Menu principale:
NERUDIANA DISPERSA - vol. II (1922-1973)
Riflessioni da Isla Negra - (1968-1970)
In questa sezione ho raggruppato i testi che Neruda pubblicò ogni quindici giorni per due anni esatti, dal 24.4.1968 al 1.4.1970, nella rivista Ercilla di Santiago. Delle 52 consegne ne mancano due. Esse corrispondono a due anticipazioni di poemi del libro Fin de mundo: "Datos para la marejata del 25 de julio" (che passò al libro con la titolo "Mareggiata nel 1968. Oceano Pacifico"), in Ercilla, num. 1730 del 14.8.1968; e "La puerta", in Ercilla, num. 1780 del 10.7.1969. Entrambi i testi nel volume III di queste OCGC *, pp. 407 e 395 rispettivamente. Invece ho anteposto alla serie l'articolo " Búsqueda de Vicente Huidobro”, editi due mesi prima (7.2.1968, nella stessa rivista) perché sicuramente fu quello che ispirò a Neruda l'idea di una collaborazione regolare.
Ricerca di Vicente Huidobro
Mi raccontano che in questi giorni sono passati venti anni dalla morte di Vicente Huidobro. Io non lo sapevo. Non fui mai suo amico. E la vita letteraria ci separò con crudeltà.
Credo che si faccia imperioso il mio dovere verso la sua poesia.
Quello che più mi sorprende nella sua opera riletta è la sua diafanità. Questo poeta letterario che seguì tutte le mode di un'epoca aggrovigliata e che si propose di ignorare la solennità della natura, lascia passare attraverso la sua poesia un costante canto di acqua, una voce di aria e foglie ed una grave umanità che si impadronisce completamente dei suoi penultimi ed ultimi poemi.
Dagli affascinanti artifici di una poesia francesizzata fino alle poderose forze dei suoi versi fondamentali, c'è in Huidobro la lotta tra il gioco ed il fuoco, tra l'evasione e l'immolazione. Questa lotta costituisce un spettacolo: si realizza in piena luce e quasi in piena coscienza, con una chiarezza abbagliante. Considero Vicente Huidobro come un poeta fisico della nostra lingua, e ci pervade questa corrente che non ha conclusione, questa corrente interminabile di chiarezza. Non c'è poesia tanto chiara come la poesia di Vicente Huidobro.
Come la maggioranza della sua prosa pecca della sua persona, del suo giocherellare personalismo, la sua opera poetica è un specchio nel quale si succedono le immagini della delizia pura o il fuoco del suo proprio sacrificio. Perché a me sembra che Huidobro si consumi nel suo proprio gioco e nel suo proprio fuoco. Malgrado la sua intelligenza poetica sia la chiave della sua lucentezza, ebbe forse predilezione per inventarsi un libro di aneddoti personale che finì per opprimerlo e seppellirlo. Per fortuna, la sua poesia salverà il suo ricordo, ricordo che continuerà a crescere in profondità ed in spazio.
L'originalità preoccupò il poeta Huidobro in forma ossessionante durante la sua vita. Un'originalità di esistenza e di pensiero. Tuttavia, calmatesi le dicerie della sua epoca, non saranno tali qualità quelle che lo distinguono. Questa preoccupazione porta spesso agli scrittori a trasformarsi nella caricatura di se stessi. Rileggendo Huidobro ci rendiamo conto che le sue posizioni arroganti, sparendo con la sua vita, non ruppero la sua trasparenza. La moltitudine dei suoi versi continua ad avere una freschezza che sembravano non avere, perché nacquero forse come elaborati per l'intelligenza. Ora vediamo rugiada in essi, come se fossero erbe mattutine.
Molto deve preoccuparci che un poeta della sua dimensione e della sua qualità si affermi nel patrimonio nazionale. Io ho proposto un monumento per lui, vicino a Rubén Darío, ma i nostri governi sono parchi nell’erigere statue ai creatori e prodighi in monumenti insensati.
Non potremmo pensare a Huidobro come un protagonista politico, nonostante le sue veloci incursioni nel campo civile. Ebbe verso le idee inconseguenze da bambino viziato. Ma tutto questo rimase dietro al polverone, e saremmo inconerenti noi stessi se cominciassimo ad inchiodarlo con spilli a rischio di deteriorare le sue ali.
Tuttavia, per me, i suoi poemi alla Rivoluzione di ottobre ed alla morte di Lenin sono parte fondamentale del contributo di Huidobro al grande risveglio umano.
Nei suoi ultimi anni Huidobro tentò di riannodare e migliorare la relazione che avemmo brevemente quando poco tempo fa tornò per la prima volta dall'Europa. Io, ferito per le incidenze della guerriglia letteraria, non accettai questo avvicinamento. Mi sono pentito molte volte della mia intransigenza. Carico dei miei difetti provinciali come qualunque mortale. Non mi incontrai con lui in quei giorni, né lo incontrai dopo. Da allora solo ho continuato il dialogo con la sua poesia.
Ercilla, num. 1703, 7.2.1968.
Scarabeo disperso
ESCARABAGIA DISPERSA. (Pagine 157-158.) Nel testo di Ercilla, Neruda ricordava «una piccola elegia "Ad un scarabeo che inavvertitamente schiacciai coi piedi"», dove la memoria gli funzionò solo a metà. Il testo, col suo vero intitolo («Elegía de un pobre grillito que mataron mis pies»), nel volume IV di queste OCCC*, p, 203. - L' otro pequeño poema (altro piccolo poema) al quale fa allusione nel secondo paragrafo è "un escarabajo», in OCCC, vol. III, pp. 372-373.
Nella mia infanzia a Temuco scrissi una piccola elegia "ad un povero piccolo grillo che ammazzarono i miei piedi." Di là parte un grosso libro che è in possesso di mia sorella Laura e che contiene i miei esecrabili primi versi. Di quando in quando qualcuno li scopre e li pubblica dandomi pugnalate retrospettive.
Ora l'ho notato scrivendo a Punta del Este un altro piccolo poema, per niente elegiaco, bensì piuttosto elettrico, ad un altro scarabeo, che trovai lì tra le radici delle pinete. Era di una famiglia differente e con un corno verso l'alto, come una minima fiera di un'altra età zoologica. Non lo identificai. Ma niente di strano che non lo conoscessi, poiché gli entomologi pretendono di classificare la totalità dei coleotteri in trecentomila specie. Probabilmente si sbagliano, perché ci saranno sempre più coleotteri, perché sono tanto duri, tanto enigmatici e tanto belli che il mondo sarebbe incompleto senza al loro moltitudinaria presenza. E benché Leonov non me lo dicesse quando passò per la mia casa di Isla Negra, sono sicuro che vide la Terra da lontano come se fosse un gran coleottero, azzurro e volante.
In quelli boschi del Sud che furono già assassinati a vista e pazienza dei nostri governatori, mi affascinò scoprire la silenziosa vita degli insetti, sotto a pietre grandi o tronchi caduti, quando non a cavallo su una corolla o allenandosi in un pantano.
Lì imparai a venerare e temerci i carabi dorati o peorro. Snelli ed ovoidali, con l'abito più elegante della selva, alcuni vanno vestiti di carminio aureo, altri di smeraldo dorato, altri di zaffiro giallo. Ma tutti, pretendendo di raccoglierli per la mia scatola collegiale, mi fecero retrocedere vari metri lanciandomi una esemplare pestilenza.
Le madri degli insetti (Ancistrotus cumingi), da sette ad otto centimetri, addossato ferrugginosamente agli antichi alberi, mi diedero la soddisfazione di raccoglierli con facilità, nonostante la loro evidente grandezza. Il mio problema era mantenerli vivi nella scatola traforata, tirandoli foglie macinate e pezzetti di legno. Arrivai ad avere un minuscolo gregge di essi: sono stato un pastore singolare di coleotteri.
Ma il più legato alla mia vita nella frontiera fu il nostro meraviglioso cervo volante (Chiasognathus granti Steph). Questa bizzarra bestia avvolta in giada dura ci stupisce con la sua cornatura verde ed il suo fulgore brunito. Gioiello dei boschi, raggiante bellezza che andò via o andrà via con la selva sacrificata.
È certo che scrissi, dopo cinquanta anni, alcuni versi col tema remoto, quelli che questa volta non ebbero la fortuna di essere seppelliti nell'album di mia sorella.
Giusto finendo di scriverli si interruppe il mio lavoro-riposo in Punta del Este. Mi avevano scoperto i giornali. Quando alzai lo sguardo, contento dei miei versi al piccolo ed insolito scarabeo, vidi avanzare verso me ad un essere umano che mi guardavo dal posto che doveva occupare la sua testa. I suoi occhi erano due strane protuberanze formate per spessi vetri del suo teleobiettivo. Mi spaventai. Sembrava uno scarabeo. Le antenne di questo invasore ci ritrassero profusamente, tanto al mio tema poetico, che si difendeva con le sue numerose zampe, come me, indifeso protettore e cantore di scarabei.
Isla Negra, aprile di 1968
Ercilla, num. 1174, 24.4.1968.
Peorro = Ceroglossus chilensis chilensis
Ramón
RAMÓN. (Pagine 159-161.) Toda su obra es su auitomoribundia (Tutta la sua opera è il suo automoribondo). Giocherelloni neologismi come questo automoribundia, in linea con l'otoñabundo che aveva Estravagario) o varianti ludiche come quello temuquesina di "Escarabagia disperso", spunteranno con una certa frequenza in queste cronache, ritornando così - in chiave ludica - all'affanno di neologismi dell'adolescente Neftalí Reyes nei suoi quaderni (vedere volume IV di queste OCGC).
Ramón
Scrivo in Isla Negra,
costruisco
lettera e canto.
Il giorno era rotto
come l'antica statua
di una dea marina
appena estratta dal suo letto freddo
con lacrime e melma,
e vicino al movimento
scopritore
del mare e delle sue sabbie,
ricordai i lavori
del Poeta,
l'insistenza raggiante della sua schiuma,
l’arrivo del vento dalle sue onde.
Ed a Ramón
dedicai
i miei inni mattutini,
la biscia
della mia calligrafia,
affinché quando
esca
della sua prolissa torre di carpincho
riceva la serena
grandezza di una raffica del Cile
e che brilli al mago il cartoccio
e si spargano tutte le sue stelle.
Frammento di "Oda a Ramón Gómez de la Serna",
in Navegaciones y regresos, OCGC, II, p. 823.
Carpincho o capibara = Hydrochoeris hydrochaeris (Linnaus 1766)
è il roditore di maggiori dimensioni attualmente esistente.
La Spagna è un paese di scopritori perduti, di inventori ignorati. Lo spagnolo non nasce ee non in Spagna, e questo per ragioni prenatali, di volontà anteriore, o perché lo respinsero in tutte le terre e non dovette altro rimedio che arrangiarsi per nascere lì. Ci sono pochi spagnoli che si sbagliarono di nascita, ed uno di essi fu lo spagnolo Don Cristóbal che non riuscì ad arrivare al Levante spagnolo, dove era indicato che nascesse. Già deciso questo punto, lo spagnolo si dà alla difficile professione di esserlo, con tutti i pori, con l'allegria tragica che ha sostentato la Spagna.
Così, dunque, questo paese tanto serio non prende sul serio i suoi rappresentanti, e questi fanno il giro del mondo fino a che dopo morti gli si insegna da fuori la loro statura.
Penso che come a Gaudí ed a Picasso, senza andare più lontano nella storia del pentimento, torniamo a trovare il caso nel poderoso ingegno chiamato Ramón Gómez de la Serna.
Esistono quegli uccelli che depositano le loro uova in lontani nidi, ed i movimenti della cultura prendono a volte quell'aspetto demoniaco. Della commozione dadaista rimase solo una grande opera. L'uovo di dove uscì a volare l'Ulysses si aprì a Dublino, lontano da Zúrich e Parigi, e l'uccello grandioso inzuppò le sue ali nelle foschie ritardate, nei vicoli ed angoli irlandesi.
Così anche la gran figura del surrealismo, tra tutti i paesi, è stato Ramón. È verità che supera tale scuola, perché è anteriore e posteriore, e perché il suo volume abbondante non entra ancora in una scuola di tanti piani.
Questo spagnolo che non è stato ancora preso sul serio, è quello che rovina senza acredine il Parnaso repubblicano, tanto pieno di scrittori raffinati.
La rivoluzione di Ramón non è una scaramuccia, è una battaglia di fondo che ci rivela il valore vero, l'erario della lingua. Con quella salute di villano dette tali colpi di pala nell'alba oscura che tutto cominciò a risplendere, e ho per me che è oro tutto quello che risplende e quello che non risplende in Ramón.
Tutta la sua opera è il suo modo di morire. Nonostante la cosa sgranata che sembra, è ferramente unita dalla luce spettrale dell'inventario. Aprì Ramón tutti i cassetti del mondo e andò catalogando le cose e gli esseri, i più straccioni ed i più eminenti, e col suo inchiostro battesimale inaugurò di nuovo il mondo. Ma questo mondo, che sembrava intrasferibile per lo spagnolo e per il personale, è risultato ereditario, come il regno di un gran re.
La nostra lingua continuerà a contare sulle sue invenzioni ed i suoi aforismi, con le sue invocazioni a lutto, alle uniche a cui accorre Il Greco, all'atletica ginnastica con cui deumidificò l’ossatura grammaticale affinché la lingua assumesse gli autentici colori del delirio.
Attenzione, tuttavia! Perché ci sono tanta verità e tanta ragione nel via vai monumentale di Ramón, che a poco a poco si andranno scoprendo le sue verità e ragioni.
Come poeta americano, colonizzatore di altre terre dove ci sono più fiumi ed alberi che persone e personaggi, mi concedo io l'onore di parlare di Ramón per incitare alla sua continua scoperta, a convivere coi suoi doni favolosi.
