Indiano. È un esteso e vario percorso marinaio, con una detenzione in mezzo: Parigi. È una città triste, miserabile, giallognola. Il miraggio modernista della belle époque è sparito. Parigi è una città come tutte, con qualcosa di donna invecchiata, con una guerra alle sue spalle ed un'altra che viene avanti. I miti letterari cominciano a scoprire la sua opaca e meschina realtà.
[...]
Durante la permanenza di Neruda in Oriente si produce una delle maggiori crisi del capitalismo mondiale. È la crisi di 1929. È sommamente importante che Neruda viva quella crisi in uno dei posti classici della dominazione imperialista, nelle colonie asiatiche della Gran Bretagna ed Olanda. Lo sfruttamento, la miseria, la fame non configurano, senza dubbio, un quadro retrospettivo, tracciato unicamente dal poeta dopo avere aderito al marxismo (Canto general, XV), ma forgiano una testimonianza che non lascia immune la sua poesia. La sua condizione di oscuro esiliato, la sua oscurità di paria sociale trova in quegli altri milioni di paria che muoiono ogni giorno sotto i suoi occhi, sulle rive dell'Irrawaddy o nel porto di Colombo, un allargamento collettivo, orribilmente tangibile, della sua propria situazione.
La corrispondenza con Héctor Eandi ed i ricordi di Confieso que he vivido confermano dettagliatamente la sintesi tracciata per Concha. I testi stessi furono riscattati della dimenticanza da Jorge Sanhueza e Juan Loveluck in diverse riviste. Alberto Buhadla ha controllato personalmente tutte le date delle pubblicazioni originali in La Nación, permettendomi di correggere alcuni errori che al riguardo inserii nella mia "Guída bibliográfica" di OC 1968 e 1973. Un libro recente: Pablo Neruda: Los caminos de Oriente di Edmundo Olivares, Santiago, LOM Ediciones, 2000.
Immagine viaggiante
Alto mare, Luglio, 1927.
Alcuni giorni fa. L'immenso Brasile saltò sopra alla barca.
Prima la baia di Santos fu cenerina, e dopo le cose emanarono la loro luce naturale, il cielo diventò azzurro. Allora il bordo apparve nel colore di migliaia di banane, ci furono le canoe strapiene di arance, scimmie brutte si dondolavano davanti agli occhi e da un estremo all’altro del vascello urlavano con strepito i pappagalli reali.
Fantastica terra. Dalle sue viscere silenziose nessuna avvertenza: i massicci di luce verde ed ombrosa, l'orizzonte vegetale e torrido, il suo esteso, incrociato, segreto di liane giganteschi riempiono la lontananza, in una circostanza di silenzio misterioso. Ma le barche scricchiolano sventrate di cassetti: caffè, tabacco, frutti a migliaia, e l'odore tira ogni naso verso la terra.
Lì salì quello giorno una famiglia brasiliana: padre, madre ed una ragazza. Ella, la bambina, era molto bella.
Buona parte del suo viso l'occupano gli occhi, assorti, neri, diretti senza fretta, con abbondanza profonda di fulgore. Sotto alla fronte pallida fanno notare la loro presenza in un battito costante. La sua bocca è grande perché i suoi denti vogliono brillare nella luce del mare dalla cosa alta della sua risata. Linda creola, compare. Il suo essere comincia in due piedi minuti e sale per le gambe di forma sensuale la cui maturità lo sguardo vorrebbe mordere.
Lentamente, lentamente va la barca costeggiando queste terre, come se facesse gran sforzo per staccarsi, come se l'attraessero le voci ardenti del litorale. All'improvviso cadono sopra coperta molto grandi farfalle nere e verdi, all'improvviso il vento fischia con la sua aria calda dall’entroterra, forse raschiando la cronaca dei lavori delle piantagioni, l'eco della marcia riservata dei siringatori verso il caucciù, un’altra volta si trattiene e la sua pausa è un'avvertenza.
Perché navigando arriviamo alla linea equatoriale. Nel deserto di acqua come olio penetra la barca senza rumore, come in un stagno. E ha qualcosa di spaventoso questo accesso ad un'atmosfera calda in mezzo all'oceano. Dove comincia questo anello incendiato? Il vascello va nella più silenziosa latitudine, deserta, di implacabile ebollizione spenta. Che tipi di fantasmi abiteranno il mare sotto questa pressione di fuoco?
Marinech, la brasiliana, occupa ogni pomeriggio la sua sedia di coperta di fronte al crepuscolo. Lievemente il suo viso si tinge con gli inchiostri del firmamento, a volte sorride.
È mia amica, Marinech. Conversa nella mielosa lingua portoghese, e dà incantesimo la sua lingua di giocattolo. Quindici innamorati la circondano formando circolo. Ella è altezzosa, pallida, non mostra preferenza per nessuno. Il suo sguardo, carica di materia ombrosa, sta fuggendo.
Bene, i pomeriggi cadendo nella terra si rompono in pezzi, si schiantano contro il suolo. Di lì quel rumore, quella vacuità del crepuscolo terrestre, quello baccano misterioso che non è altro che l'appiattirsi vespertino del giorno. Qui il pomeriggio cade in silenzio letale, come quello crollare di un oscuro straccio sull'acqua. E la notte ci copre gli occhi di sorpresa senza che si sentano i suoi passi, volendo sapere se è stato riconosciuta, essa, l'infinita inconfondibile.
La Nación, Santiago, 14.8.1927.
Porto Said
Porto Said, 24 agosto 1927.
Commentare questo passare di cose è acquisire un tono. Si rotola sul piano inclinato di una tendenza interiore e già vanno apparendo presenze: il sentimentale ritrovamento, i suoi aspetti strazianti di partire o arrivare, il burlesco traccia i suoi fiammiferi, il tragico il suo sangue.
Io, sopra la prua del paquebot, seduto nella mia sedia di olona, ho una carenza di senso speciale, il mio sguardo è di sfinge vuota, di cartone, difficile da allattare la sorpresa. L'Oriente arriva fino a quella sedia, molto di mattino un giorno, prende la forma di mercanti egiziani, di colorito bruno, con cartoccio rosso, espositivi, insistenti fino alla pazzia, dimostrando le loro tappezzerie, le loro collane di vetro, invitando al postribolo.
Incollata alla barca sta Porto Said, una fila di magazzini internazionali, le lance del baratto marittimo, più dentro l'orizzonte di architetture mozze, case la cui terrazza sembra avere impedito loro di crescere, e le palme dell'Africa, le prime, timidamente verdi, umiliate tra questo scoppiettio di carbone e farina, dentro a questo alito internazionale, grida di donkeys (asini), pesante palpitazione di macchine che consegnano e ricevono con grandi dita di ferro.
Porto Said racchiude una rumorosa gravitazione delle più stridule razze del mondo. Le sue viuzze strette sono completamente bazar e mercati e gridano acutamente in tutte le lingue, incalzano con immondi odori, si tingono con inchiostri verdi e scarlatti. In quell'accumulazione vegetale e bestiale sarebbe inutile retrocedere; l'aria di Porto Said, la luce, gridano anche prezzi e banchetti; il cielo di Porto Said, basso ed azzurro, è una tenda di baracca, ed appena oscilla sul suo mostruoso bazar.
Di quando in quando, attraversano per le strade le arabe coperte, dagli occhi vistosi. Sono una resurrezione molto triste delle letture di Pierre Loti: avvolte totalmente nei loro stracci oscuri, come spossate per quel mestiere di mantenere il suo prestigio letterario, non condividono quella violenta aria africana, richiamano una curiosità malinconica e scarsa. Anche i fumatori di narghilé, benché autentici, senza ombra di dubbio, succhiando quell'apparato visto fino alla sazietà nelle case di antichità, sopportano con vera dignità la sua carta leggendaria diffusa in antichi libracci. Fumano con notevole spensieratezza, sudando un poco, grassi, bruni, avvolti tra le sue sottanone.
Presto il vascello lascia dietro tende da sole tutte queste ricche miserie, questo porto un po' privo di quel serio arredamento orientale dei films. Alcune scalinate, alcuni cupole, le stoviglie grandiose di Il ladro di Baghdad, e la barca scapperebbe con maggiore nostalgia per il canale da Suez (quell'opera fredda deserta, non uscita ancora della carta Whatman, dell'ingegnere Lesseps). Porterebbe la barca il maggiore sconcerto prodotto per un sconosciuto aspetto della terra, il marchio recondito di quello che ha vissuto un giorno più della vita tra il fantastico, l’immaginario, il misterioso.
La Nación, Santiago, 8.1.1928.
Danza dell'Africa
DANZA DE ÁFRICA. (Pagine 332-334.) Tra tanti casi di linguaggio para-residenziario in queste cronache, emerge: "Su questa regione senza inclinazioni di madre il sole cade verticale, bucando il suolo", dove senza inclinazioni di madre è per "implacabile, senza la pietà che dovremmo sperare dalla madre terra."
Gibuti, 2 settembre 1927.
Devo scrivere questo passaggio con la mia mano sinistra, mentre con la destra mi proteggo dal sole. Dall'acuto sole africano che, una ad una, fa passare le mie dita del rosso al bianco. Allora le immergo nell'acqua; bruscamente diventano tiepide, fredde, pesanti. La mia mano destra si è fatta di metallo: vincerò con lei (occultandola in un guanto) i più spaventosi pugili, al più audace fachiro.
Siamo di fronte a Gibuti. Non si nota il limite del Mare Rosso e dell'oceano indiano: le acque sgomberano questa barriera di lettere, i titoli della mappa, con incoscienza di analfabeti. Qui si confondono acque e religioni, in questo stesso punto. I primi salmoni buddisti attraversano indifferenti di fianco alle ultime trote saracene.
Ora dalla profondità del litorale saltano i più divertenti negroidi somali a pescare monete nell'acqua o nell'aria. Episodio descritti milioni di volte e che in realtà è così: il monello è di oliva, con alte orecchie egiziane, con bocca bianca di un solo e fermo sorriso, ed il cui ombelico notevole si vede che è stato tracciato per una moneta francese lanciata dal bordo con troppa forza. Sono una flotta di api oscure che a volte, al volo, cacciano l'esemplare fiduciario; i più del tempo lo strappano dal mare e l'alzano nella bocca, abituandosi così a quell'alimento argentino che fa del tipo somalo una specie umana di consistenza metallica, chiara di suono, impossibile da rompere.
Gibuti è bianca, in basso, quadrata nella sua parte europea, come tutte le dita su una tela cerata risplendente. Gibuti è sterile come il dorso di una spada: queste arance vengono dall'Arabia; quelle pelli, dall’Abissina. Su questa regione senza inclinazioni di madre il sole cade verticale, bucando il suolo. Gli europei si nascondono in questa ora nel fondo dalle loro case con palme ed ombra, si seppelliscono dentro le vasche da bagno, fumano tra l'acqua ed i ventilatori. Transitano solo per le strade, perpetuamente fisse in un'illuminazione di lampo, gli orientali noncuranti: silenziosi indù, arabi, abissini dalle barbe quadrate, somali nudi.
Gibuti mi appartiene. L’ho dominata passeggiando sotto il suo sole nelle ore temibili: il mezzogiorno, la siesta, i cui calci di fuoco ruppero la vita di Arturo Rimbaud, a quell'ora in cui i cammelli fanno diminuire la loro gobba e allontanano i loro piccoli occhi dalla parte del deserto.
Del lato del deserto sta la città indigena. Tortuosa, schiacciata, di materiali vecchi e rinsecchiti: addobbi, giunchi miserabili. Vari caffè arabi in cui fumano distesi su stuoie, seminudi, personaggi dall’altezzoso viso. Girando un angolo, gran imboscata di donne, gonne multicolori, visi neri dipinti di giallo, braccialetti di ambra: è la strada delle danzatrici. In moltitudine, a grappoli, appese delle nostre braccia, vogliono, ognuna, guadagnare le monete dello straniero. Entro nella prima capanna, e me stendo su un arazzo. In quell'istante, dal fondo, appaiono due donne. Sono nude. Ballano.
Danzano senza musica, calpestando nel gran silenzio dell'Africa come in un tappeto. Il loro movimento è lento, cauto, non le si sentirebbe neanche se ballassero tra campane. Sono di ombra. Di una simile ombra ardente e dura, già per sempre incollata al metallo diritto dei petti, alla forza di pietra di tutti le membra. Alimentano la danza con voci interiori, gastralgiche, ed il ritmo diventa leggero, di frenesia. I talloni battono il suolo con pesante fulgore: una gravitazione senza senso, un dettame irascibile le spinge. I loro neri corpi brillano di sudore come mobili bagnati; le loro mani, alzandosi, scuotono il suono dei braccialetti, e da un salto brusco, in un'ultima tensione girevole, rimangono immobili finita la danza, incollate al suolo come fantocci schiacciati, già passata l'ora di fuoco, come frati abbattuti per la presenza di quello che suscitarono.
Ora non ballano. Allora richiamo al mio fianco la più piccola, la più gracile ballerina. Ella viene: con la mia giacca bianca di palm-beach pulisco la sua fronte notturna, col mio braccio attraggo la sua vita estiva. Allora le parlo in una lingua che non sentì mai prima, gli parlo in spagnolo, nella lingua in cui Díaz Casanueva scrive versi lunghi, vespertini; nella stessa lingua in che Joaquín Edwards [Bello] predica il nazionalismo. Il mio discorso è profondo; parlo largamente con eloquenza e seduzione; le mie parole escono, più che da me, delle calde notti, delle molte notti solitarie del Mare Rosso; e quando la piccola ballerina alza il suo braccio fino al mio collo, comprendo che comprende. Meravigliosa lingua!
La Nación, 20.11.1927.
Colombo addormentata e sveglia
8 settembre 1927, oceano Indiano.
Dopo le dieci della notte (ora inglese) Colombo muore. Stetti in Colombo alle 10.05, ansioso di raggiungere ancora un rantolo. Quello era morto improvvisamente, quella era una città senza ombra, senza luce; era Valparaíso di notte o Buenos Aires. Era un porto di geometria; i suoi angoli bianchi non avevano la minima parentela con le ascelle orientali cariche di temperatura e colore. Era il piano in rilievo di una popolazione ieratica, dura, senza respirazione, senza bevande. Né traccia di donne, né ombra di canzoni allegre. Addio.
Ritornai domani. I morti erano usciti dal sepolcro, i morti dagli strani colori e vestiti. Quello scuotimento di resurrezione aveva la portata e l'effetto del mulinello. Frugando quell'indifferente guscio terrestre, rimasero al sole le viscere segrete della Ceylon, ed il suo suono assordante, la sua roca voce di timballo. Sto seduto nella ricksha (risciò) che tira con leggerezza un cingalese che per correre prende un'apparenza di struzzo. La città indigena bolle ai miei quattro lati, e passo tra i duecento ottanta mille abitanti di Colombo, tutta una mobile ora di colore.
La moltitudine che attraversa ha una certa uniformità. Gli uomini di colore bruno scuro, vanno semplicemente vestiti, con gonnelloni che li ricoprono quasi interi, la vetti nazionale. Le donne, quasi tutte con decorazioni nel naso, bucato con pietre azzurre o violette, vestite di tulle pesante, al collo scialli multicolori. Tra la gran moltitudine di esseri scalzi, di quando in quando inglesi dai grandi stivali, malesi dalle pantofole di velluto. Le genti di Ceylon sono raramente belle; in ogni viso, regolare ed ardente, due occhi di forza, di sguardo grandiosamente grave. Sembra non esistere né la miseria né il dolore in questo mondo indifferente. I vecchi camminano con la testa eretta, il loro sguardo di carbone è arrogante, ed i monelli seminudi sorridono con scioltezza, senza richiesta, senza aria di elemosina.
Le piccole, bianche case indù prolungano in tutto il marciapiede i loro negozi, invadendoli di merci strane. I negozi dei parrucchieri stupiscono soprattutto: il cliente ed il barbiere sono accoccolati, immobili uno di fronte all'altro, come nella pratica di un paziente rito. Il barbiere mi guarda senza inquietudine, mentre percorre il cranio del suo contendente con un lunghissimo coltello. Gli usurai, chiamato chettys, passeggiano con grandi barbe di monarca, in camicia, con aria impassibile; passano uomini dall’aspetto religioso con una viva macchia folgorante di zafferano tra le ciglia; altri più ricchi con un rubino o un diamante incastonato. In tutti i negozi, caucciù, sete, tè ed elefanti di ebano con canini di avorio, pietre preziose, di tutte dimensioni. Ne compro uno per tre rupie della grandezza di un coniglio.