Non so perché lo faccio. Forse per un appassionato dovere.
Ercilla, num. 1716, 8.5.1968.
Sonata con ricordi
In questi giorni e da qualche parte lessi una cronaca scritta a Parigi dal nostro Jorge Edwards. Lì si dice, a proposito di un anniversario, che Debussy sarebbe il personaggio descritto da Marcel Proust come Vinteuil. Quella sonata sarebbe, dunque, debussiniana di nascita.
Penso che forse Jorge Edwards si sbaglia.
Naturalmente nessuno è interamente nessuno e tutti sono quacuno nella creazione immaginativa e creativa. Un solo personaggio contiene molti altri. Benché per niente romanzesco, io penso che deve essere così attraverso la mia propria esperienza poetica. Le sensazioni si incrociano, i crepuscoli dell'alba e della notte si scambiano ed i nomi, come sacchi vuoti, cambiano di peso nel filo del tempo.
Ma io mi sento tanto legato a quella musica, a quell'unica musica, che devo spiegare e spiegarmi.
Io vissi con quella sonata.
Non lessi mai con tanto piacere e tanta abbondanza come in quello sobborgo di Colombo in cui vissi solo per molto tempo fino a che quell'apparizione musicale, tanto decisa e dolente, venne ad accompagnarmi. Io avevo un amico, lontano dalla città, Lionel Wendt, pianista, che tra altre cose mise nei suoi concerti per la prima volta nell'Asia, con le melodie di Allende, la musica cilena. Come io arrivavo a Ceylon tanto avido di conoscere i libri inglesi, egli si incaricò di prestarmeli in continua successione. E così arrivava settimanalmente al mio bungalow in Wellawatta, nella solitaria rotta verso Mount Lavinia. Li portava in un sacco di patate tutti i sabati un ciclista. In quei sacchi si ammucchiavano Compton Mackenzie con D.H. Lawrence, Michael Arlen (The Green Hat)] col Point Counter Point, di Aldous Huxley, o i versi di T.S. Eliot appena usciti a Londra, o il Farewell to Arms del giovane Hemingway.
Ma di quando in quando tornavo a Rimbaud, a Quevedo o Proust. Un amore di Swann mi fece rivivere i tormenti ed i temporali, gli amori e le gelosie della mia adolescenza. E compresi che in quella frase della sonata di Vinteuil, frase musicale che Proust chiamò "aerea ed odorosa", non solo si assapora la descrizione più squisita dell'appassionante suono, ma anche una disperata misura della passione.
Il mio problema in quelle solitudini fu trovare quella musica e sentirla. Con l'aiuto del mio amico musicista e musicologo investighiamo fino a sapere che il Vinteuil di Proust fu formato forse per Schubert e Wagner e Saint-Saéns e Fauré e D'Indy e César Franck. La mia indegna cattiva educazione musicale mi mantenne ignorante di quasi tutti questi musicisti. Le loro opere erano scatole assenti o chiuse. Il mio orecchio non riconobbe mai se non le melodie più evidenti, e quello, con difficoltà.
Finalmente, avanzando nell'indagine, più letteraria che sonora, ottenni un album coi tre dischi della sonata per piano e violino di César Franck. Non c'era dubbio, lì stava la frase di Vinteuil. Non ci poteva essere nessun dubbio.
La mia attrazione era stata solo letteraria. Proust, il più grande realista poetico, nella sua cronaca critica di una società agonizzante che amò ed odiò, si trattenne con appassionata compiacenza in molte opere d'arte, quadri e cattedrali, attrici e libri. Ma benché la sua chiaroveggenza illuminasse quello che toccava, reiterò l'incantesimo di questa sonata e la sua frase rinascente con un'intensità che non dette forse ad altre descrizioni. Le sue parole mi condussero a rivivere la mia propria vita, i miei lontani sentimenti perduti in me stesso, nella mia propria assenza. Volli vedere nella frase musicale il racconto magico letterario di Proust Ed adottai o fui adottato dalle ali della musica.
La frase si arrotola nella gravità dell'ombra, diventando rauco, aggravando e dilatando la sua agonia. Sembra edificare la sua angoscia come una struttura gotica che le volute ripetono portate dal ritmo che eleva senza cessare la stessa freccia. L'elemento nato dal dolore cerca un'uscita trionfante che non rinnega nell'altezza la sua origine sconvolta dalla tristezza. Sembra attorcigliarsi in una patetica spirale, mentre il piano oscuro accompagna una ed un'altra volta la morte e la resurrezione del suono. L'intimità ombrosa del piano dà una ed un'altra volta alla luce la serpentina nascita, fino a che amore e dolore si imparentano nell'agonizzante vittoria.
Non c'era nessun dubbio per me che questa era la frase e la sonata.
L'ombra brusca cadeva come un pugno sulla mia casa persa tra le palme da cocco di Wellawatta, ma ogni notte la sonata viveva con me, conducendomi ed avvolgendomi, dandomi la sua perpetua tristezza, la sua vittoriosa malinconia.
I critichi che tanto ha castigato i miei lavori non hanno visto fino ad ora questa segreta influenza che qui va confessata. Perché lì in Wellawatta io scrissi gran parte di Residencia en la tierra. Benché la mia poesia non sia "odorosa né aerea", bensì tristemente terrena, mi sembra che quelli temi, tanto ripetutamente a lutto, abbiano a che vedere con l'intimità retorica di quella musica che convisse con me.
Molte volte pensai nella mia ignoranza del musicista che accumulò per noi quelli magici dolori. Si tratta, senza dubbio, di César Franck, della sua vita dolorosa e della sua opera, che predomina in Proust su Saint-Saéns e su Gabriel Fauré, questo ultimo il suo grande amico. Dice Proust:
Et la pensée de Swann se porta pour la premiére fois dans un élan de pitié et de tendresse vers ce Vinteuil, vers ce frére inconnu et sublime qui lui aussi avait du tant souffrir; qu'avait pu étre sa vie? au fond de quelles douleurs avait-il puisé cette forcé de dieu, cette puissance illimitée de creer?
(À la rechercbe du temps perdu. Du côt de chez Swann.)
Anni dopo, già di ritorno in Cile, mi trovai in un dibattito, insieme ai giovani, ai tre grandi della musica cilena. Fu, credo, nel 1932., in casa di Marta Brunet. Claudio Arrau conversava in un angolo con Domingo Santa Cruz ed Armando Carvajal. Mi avvicinai a loro, ma appena mi guardarono. Continuarono a parlare imperturbabilmente di musica e di musicisti. Tentai allora di fare effetto parlando loro di quella sonata, l'unica che io conoscevo.
Mi guardarono distrattamente e da sopra mi dissero: "César Franck? Perché César Franck? Quello che devi conoscere è Verdi." E proseguirono nella loro conversazione, seppellendomi in un'ignoranza dalla quale non esco ancora.
Ercilla, num. 1718, 22.5.1968.
* in francese nel testo:
Ed il pensiero di Swann si porta per la prima volta in uno slancio di pietà e di tenerezza verso questo Vinteuil, verso questo fratello sconosciuto e sublime che anche lui aveva tanto da soffrire; che aveva potuto essere la sua vita? in fondo a quali dolori aveva attinto questa forza da dio, questo potere illimitato di creare?
La "Esmeralda" a Leningrado
L'Esmeralda è arrivata! L'Esmeralda è arrivata!
Escono facce dalle finestre delle cucine, i fuochisti spuntano la testa dalle loro maestranze, i bambini corrono come se la primavera arrivasse, vecchi signori con barba, bastone e pantaloni rigato si soffermano. Tutti guardano verso un punto. Escono dalle loro tane tutti gli abitanti segreti, tutta la gente invisibile, le cinquanta colline del porto guardano verso un solo punto. Tutti gli occhi di Valparaíso, ancge quelli che non ebbero tempo di guardare i fiori e le stelle, guardano nello stesso momento: è un punto bianco che si va ingrandendo, è una colomba che continua a crescere, è un veliero come una rosa bianca, è l'Esmeralda.
Per comprendere il mio paese bisogna conoscere l'Esmeralda.
Il Cile è un paese montagnoso, alto, pieno di asperità e di vertiginosi abissi. I minerali intricarono di rame e ferro le altezze. Sopra ad esse vive la neve bianca. Il Cile è un balcone titanico e stretto. Le cordigliere ci respingono. Noi cileni ci mettiamo in fila per vedere il nostro mare, le spazio iracondo, le onde dell'oceano. Ed in questa dura grandezza, l'Esmeralda è il nostro lusso, è la pietra lunare del nostro anello marino.
Avemmo prima altre barche che portarono questo nome. Furono barche eroiche o transitorie: il nome sussisterà non solo per il suo ricordo: lo seguiranno portandolo i vascelli più begli, perché è una parola di colore verde.
Ma è l'ultimo il più bello, il migliore.
Da quando lord Cochrane, lo scozzese portentoso, liberò con equipaggi cileni questi mari del Sud, i cileni videro farsi una grande strada: quella verso il mare. L'impero spagnolo aveva messo lucchetti alle porte dell'oceano: i catenacci caddero fulminati nelle azioni di Callao e Valdivia. Il commercio assunse le sue bandiere di pace. Aspettiamo e facciamo partire in Valparaíso tutte le imbarcazioni del mondo.
Il mare Pacifico! Onore del pianeta! Immensità misteriosa!
Volemmo che il mare si riempisse di infinite rotte, che tra i benvenuti e gli addii cambiassero di posto fiori e minerali, canzoni e macchinari, speranze e cereali. Le esplosioni della guerra, le battaglie navali, sembrarono fugaci, sparirono tra le onde immense. I bombardamenti atomici rimasero come cicatrici nella nostra coscienza, ma l'oceano stesso li lasciò sommerse. È che questo oceano è profetico e comunicativo, vuole avvicinare le distanze, vuole nuove imbarcazioni, civiltà, rivoluzioni, idee, linguaggi che si comunichino e si moltiplichino.
In questi nostri momenti piccola imbarcazione bianca scivola con le vele gonfie per il ferreo vento baltico. Si avvicina a Leningrado, la città più bella del Nord, con la statua di Pietro il Grande nel suo posto centrale, e l'immagine di Lenin nel cuore e nelle fabbriche.
I nostri ragazzi scenderanno verso la Prospettiva Nevskij, tra le ombre di Dostoyevski e di Pushkin. Vedranno i più begli quadri del mondo ed i gioielli degli imperatori nell'Ermitage. Saliranno su una barca più piccola dell'Esmeralda ed i cui cannoni aiutarono a cambiare la storia il mondo. Si chiama Aurora, questa piccola barca, e quando la visitai, già molti anni fa, il suo capitano contribuì al mio orgoglio perché conosceva i miei versi.
Celebro questo arrivo dell'Esmeralda ai porti sovietici.
Alcuni si tratterranno anche per strada, vecchi abitanti che resisterono la fame ed il freddo durante il momento memorabile, bambini che respirano l'aria spaziosa dell'umanità nascente. Essi guarderanno e penseranno alla mia patria lontana, situata tra i più alti minerali ed i più profondi precipizi del mare. Vedranno che tutte le strade arrivano a percorrersi, e che il fiorito mese di maggio della Russia ha comunicato con noi attraverso la nostra barca primaverile. E quando ritorni l'Esmeralda e si popolino gli occhi di Valparaíso per scorgere la rosa bianca che ritorna dai mari, vedremo nella sua prua e nei suoi grandi petali bianchi una nuova dimensione nell'amicizia e nella conoscenza dei popoli.
Ercilla, num. 1720, 5.6.1968.
Una gamba per Fernand Léger
UNA PIERNA PARA FERNAND LÉGER. (Pagine 167-170.) Un'altra caratteristica della postmodernità nerudiana, a partire da Estravagario), fu l'abbandono del trattamento epico della storia dell'America Latina e la sua parziale sostituzione con modulazioni minimaliste (come in "Ia insepulta di Paita" di CCM), oppure ironiche o comiche, come in questa cronaca. Non era una tendenza isolata o peculiare. Il trattamento non-epico e, a volte, perfino non-serio (ludico, ironico o comico) della storia ispano-americana sarà frequente, se non dominante, nella letteratura della seconda metà del secolo XX, per esempio i romanzi Cien años de soledad, El general en su laberinto. Del amor y otros demonios (García Márquez), Historia de Mayta, La guerra de fin del mundo (Vargas Llosa), Casa de campo (José Donoso), o nel minimalismo di Eduardo Galeano in Memoria del fuego.
La distanza rispetto all'ottica di Canto general o di Las uvas y el viento la marca Neruda quando scrive verso il fine di questa cronaca: “Disgraziatamente la moltitudine, tante volte equivocata, non mancò di sbagliarsi questa volta."
Il generale Santa Anna, messicano, fu un guerriero fortunato, un soldato del popolo.
Gli toccò guerreggiare in quelle interminabili scaramucce, cavalcate, ammutinamenti, accoltellamenti che si abbuffano nella storia del Messico. Al generale toccarono combattimenti in terre secche ed spinose della frontiera. Molte delle sue azioni sono miracolo, sangue e leggenda, perché il Messico dà tale splendore alla sua storia che i taumaturghi ed i minotauri germogliano come apparizioni vulcaniche che si trasformano dopo in raffinate medaglie.
Certo è che Santa Anna stette nei combattimenti tra messicani e gringo e nei quali invasori ed invasi arrivarono ad avere equanimità di vittorie. Ma finalmente il mostro nordamericano finì per inghiottire in varie operazioni grandi appezzamenti territoriali del Messico pulito e feroce.
Orbene, una palla di cannone, di quelle grandi palle antiche che si precipitavano con dedica, spezzò in piena battaglia un ginocchio del generale. Il chirurgo militare dispose l'amputazione della gamba. E bisogna pensare a quelle guerre del secolo scorso, a quei climi divoratori, al febbricitante generale alla luce delle lucerne, mentre gli segavano le ossa sotto la trasparenza delle stelle, in mezzo al coro selvatico diretto dalle cicale esorbitanti e rigato dalle fosforiche lucciole.