Questo colorito vario, come un albero i cui foglie fossero ognuna differente di tono, di forma, di stagione, forma vicino ad uno un'atmosfera immensa di sonno, di vecchia storia. Sono anche di racconto, di giallognola poesia, i corvi che a centinaia si sistemano sui cornicioni della città indigena, scendendo fino al marciapiede, cambiando sentiero in voli brevi, rimanendo immobili e contorti sopra le porte come numeri di quantità sconosciuta.
Ma non fu accessibile il tempio brahaminico di Colombo vecchio di trecento anni, col suo esterno barocco, decorato da mille figure guerriere, femminili, mistiche, intagliate e dipinte in azzurri, verdi e rossi, coi suoi dei dai nove visi superbi ed il suo piccoli dei dal capo di elefante. Ostacola l'entrata un bonzo dipinto di zafferano, rendendo inutile il mio gesto di togliermi le scarpe o di tirare fuori alcuni rupie. I templi indù sono proibiti allo straniero, e devo accontentarmi di guardare ed ascoltare frammenti di cerimonie. Di fronte alle porte, due credenti rompono contro il suolo di pietra grandi cocchi la cui polpa bianca rimane offerta così al dio Brahama. Suona un campanellino che indica il momento delle libagioni di fiori; i bonzi corrono, si prostrano, si stendono nel suolo con aria di feriti mortali.
La cosa più bella di Colombo è il mercato, quella festa, quella montagna di frutti e foglie dell’Eden. Si ammucchiano a milioni gli ananas, le arance verdi, i minuscoli limoni asiatici, le noci di arec, i manghi, i frutti dal nome difficile e dal sapore sconosciuto. Le foglie di betel si ammucchiano in colonne gigantesche, ordinate con perfezione come biglietti, di fianco ai fagioli di Ceylon, il cui capi ha un metro di lunghezza. L'immenso mercato si muove, bolle dappertutto il suo carico fastoso, ubriaca il profumo acuto dei frutti, dei mucchi di legumi, il colore esaltato, brillante come cristalleria, di ogni mucchio, dietro il quale ragazzi indù, non più bruni dei sudamericani, guardano e sorridono con più saggezza, più risonanza intima, in atteggiamento più amichevole che la maniera creolo. Per il resto, a volte la somiglianza spaventa; improvvisamente si avvicina un disegnatore di tatuaggi uguale a Hugo Silva, un venditore di betel con lo stesso viso del poeta Fornaio Arce.
La barca esce da Colombo. È senz’altro l'immensità del porto cosmopolita, le sue barche mercantili di tutte le latitudini, ed al centro un incrociatore inglese, bianco, argentato, magro, perfetto e liscio come un dente o un coltello. Rimane lì di fronte ai boschi dell'isola, di fronte al soffitto acuto delle pagode, tra l'odore di spezie che arriva della terra sommessa, incollata al mare come segno di fredda minaccia.
Dopo, disperse, le canoe cingalesi dalle vele ocra e rosso, tanto strette che i marinai vanno in piedi su esse. In piedi e nudi, come statue, sembrano uscire dall'età eterna dell'acqua, con quell'aria segreta della materia elementare.
La Nación, Santiago, 4.12.1927.
Il sonno dell'equipaggio
IL SUEÑO DE LA TRIPULACIÓN. (Pagine 337-339.) Il motivo poetico del sonno altrui - il sognare degli altri - si manifesta con insistenza nella scrittura nerudiana del periodo. Di modo particolare nel poema "Collección nocturna" di Residencia I, che Neruda cominciò a scrivere contemporaneamente al presente testo (nello stesso Elsinor, in rotta verso Singapore) e prima nel capitolo XV di El habitante y su esperanza del 1926 (il sognare di Florencio Rivas) ed in "Caballode los sueños", poema di Residencia I scritto in Cile (1927) durante i mesi che precedettero il viaggio. Il motivo riapparirà nel poema "Número y nombre" (1933), anche incluso nel presente volume (p. 365-368). Antecedenti letterari conosciuti da Neruda: (1) Marcel Schwob, "La citè dormante", racconto simbolico compreso in Le Roi au masque d'or (Paris, 1920) e tradotto in castigliano da Neruda e Romeo Murga in Zig-Zag, num. 953 del 26.5.1923; (2) Pierre Loti, Mon frére Yves, capitolo XXVIII, scritti su marinai che dormono. Per dettagli, anche su Álvaro Rafael Hinojosa, vedere le mie note al poema "Collección nocturna" nella mia edizione critica di Residencia (Loyola 1987). Cfr. Confieso que he vivido, in particolare il medaglione "Alvaro".
– Lulú o mejor Laura: più che a sua sorella Laura, Neruda starebbe alludendo a Laura Arrué, una delle innamorate che lasciò in Cile e che dopo si sposò con Homero Arce.
Cargo Elsinor
Golfo del Bengala, settembre, 1927.
La barca attraversa insensibile la sua strada. Che cosa cerca? Presto toccheremo Sumatra. Diminuisce la sua marcia, ed a poco a poco cambia impercettibilmente, paura di affondare improvvisamente nelle soffici boscaglie dell'isola, di svegliarsi la mattina con elefanti e forse ornitorinchi sul ponte.
È di notte, una notte arrivata con forza, decisiva. È la notte che cerca di estendersi sull'oceano, il letto senza burroni, senza vulcani, senza treni che passano. Lì rumoreggia la sua libertà, senza restringere le sue gambe nelle frontiere, senza diminuire in penisole; dorme, nemica della topografia con sonno in libertà.
L'equipaggio giace sul ponte, fuggendo dal caldo, in disordine, abbattuti, senza occhi, come dopo una battaglia. Stanno dormendo, ognuno dentro un sonno differente, come dentro un vestito.
Dormono i dolci annamiti, col torso addormentato su coperte, e Laho, il suo caporale, sogna alzando una spada di oro ricamato; i suoi muscoli si muovono, come rettili dentro la sua pelle. Il suo corpo soffre, si affatica lottando. Altri hanno dentro un sonno di guerrieri, duro come una lancia di pietra e sembrano soffrire, aprire gli occhi alla sua acuta pressione. Altri piangono lievemente, con un roco gemito perduto, e altri hanno un sonno blando come un uovo, il cui tessuto ad ogni suono, ad ogni emozione, si rovina; il contenuto scivola come il latte sulla coperta, e dopo si ricompone, si attaccano i suoi gusci senza materia e senza rumore, e l'uomo prosegue assorto. Ci sono altri.
Laurent, il vero marinaio del Mediterraneo, riposa rovesciato, con la sua maglietta rigata e la sua cintura rossa. Gli indù dormono con gli occhi bendati, separati dalla vita da questa benda di condannati a morte, ed uno mette lievemente la mano nel posto del cuore, battendosi valorosamente col sonno come con una pallottola. I neri della Martinica dormono, voluttuosi, diurni: l'oscurità indiana si traspone in una siesta di palme, in scogliere dalla luce immobile. Gli arabi legano la testa per mantenerla fissa nella direzione di Maometto morto.
Álvaro Rafael Hinojosa dorme senza sonno, sogna con sarte dell'Olanda, con insegnanti di Charlesville, con Erika Pola di Dresda: il suo sonno è una decomposizione dello spazio, un liquido corruttore, una trivella. Si sente discendere in quella spirale di trapano, inghiottito come una farfalla in un ventilatore molto grande; si nota perforando le distanze dure della terra, i decorsi salmastri del mare; si vede perduto, debole, senza gambe, arrotolato nella trasmigrazione interminabile; volendo ritornare batte con la fronte età sbagliate, sostituite; regioni delle quali fugge, ricevuto come scopritore. Da un punto ad un altro del tempo vola con furore, il vento fischia al suo fianco come intorno ad un proiettile.
I cinesi, prosternati a metà, si sono adattati alla loro maschera di sonno, gelata, rigida, e camminano nel dormire come in fondo di un'armatura. I corsi russano, sonori come conchiglie, pieni di tatuaggi, con aspetto di lavoro. È che alzano il sonno come l'alberatura di una chiatta, a colpo di muscolo, con mestiere marinaio. Anche la loro barca è la più sicura tra i sonni, appena tituba nel temporale celeste: porta tra i cordami angeli e cacatua equatoriali.
Lì sta Dominique, disteso sulle tavole. Nella caviglia è tatuato Marche ou Crève (marcia o muori), con lettere azzurre. Nelle braccia ha una mano che stringe un pugnale, che significa valore; sul petto il ritratto dell'ingrata Eloise, tra una ragno di peluria; porta inoltre tatuate le gambe con ancore che congiurano i pericoli del mare; colombe che evitano la prigione della rosa dei venti, buona per orientarsi e protettrice dell'ubriachezza.
Ci sono quelli che dormono senza sognare, come minerali; altri con viso attonito come davanti ad una barriera insuperabile. Io stendo la mia stuoia, chiudo gli occhi ed il mio sonno si getta nella sua estensione con infinita attenzione. Ho paura di svegliarli. Cerco di non sognare sonagli, Montmartre, fonografi; potrebbero svegliare. Sognerò piccole donne le più silenziose: Lulù o meglio Laura, la cui voce meglio si leggeva, meglio era del sonno.
La Nación, Santiago, 26.2.1928.
Diurno di Singapore
DIURNO DE SINGAPORE. (Pagine 339-342.) Per sbaglio o trascuratezza, l'editore di Para nacer he nacido (1978) riprodusse questa cronaca in due frammenti separati e distanti (p. 42-43 e 48-49) perché lesse l'insegna nella porta della fumeria di oppio - Smoking Room - come il titolo di un'altra cronaca.
Singapore, ottobre 1927.
Sveglio: ma tra me e la natura rimane ancora un velo, un tessuto sottile: è la zanzariera del mio letto. Dietro essa le cose hanno preso il posto che corrisponde loro nel mondo: le fidanzate ricevono un fiore: i debitori un conto. Dove sto? Sale della strada l'odore ed il suono di una città, odori umidi, suoni acuti. Nella bianca parete della mia stanza prendono il sole le lucertole. L'acqua del mio lavatoio è calda, trampolieri nati nella linea equatoriale mi mordono le caviglie. Guardo la finestra, dopo la mappa. Sto in Singapore.
Sì, perché all'ovest della baia vivono gli oscuri indostani, più qua i bruni malesi: di fronte alla mia finestra i cinesi veramente gialli, ed ad est i rosati inglesi: in transizione progressiva, come se qui avessero continuato solo a cambiare colore e lentamente avrebbero adottato alcuni il buddismo, altri il riso, altri il tennis.
Ma veramente, la capitale degli Straits Settlements è la Cina. Ci sono 300 mila pallidi ed obliqui cittadini, già senza codino, ma ancora con oppio e bandiera nazionalista. C'è dentro la città un'immensa, brulicante, attiva città cinese. È il dominio delle grandi insegne con belle lettere geroglifiche, misteriosi alfabeti che attraversano da un lato all’altro la strada, escono da ogni finestra ed ogni porta, in splendida lacca rossa e dorata, intervallati da draghi da autentica scenografia corale. Da allora, sono la pura avvertenza dei nuovi enigmi, della grassa terra, e benché annuncino il migliore bitume, o il perfetto cappellificio, bisogna dar loro significato nascosto e diffidare della loro apparenza.
Magnifica moltitudine! Le larghe strade del quartiere cinese lasciano appena spazio per il passo di un poeta. La strada è mercato, ristorante, immenso mucchio di cose vendibili ed esseri venditori. Ogni porta è un negozio strapieno, un magazzino scoppiato che non potendo contenere le sue merci fa loro invadere la strada. In quel rigirarsi di negozi di commestibili e giocattoli, di lavandai, calzolai, panettieri, usurai, mobilieri, in quella giungla umana c’è appena posto per il compratore. Ad ogni lato della strada i cibi si ammucchiano in file di tavoli, lunghe quadrate e quadrate, frequentate ad ogni ora da pazienti mangiatori di riso, da distinti consumatori di spaghetti, i lunghi spaghetti che cadono a volte sul petto come cordoni onorifici.
Ci sono fabbri che maneggiano i loro metalli in piccole fucine, venditori ambulanti di frutta e sigarette, buffoni che fanno tremare il loro mandolino a due archi. Case di pettinatrici in cui la testa della cliente si trasforma in un castello duro, verniciato con lacca. Ci sono vendite di pesci dentro a fiaschi; intermediari di ghiaccio macinato ed arachidi; spettacoli di burattini; ululati di canzoni cinesi; fumerie di oppio con la sua insegna nella porta:
Smoking Room
I mendicanti ciechi annunciano la loro presenza con scampanellii. Gli incantatori di serpenti cullano i loro cobra suonando la loro musica triste, farmaceutica. È un immenso spettacolo di moltitudine cangiante, di distribuzione milionaria: è l'odore, lo scoppiettio, la pazienza, il colore, la sete, la fame, la sporcizia, l'abitudine del Lontano Est.
È nella città europea dove si agitano confuse le remote razze racchiuse dalla porta dell'Estremo Oriente. Passano presi nella mano con lunghe chiome e gonne i cingalesi: gli indostani coi loro torsi nudi: le donne del Malabar con la loro pietra preziosa nel naso e nelle orecchie: i musulmani col loro berretto mozzo. Tra essi i poliziotti, della razza sikh, tutti altrettanto barbuti e giganteschi. Il malese originario scarseggia, è stato rimpiazzato nel mestiere nobile, e è umile coolie, infelice uomo risciò. Questo sono divenuti i vecchi eroi pirati: lì stanno i nipoti delle tigri della Malesia. Gli eredi di Sandokan sono morti o c'è fatalità, non hanno aria eroica, la loro presenza è miserabile. L’unica barca pirata l'ho vista ieri nel Museo Raffles: era il vascello degli spiriti della mitologia malese. Dai suoi alberi pendevano rigidi impiccati di legno, la sua terribile maschera guardava all'inferno.
Dirigono il transito i poliziotti con ali di tessuto in ogni spalla, uccidi pidocchi ai piedi. I tram dai due trolleys attraversano blandamente l'asfalto brillante. Tutto ha un'aria erosa, patinato di vecchie umidità. Le case sostentano grandi cuciture di vecchiaia, di vegetazioni parassite: tutto sembra soffice, tarlato. I materiali sono resi malleabili dal fuoco e dall'acqua, dal sole bianco di mezzogiorno, dalla pioggia equatoriale, breve e violenta come un dono concesso malvolentieri.
All'altro lato dell'isola di Singapore, separato da un'angusta vista del mare, sta il sultanato di Johore. L'atto corre appena per un'ora la strada aperta tra la Giungla. Andiamo circondati da un silenzio pesante, accumulato: da una vegetazione di stupore, da una titanica impresa della terra. Non c'è un vuoto, tutto lo copre il fogliame violentemente verde, l’intreccio di trochi duro. Si increspano i rampicanti simili al coille, negli alberi del pane, si nutrono dell'altezza le retti palme da cocco, i bamboo grossi come una zampa di elefante, i traveller-trees in forma di ventaglio.
Ma la cosa straordinaria è una vendita di fiere che ho visto in Singapore. Elefanti appena cacciati, agili tigri di Sumatra fantastiche pantere nere di Giava. Le tigri si rigirano in una furia spaventosa, non sono le vecchie tigri dei circhi, hanno un'altra eleganza, diverso colore, un rigato bruno di terra, una tintura naturale appena selvatica. I piccoli elefanti sonnolenti in un'atmosfera di porcile. Le pantere fanno risplendere due dischi di oro dalla pelle di lignite. Quattro cuccioli di tigre valgono due mila dollari; e mille un serpente pitone di dodici metri, vestito di grigio. Degli orangutan color mattone assaltano con furia la parete della gabbia; gli orsi della Malesia giocano con aria infantile.
Ma, venuto delle isole Oceaniche, vestito di piume di fuoco, congiunzione di zaffiri e zolfi, anelito degli ornitologi, stava come la scheggia di una cava abbagliante un Uccello del Paradiso, di luce e inutile.
La Nación, Santiago, 5.2.1928.
Madras. Contemplazioni dell'Acquario
Madras, novembre 1927.
Di mattina si stabilisce nella barca un buffone indù ed incantatore di serpenti. Soffia una zucca dal suono stridente, lugubre, e come eco si srotola da un cestino rotondo un cobra bruno, dal capo schiacciato: la terribile naja. Infastidita nel suo riposo, vuole in ogni momento pungere l'incantatore: altre volte, con orribile panico dei passeggeri, tenta di avventurarsi sul ponte. Il virtuoso non lo ferma: fa crescere alberi, nascere uccelli in presenza di tutti: fomenta i suoi trucchi fino all’incredibile.