Il generale Santa Anna, a forza di forza e per la fortuna della fortuna, stava al culine del suo destino. Ed in quella cima prometeica il destino gli strappava una gamba in una beccata. Le sue armi lo avevano fatto dittatore, e gli adulatori che come funghi champignon germogliavano sotto gli ahuehuete di Chapultepec gli conferirono il titolo di Altezza Serenissima. Ho visto ritratti di quel tempo, ritratti in cui Sua Altezza mostra una nazarenica barba ed un sguardo di occhi scuri di corvo. Senza dubbio brillava in lui quella maestà che i confabulati del culto conferiscono in ogni epoca alla personalità di predatore che comanda più degli altri. Lì, dunque, in quei crocevia, ai piedi di montagne crudeli, tra l'odore di sangue appena versato e polvere da sparo bruciata, a Sua Altezza Serenissima e per mano del chirurgo fu tagliata una gamba che cominciava a incancrenirsi. È quasi sicuro che resistette senza anestesia e sopravvisse all'amputazione quel soldato colossale. E quando già si scartava il pericolo di morte, sopravvenne una battaglia inaspettata ed insolita.
Il chirurgo stava per gettare nel mucchio della spazzatura quello membro mozzato quando qualcuno, un politico, lo impedì, dicendolo: "Va lei a gettare così questo frammento del corpo della Sua Altezza?." Forse risponderebbe il medico: "Che cosa vuole che faccia di esso?." "Questo merita riflessione", assentirono gli accoliti. Questa gamba seguì innumerabili gesta, compì incursioni in territorio nemico e conquistò tanti allori come il resto del corpo del generale. Bisogna avere più rispetto.
Siccome la discussione tra scientifici e cortigiani si prolungava e sembrava non finire, il chirurgo decise di mettere la gamba in un fiasco di alcool sperando che la luce del nuovo giorno mettesse d’accordo i disputanti.
Ma si complicarono le cose.
Le notizie propagate con eccessiva rapidità divisero apparentemente i cittadini. Si formò il partito della gamba ed un contropartito più sensato, ma meno entusiasta. Case editrici di giornali di Chihuahua e di Tehuantepec chiamavano i patrioti ad ostacolare l'insolenza: quell'estremità era sacra, tanto sacra come la barba o il pensiero militare del dittatore. Gli antigamba, da parte loro, avevano perso la fede nelle barbe da quel momento in cui il generale aveva imposto alle sue guardie di palazzo l'uniforme medievale delle guardie svizzere del Vaticano. Siccome queste nuove guardie svizzere erano indio imberbi, con le uniformi si importarono anche barbe profuse. Forse quelle barbe introdussero nuovi motivi di scherzo e sfiducia agli iconoclasti. La cosa certa è che il partito antigamba sembrò guadagnare terreno in alcuni province.
Tuttavia, prevalse l'ortodossia, la scienza fu sconfitta e si ordinò il primo monumento funebre ad una gamba.
Stupendi artigiani fecero in ceramica la storia e le imprese dell'estremità del generale. Il mosaico così prodotto coprì il monumento piramidale. Ed arrivato il giorno e l'ora della sepoltura un imponente corteo avanzò per le strade della città.
Sette bande con tromboni e trombe anticipavano le esequie. Dopo dei draghi montati su destrieri bianchi, su un affusto foderato di broccato ed oro andava l'augusta gamba. Più dietro, in silenzio, la carrozza della Sua Altezza Serenissima precedeva i gruppi ministeriali, diplomatici, clericali, alcaldici e fiscali che obbligatoriamente partecipavano alla cerimonia.
Parlò il ministro della Guerra facendo il panegirico della gamba. Quindi il decano del corpo diplomatico: l'ambasciatore dell'Inghilterra disse alcune brevi parole senza riferirsi al pezzo anatomico che si immortalava. Fu un esempio di sobrietà.
Ventuno cannonate e marce militari terminarono il singolare funerale. Il popolo, dagli occhi oscuri, senza voce né voto, si disperse senza partecipare a gioie, dolori o cerimonie. Tutto tornò alla normale anormalità.
Passò il tempo ed il popolo dagli occhi oscuri recuperò l'impeto messicano. Si incendiò la sua fiamma iraconda ed un rivoluzione come un fiume straripato inondò, un'altra volta, la vita del Messico. Stanco della tirannia, della miseria e della farsa, irruppe con violenza da tutte le parti. Gli spari suonavano per la capitale e per le province. I cavalieri indossavano le loro cartucciere e partivano veloci.
Verso dove? Disgraziatamente, la moltitudine, che tante volte sbagliava, non smise di sbagliarsi questa volta. Grandi valanghe si precipitarono verso l'antico cimitero dove abbatterono e distrussero l'unico e meraviglioso monumento eseguito in ceramica azteca in onore e gloria di una gamba.
Nel frattempo, la Sua Altezza Serenissima ebbe tempo di scappare, forse a Miami, dove visse più lunghi e felici anni senza una battaglia e con una gamba meno.
*
A Fernand Léger piaceva molto questo racconto. Da tutte le parti mi chiedevo: "Maintenant raconte-nous cette histoire della jambe." * Voleva che io la scrivessi e se ne facesse un balletto. Egli si propose di concepire l'arredamento e gli abiti per questa storia fantastica. Io non la scrissi mai, ma ora che lo faccio, già morto il mio gran amico e gran pittore di Francia, la dedico alla sua memoria.
Ercilla, num. 1722, 19.6.1968.
* in francese nel testo:
“Ora raccontaci questa storia della gamba”
Una signora di fango
UNA SEÑORA DE BARRO. (Pagine 170-172..) /... / "una mona con guitarra" /.., / Nel linguaggio popolare cileno il termine mona allude alla rappresentazione isolata dalla figura femminile (fotografia, caricatura, bambola, scultura).
- Sin mano no existe el hombre, no hay estilo (Senza mano non esiste l'uomo, non c'è stile). Cfr. le varianti di questa formula nel libro Las manos del día, edito in quello stesso 1968, e raccolto nel volume III di queste OCGC.
- Lo creó el escritor Tomás Lago, hace muchos años, en un acto de amor /.../ (Lo creó lo scrittore Tomás Lago, molti anni fa, in un atto di amore). Neruda fece qui un saluto clandestino al caro amico di gioventù, dal quale si era allontanato dieci anni prima perché Lago disapprovò che per Matilde abbandonasse Delia del Carril (cfr. il poema "Por fin se fueron" di ETV).
- el maravilloso bosque chileno es sólo una mancha de lágrimas en mi corazón (ll meraviglioso bosco cileno è solo una macchia di lacrime nel mio cuore). cfr. «El bosque chileno» in apertura di CHV.
Che mi perdoni Marta Colvin, ma la migliore opera scultoria cilena che io conosco è una "scimmia con chitarra", di creta, una delle tante che si sono fatti nell'ombelico mondiale della ceramica: Quinchamalí. Questa signora della chitarra è più alta e più larga delle solite. È difficile l'esecuzione di questo grande volume, mi raccontarono le artigiane, le ceramiste. Quella le fece una contadina di quasi cento anni, che morì molto tempo fa. Risultò tanto bella che viaggiò a New York in quegli anni, e si mostrò nell'Esposizione Universale. Ora mi guarda dal tavolo più importante della mia casa. Io non smetto di consultarla. La chiamo la Madre Terra. Ha rotondità di collina, ombre che danno le nuvole della stagione estiva sul maggese e, nonostante abbia navigato per i mari, conserva il ben conosciuto odore di fango, di fango del Cile.
Mi raccontarono le ceramiste che per il loro lavoro devono mescolare la creta con erbe, e che quello nero puro ed opacizzo dei vasi di Quinchamalí glielo danno bruciando sterco di vacca. Si lamentarono con me di quanto caro che riscuoteva da loro per lo sterco silvestre il padrone dei fondi. Non potei raggiungere mai tanta influenza come per ribassare il prezzo dello sterco di vacca per le sculture di Quinchamalí. E benché sia umilissima questa petizione ai poteri maiuscoli, magari che la Riforma Agraria regali questo prodotto alle trasformatrici del fango con tanta semplicità come lo farebbe una vacca. La verità è che questa nostra ceramica è la cosa più illustre che abbiamo. L'unico regalo che feci a Picasso fu un maialino nero, salvadanaio, giocattolo, aroma di Chillán, creazione dell'insigne ceramista Práxedes Caro.
Con speroni e poncho, con braccialetti di Panimávida, con sirene della Florida, anfore di Pomaire, si alimenta il nostro orgoglio pigro. Perché si producono come l'acqua, si diffondono senza fare rumore, sono arti illustri ed utili, disinteressate ed odorose, che vivono non si sa come, né si sa di che cosa, ma che ci rappresentano in umiltà, in profondità, in fragranza.
Perciò penso che tra i tristi musei di Santiago l'unico incantatore è quello che fa brillare i suoi tesori nel Cerro Santa Lucía. Lo creò lo scrittore Tomás Lago, molti anni fa, in un atto di amore che ha continuato a proliferare in tante belle collezioni riunite. Io stesso andai in terre messicane cercando col geniale Rodolfo Ayala, il pazzo Ayala, per chiese e mercati, palazzi e negozi di rigattieri, oggetti scelti e violenti, che oggi ingrandiscono questo museo della delizia.
Io sono stato appassionato di queste creazioni anonime e mi catalogo, a volte, in quanto alla mia poetica, come vasaio, panettiere o falegname. Senza mano non esiste l'uomo, non c'è stile. Pretendevo purché la mia poesia fosse artigiana, antilibresca, perché perfino i sogni nascono dalle mani. E questa arte popolare che fu conservata ed esposta con orgoglio ed amore nel nostro migliore museo, rivela, oltre i musei storici, che il più vero è il vivente, e che le opere del popolo hanno un'eternità non meno ardente di quelle degli eroi.
La patria è distrutta costantemente. I distruttori stanno dentro a noi. Ci alimentiamo dell'incendio e dell'annichilimento. Le selve caddero bruciate: il meraviglioso bosco cileno è solo una macchia di lacrime nel mio cuore. Le rocce più belle del mondo sono fatte esplodere nel nostro litorale. Ostriche, cozze, pernici, ricci, sono perseguiti come nemici, per estirparli presto, per cancellarli del pianeta. Gli ignoranti dicono delle nostre depredazioni: "Le fece l'indio". Bugia. L'araucano nominò l'albero della cannella re della terra. E non combatté se non gli invasori. Noi cileni combattiamo tutto il nostro e, per sfortuna, il meglio. Non ho sentito mai tanta vergogna come quando vidi nei libri di ornitologia dove rimane indicato l’habitat di ogni specie, una descrizione del pappagallo cileno: "Tricahue. Specie quasi estinta." Non dico qui il posto dove si nascondono gli ultimi esemplari da questo uccello magnifico, per evitare il suo sterminio.
Ora mi raccontano che in questi giorni una scintilla della nostra "rivoluzione culturale" è arrivata fino al Museo di Arte Popolare e pretende di distruggerlo.
Che l'albero della cannella araucana, dio delle selve, ci protegga.
Ercilla, num. 1724, 3.7.1968.
Rispondendo a un'inchiesta
CONTESTANDO UNA ENQUESTA. (Pagine 172-174.) Preparando el nuevo siglo trataré de escribir a la manera de Homero (Preparando il nuovo secolo tratterò di scrivere alla maniera di Homero). Ironizzando sull'attualità di Homero, probabilmente Neruda pensava al suo proprio ritorno all'epica ed alla Storia attraverso il libro Fin de mundo che stava scrivendo.
Si domandi che cosa accadrà alla poesia nell'anno 2000. È una domanda pelosa. Se questa domanda uscisse al passo in un vicolo oscuro mi prenderei uno spavento di padre e signore mio.
Perché che cosa io so dell'anno 2000? E soprattutto, che cosa io so della poesia?
Di quello che sono sicuro è che non si celebrerà la funzione funebre della poesia in quel prossimo secolo.
In ogni epoca hanno dato per morta la poesia, ma questa si è dimostrata centrifuga e sempiterna, si è dimostrata vitalizia, resuscita con gran intensità, sembra essere eterna. Con Dante sembrò finire. Ma poco dopo Jorge Manrique lanciava una scintilla, una specie di sputnik, che continuò a scintillare nelle tenebre. E dopo Víctor Hugo sembrava spianare, non rimaneva niente per gli altri. Allora si presentò correttamente vestito da dandy il signor Charles Baudelaire, seguito dal giovane Arthur Rimbaud, vestito da vagabondo, e la poesia cominciò di nuovo. Dopo Walt Whitman, che speranza!, rimasero già piantate tutte le foglie d’erba, non poteva pestarsi il prato. Tuttavia, venne Mayakovski e la poesia sembrava una casa di macchine: si diedero fischi, spari, sospiri e singhiozzi, rumore di treni e di carri blindati. E così prosegue la storia.
È chiaro che i nemici della poesia sempre pretesero di assestargli una sassata in un occhio o un colpo di bastone nella nuca. Lo fecero in diverse forme, come marescialli individuali, nemici della luce, o reggimenti burocratici che col passo dell’oca andarono contro i poeti. Conseguirono la disperazione di alcuni, la delusione di altri, le tristi rettifiche dei meno. Ma la poesia continuò a germogliare come una fonte o sgorgando come una ferita, o costruendo a mani nude, o cantando nel deserto, o alzandosi come un albero, o straripando come un fiume, o riempiendosi di stelle come la notte negli altopiani della Bolivia.
La poesia accompagnò agli agonizzanti e ristagnò i dolori, condusse alle vittorie, accompagnò i solitario, fu bruciante come il fuoco, leggera e fresca come la neve, ebbe mani, dita e pugni, ebbe germogli come la primavera, ebbe occhi come la città di Granada, fu più veloce dei proiettili diretti, fu più forte delle forze: mise radici nel cuore dell'uomo.