Madras dà idea di una città estesa, spaziosa. In basso, con grandi parchi, strade larghe, è un riflesso di città inglese in cui improvvisamente una pagoda, un tempio, mostrano la sua architettura invecchiata, come resti di istinto, rastrelli oscurati dello splendore originale. La prima miseria indigena si presenta al viaggiatore, i primi mendicanti dell'India avanzano con passi maestosi e sguardo da re, ma le loro dita afferrano come tenaglie la piccola moneta, l'anna di nichel: i coolie soffrono per le strade trascinando pesanti carrette di materiali: si riconosce l'uomo che rimpiazza i duri destini della bestia, del cavallo, del bue. Per il resto, questi piccoli buoi asiatici, con le loro lunghe corna orizzontali, sono di negozio di giocattoli, sono certamente ripieni di segatura o sono forse apparizioni del bestiario da adorare.
Ma voglio celebrare con grandi parole le tuniche, l'abito delle donne indù, che qui trovo per la prima volta. Una sola pezza che dopo essersi fatta gonna si intreccia al torso con grazia soprannaturale, avvolgendole in una sola fiamma di seta folgorante, verde, purpurea, violetta, che sale dagli anelli del piede fino ai gioielli delle braccia e del collo. È l'antichità greca o romana, la stessa aria, uguale maestoso atteggiamento: le greche dorate del vestito, la severità del viso ariano, sembrano far loro risorgere dal mondo seppellito, creature pure, fatte di gravità, di tempo.
Un ricksha mi porta lungo la Avenida Marina, orgoglio di Madras, larga di asfalto, coi suoi giardini inglesi interrotti da palme, col suo bordo di acqua, l'acqua estesa del Golfo del Bengala. Grandi costruzioni pubbliche piene di alberi, campi da tennis con giocatori bruni in realtà entusiasti. Siamo sotto il sole del primo mese di inverno, un sole terribile che batte senza commuoversi davanti a quella fredda parola. La schiena del mio rickshaman cola sudore, per la fessura della sua spina dorsale di bronzo vedo correre i fili grassi e brillanti.
Andiamo all'Acquario Marino di Madras, famoso in una vastissima periferia per i suoi straordinari esemplari. In realtà è straordinario.
Ci sono non più di venti stagni, ma pieni di eccellenti mostri. Ci sono immensi pesci dai grandi gusci e sedentari, lievi meduse tricolori, pesci canarini, gialli come zolfo. Ci sono piccoli esseri elastici e barbuti: spiritosi maderas che comunicano a chi li tocca un scuotimento elettrico: "pesci draghi" a forma di tromba, pinnati, bardati di difese, somiglianti a cavalieri di torneo medievale con gran orlo di rottami protettivi. Passeggiano per i loro soleggiati stagni la "pesci farfalla", larga come sogliole, con una stecca incorniciata nel lombo e larghi nastri azzurri e dorati. Ci sono come zebre, come padroni di un ballo sotterraneo, con azzurri elettrici, con greche disegnate in vermiglione, con occhi di pietra preziosa verde semicoperti di oro. I cavallucci di mare si reggono attorcigliati della coda nella loro trapiantata corallifera.
I serpenti marini sono impressionanti. Bruni, neri, alcuni si alzano come colonne immobili dal fondo dello stagno. Altre, in un perpetuo martirio di movimento, ondulano con velocità senza trattenersi un secondo. Lì stanno i sinistri cobra del mare, uguali ai terrestri, ed ancora più velenosi. Si sopravvive solo alcuni minuti al suo morso, ed ahi al pescatore che imprigionò tale sinistro tesoro nella sua rete notturna.
Al lato di esse, messe tutte in una piccola grotta, le murene dell'oceano indiano, crudeli anguille dalla vita gregaria, formano un indistinto nodo grigio. È inutile cercare di separarle, attraversano gli alti stagni dell'Acquario per unirsi di nuovo alla loro società. Sono un brutto mucchio di streghe o condannate al supplizio, muovendosi in curvature inquiete, vera assemblea di mostri viscerali.
Ci sono piccoli pesci millimetrici, di una sola squama; acuti squali macchiati di pittura; polipi curiosi come trappole; pesci che camminano in due piedi come umani; abitanti del mare notturno, ombrosi, foderati di velluto; pesci cantori, alla cui chiamata si riunisce il suo banco di pesce: esemplari contemporanei di quello che si divorò Angelo Cruchaga, pesce del diluvio, remoto. Immobili in fondo degli stagni o girando in anelli eterni, danno idea di un mondo sconosciuto, quasi umano: decorati, guerrieri, mascherati, traditori, eroi, si rigirano in un coro muto ed anelante della sua profonda solitudine oceanica. Scivolano puri di materia, come colori in movimento, con le loro belle forme di pallottola o di bara.
È tardi quando ritorno dal mobile museo. Già alle porte delle case, indù accoccolati mangiano il loro curry su foglie larghe, sul suolo, con lentezza: le donne mostrando le loro cavigliere d’argento ed i loro piedi con pietre preziose; gli uomini malinconici, più piccoli ed oscuri, come schiacciati dall'immenso crepuscolo dell'India, dalla sua palpitazione religiosa.
Sui lastroni del molo, nella semioscurità, i pescatori tessono reti con destrezza, e lo sguardo spaventato, assente. Uno di essi, in ogni gruppo, legge alla luce di una lampada che vacilla: la sua lettura è un canticchio, a volte un po' gutturale e selvaggio, altre volte discende appena fino alle labbra in una parlata impercettibile. Sono discorsi, lodi sacre, leggende rituali, ramayana.
Sotto il suo dominio trovano consolazione i sottomessi, quelli dominati: resuscitando sonni cosmici ed eroici, cercano strade per l’oblio, nutrimento per la speranza.
La Nación, Santiago, 12.2.1928.
Contributo al dominio degli abiti
CONTRIBUCIÓN AL DOMINIO DE LOS TRAJES. (Pagine 345-348.) Gli ultimi paragrafi di questa cronaca, relativi alla Birmania, conviene leggerli in connessione con le prose "La noche del soldado" e "El joven monarca" di Residencia I, entrambe relazionate con la figura di Josie Bliss (vedere le mie note ai due testi in Loyola 1987).
- penyis: così nella trascrizione di Loveluck (AUCh 1971); PNN porta "ponyls"; l'ambasciata birmana a Roma mi suggerisce al telefono un termine che suona "ponghis."
[Rangoon, all'inizio del 1928.]
Ci sono frontiere del pianeta in cui gli abiti fioriscono. C'è una stazione per essi: una primavera accurata, un'estate fantastica. Il vestito, compagno grigio dell'azione, angelo quotidiano, sorride. Era in verità eterna quell'agonia di colori; mano a mano non c’era differenza tra moltitudini della Spagna bruciante e della piovosa Gran Bretagna. Moltitudini confuse, annerite; rimpiangenti dell'impermeabile, idolatri dell’inganno; formate in lugubri abbigliamenti burocratici, uniformate sotto il mandato del cachemire.
Questa oscurità di costumi, apparentemente senza conseguenze, ha continuato a danneggiare profondamente il senso della cosa storica, ha fermato il sentimento popolare di grandezza. Rivoluzione, detronizzazione, cospiratore, ammutinamento, tutto questo magnifico rosario di effetti ancora attuali oggi suona a vuoto, a morto, soffocato nelle profondità dei pantaloni, sottomesso allo smoking e all'ombrello.
Quelle parole, i suoi grandi significati, abbandonano il mondo espulse da un vestiario senza grandezza. Ma senza dubbio sopravverrà in futuro accompagnando il Dittatore del Vestito che, con cuore di dittatore, amerà la magica opera italiana e restituirà i begli stivaletti di velluto, il pantalone sgualcito, la manica azzurro turchese.
Ma voglio parlare dell'Oriente, di questa continuo saison degli abiti. Mi piace, per esempio, il Teatro Cinese, che sembra essere solo quello: un'idealizzazione del vestito, restituzione alla cosa meravigliosa. Tutto sembra riferirsi lì al lusso, alla magnificenza del vestiario. Molte volte, e per lunghe ore, ho assistito allo sviluppo dei lentissimi drammi cinesi. Come soffiati per l'insistente, acuto suono dei flauti, affacciano alla sinistra i personaggi, con passo esageratamente maestoso. Sono principalmente monarchi benefattori, santoni venerati, vestiti fino all’indicibile: fagotti di seteria con barbe immense e bianche, con larghe maniche più lunghe delle braccia, con spada alla cintura, un piumino rituale ed un fazzoletto nelle mani. Appena la loro testa emerge, stretta sotto un tremendo casco luccicante ed ingigantito in un pennacchio; una luminosa, viva veste talare lo copre, aperto, mostrando un pantalone ricamato ed accecante. Nelle sue spalle, frange di tessuto come stole pendono fino ai piedi alzati da coturni di metallo e lacca. Questo è il personaggio: avanza a passi brevi, cerimoniali, come in un vecchio ballo; muove all'indietro la testa, di continuo, accarezzandosi le lunghe barbe; retrocede, si gira per lasciare ammirare le costose spalle. Incarnazione del solenne, attraversa un momento la scena, impavesato, stupendo, manichino soprannaturale di carminio e giallo. Quindi questo immenso fantasma di seta sparisce, cede il passo ad altri ancora più abbaglianti. Molte volte durano lungamente queste sfilate senza parole questa esibizione di abbigliamenti. Ogni movimento, ogni inflessione del passo del personaggio sono divorati e digeriti da un pubblico avido di meraviglioso. L'obiettivo teatrale è riuscito indubbiamente ad esaltare l'importanza del vestiario: lo spreco ricaduto sul corpo di un attore ha dato ansietà e piacere ad una moltitudine.
L'abito ambulante cinese è semplice e senza bellezza: un bolerino, un pantalone. Il cinese, laborioso, come la formica, sparisce nel suo comune vestito; sembra consumato, patinato da un lavoro di secoli; il suo corpo stesso sembra usato come il manico un martello. Per quel motivo, quella fantasmagoria scenica gli apre la vita e quel fantoccio prodigioso sembra favorire i suoi sogni.
Ricordo ancora la mia impressione davanti alle prime donne indostane che vidi alcuni mesi fa in Colombo. Erano belle, ma non è quello. Io adorai i loro abiti dal primo giorno. I loro abiti in cui il colore circonda come un olio o una fiamma. È solamente un'estesa tunica chiamata sari che fa molti giri dalla vita ai piedi, lasciando appena vedere camminando i braccialetti cavigliere ed il tallone nudo; tunica che dopo si intreccia al torso con ferma solennità e che nelle donne di Bengala sale fino alla testa ed incornicia il viso. È un sereno vestito peplico, clamidatico, sopravvissuto da un'antichità certamente serena. Ma quasi la sua totale vita sta nel colore, in quella forza di colori per i quali il nome è pallido. Verdi, solforosi, amaranti, parole senza vigore: sono molto più che inchiostri puri visti per la prima volta. Quelle gambe adolescenti legate da un tessuto di fuoco, quella schiena bruna avvolta in un'onda di luce, una pettinatura di chignon nero in cui risplende una rosa di pietra preziosa, rimangono per molto tempo nella memoria come viventi apparizioni.
Ora, all'abito indostano è piuttosto inerente la sua condizione di nobiltà, di tranquillità. Nessuno lo porta meglio che Tagore: l'ho visto, ed avvolto nella sua tunica colore grano era lo stesso Dio Padre. Stava nella sua giornale il poeta, in quello carico per metà sacro e direttore. Io diedi la mano al vecchio poeta, grande nella sua veste, augusto di barbe.
In Birmania, dove scrivo questo svago, solamente il colorito designa gli abiti. L'uomo si arrotola in gonne multicolori ed alla testa un fazzoletto rosato. Porta un bolero scuro, di stile cinese, senza baveri, cioè, aperto: della vita in su è un torero mongolo. Ma il suo gonnellino, il suo lunghi, è rilucente e straordinario: da una parte è cremisi, o cannella o azzurro vermiglione. Le strade di Mandalay, i viali, i bazar di Rangoon, ribollono perpetuamente tinte di questi inchiostri abbaglianti. Tra la moltitudine colorita passeggiano i penyis, frati buddisti mendicanti, seri come risuscitati, vestiti di una casacca leggera, vivamente giallo zolfo, sacralmente giallo. Questa moltitudine è un giorno imbandierato, un'errante scatola di acquarello, per la prima volta voglio ricorrere alla parola caleidoscopio.
Parlo di Burmah, paese in cui le donne portano lunghe pettinature cilindrici, nelle quali non manca mai il dorato fiore del padauk, e fumano sigari giganteschi. Caduta a terra la dinastia birmana, le ballerine vestono l'abito delle principesse, bianco di gioielli e con spigolosità inspiegabili nelle anche. Queste alette mettevano la ginnica durezza delle pue popolari e fanno più strani quelli restringimenti indescrivibili di cui sono fatte le loro tensioni mortali.
Frequentemente in questo tumultuoso giardino degli abiti, in questa variopinta stazione di vestiario, attraversano i miscugli del grottesco e dell’arbitrario. Questo è il parco delle sorprese, l'ebollizione delle forme vive, e si perde l'osservazione in un oceano di inaspettate variazioni, tentativi eccellenti e momentanei di audacia e, a volte, belle genti nude.
(Ricordo di avere trovato nella periferia di Samarang, a Giava, una compagnia di danzatori malesi, davanti ad un pubblico scarso. Lei era una bambina: vestiva corsetto, sarong ed una corona di metallo. Lui era vecchio, la seguiva muovendo i talloni e le dita del piede, secondo la maniera malese; sul viso portava una maschera di lacca rossa, e nella mano un lungo coltello di legno. Molte volte, addormentato, rivedo quella triste danza di sobborgo.
È che quell'era il mio abito. Io volevo andare vestito da ballerino mascherato: io volevo chiamarmi Michael.)
La Nación, Santiago, 4.3.1928.
Inverno nei porti
Shangai, febbraio 1928.
È triste lasciare indietro la terra indocinese dai dolci nomi, Battambang, Berenbeng, Saigon. Da tutta questa penisola, non in fiore bensì in frutti, emana un consistente aroma, una tenace impregnazione di abitudine. Che difficile è lasciare il Siam, perdere ormai l'eterea, mormorante notte di Bangkok, il sonno del suo mille canali coperti di imbarcazioni, i suoi alti templi di smalto. Che sofferenza lasciare le città della Cambogia, che ognuna ha la sua goccia di miele, le sue rovine khmer nel monumentale, il suo corpo di ballerina nella grazia. Ma ancora più impossibile è lasciare Saigon, la soave e piena di incantesimo.
È nell'Est un riposo quella regione semioccidentalizzata. C'è lì un odore di caffè caldo, una temperatura soave come pelle femminile e nella natura una certa vocazione paradisiaca. L'oppio che si vende in ogni angolo, il razzo cinese che suona come colpo, il ristorante francese pieno di risate, insalate e vino rosso, fanno di Saigon una città dal sangue misto, di attrazione turbatrice. Aggiungete il passo delle ragazze annamite, adornate di seta, con un fazzoletto fatto delizioso velo sulla testa, polsi di finissima femminilità, impregnate sottilmente di un'atmosfera di gineceo, gracili come apparizioni floreali, accessibili ed amorose.
Ma quello cambia con violenza nei primi giorni di navigare il mare della Cina. Si incrocia sotto un'implacabile costellazione di ghiaccio, un terribile freddo gratta le ossa.
Quello sbarco in Kowloon, sotto una pioggerellina pietrosa, ha qualcosa di avvenimento, qualcosa di spedizione in un paese eschimese. I passeggeri tremano tra le loro sciarpe ed i coolie che sbarcano i bagagli vestono straordinari cappotti mac-farlan di tela da imballaggio e paglia. Hanno aspetto di fantastici pinguini di una riva glaciale. Le luci di Hong Kong tremano posizionate nel suo teatro di colline. Nell'imbrunire le altissime costruzioni americane svaniscono un po' ed una moltitudine insondabile di soffitti si corica a mucchi sotto le lenzuola di una nebbia grossa.
Kowloon! Guardo le strade in cui da poco Juan Guzmán [Cruchaga] consumava e creava un tempo decisamente solitario, un isolamento di spaventoso vicinato inglese, ed i viali sembrano conservare ancora un po' della sua letteratura, qualcosa di elegante, freddo ed ombroso. Ma qualcosa risuona al bordo stesso delle acque del canale, ed è Hong Kong vasta, oscura e brillante come una balena appena cacciata, piena di rumori, di respiri misteriosi, di fischietti incredibili.