Non è probabile che cominciando l'anno 2.000 i poeti siano a capo di un'insurrezione mondiale affinché si ripartisca la poesia. La poesia si ripartirà come conseguenza del progresso umano, dello sviluppo e dell'accesso dei popoli al libro ed alla cultura. Non è probabile che i poeti arrivino a giudicare o a governare, benché alcuni di essi lo stiano facendo, alcuni molto cattivo ed altri meno male. Ma i poeti saranno sempre buoni consiglieri ed attenti a ignorarli. Molte volte i governi hanno comunicazioni pubbliche coi loro popoli. La poesia ha comunicazione segreta con le sofferenze dell'uomo. Bisogna sentire i poeti. È una lezione della storia.
È probabile che nell'anno 2000 il poeta più innovativo, più alla moda da tutte le parti, sia un poeta greco che ora nessuno legge e che si chiamò Onero.
Io sono di accordo e con questo fine comincio a leggerlo di nuovo. Cerco la sua influenza, dolce ed eroica, le sue maledizioni e le sue profezie, la sua mitologia di marmo ed i suoi pali di ciechi.
Preparando il nuovo secolo tratterò di scrivere alla maniera di Omero. Non mi starà male un stile tanto favoloso e tanto inzuppato del mare illustre.
Quindi uscirò con alcuni bandiere di Ulisse, re di Itaca, per le strade. E siccome i greci saranno già usciti dalle loro carceri, mi accompagneranno anche per dare le norme del nuovo stile del secolo XXI.
Ercilla, num. 1726, 17.7.1968.
Addio a Tallone
Da Alpignano, vicino a Torino, mi scrive Bianca: "Il nostro Alberto non riuscì a leggere la tua lettera, né ad imprimere il tuo nuovo libro. Due mesi fa se ne andò via per sempre". Alberto Tallone, stampatore, dovette imprimere la prosa di Leonardo da Vinci e viaggiò alla regione di Leonardo, per sentirlo e viverlo. Lì vide passare Bianca, tra campi e strada, per un istante la trovò tanto leonardesca che la seguì immediatamente per esprimerle il suo amore. Si sposarono lì stesso alcuni giorni dopo.
Ho passato giorni felici in quella casa italiana tra Alberto stampatore e Bianca stampanttrice.
La stampa era lì essa stessa, larga e chiara, montata come quella di Gutenberg per il lavoro manuale, per la dimostrazione illustre della tipografia.
Io mi sentii onesto e onorato perché qualcuno dei miei libri fu stampato da quello che considero maestro moderno della tipografia. Ed anche perché forse scelse, per capriccio, la mia poesia: fece poche eccezioni per scrittori contemporanei. Ma nella pubblicazione dei classici stabilì un nuovo giardino spazioso, severo e puro. I caratteri Tallone, disegnati da lui, fioriscono sulla carta Magnani di Pescia. Le lettere Garamond trionfano sullo splendore del Rives filigranato o del Giappone di Hosho.
La severità si impose nell'immacolata bellezza delle sue edizioni. Ebbe come opinione le parole di Charles Péguy: "La vera bellezza di un libro deve sorgere dalla bellezza dell'opera scritta, dall'assenza di illustrazioni, dalla bellezza della tipografia, dalla bellezza della tiratura, dall'assenza di policromia, dalla bellezza della carta."
Noi spingiamo il libro moltitudinario che raggiunga tutti gli occhi, tutte le mani. Che si ripartisca per milioni per città, campagne coltivate, officine, miniere e pescherie. Ma abbiamo noi poeti l'obbligo di difendere la perfezione del libro, il suo corpo luminoso. Alcuni piccoli settari hanno usato la loroa invettiva contro alcuni dei miei propri libri, perché essi dimostrarono che anche la stampa del Cile può competere in decoro con altre più famose. Non mi importarono questi amareggiati rimproveri: si pubblicano anche i miei libri sulle edizioni più popolari e sicuramente di più minimo prezzo. Io spingo le une e le altre, e per ragioni differenti. Il resto lo dispongono gli editori.
Unitamente ad imprimere i più bei libri della nostra epoca, Tallone aveva la semplicità, la poesia e la furbizia degli antichi artigiani alla cui insigne famiglia apparteneva. Mi entusiasmò la sua conversazione. Aveva nella sua casa, invece della sala da pranzo, un trattoria con osteria e tavoli, come un piccolo ristorante. Mi spiegò che suo padre, pittore ritrattista della Corte, era un bohémien di grandezza. Dipingeva ritratti dei bambini del re, ma tardava tanto che quando già finiva i principi erano invecchiati notevolmente. Il denaro ricevuto serviva per acquisire grandi e lussuosi mobili, ma dopo il pittore spariva circondato da allegri amici e la giustizia si portava via tutta la mobilia dei Tallone. Perciò Alberto mangiò poche volte e solo per brevi periodi nella sala da pranzo familiare. Sua madre in quei periodi di smantellamento portava ai suoi figli a mangiare a credito al vicino ristorante. Pertanto, di grande e già stampatore famoso, ebbe nella sua casa la sua propria trattoria, nella quale mangiammo allegramente più di una volta.
Collezionava locomotive e le amava. Senza saperlo, una volta Matilde ed io ci prendiamo un grande spavento, perché, quando entriamo per il giardino, troviamo all'improvviso alcuni rotaie e più in là una locomotiva grande che gettava fumo nero ed abbondante. Credemmo di aver sbagliato strada, forse eravamo arrivati alla stazione dal villaggio. Ma apparvero sorridente Bianca ed Alberto Tallone: il fumo era in nostro onore. Io ho il Petrarca, le rime di Dante, gli amori di Ronsard, i sonetti di Shakespeare, le rime di Cino da Pistoia, Pitagora, Anassagora, Zenone di Elea, Diogene, Empedocle, stampati dalle sue meravigliose mani.
I nuovi originali arrivarono tardi affinché egli li portasse all'estesa tipografia. Bianca, eroica e sola, mi annuncia che lo farà lei.
Leggo nel mio esemplare di Galeazzo di Tarsia (1520-1553), stampato da Tallone, anno 1950, questi versi splendidi:
... Donna, che vivo giá portavi i giorni
Chiari negli occhi ed or egli notti apporti... *
Addio, Alberto Tallone, grande stampatore, buon compagno: prima portavi la luce nei tuoi occhi, ora la notte viaggia in essi. Ma nei tuoi libri, piccoli castelli dell'uomo, rimasero a vivere la bellezza e la chiarezza: per quelle finestre non entrerà la notte.
Ercilla, num. 1728, 31.7.1968.
* in italiano nel testo
I critichi devono soffrire
LOS CRÍTICOS DEBEN SUFRIR. (Pagine 177-179.) .) /.../ leí hace poco los párrafos que me dedicó un critico joven, brillante y eclesiástico /.../ (lessi fa poco i paragrafi che mi dedicò un critico giovane, brillante ed ecclesiastico). Trasparente allusione al presbItero José Miguel Ibáñez Langlois (1936), poeta, saggista, professore universitario e successore di Alone come influente critico letterario di El Mercurio di Santiago, dove fino ad oggi pubblica sotto lo pseudonimo Ignacio Valente. È lo stesso curicrítico (un altro neologismo ludico) che dopo pochi mesi irriteranno Neruda coi suoi commenti a La barcarola (cfr. la cronaca "En Brasil", pp. 186-187).
Los cantos de Maldoror formano, in fondo, un gran romanzo d’appendice. Non si dimentichi che Isidore Ducasse prese il suo pseudonimo di un romanzo del melodrammatico Eugéne Sue: Lautréamont, scritta a Chatenay, nel 1837. Ma Lautréamont, lo sappiamo, fu molto più lontano di Lautréamont. Fu molto più sotto, volle essere infernale. E molto più alto, un arcangelo maledetto. Maldoror, nella grandezza della sfortuna, celebra il "Matrimonio del cielo e dell'inferno." La furia, i ditirambi e l'agonia formano le travolgenti onde della retorica ducassiana. Maldoror: Maldolor.
Lautréamont proiettò una nuova tappa, rinnegò il suo viso ombroso e scrisse il prologo di una nuova poesia ottimista che non riuscì a creare. Il giovane uruguaiano lo portò via la morte di Parigi. Ma questo promesso cambiamento della sua poesia, questo movimento verso la bontà e la salute, che non giunse a compiere, ha suscitato molte critiche. Lo si è celebrato nei suoi dolori e lo si è condannato nella sua transizione all'allegria. Il poeta deve torturarsi e soffrire, deve vivere disperato, deve continuare a scrivere la canzone disperata. Questa è stata l'opinione di un ceto sociale, di una classe. Questa formula lapidaria fu ubbidita da molti che si piegarono alla sofferenza imposta da leggi non scritte, ma non meno lapidarie. Questi decreti invisibili condannavano il poeta al tugurio, alle scarpe rotte, all'ospedale ed all'obitorio. Tutto il mondo rimaneva così contento: la festa proseguiva con molte poche lacrime.
Le cose cambiarono perché il mondo cambiò. E noi poeti, all'improvviso, capeggiamo la ribellione dell'allegria. Lo scrittore sventurato, lo scrittore crocifisso, fanno parte del rituale della felicità nel crepuscolo del capitalismo. Abilmente si incanalò la direzione del gusto a magnificare la disgrazia come fermento della grande creazione. La brutta condotta ed il patimento furono considerate ricette nell'elaborazione poetica. Hölderlin, lunatico e sfortunato; Rimbaud, errante ed amareggio; Gérard de Nerval, impiccandosi ad un lampione di una stradina miserabile, diedero alla fine del secolo non solo il parossismo della bellezza, ma anche il cammino dei tormenti. Il dogma fu che questo cammino di spine doveva essere la condizione inerente della produzione spirituale.
Dylan Thomas è stato l'ultimo nel martirologio diretto.
Lo strano è che queste idee dell'antica e aspra borghesia continuino vigenti in alcuni spiriti. Questi spiriti non prendono il polso del mondo nel naso, che è dove deve prendersi, perché il naso del mondo annusa il futuro.
Ci sono critici cucurbitacei, le cui guide e sarchielli cercano l'ultimo sospiro della moda con terrore di perderlo. Ma le loro radici continuano ad essere ancora inzuppate nel passato.
Noi poeti abbiamo il diritto ad essere felici, sulla base che siamo saldamente uniti ai nostri popoli ed alla lotta per la loro felicità.
"Pablo è uno dei pochi uomini felici che ho conosciuto", dice Ilyá Ehrenburg in uno dei suoi scritti. Quel Pablo sono io ed Ehrenburg non si sbaglia.
Perciò non mi stupisce che illustri saggisti settimanali si preoccupino del mio benessere materiale, benché il personalismo non dovrebbe essere tematica critica. Comprendo che la probabile felicità offende molti. Ma il caso è che io sono felice all'interno. Ho una coscienza tranquilla ed un'intelligenza inquieta.
A quelli che sembrano rimproverare ai poeti un migliore livello di vita, io li inviterei a mostrarsi orgogliosi che i libri di poesia si imprimano, si vendano e possano preoccupare la critica, a celebrare che i diritti d'autore si paghino e che alcuni autori, per lo meno, possano vivere del loro santo lavoro. Questo orgoglio deve proclamarlo il critico e non dispensare capelli nella zuppa.
Perciò, quando lessi fa poco i paragrafi che mi dedicò un critico giovane, brillante ed ecclesiastico, non per brillante mi sembrò meno sbagliato.
Secondo lui, la mia poesia si indeboliva per felicità. Mi prescriveva il dolore. Secondo questa teoria un'appendicite produrrebbe possibilmente eccellente prosa ed una peritonite canti sublimi.
Io continuo a lavorare coi materiali che ho e che sono. Sono onnivoro di sentimenti, di esseri, di libri, di avvenimenti e battaglie. Mi mangerei tutta la terra. Mi berrei tutto il mare.
In quanto al giovane critico, poiché personalizza, gli darei il consiglio che danno i becchini nel mio poema "E quanto vive?", di Estravagario:
Nel mio paese i becchini
mi risposero, tra bicchieri:
"- Cercati una ragazza robusta
e lascia le sciocchezze."
Ercilla, num. 1732, 28.8.1968.
Una lettera per Víctor Bianchi
Il litorale tremò con le mareggiate di luglio. Il mare spianò molte stanze delle rive. Gli steccati abbattuti rimasero sparsi come i fiammiferi di una scatola schiacciata dai piedi di una moltitudine. Fu fantastico vedere imbarcazioni di traverso in una strada di Algarrobo.
Il grande sperone di Punta de Tralca sostenne tutto l'impeto marino. Sembrava un leone dalla chioma bianca. Le immense onde lo sorpassavano e lo coprivano. Grande avamposto della costa, si mantenne innevato e crepitante sotto il fuoco freddo delle grandi schiume. Di fronte al Trueno de Tralca il mare era un esercito di artiglieria infinita, di cosmiche cavallerie. Il grande oceano continuò i suoi assalti durante tutta la notte e durante tutto un giorno splendido ed azzurro.
Mi mantenni imbambolato, ansioso, oppresso ed anelante di fronte al terrorismo della natura.
Non mi sembrò strano quando notai, Victor, che stava vicino a me. Stavo aspettandoti.
Perché fosti sempre, Víctor Bianchi, lo spettatore attivo di gesta e disastri, della circostanza eccezionale, della commozione misteriosa, dell'ambito più stellato.
Avevi già sperimentato il panico celeste nella corona stessa dell'Aconcagua, tra morti e sopravvissuti di una giornata terribile. E dopo i grandi fiumi tropicali ti videro passare in piroga. O le isole incognite che esplorasti affondandoti nelle crepe sconosciute con la tua piccola statura. Un'altra volta furono le solfatare del deserto. O le miniere geometriche di salgemma. O le segrete cascate di mercurio colombiano.
Mi sembra che vestito da pinguino imperatore, portato per la tua curiosità violenta, scivolasti tra milioni di pinguini nelle praterie antartiche, ed imparasti segreti e linguaggi che nessuno più di te conobbe.
Avevi la chitarra avventurosa. Né Jorge Bellet né i compagni anonimi della mia traversate poterono allontanarsi quando tu legasti alla cavalcatura, per attraversare le Ande con me, solo una coltre e la tua chitarra. E quanto ci aiutò quella scatola sonora, come cantasti e piacesti a San Martin de los Andes dove arriviamo come aeroliti cileni, posate di polvere andina che è come polvere di stelle.
Ma fosti sempre chiarissimo e meticoloso: eri una raffica controllata dalla conoscenza. Allo spuntare dell'alba, o di notte ancora, tu andavi solitario ad esplorare il cammino del mio esilio. Continuavi a segnare sotto gli scontrosi boschi, rocce ed albereti, abissi e cascate, la rotta che ci toccherebbe percorrere alcuni ore più tardi. Ti alzavi presto per tracciare la mappa della strada nella tua testa. Ti eri imbarcato, senza che ti avessimo chiamato, nell'insolita avventura. Arrivasti sempre in tempo con la tua saggezza dove ti aspettavano, senza saperlo, quelli che avevano bisogno di te. Quello fu il tuo dono. E lo prodigasti con tale esattezza e con tanta generosità che così hai cambiato pianeta, forse senza rendertene conto, saltando da una strada all'alba verso un altro posto sconosciuto con la tua chitarra in mano.
Perciò quando cadeva sulla roccia del Trueno il sale e la neve della mareggiata, e tremava il litorale in piena luce di sole, e cielo ed oceano si riunivano nella catastrofe azzurra, sentii un piccolo rumore al mio fianco, e lì stavi.
È naturale. Quando sentisti l'ondosità, avrai pensato: "Qui sono necessari i miei occhi. Bisogna fare qualcosa. Devo essere utile."
Guardai, ed eri arrivato con la tua chitarra.
Dinamico e sonoro, essere utile e cantare furono i poli del tuo destino. E quando mi dissero che, in Antofagasta, nella nebbia dell'alba della pampa, in una strada, un camion ti aveva strappato verso l'altro mondo, pensai fra me: "Che cosa fargli! Un'altra volta Víctor Bianchi, il mio buon compagno, ci dà una nuova sorpresa. Un'altra volta è andato con la sua musica da un’altra parte."
Ercilla, num. 1734, 11.9.1968.
Due ritratti di un viso
Il caso riunì in una parete della mia casa i ritratti di due adolescenti nati in epoche e paesi diversi. I loro destini e le loto lingue si contrappongono. Tuttavia, i due ritratti producono a coloro che li guardano insieme nella mia casa la sensazione di una sorprendente somiglianza. Si direbbe la stessa persona. I due hanno una certa qualità indomabile nello sguardo. I due sostengono ciuffi irsuti sulle teste. Le stesse sopracciglia, lo stesso naso, gli stessi giovani visi provocatori.
Si tratta di una fotografia di Rimbaud, fatta da Carjat, quando il poeta francese aveva diciassette anni, e di un ritratto di Mayakovski, fatto al giovane poeta sovietico nel 1909, quando studiava nella Scuola di Arte Applicata Stroganov.
Hanno queste due immagini adolescenti il carattere comune che diede loro la contraddizione nella prima tappa della vita, un cipiglio di sdegno e durezza: sono due visi di angeli ribelli.
Li unirà forse qualche segno segreto che rivela in qualche modo la sostanza degli scopritori.
Entrambi lo sono. Rimbaud riorganizza la poetica facendole raggiungere la più violenta bellezza. Mayakovski, sovrano costruttore di poesia, inventa un'alleanza indistruttibile tra la rivoluzione e la tenerezza. E questi due visi di giovani scopritori si unirono per caso in un muro della mia casa, guardandomi entrambi con gli stessi occhi con che esplorarono il mondo ed il cuore dell'uomo.
Ma, parlando di Mayakovski, sappiamo ora che in questi giorni compierebbe settanta cinque anni di età. Avremmo potuto trovarlo e conversare, forse saremmo stati amici.
Questo sentimento mi produce un'impressione strana. È quasi come se mi provassero che avesse potuto conoscere Walt Whitman. Tanto hanno camminato la gloria e la leggenda del poeta sovietico che mi costa vederlo entrare, nell'immaginazione, al ristorante Aragby di Mosca, o semplicemente contemplare la sua gran statura in un scenario, recitando quei versi scaglionati che sembrano reggimenti che assaltano posizioni col ritmo scoppiettante delle loro onde successive avvolte in polvere da sparo e passione.
È verità che la sua immagine e la sua poesia rimasero come un mazzo di fiori di bronzo nelle mani della Rivoluzione e del nuovo Stato. Sono fiori indistruttibili, è chiaro, ben armati, metallici e fermi, ma non meno fecondi per quel motivo. Trasportate dal vento della trasformazione le strofe di Mayakovski presero parte alla trasformazione e quella è la grandezza del suo destino.
È una posizione privilegiata: l'integrazione di un cantore vero con la più importante epoca storica della sua patria. In questo si separa per sempre la sua poesia da quella da Rimbaud: Rimbaud è un grandioso sconfitto, il più glorioso degli insorti perduti. Mayakovski, nonostante la sua tragica morte, è elemento sonoro e sensibile di una delle più grandi vittorie dell'uomo. In questo somiglia piuttosto a Whitman. Fanno parte della lotta e dello spazio di grandi epoche. Whitman non è un elemento decorativo della guerra emancipatrice di Lincoln: la sua poesia si sviluppa con l'ombra e la luce dalla battaglia. Mayakovski continua a cantare nel paesaggio urbano di fabbriche, laboratori, scuole ed agricolture del suo paese. La sua poesia ha il dinamismo dei grandi proiettili interespaziali.
Settantacinque anni avrebbe compiuto in questi giorni Vladímir Mayakovski. Che dolore che non stia tra noi! È l'unico poeta a cui io avrei dato l'incarico di cantare il prossimo arrivo degli uomini sovietici alla luna.
Ercilla, num. 1736, 25.9.1968.
Le isole e Rogovin
Io non conoscevo a Milton Rogovin.
La sua lettera mi chiedeva un strano consiglio. Voleva fotografare la verità. Gli consigliai che venisse ai nostri estremi, all'arcipelago, a Quemchi, a Chonchi, ai letargici bordi del Sud delle Americhe.
Arrivò presto, occupato, efficace: nordamericano. Veniva carico da lenti e camere. Era troppo per la nostra semplicità. Gli consigliai un buon ombrello. Seguì da lontano, verso i paesi remoti.
Ma portava qualcosa più che la sua pompa magna. Alcuni occhi pazienti e penetranti. Un cuore aperto alla luce, alla pioggia, all'ombra.
Presto ritornò ed andò via. Ritornò al Kansas, all'Oregon, al Mississippi. Ma questa volta si portò un ramo di splendide immagini: il ritratto della verità. Della povera verità persa nell'intemperie delle isole.
Pareti dei casali con finestre verso dentro, verso la mitologia, verso il mormorio, verso i vestiti neri. Occhi statici ed oscuri, con scintille sepolte, come bracieri dimenticati, di combustione profonda. Rogovin fotografò il silenzio. Lasciò intatti, nel suo mistero, quegli interni insulari che ci rivelano nei semplici oggetti una poesia trasparente, come se il villaggio vivesse sotto l'acqua con campanili di leggenda vicino alle ancore del mitologico vascello. Il gran fotografo si immerse nella poesia della semplicità ed uscì alla superficie con la rete piena di pesci chiari e fiori di profondità.
Perché la terra è perdutamente infedele: si dà agli sguardi forestieri ed inganna i nostri occhi, la nostra indifferenza, la nostra abitudine. Deve venire Rogovin, fotografo di neri poveri, della liturgia oscura, dei figli vilipesi del Nord, affinché egli ci scopra il Sud, e vada via con la verità del Sud, con gli occhi oscuri che ci guardarono e non vedemmo, con la purezza povera, patetica e poetica della patria che amiamo e non conosciamo.
Ercilla, num. 1738, 9.10.1968.
Diario di viaggio
Di Ipanema, con azzurro oceano, isole e penisole, monti gobbi, trepidazione circolatoria, Vinícius de Moraes mi porta a Belo Horizonte (immensa Antofagasta dell’altopiano), dopo Ouro Preto, coloniale e calcarea, con l'aria più trasparente dell'America del Sud ed una basilica in ognuno dei suoi dieci dorsi che si alzano come le dita delle mani nella riconcentrata mansuetudine. Qui vive Elizabeth Bishop, gran poetessa nordamericana che conobbi anni fa nell’alto di una piramide di Chichén-Itzá. Siccome non stava in Brasile, le scrissi un piccolo poema in inglese, un poema con errori, come deve essere.
Il liberatore di schiavi ed indipendentista Tiradentes guarda le chiese da un'alta colonna, nel centro della piazza dove fu squartato. Tiradentes - Sacamuelas, perché era dentista - capeggiò una rivoluzione sconfitta dal cuore clericale e schiavista della monarchia. Ora l'hanno lasciato, piccolissimo, su una colonna ridicola, inerpicato nella gloria, invece di metterlo in mezzo alla gente bianca e nera che passeggia per la piazza di Ouro Preto.
Ma in Congonhas dove arriviamo a vedere le statue dell'Aleijadinho, ci troviamo all'improvviso dentro ad un pellegrinaggio con quei cantici che, con voce di bronzo, dirige un sacerdote dal tempio, e bambini, donne, venditori ambulanti, la moltitudine, infine, cantando o mangiando frittura, i ragazzi seduti sui profeti di pietra del nostro Michelangelo americano.
Tagliando la povertà, come si taglia un formaggio, ci avviciniamo, e Matilde mi ritrae con Isaia, con Daniel, con Ezechiele, e non mi sento male vicino a ciascuno di essi, solo che essi furono migliori poeti di me ed ora si mostrano, nei suoi ritratti di pietra, poderosi o pensosi, iracondi o addormentati. Jonás ha un piccolo pesce, del quale solo scorgiamo la coda tra le testoline neri e bianchi dei rosmarini del pellegrinaggio. Mi avvicino per vedere se è una sirena (che bellezza sarebbe vedere un profeta nella rete di una figlia del mare), ma no. Si tratta solo di una balena, della sua balena, che l'Aleijadinho gli mise sorridente vicino alla vita affinché non la lasci dimenticata nei vagoni ferroviari del cielo.
Più tardi, attraverso il pomeriggio, attraversiamo selve, fiumi grandi, strade che attraversa all'improvviso una farfalla Marpho, dandoci un brivido azzurro, ed alberi vicino al percorso, coperti di fuoco scarlatto, di frutti che pendono dai rami come angurie aeree, di monticelli di formiche termiti, quelle che inventarono il grattacielo, e più tardi, di notte, stanchi di tanto splendore, a dormire in Petrópolis, nella città fresca del Brasile, dove Gabriela Mistral visse forse le ore più felici e le più sfortunate della sua esistenza. Buona notte, Gabriella!
Ércilla, num. 1740, 23.10.1968.
In Brasile
A Rio visitai Buhrle Marx, il Conquistatore della flora, Liberatore di giardini, Eroe Verde del Brasile che con Niemeyer e Lucio Costa formano la trilogia procreatrice delle città raggianti. Mi porta a spasso sotto foglie immense, mi mostra radici spinose che si difendono sotto la terra, tronchi con eruzione cutanea, sorprendenti quermelia marmorizzate, ilairina misteriosi e specialmente il tesoro del suo bromelia, raccolti nel Brasile profondo o investigati a Sumatra. Sono chilometri di splendore nei quali fioriscono lo scarlatto, il giallo, il viola, fino a che ritorniamo a casa con una nimphea pura che vibra come un lampo azzurro in mani di Matilde.
Ma Jorge Amato mi chiama dal Salvador e voliamo al mercato di Baia, a mangiare batapé e bere birra nella città avvolta dalla magia. Come lo feci in Rio, torno a leggere i miei versi al pubblico aperto, ragazzi e ragazze, a rilasciare centinaia di autografi che mi opprimono. "Terremoto en Chile" del mio Barcarola scuote la gente come se tremasse la terra. Frattanto, mi dicono che in un quotidiano del Cile un curialcritico: Ignacio (che confessione) Valiente (che pretesa) definisce annacquate queste opere fatte, è chiaro! con pietra ed acqua.
Percorro con Jorge le contorti colline del Salvador, sotto la luce perforante. Saliamo sull'aeroplano saturati dell' aroma agro di Baia, dall'emanazione marina, del fervore studentesco. Lasciamo sotto, nella lastra dell'aeroporto, agli Amado: robusto, Jorge, sempre dolce Zélia, Paloma e Joáo: la mia famiglia in Brasile.
All'aria! Al larghissimo celeste! Dall'altezza: la città bianca, la città Venere: Brasilia!
Il deputato Marcio mi apre tutte le porte. Ma Brasilia non ha porte: è spazio chiaro, estensione mentale, chiarezza costruita. I settori comuni pullulano di bambini, i suoi palazzi danno dignità inedita alle istituzioni. L'architetto Italo, compagno di Niemeyer, ha già dieci anni di Brasilia e ci segnala il nuovo Itamaraty, il congresso, il teatro incompiuto, la cattedrale, rosa ferrea che apre nell'altezza grandi petali verso l'infinito.
Brasilia, isolata nel suo miracolo umano, in mezzo allo spazio brasiliano, è come un'imposizione della suprema volontà creativa dell'uomo. Da qui ci sentiremo degni di volare ai pianeti. Niemeyer è il punto finale di una parabola che comincia con Leonardo: l'utilità del pensiero costruttivo: la creazione come dovere sociale: la soddisfazione spaziale dell'intelligenza.