E già si trova uno circondato da una città brulicante, alta e grigia di pareti, senza più carattere cinese che gli avvisi di alfabeto enigmatico; una violenza da gran città di Occidente - Buenos Aires, Londra - i cui abitanti avrebbero acquisito gli occhi obliqui e la pelle pallida. La moltitudine che ci spinge nel suo transito va maggiormente messa in enormi soprabiti, lunghi fino alla stravaganza, o in vestaglie nere di seta o satin sotto alle quali spunta un grosso ovattato protettore. La gente così vestita cammina ridicolamente obesa ed i bambini, la cui testa appena spunta tra questo spessore di vestiario, prendono un curioso carattere extraumano, da ippopotamo. Ogni mattina si trova una dozzina di morti per il freddo della terribile notte di Hong Kong, notte di estensione ostile che ha bisogno di cadaveri, ed alla quale bisogna sacrificare puntualmente quelle vittime, alimentando così i suoi propositi mortiferi.
Shangai appare più ospitale e confortevole, con le sue cabarets internazionali, con la sua vita di sorpassata metropoli ed il suo visibile disordine morale.
Tutti i passeggeri della nave in cui viaggio scendono a Shangai come fine del viaggio. Vengono dalla Norvegia, dalla Martinica, da Mendoza. In tutto il litorale di Oriente non c'è maggiore calamita attrattrice che il porto del fiume Wangpoo, e lì il nostro pianeta si è aumentato di un denso tumulto umano, di una colossale crosta di razze. Nelle sue strade si perde il controllo, l'attenzione si rompe spartendosi in milioni di vie, volendo captare la circolazione rumorosa, oceanica, il traffico si agita inverosimilmente. Le innumerevoli viuzze cinesi sboccano nei viali europei come barche di straordinarie velature colorate. In esse, cioè nella selva di tessuto che adorna l'esterno dei bazar, si trovano ad ogni passo il leone di seta ed il loto di giada, il vestito del mandarino e la pipa dei sognatori. Queste viuzze strapiene di moltitudine, fatte di una folla compatta, sembrano la rotta di un solo grande animale vivo, di un drago stridulo, lento e lungo.
Dentro il limite delle Concessioni, il Bund o City bancario, si estende sul bordo del fiume; ed a meno di cinquanta metri le grandi navi da guerra inglesi, americane, francesi, sembrano sedute sull'acqua, basse e grige di sagoma. Queste presenze severe e minaccianti impongono la sicurezza sul gran porto. Tuttavia in nessuna parte si nota di più la prossimità, l'atmosfera della rivoluzione. Le porte di ferro che ogni notte chiudono l'entrata delle Concessioni, sembrano troppo deboli davanti ad una valanga scatenata. Continuamente si ostenta l'aggressività contro il forestiero, ed il passante cinese, suddito antico di Nankino e di Londra, diventa più arrogante ed audace. Il mio compagno di viaggio, il cileno Álvaro Hinojosa, è assaltato e derubato nella sua prima escursione notturna. Il coolie di Shangai prende davanti al bianco un'aria di definita insolenza: la sua ferocia mongolica gli fornisce alimento in questo tempo di ferocia e sangue. Quell'offerta che il viaggiatore sente in Oriente mille volte al giorno: Girls! Girls!, prende a Shangai un carattere di imposizione; il rickshaman, l'autista di carrozze, si disputano al cliente con aria di ferocia contenuta, svaligiandolo naturalmente con gli occhi.
Tuttavia Shangai fa eccezione nell'oscura vita coloniale. La sua vita numerosa si è riempita di piaceri: in Estremo Oriente segna lo stesso solstizio del cabaret e la roulette. A pesare, io trovo una certa tristezza in questi posti notturni di Shangai. La stessa monotona clientela di soldati e marinai. Dancings in cui le gambe alla zuava del marinaio internazionale si attaccano obbligatoriamente alle gonne della russa avventurosa. Dancings troppo grandi, un po' oscuri, come sale di accoglienza di re destituiti, e nel cui ambito la musica non raggiunge gli angoli, come un riscaldamento difettoso, fallita nel suo tentativo di temperatura ed intimità.
Ma, come infrangibile risorsa del pittoresco, c'è la strada, il sorprendente, magnetico ruscello dell'Asia. Quanto ritrovamento, che sacco di stravaganze, che dominio di colori ed usi strani ogni sobborgo. Veicoli, vestiario, tutto sembra vivace tra le meravigliose dita dell'assurdo. Frati taoisti, mendicanti buddisti, venditori di cesti, distributori di cibi, buffoni, indovini, case di piacere o Giardini da Te, dentisti ambulanti, ed anche il facchino signorile trasportando le belle dai denti che sorridono. Ogni cosa denuncia un incontro intraducibile, una sorpresa subitanea che si assomma ad altre.
La Nación, Santiago, 8.4.1928.
Nome di un morto
Singapore, febbraio 1918.
Io conobbi Winter nel suo porto, nel suo nascondiglio di Bajo Imperial. Lo conobbi di leggenda, lo conobbi dopo di vista, e finalmente in profondità. Come meravigliarsi che sia morto? Come non mi sorprende che una donna giovane abbia figli, che un oggetto dia ombra. L'ombra di Winter era mortale, la sua predilezione andava al lutto, era un autentico convitato di fantasmi, Winter. La sua vocazione di solitudine fu più acuta di nessun e la sua penetrazione nell’inanimato lo isolava, avvolgendolo in freddo, in aria celeste. Studente di Ombre, Laureato dei Deserti!
Don Augusto era l'uomo di mani minuscole, di occhi di acqua azzurra, l'uomo aristocratico del nord, il vecchio cavaliere autentico. Arrivò al sud a contrastare, ad una terra di meticcio rivoltosi, di coloni oscuri, ad un semenzaio di indios senza legge. Lì visse Don Augusto, delicato, invecchiando. Nella sua vicinanza più prossima c'erano libracci, saggezze, ed intorno a lui, una cortina densa di pioggia ed alcolismo. Persino i miei ricordi si spaventano di quelle solitudini! Quando il cattivo tempo si disormeggia lì, le acque sembrano parenti del demonio, e quelle del fiume, quelle del mare, quelle del cielo, si accoppiano, bramendo. Paese abbandonato in cui anche le lettere arrivano senza freschezza, sciupate per le distanze, ed in cui i cuori si pietrificano ed alterano.
Quello tutto è incollato con la mia infanzia, quello, e Don Augusto, con la sua barba mezzo gialla di tempo, ed i suoi occhi di viaggio sicuro. A me - tanti anni fa - sembrava misterioso quel cavaliere, ed il suo lutto ed il suo aspetto di gran dispiacere. Io spiai le sue passeggiate del pomeriggio, in cui passo a passo per il bordo di un mondo ammortito, guardava come per dentro, come per percorrere le sue proprie estensioni. Povero, solo! Dopo allora ho visto uomini già molto separati, già molto abbandonati dalla vita, e molto astenuti di azione, molto avvolti in distanze. Ma come lui, nessuno. Nessuno di tanta fiducia nella disgrazia, di tanta similitudine con l’oblio.
Io molte volte sentii ululare i lunghi temporali della frontiera conversando con Winter. A volte lo vidi, puro su fondo sanguinante, ascoltare la diceria dello schiamazzo alternativo, e così mi sembrava come esiliato di esempio, Don Augusto, tanto eccezionale, tanto depurato, tra l'uragano degli araucani ed il galoppo bruciante dei cavalieri armati. Con fondo di piogge, di laghi australi, stava più in pace, somigliando egli stesso all'elemento trasparente e turbato. Dietro una tenda di anni, di anni scivolati a mese, a settimana, a giorno, milioni di ore nello stesso posto, aggressive ed amare come tenacia di gocce. Io ricordo la sua casa, il suo tabacco, la sua teosofia, il suo cattolicesimo, il suo ateismo, e lo vedo disteso, dormiente, scortato da tali abitudini ed ansietà. Io ammiro la sua figura e con orrore mi faccio il segno della croce davanti a lei, affinché mi favorisca: allontanati, solitudine tanto tremenda!
Qualcosa c’è di lui nei suoi versi, qualcosa in quella come la cadenza errante che possiedono, in quella luce di pazienza e quel tessuto di età che sembrano avere. Le sue poesie sono come vecchi incastri distruttivamente appassiti, hanno un'aria rovinata ed un odore di nascondiglio. Sono vecchi laudatori in cui una nota di acque melanconiche, ahi, si ripete: un accordo di tristezza spaziale, di sonni perduti. La sua poesia è il cadere e ricadere di un suono desolato, è la perdita e la devoluzione di una sostanza straziante.