Ercilla, num. 1742, 6.11.1968.
Colombia di smeraldo
COLOMBIA ESMERALDINA. (Pagine 188-189.) Veinticinco años hace que visité Colombia (Venticinque anni fa visitai la Colombia). Questa volta Neruda non sbaglia la cronologia: nel 1943 passò in effetti per la Colombia, ritornando in Cile dal Messico. Vedasi i sonetti a Laureano Gomez, ed i versi conclusivi della conferenza "Viaje por las costas del mundo" nel volume IV di queste OCGC, pp. 498-511.
Dal ristorante di un piano 46, in San Paulo - dove il pranzo trascorreva quasi tra le nuvole -, aeroplani jet o zanzare di quattro piazze mi scacciarono, alzarono e depositarono in Manizales.
Venticinque anni fa visitai la Colombia.
Riconosco da sopra il suo lignaggio di cordigliera, l'incrocio di monti e fiumi, valli e vapori: una geografia di smeraldi bagnati che salgono e scendono dal cielo.
Devo presiedere una giuria al Teatro Universitario Latinoamericano.
Il piccolo aereo atterra in una pista di quattro metri di larghezza, fra due abissi: il filo di un coltello andino.
Manizales era irriconoscibile, moderna, cresciuta, pulita come nessuna città.
Mi immersi nello scenario quotidiano con teatro nuovo ogni giorno del Perù, Brasile, Venezuela, Argentina, Ecuador, Colombia. Teatro lirico o burlone, sperimentale o satanico, popolare o intellettualizzante. In ogni caso, vivo e vitale, lavorato e meritorio. Passai una settimana dentro alla sala oscura, vivendo con strani personaggi, arlecchini e straccioni, schizofrenici e padri esecutivi.
A me piacque meglio di niente un pezzo brasiliano preso dai teatri di marionette popolari che percorrono il Brasile.
Gli attori rivivono in tre atti i movimenti fantocci, e la vampiressa, il nero saggio, il latifondista innamorato, arrivano fino al cielo pendenti di corde che non esistono.
Freschezza e radici di paese si riuniscono in questa unità teatrale che meritò all'unanimità il premio.
(Dopo il mio ritorno a Bogotà, una cospirazione palatina diede la "Maschera di Oro" ad un'opera nordamericana, vomitatamente oscena.)
La mia vita in Manizales si svolgeva per la strada di giorno, nel teatro di notte: perseguitato da moltissimi cacciatori di firme entrai a tagliarmi i capelli dal parrucchiere locale, e lì fui circondato da cinquanta spettatori firmando libri e foglietti di carta mentre il paziente parrucchiere separava teste per utilizzare le forbici.
Di ritorno a Bogotà, la poesia maggiore della Colombia, i Rojas, Zalameas, Carranzas, De Greiff, Camachos e Castro-Saavedras, mi fanno la guardia per ostacolare la curiosità e le fotografie.
Rinuncio a proseguire in Messico, con l'amore che gli porto ed il molto che lì mi aspetta. Ma corre il sangue studentesco e la torcia olimpica si spegne per me.
Per quelli stessi giorni muore crivellato nelle montagne colombiane un guerrigliero solitario: si chiama Ciro. Per la biografia poliziesca è un bandito. Per molti, un eroe. Lo circondò un battaglione ed il ragazzo morì dando colpi. Grande tristezza tra l'emozione dell'amicizia e della chiarezza poetica della Colombia.
Quando non voglio essere insignito dal signor Lleras Restrepo, non mancano quelli che si danno per offesi.
Rispondo: niente mi allontanerà dal cuore verde della Colombia. Una medaglia di più o una medaglia di meno significa poca cosa. La mia poesia continuerà a celebrarti, Esmeralda.
Quindi il Museo dell'Oro Precolombiano, con le sue maschere, collane, lumache, farfalle, piccole rane rifulgenti. La nostra America sepolta vive qui accusando i suoi cristiani crocifiggitori. E la sua oreficeria miracolosa non ha voce: è un silenzioso lampo d’oro. Magari avessi, all'uscita del museo, una grande ciotola d’oro per lasciare le lacrime.
Domani voleremo in Venezuela.
Ercilla, num. 1744, 20.11.1968.
Caracas vibratoria
Il Venezuela prende con amore furioso i suoi atti elettorali. Tante eclissi ebbero nella sua tormentata storia che ora brillano con carta, bengali, aeroplani, inoltre rumori infernali
Caracas si è trasformata in fiera multicolore. Appendono milioni di strisce e ritratti, di volanti verdi o bianchi o celesti o rossi. Voti per la Ancora o per la Chiave o per il Cavallo. Voti per il Giallo, voti Verde, voti Bianco. Voti per Burelli, per Prieto, per Caldera, per Gonzalo. E per Arturo, per Gustavo, per Wolfgang, per Miguel Otero.
La radio, la televisione, i giornali, i telefoni, assordano con una grande allegria. Escono a ballare Hitler, Bolivar, Fidel Castro, Frei.
Andammo alla spiaggia con Inocente Palacios, gran signore delle arti; Miguel Otero Silva che compiva i suoi sessanta anni, e le sue compagne.
Matilde entrò nelle piccole onde tiepide coi venezuelani. Io rimasi a scrivere nella bella casa di legno lucidato. Quando ritornò gli domandai:
- Come va? Nuotarono?
- Io nuotai - mi rispose -, ma essi si dedicarono a parlare di politica tra onda ed onda.
L'appuntamento della notte venezuelana col pittore Alejandro Otero produsse un miracolo acceso, difficilmente descrivibile. Colossali strutture, scale del cielo, torri scintillanti, sfere stellate, popolano un punto di Caracas comunicandoci una scossa differente, una scossa planetaria.
Il fenomenale è che il pittore di purezza geometrica, il vincitore di una linea che sembrò perdersi nell'oscurità individuale, sia rinato in questa arte pubblica, di fascino totalitario. Gli immensi oggetti, somiglianti a proiettili spaziali, ci accecano immediatamente.
La Torre Vibrante, più di venti metri di altezza, ci trasmette il movimento e la luce come se avesse una circolazione misteriosa. Milioni di lucciole, api d’argento lavorando nell'alveare verticale. La Novia del Viento oscilla in una rotazione di purezza astronomica, sommandosi al distante ritmo, alla respirazione della notte. Il Rotor o l'Integral, di vite proprie, oscillazioni e splendore differente, riverberano e si muovono in modo pigro, come oggetti cosmici, accuratamente strutturati, caduti nel cuore di Caracas.
Tutte le rivelazioni dell'arte ottica ed anetico [sic], arte che si stacca in qualche modo dalla luce venezuelana, mi hanno dato sempre la gioia di un gran gioco puro, di una pulizia essenziale. Il piacere deriva da una sorpresa illustre, senza possibile mistificazione. Tali arti della chiarezza non hanno bisogno di teoria: sono la risposta della verità al termine del labirinto.
Ma bisogna capire che se le risplendenti opere di Le Parc o Soto, per la gravitazione del denaro, corrono a nascondersi nelle collezioni o nei musei, tale accantamento deve essere superato. Risulta intollerabile l'oscurità per oggetti tanto attivi, per una coscienza tanto luminosa.
E questa è la grande avventura: l'inaugurazione spaziale di Alejandro Otero.
Vedo a Brasilia, a Filadelfia, a Santiago del Cile ed a Cuba, nella Piazza Rossa di Mosca, nei parchi della Francia, di fronte alla sfilata della moltitudine, queste stalattiti costruite con passione, che determinano la fede nel destino dell'uomo attraverso l'allegria creativa.
Ercilla, num. 1.746, 4.12.1968.
La notte degli scultori
Vado a spiegare perché, essendo io obbligato, non mi presentai una certa notte allo spettacolo di gala del Grande Teatro di Via-reggio. Era spettacolo d’onore dedicato ai premiata, tra i quali c’ero anch’io. Siccome il mio premio era l'internazionale forse era giusto che mi aspettassero. Il palco in cui si mise a sedere Matilde aveva ghirlande che illuminavano i faretti della televisione. Questo accadde nel 1967. Il mio peccato gira ancora intorno a me.
Marino Marini mi invitò a mangiare quella notte. Questo scultore dei cavalli magici, col pittore Morandi, Beato Angelico delle bottiglie, formano il duo supremo delle arti italiane. Ci dividemmo, ed accompagnato dal mio editore mi presentai alla casa di Marini, pensando di arrivare più tardi a sedermi con Matilde tra le ghirlande di Viareggio. Non accadde così, certamente.
Era una festa con pochi amici e signore vestite in lungo.
Ci sediamo di fronte al giardino coi bicchieri di rigore. Lontano, in fondo, uno steccato di alberi oscuri estendeva lo spazio verso la profondità della notte. Marino Marini mi sembrò più fine e penetrante, più cittadino di strade e case di quello che io pensavo. Nell'ignoranza, il nome forma l'uomo. E con tanto mare nel nome, l'aveva immaginato più marino o più terrestre. La lievità agile del suo corpo, la sua cortesia sottile, il tocco sorridente della sua intelligenza, continuarono a sorprendermi durante la cena. Questa avvenne sotto la frasche. Tutto era buono e bello da mangiare e sentire, da vedere e da bere. Si mise a sedere al mio fianco la fiorentina più bella, di larghi occhi dorati che facevano gioco con un vestito arabo che la copriva dal mento alle caviglie.
- Pensare - dissi alla mia vicina - che sebbene Marino Marini abbia tutta la mia ammirazione, io dovrei stare mangiando ora con un altro scultore per certi doveri strettamente australi.
- Come è quello? - mi domandò la fiorentina abbagliante.
Gli raccontai allora che esisteva una città, Valdivia, in un paese lontano, Cile, e che in quella città, quasi centocinquanta anni fa, un Byron del mare, chiamato lord Cochrane, era arrivato a tali gesta che i cileni non possono dimenticare. Da lì aveva intrapreso la liberazione dell'oceano. Ora volevamo alzare in Valdivia un monumento alla sua memoria. Ed essendo venuto dalla Gran Bretagna il navigatore, pensiamo che doveva essere un inglese, Henry Moore, lo scultore eletto.
- E così vuole vedere Henry Moore? - mi lanciò quella dagli occhi dorati.
- Non è possibile, vive in Inghilterra - risposi -. Per questa notte è abbastanza per il mio archivio stare con voi, e Marino Marini. Se sopravvivo cercherò l'inglese.
Ella si alzò, lasciando un vuoto riverberante. Stavamo prendendo già il caffè. Ritornò presto e mi disse all'orecchio:
- La aspetto nella mia automobile. Potrà vedere Henry Moore. Prenda congedo senza dire dove andiamo.
Seguii il suo splendore. Quindi fu il viaggio attraverso la notte sconosciuta e fiorita. Attraversavamo villaggi, frange luminose, oscurità selvatiche, villaggi un'altra volta, strade di asfalto o terra. Avanti! Lord Cochrane mi aspettava. Cioè, lo scultore per lord Cochrane.
Arriviamo ad una proprietà che mi immaginai mitica e patriarcale, una specie di Dominio del gran Meaulnes. La fata d’oro oltrepassò i portoni. Dieci persone si allontanarono lasciandomi solo nel circolo con Henry Moore ed i miei funesti presentimenti. Che cosa sarebbe accaduto a Viareggio? E Matilde, la televisione e le ghirlande?
Henry Moore si che era marino di aspetto. Breve, largo, cordiale e poderoso. Naturalmente mai aveva sentito parlare di Valdivia. E naturalmente neanche di lord Cochrane. Acconsentì alla mia petizione. La Città dell'Acqua ordini il monumento. Libertà assoluta. Forse a forma di albero. Forse a forma di onda.
Fui eloquente. Mi sembra che gli piacesse l'idea.
A me piacciono le opere di incarico. L'artista assume con ciò responsabilità e puntualità. È chiaro che non chiederemo allo scultore grandiose sculture polemiche, né al modesto poeta trentacinque libri di cronache polemiste.
Non so come ci trattenemmo in una conversazione strana per la mia conversazione. Non tocco mai il tema. Ma il fatto è che durante quella mezz'ora, e non si sa perché, con Henry Moore parliamo solo della Morte. Moore rifletteva con gran semplicità. Ebbi la sensazione di stare con un gran scalpellino che conosce il più qua e il più oltre della durezza: cioè, la pietra infinita. Mi sembra ricordare che l'idea mortale non lo arrestava: che non l'opprimerebbe mai il pensiero di morire. In quella maturità eravamo di accordo. La pienezza della vita fa meno straziante l'accettazione inevitabile.
La notte si era riempita di suoni: cani e rane, distanti clacson. E mi resi conto che eravamo soli. La nostra conversazione era irresistibile ma interminabile. Cercai gli occhi fosforescenti della mia amica di Firenze. Mi portarono di ritorno attraverso stelle e vigneti, rotte ombrose, silenzio pieno di musica, fino alla notte di gala di Viareggio.
Quando arriviamo mi sussurrò:
- È ora contento della sua Mata Hari?
Benché ella guidasse con velocità di astronauta arriviamo tardi alla porta dal Gran Teatro. Il sindaco e la sua comitiva si ritiravano.
Il pubblico non mi conosceva forse, ma per precauzione rimasi sperando nell'ombra fino a che si disperse la gente. Ristabilita la solitudine, uscii a cercare Matilde.
Ancora è arrabbiata.
Ercilla, num. 1748, 18.12.1968.
Conto e racconto
CUENTO Y RECUENTO. (Pagine 194-197.) Recibí un telegrama de Cuba, de un coronel literario, pidiéndome los [versos] míos. Hasta ahora no los he escrito (Ricevetti un telegramma di Cuba, di un colonello letterario, chiedendomi i [versi] miei. Fino ad ora non li ho scritti). Il suo poema di omaggio al Che sarà "Tristeza en la muerte de un héroe", incluso in Fin de mundo (non ho notizie che sia stato pubblicato a Cuba), raccolto in OCGC, vol. III, pp. 414-416.
Prima di festeggiare l'anno che viene, con le sue trecentosessantacinque valigie diurne e notturne, bisogna guardare all'indietro trecentosessantacinque volte, facendoci la nostra propria statua di sale. Questi sguardi, nel mio caso, contengono giorni molto intensi, sonori, piccanti e dolci, come api, e hanno anche lacrime di sale e di sangue.
Questi ultimi occorsero per le vittime del Vietnam.
L'orrore, napalm e cinismo sembrano agonizzare, ma non finiscono ancora. I doveri della storia non si realizzano sempre in maniera rituale, come accadde con Hitler, lo sgozzatore. Johnson è stato fermato ma non sterminato.
Un scrittore che sopravvive continua a compiere una piccola o lunga ma antologia luttuosa. Io mi annoiai di continuarla per il monotonismo di un certo dolore umano. È che uno non vuole trasformarsi in un catalogo di morti, benché questi siano molto amati. Quando scrissi in Ceylon nel 1928 "Ausenci de Joaquín", per la morte del mio compagno il poeta Joaquín Cifuentes Sepúlveda, e quando più tardi scrissi "Alberto Rojas Giménez viene volando", a Barcellona, nel 1931, pensai che nessuno più andavo via a morire *. Ma le mie elegie continuarono.
Questo anno il vento si portò la gracile statura di Ilyá Ehrenburg, amico carissimo, eroico difensore della verità, titanico demolitore della menzogna. Lì stesso, a Mosca, questo anno che passò, seppellirono anche il poeta Ovadi Sávich che tradusse la poesia di Gabriela Mistral e la mia non solo con esattezza e bellezza, ma anche con risplendente amore. E qui accanto, dove cominciano ad alzarsi i cespugli dalle colline di Córdoba, in Argentina, giace seppellito da tre mesi il migliore dei miei amici argentini, il migliore degli argentini: Rodolfo Aráoz Alfaro che lasciò vedova la nostra cilena Margarita Aguirre, scrittrice sottile che il vento di Buenos Aires si portò.
Amaro avvenimento dell'appena passato 68 fu l'assassinio ufficiale del Che Guevara nella triste Bolivia. Il telegramma della sua morte percorse il mondo come un brivido sacro. Milioni di elegie tentarono di fare coro alla sua esistenza eroica e tragica. In sua memoria si dissiparono per tutte le latitudini versi non sempre degni di tanto alto dolore. Ricevetti un telegramma da Cuba, da un colonello letterario, chiedendomi i miei. Fino ad ora non li ho scritti. Penso che tale elegia deve contenere non solo l'immediata protesta, ma anche approfondire la dolorosa storia. E se la scriverò la mediterò fino a che maturi. Forse per quel motivo sto passando per ingrato davanti ai molti occhi.
Il Che mi raccontò, davanti al sergente Retamar che lesse molte volte il mio Canto general a quei primo, umili e gloriosi barbuti.
E dopo mi commuove che nel suo Diario passi ad essere l'unico poeta citato da lui. La sua buona memoria cedè solo quando introdusse una trasposizione nel mio "Canto a Bolívar." Dice il Che nel suo Diario: Il "tuo cadavere piccolo di capitano coraggioso / ha esteso nella cosa immensa la sua metallica forma" invece di: Il "tuo piccolo cadavere di capitano...", etc.
L'anno che ci finisce portò vittorie a tutti i terrestri: vittorie verso la deliziosa Luna. Durante tutto l'anno tutti noi uomini volemmo volare, tutti fummo in sogni cosmonauti. E la conquista della grande altezza apparterrà a tutti: siano sovietici o nordamericani quelli che si adattino il primo nimbo lunare e mangino le primi uve lunari. Ma a noi che più abbiamo "indagato nel cuore della notte" ci toccherà più dei doni scoperti.
Da quando Jules Verne che meccanizzò in un libro l'antico sogno spaziale, fino a Jules Laforgue e José Asunción Silva (senza dimenticare a Baudelaire che scoprì il suo maleficio), il pallido pianeta fu investigato, cantato e pubblicato da noi, i poeti. Facemmo molte altre cose male, ma siamo stati buoni public relations delle comunicazioni lunari o lunatiche.
Non voglio solo per questo anno 1969 lo sbarco e l'elettrificazione della luna, ma auspico ed aspetto lo sbarco della bontà nelle terre del Paraguay, e Portogallo, della Grecia e Brasile, della Spagna e Nicaragua.
Grecia, antico posto normativo della condotta umana, ha migliaia di carcerati politici nelle sue isole di concentramento. In uno di quei presidi, tra gli altri supremi artisti, giace malato e martirizzato il più grande poeta della Grecia attuale, il mio amico Juan Ritsos.
Centinaia di lusitani dell'opposizione sperano che qualcuno li ricordi: che qualcuno li allontani da trenta anni di agonia nell'Isola del Sale ed altre colonie penitenziarie.
In Paraguay i carcerati politici, senza processo, si ammucchiano da dodici anni nelle più pestilenziali prigioni del pianeta.
Non starebbe male un raggio laser che perforasse l'incoscienza dei crudeli governatori di questi nobilissimi paesi.
Questi sono i regali che uno chiede ad un anno che arriva. Sono regali umani e hanno bisogno di destini umani che muovano il calendario.
Come in altri anni, in questi nuovi trecentosessantacinque giorni pubblicherò un nuovo libro. Sono quasi sicuro di ciò. Lo accarezzo, lo maltratto, lo scrivo ogni giorno.
Gli amici mi domanderanno di che cosa si tratta in esso.
Che cosa posso rispondere? Sempre nei miei libri si tratta della stessa cosa: scrivo lo stesso libro. Che mi perdonino che questa nuova volta ed in questo nuovo anno pieno di nuovi giorni io non abbia da mostrare se non i miei versi, gli stessi nuovi versi.
Ma non voglio salutare il nuovo passato e della luce ventura solo con questa concentrica allusione a me stesso ed ai miei lavori. A colore che mi leggeranno finisco raccomandando questi versi altrui che mi abbagliarono per la loro verità. Fanno un riassunto dell'anno che passa e dl quello che viene.
Se tu preparassi il tuo cuore ed estendessi le tue mani.
Se qualche iniquità sarà nella tua mano e la lanciassi da te.
E non consintirai che abiti nella tua casa l'ingiustizia,
allora alzerai il tuo viso pulito dal disonore
e sarai forte, e niente temerai. E dimenticherai la tua miseria
o ti ricorderai di lei come acque che passarono.
La vita ti sarà più chiara che il mezzogiorno.
Anche se si oscurasse, sarà come la mattina.
Avrai fiducia, perché hai speranza.
Ma gli occhi dei cattivi si consumeranno e non avranno rifugio.
E la sua speranza sarà dare un ultimo sospiro.
Sono la mia lettura più recente. Li presi per voi dal Libro di Job, II, versetti da 13 al 20.
Ercilla, num. 1750, 1.1.1969.
* Le due date del paragrafo sono sbagliate. La poema "Ausencia di Joaquín" fu scritta nel gennaio del 1930, Cifuentes Sepúlveda morì nel 1919 in Buenos Aires, e l'elegia a Rojaso Giménez alla fine di maggio o principio di giugno di 1934, appena arrivato Neruda a Barcellona (Rojas Giménez morì il 25 di maggio del 1934 in Santiago. Più sotto: il Che fu assassinato nel 1967. Neruda, si sa, ebbe una difficile relazione con date e calendari. [Nota dell'editore.]
Senza dei e senza idoli
Uno studio di Viviane Lerner: Realidad profana, realidad sagrada en las Odas elementales (Realtà profana, realtà sacra nelle Odi elementari), pubblicato dall'Università di Strasburgo, cerca identità religiose nella mia poesia.
Non è la prima volta che suonano queste campane. Nel mese di giugno, in un Congresso di Teologia, a Bogotà, un teologo dell'Istituto Vaticano mi considerò teologo o teologico. Per mancanza di conoscenza non posso rispondere a questi punti interrogativi, né orientare queste rispettabili investigazioni.
Comprendo che da tutte le parti l'uomo abbia cercato comunicazioni trasmigratorie e che le religioni abbiano postulato le loro chiavi parallele per capirsi con l’inaccessibile. Dopo, la necessità di santi, di eroi e di dei, stimolò la fabbricazione di essi perfino nei territori più appartati e nelle epoche più vicine, scientifiche e razionali.
Nei miei anni asiatici mi spaventò la proliferazione delle forme divine nelle chiese orientali. Le immagini erotiche del Nepal avevano più di sei, più di dieci, più di quaranta braccia di bronzo e forme di donna intarsiate nell'orgasmo dall'abbraccio tentacolare. Ganesha, dio della saggezza, con testa di elefante, aveva la mia predilezione per la sua proboscide attorcigliata ed i suoi minuscoli occhi. La dea Kali non era un'invenzione del nostro adoratissimo Salgari, ma mi aspettavo da lontano a Calcutta con un'immensa collana di crani umani ed una lingua scarlatta lunga tre metri.
D'altra parte, i Cristo spagnoli della mia infanzia furono per me visioni di orrore. Poi li vidi in altri posti rispettabili, con pustole di Grünewald, simboleggiati fino all’incubo con i primitivi toscani.
Neanche i polsi rosa e celeste che rappresentarono la Madona mi entusiasmarono. Quello che sì mi piacque fu l'ambiente di alcuni vecchie cattedrali - per certo non quello di San Pedro - e quello di alcuni moschee. Qualche volta trovai lì la solennità mentale e naturale che conobbi nelle selve di Cautín.
L’anticlericalismo andò via col macfarlanismo e l'anarchismo. Cambiò la società, cambiarono l'epoca e la moda. Le fabbriche si trasformarono in dee. Gli dei associati produssero salsicce, armamenti, automobili. Le guerre sante di questa epoca furono quelle del petrolio. Gli eretici che non si prosternarono davanti alle pagode petrolifere furono sterminati, non dalla scimitarra ardente, né per la croce piena di chiodi, bensì dai colpi della polizia, dalla tortura o dalle prigioni.
Né per questo l'uomo smise di alzare i suoi dei piccoli o barbuti, ridicoli o misteriosi.
Mi raccontò un francese coloniale che durante l'ultima guerra un vascello nordamericano dovette sbarcare in Madagascar, per una settimana, una jeep con un osservatore militare. Questa jeep portava sul tetto il segno della Croce Rossa Internazionale. L'addetto di quella missione era un negro di Harlem. Salì su pendii, attraversò valli, arrivò a montagne inesplorate. Visitò tribù sconosciute. Era un negro gioviale, dai grandi denti bianchi, pieno di braccialetti dorati, dalla risata stentorea e poderosa voce. I primitivi lo guardavano e lo ammiravano. Di quando in quando, dalla jeep, egli comunicava per radio con aeroplani o vascelli. Partì da quelle regioni incoronato di fiori. Allora il suo ricordo si andò trasformando a poco a poco in una gran religione che ora ha più adepti dei culti protestanti e cattolici. Nei più alti macigni del Madagascar i nativi dipingono immensi incroci rossi affinché egli li veda e si degni ritornare del cielo.
Nel frattempo, questo uomo, ora vecchio e stanco che non sa di essere Dio, può trovarsi a dare la cera a pavimenti a New York.
Quando in Kingston, Giamaica, mi trattenni per alcuni giorni, precisamente perché niente dovevo fare lì, lessi un poema del più importante poeta locale, affezionato a Hailé Selassié. Apparve sul Jamaica Time quel giorno del mio arrivo. Leggendo, mi resi conto che si trattava dell'imperatore abissino non in quanto monarca, bensì in quanto Dio. Una nuova e milionaria religione, con moltitudini di tempii e credenti, ha designato Dio al minuscolo Negus. Il nuovo culto stabilisce che il suo arrivo in Giamaica, dove i suoi fedeli lo aspettano, provocherà uno scombussolamento cosmico ed il principio di una nuovi era.
Esce il sole, leone ancestrale, viscera centrale, e paterna dal nostro universo. La notte popola di squame argentate gli oceanici spazi. Le meteore scatenano il fosforo celeste. Il sole, l'acqua, la primavera, preparano il pane di ogni giorno. È nato una preghiara. È nato un poema.
Le religioni furono culla della poesia e questa si annodò ad esse fertilizzando i miti, collaborando come l'incenso nell'imbrunire delle basiliche. Le vesti delle divinità si intesserono di oro e poesia. Gli occhi immobili delle immagini non perforarono il mistero: le parole poetiche fecero retrocedere le tenebre cercando, come un dovere comune, l'esaltazione della bellezza e la comunicazione col popolo.
È stato più difficile l'intendimento tra la scienza e la poesia: tra il tempo sociale ed il canto del poeta. I miti si rivelarono più raggiungibili ai linguaggi che al peso dalle scoperte e della verità. La poesia continua a lottare ancora per emanciparsi della sua antica e misteriosa servitù.
Ercilla, num. 1752, 15.1.1969.
Mi chiamo Crusoe...
Il Cile attrae certi avvenimenti insoliti. Il nostro territorio secco, irsuto, arenoso, umido, aggrovigliato, ha fosforescenze magnetiche. Qui vennero, alcuni giorni fa, i professionisti di terremoti a tracciare una mappa - sempre superficiale - dei nostri segreti terrestri. La patria conobbe, prima che nessuno, le scosse atomiche. Siamo protetti e minacciati da una cintura di vulcani il cui interno è tanto sconosciuto come il fuoco dei lontani pianeti.