Ma c'era inoltre in lui una trepidazione di insostenibili disperazioni. Io lo notai visitato dalle incertezze e ad un stesso tempo mangiava la sua anima la colomba e la frusta. La sua esistenza cercava una Rotta, le sue condizioni dolenti respingevano ed esigevano.
Penso al suo cadavere disteso e silenzioso, di fianco al mare Pacifico. Camerati vecchi, camerati amari!
La Nación, Santiago, 20.5.1928.
Ceylon concentrata
Wellawatta, Luglio 1929.
Litorale felice! Una barriera di corallo si allunga, parallela alla spiaggia; e l'oceano interrompe lì i suoi azzurri in una gorgiera arricciata e bianca e perpetua di piume e schiume; le triangolari vele rosse dei sampangs; la longitudine pura della costa in che, come esplosioni, ascendono i loro retti tronchi le palme da cocco, riunendo quasi nel cielo i suoi brillanti e verdi pettini.
Attraversando quasi in linea retta l'isola, in direzione di Trincomali, il paesaggio diventa denso, terrestre, gli esseri e le cose mobili spariscono: l'immutabile, solida selva rimpiazza tutto. Gli alberi si annodano aiutandosi o rovinandosi, e mischiandosi perdono i suoi contorni e così si cammina come sotto un tunnel di bassi e spessi vegetali, tra uno spaventoso mondo di collegi caotici e violenti.
Greggi di elefanti attraversano la rotta uno ad uno; piccole lepri della giungla saltano velocemente fuggendo dall'automobile; galline e galli silvestri, minuscoli e fini, spuntano dappertutto; fragili ed azzurri uccelli del Paradiso appaiono e fuggono.
Di notte la nostra macchina corre silenziosamente attraverso i profumi e le ombre della giungla. Da ogni parte germogliano occhi di esseri sorpresi; occhi che ardono verdi come fiamme di alcool; è la notte selvatica, popolata di istinti, fame ed amori, e spariamo costantemente ai maiali selvaggi, ai belli leopardi, ai cervi. Sotto le lampade dell'automobile si trattengono senza cercare di fuggire, come sconcertati, e dopo cadono sparendo tra le ramaglie e si provoca un moribondo tutto umido e magnifico di rugiada e sangue, con odore di fogliame e contemporaneamente di morte.
C'è nella spessa selva un silenzio uguale a quello delle biblioteche, astratto, umido.
A volte si sente lo strombettare degli elefanti selvaggi, o il familiare ululato degli sciacalli. A volte un sparo di cacciatore esplode e cessa, inghiottito dal silenzio, come l'acqua inghiotte una pietra.
Riposano anche, in mezzo alla selva ed invase da lei, le rovine delle misteriose città cingalesi: Anuradhapura, Polonaruwa, Mihintala, Sigiriya, Dambulla. Magri capitelli di pietra sepolti per venti secoli spuntano i loro gusci grigi tra le piante; statue e scalinate abbattuti, immensi stagni e palazzi che sono ritornati al suolo coi loro avi già dimenticati. Ancora vicino a quelle pietre disperse, all'ombra delle immense pagode di Anuradhapura, la notte di luna piena si riempie di buddisti inginocchiati e le vecchie preghiere ritornano alle labbra cingalesi.
La tragica roccia Sigiriya viene ai miei ricordi mentre scrivo. Nello spesso centro della giungla, un immenso e ripido dorso di roccia, accessibile solamente per insicure, rischiose gradinate intagliate nella gran pietra; e nella sua altezza le rovine di un palazzo ed i meravigliosi affreschi di Sigiriya, intatti nonostante i secoli. Millecinque cento anni fa un re di Ceylon, parricida, cercò asilo contro suo fratello vendicatore nella cima della terribile montagna di pietra. Lì alzò allora, alla sua immagine e somiglianza, il suo castello isolato e di rimorso. Con le sue regine ed i suoi guerrieri ed i suoi artisti ed i suoi elefanti, si arrampicò e rimase nella roccia per venti anni, fino a che suo fratello implacabile arrivò a distruggerlo.
Non c'è nel pianeta posto tanto desolato come Sigiriya. La gigantesca roccia colle sue tenui scalinate intagliate, interminabili, e le sue guardiole già per sempre deserte di sentinelle; sopra, i resti del palazzo, la sala di udienze del monarca col suo trono di pietra nera, e dappertutto rovine della cosa scomparsa, che si coprono di vegetali e di oblio; e dall'altezza, intorno a noi, niente tranne l'impenetrabile giungla, per leghe e leghe, niente, né un essere umano, né una capanna, né un movimento di vita, niente tranne l'oscura, spessa ed oceanica selva.
La Nación, Santiago, 17.11.1929.
Oriente ed Oriente
ORIENTE Y ORIENTE. (Pagine 356-357.) Questa ultima cronaca porta ancora "Wellawatta, Ceylon" come intestazione, e significa che fu scritta prima del trasloco di Neruda a Batavia, dove sbarcò alla fine di giugno da 1930.
Wellawatta, Ceylon [1930].
A me sembra strano che gli scrittori "exotisti" parlino in termini ardenti delle regioni tropicali orientali. Non c'è terra che si presti meno per le effusioni panegiriche o allegoriche. Questi domini richiedono solamente costante conoscenza ed implacabile attenzione. Una gran aria di fuoco, di abbaglianti vite vegetali ha ridotto l'uomo ad un stato minuscolo. In India l'essere umano fa parte del paesaggio, e non c'è discontinuità tra lui e la natura come nell'Occidente contemporaneo. Le grandi epoche culturali dell'Oriente intermedio o bramanico, non distruggono la radice dell'uomo né soppiantano la sua florescenza come lo fece il cristianesimo, si alzano piuttosto come grandi pareti monumentali, senza grande attinenza con i dolori dell'essere, ma bensì con poderoso tributo al mistero circostante.
È esistito sempre un remoto passato dietro i culti e cerimonie dell’Est, e questo passato rimane vivo e carico di influenze. Gli dei sono, dunque, solo una casta superiore scomparsa, ma agendo ed ordinando da quell'attivo passato, come una città invisibile ma prossima, popolata di esseri puramente direttivi. Il potere li riempie di veleni infernali, come succede nell'umanità, tali dei sono sessuali e sanguinanti.
Sì: il tempo soltantoo può costruire idoli, e il remoto è direttamente divino. Origine e perpetuità sono antagonistiche virtù, l'essere originale è ancora sommerso nello spontaneo, nel creativo e distruttivo; mentre le vite persistenti sopravvivono abbandonate, senza potere di principio o di fine. Senza perdersi, e perdendosi, torna l'essere alla sua origine creativa, "come una goccia di acqua marina torna al mare", dice il Katha Upanishad. Partecipare alla cosa divina, ritornare a quell'attività infrangibile: non è questo un germe di impossibile e di fatali oscurità dottrinarie?
Così, dunque, come improvvisamente ferito per queste distanze opprimenti, l'uomo è caduto riducendo le sue intelligenze individuali ed accrescendo le sue forze istintive, spaventato davanti ad una possibile evasione o scintillio creativo che attraesse nuovi conflitti e disordine alla sua esistenza. Le società indù sono un decomposto detrito, ma la sua decomposizione è naturale, vegetale ed animale: fermentazione, riproduzione e morti.
In contrasto, niente di più frenetico, grandioso e crudele che i dei; e è esasperante vedere nei templi indù i bramini incaricati che, miserabili ed oscuri, strisciano sotto alle idolatrie sovraumane, sotto le enormi porte e colonne di pietra. Il passato li ha morsi nel cuore, facendoli insignificanti.
Di lì quell'apparenza repulsiva delle società indiane. Il nome non ha assunto il divino, come il moderno occidentale, ma l'ha lasciato completamente agli dei, in una tragica divisione del lavoro mortale.
Io non ho difficoltà per scrivere sull'India e sulla Birmania e Ceylon, perché molte cause ed origini mio appaiono nascosti e molti fenomeni ancora inspiegabili. Tutto sembra in rovine e per rompersi, ma in realtà forti legami elementari e viventi uniscono queste apparenze con vincoli quasi segreti e quasi imperituri.
La Nación, Santiago, 3.8.1930