La questione è che il nostro contesto ferruginoso attrae certi eventi di tipo inaudito. L'ammutinamento di Cambiaso, nelle notti gelate di Punta Arenas, ci dà la visione di un imperatore sanguinario, in uniforme rossa e dorata su cavallo bianco e bandiera con teschio che ondeggia nella bufera.
Non accadono da tutte le parti queste uscite di sangue.
Mi sono domandato molte volte perché Robinson Crusoe arrivò fino alla nostra isola del Pacifico a specializzarsi in solitudini.
Lo rivelo.
Perché la conosceva già. Non si trattava della sua prima visita. E non sono sicuro che non vi sia ritornato dopo.
Perché il 10 gennaio di 1709, Alexander Selkirk (un anno dopo essere stato riscattato della sua reclusione a Juan Fernández) fu nomivato nostromo della fregata Bachelor, che vagabondava per i nostri mari. Selkirk-Crusoe sapeva quello che faceva oppure era attratto dalla calamita dell'isola.
Bisogna esaminare perché Robinson Crusoe, libro tra molti libri, affascinò, continuò e continua ad affascinare mezzo mondo.
L'uomo non vuole isolarsi. La solitudine è contro natura. L'essere umano ha curiosità diurna e notturna per l'essere umano. Gli animali appena si guardano o si notano. Solo i cani, gli uomini e le formiche dimostrano irresistibile curiosità per la loro propria specie e si guardano, si palpano, si sentono.
L'insopportabile solitudine del marinaio scozzese, che comincia a costruire un mondo solitario, continua ad essere motivo dell'intelligenza ed enigma che ci ppartiene.
Il capitano Woodes Rogers raconta nel suo Diario de viaje la liberazione di Alexander Selkirk. È un buon giornalismo, ed il capitano tratta il fatto come un reportage singolare. Immaginiamo che solo nel giorno di ieri fosse scoperto e redento Robinson Crusoe e non in altro modo lo avremmo letto in El Mercurio o in El Siglo. Scrive il capitano Rogers:
Poco dopo tornò la chiatta con quantità di aragoste ed un uomo vestito con pelli di capra che sembrava più selvaggio di quegli animali. Era uno scozzese chiamato Alexander Selkirk che era stato nostromo a bordo del vascello Los Cinco Portos e che l'irascibile capitano Stradling aveva abbandonato in quell'isola da quattro anni e quattro mesi.
Ci disse che egli avesse voluto arrendersi ai francesi se qualcuno dei loro vascelli fosse arrivato all'isola o avrebbe preferito morire in essa, prima di cadere in mano degli spagnoli che avrebbero potuto ammazzarlo davanti alla paura che potesse servire gli stranieri nella scoperta dai mari del Sud. Abbandonato in quell'isola con qualche vestiti, il suo letto, un fucile, un barattolo di polvere da sparo, pallottole, tabacco, un'ascia, un coltello, una pentola, un Bibbia, i suoi strumenti ed i suoi libri di marina, si divertì tentando di arrangiarsi come gli fosse possibile. Ma, durante i primi mesi, gli costò molto vincere la sua malinconia e superare l'orrore che gli causava una solitudine tanto spaventosa.
Dopo avere scacciato la sua malinconia, trovava sollazzo nel registrare il suo nome sugli alberi con la data del suo esilio. Oppure cantava con tutta la sua voce nella solitudine, o insegnava a gatti e capre selvatiche a ballare con lui. I gatti ed i topi fecero al principio una guerra crudele: si erano moltiplicati, senza dubbio, per mezzo di alcuni della loro specie usciti delle barche che per acqua e legna toccarono l'isola. I topi venivano a rodergli i piedi ed i vestiti mentre dormiva. Per combatterli gli venne in mente di dare ai gatti alcuni buoni pezzi di carne di capra, e ciò fece che tanto a lui si abituassero che venivano a dormire a centinaia attorno alla sua capanna, proteggendolo dai suoi nemici. Così fu che per un disegno della provvidenza ed il vigore della sua gioventù, dato che quando lo trovammo avreva solo trenta anni di età, si mise al di sopra di tutte le difficoltà del suo triste abbandono e potè vivere a proprio agio nella sua solitudine.
Quando l'abbandonato creó il suo piccolo mondo, non si rese conto che compiva un'infinita aspirazione umana, quella di dominare la natura vincendola per la gravitazione dell'intelligenza. Il suo lemma di solitario dovette essere: "Per la ragione e per la ragione, sempre per la ragione", lo stesso lemma che proponeva Unamuno ai cileni. Il marinaio che si trasformò in Robinson ed insegnò a ballare ai gatti ed alle capre, fu un nuovo Adamo, senza Eva, ma poderoso. Il suo canto solitario era come l'inno alla creazione appena cominciata.
Strano destino che ci stupisce ancora. E quando Selkirk ritorna alla sua amata Scozia, raccontando l'impresa di taverna in taverna, comincia a sentire la nostalgia del suo gran chiostro di cielo e mare. L'oceano Pacifico, irreale, sovrabbondante ed esteso, lo insegue chiamando coi cori più insistenti. Lo insegue trasformando fino a dargli il tocco della suprema trasfigurazione.
Uno scrittore imponderabile, Daniel Defoe, sente parlare del marinaio solitario, della natura lontana, del magnetismo delle isole cilene.
Morì Alexander Selkirk. Ma in un vascello di carta stampata - che fino ad ora continua a navigare - ritornò a Juan Fernández un nuovo marinaio.
- Chi sei? - gli domandarono.
- Mi chiamo Robinson Crusoe - rispose.
Ercilla, num. 1754, 29.1.1969.
La famiglia Revueltas
LA FAMILIA REVUELTAS. (Pagine 203-206.) Il poema passò a Canto general col titolo "A Silvestre Revueltas, del Messico, nella sua morte (Oratorio Menor) ". Compreso nel volume I di queste OCGC, pp. 743-745.
Mi scrivono che José Revueltas, il romanziere, è carcerato nella sua patria, il Messico.
La notizia è aspra per quelli che lo conoscono, ed a me provoca ricordi e tristezza.
Questa famiglia Revueltas ha un angelo. In un paese di creazione perpetua, come il paese fratello, essi si rivelarono eccellenti e superdotati. È una famiglia efficace nella musica, nella lingua, negli scenari. Succede come coi Parras del Cile, famiglia poetica e folcloristica, con talento granato e sgranato.
Un pomeriggio, ritornando dei miei lavori, trovai uno sconosciuto seduto nella sala della mia casa, in città del Messico. Io non lo vedevo chiaramente il viso, perché si era messo uno dei miei cappelli di paglia, piccolino e multicolore, comprato nella fiera. Sotto alle sue ali, una chioma abbondante e brizzolata proteggeva il suo robusto collo. Più sotto, venivano delle spalle di colosso ed un abito trasandato. Vicino a lui c'erano varie bottiglie di mio preziose vino cileno, completamente vuote.
Si trattava del più grande, più originale e poderoso compositore del Messico: Silvestre Revueltas.
Mi sedetti di fronte a lui, ed all'improvviso alzò la sua testa di minotauro; appena aprì gli occhi mi disse:
- Portami un'altra bottiglia. Sono già varie ore che ti aspetto. Mi è successo di pensare questa mattina che un giorno di questi posso morire senza averti conosciuto. Perciò sono qui. Non è bene che i fratelli non si conoscano.
Era fantastico, pittorico e puerile. Era il gigante geniale della musica del Messico.
Tre giorni e tre notti passò nella mia casa. Io uscivo per le mie faccende e tornavo a trovarlo seduto, che mi aspettava, nella stessa poltrona.
Ripassiamo le nostre vite e le vite altrui. Conversavamo fino a molto tardi nella notte, e dopo egli si gettava su un letto con l'abito e le scarpe addosso. Vedendolo dormire, io gli lasciavo un'altra bottiglia di vino, aperta, vicino alla sua immensa testa.
Come arrivò a casa mia un giorno, sparì senza addio e senza cerimonia. Era andato a dirigere le prove del suo Renacuajo paseador, balletto classico della nostra epoca contemporanea.
Qualche tempo dopo, la notte dell'esordio, io stavo in un palco. Nel programma si avvicinava il momento in cui doveva presentarsi Silvestre a dirigere la sua opera. Ma quel momento non arrivò. Sentii che dall'ombra mi toccavano la spalla. Guardai all'indietro. Suo fratello, José Revueltas, mi sussurrò:
- Vengo da casa. È appena morto Silvestre. Sei il primo a saperlo.
Usciamo a conversare. Mi raccontò che si era aggravato negli ultimi giorni, e che poco prima di morire aveva chiesto che appendessero alla parete, di fronte al suo letto, il cappello di paglia che si portò quella volta.
Al giorno dopo lo seppelliamo. Io lessi il mio "Oratorio minore", affezionato alla sua memoria. Un morto non mi aveva sentito mai con più attenzione. Perché il mio poema lo tirava fuori dalle circostanze e dal territorio, per dargli la vera dimensione continentale che gli corrispondeva.
Octavio Paz che piangeva, mi disse:
Non ti credo che l'abbia scritto ieri sera. Sicuro che l'avevi fatto.
Mi ricordo delle sue ultime righe:
Riposa, fratello, il tuo giorno è finito,
con la tua anima dolce e poderosa lo riempisti
di luce più alta che la luce del giorno
e di un suono azzurro come la voce del cielo.
Tuo fratello ed i tuoi amici mi hanno chiesto
che ripeta il tuo nome nell'aria dell'America,
che lo conosca il toro della pampa, e la neve
che lo porti via il mare, che lo discuta il vento.
Ora sono le stelle dell'America la tua patria
e da oggi la tua casa senza porte è la Terra.
Parlando dei Revueltas racconterò che a Berlino mi invitò Helen Weigel, vedova di Bertolt Brecht, ad uno spettacolo del Berliner Ensemble. Si dava un'opera russa del secolo scorso, in tedesco, si capisce, con molte dame e cavalieri cacciatori in scena. La protagonista era bella e festeggiata, fatale e naturale. Guardai il programma. L'attrice era la sorella dei Revueltas, la messicana bruna Rosaura Revueltas. Lì stava, col suo sguardo nero, gettando raggi e scintille, parlando in tedesco in una capitale dell'Europa, e nel centro dell'insieme teatrale più famoso del mondo.
Dopo la funzione gli domandai:
- E che cosa facesti per apparire tanto bianca in quello teatro di biondi? Pensai che ti vedesti come una mosca nel latte. Ti dipinsero?
- No - mi rispose -. Non ti immagini quello che accadde. Scurirono agli altri.
Ma, ora, il nostro importante Revueltas è José. Contraddittorio, irsuto, inventivo, disperato e biricchino è José Revueltas: una sintesi dell'anima messicana. Ha, come la sua patria, un'orbita propria, libera e violenta. Ha la disubbidienza del Messico ed una grandezza ereditata di famiglia.
Io sento amore carnale per il Messico, con gli alti e bassi della passione: bruciatura e fascino. Niente di quello che accade lì mi lascia freddo. E spesso mi feriscono i suoi dolori, mi turbano i suoi errori, e condivido ognuna delle sue vittorie.
Impara ad amare al Messico nella sua dolcezza e nella sua asprezza, soffrendolo e cantandolo come io lo ho fatto, da vicino e da lontano.
Perciò, con la tranquillità che dà il diritto guadagnato con amore, finisco così questa prosa:
Signor presidente Díaz Ordaz:
Io reclamo la libertà di José Revueltas, tra le altre cose, perché sicuramente è innocente. Inoltre, perché ha la genialità dei Revueltas, ed anche, ciò che è molto importante, perché lo vogliamo moltissimo.
Ercilla, num. 1756, 12.2.1969.
La cacciatrice di radici
LA CAZADORA DE RAÍCES. (Pagine 206-209.) El paisaje se monotoniza y adquiere la vestimenta industrial que necesita la «Papelera» (Il paesaggio si monotonizza ed acquisisce l’abbigliamento industriale di cui ha bisogno la "Papelera"). Si allude a quella che era allora la più importante fabbrica cilena di elaborazione della carta, con sede in Puente Alto, controllata dalla famiglia Alessandri. La frase implicava così un carico politico bene avvertibile da un lettore cileno.
Ehrenburg che leggeva e traduceva i miei versi, mi rimproverava: troppa radice, troppe radici nei tuoi versi. Perché tante?
È la verità. E questo me lo dicevano molto prima che uscisse dal suolo il quarto libro del mio Memorial. Questo si chiama El cazador de raíces.
Le terre della frontiera misero le loro radici nella mia poesia e mai sono potuto uscire da essa. La mia vita è una lunga peregrinazione che sempre gira, che sempre ritorna al bosco australe, alla selva perduta.
Lì i grandi alberi furono abbattuti a volte da settecento anni di vita poderosa o sradicati per la turbolenza o bruciati per la neve o distrutti per l'incendio. Ho sentito cadere nella profondità dal bosco gli alberi titanici: il rovere che crolla con un suono di catastrofe sorda, come se battesse con una mano colossale alle porte della terra chiedendo sepoltura.
Ma le radici rimangono all'aperto, arrese al tempo nemico, all'umidità, ai licheni, all'annichilazione successiva.
Niene di più bello che quelle grandi mani aperte, ferite e bruciate che mettendosi di traverso in un sentiero del bosco ci dicono il segreto dell'albero sepolto, l'enigma che sostentava il fogliame, i muscoli profondi della dominazione vegetale. Tragiche ed irsute, ci mostrano una nuova bellezza: sono sculture della profondità: opere maestre e segrete della natura.
Tutto questo lo ricordo perché la signora Julia Rogers, come una fata forestale, mi ha inviato in regalo una radice di rovere, di cento chili di peso e di cinquecento anni di età. Immediatamente compresi col suo regalo che quelle radici appartenevano ad un mio parente, ad un padre vegetale che in qualche modo diventava presente nella mia casa. Forse qualche volta io ascoltai il suo consiglio, il suo multiplo mormorio, le sue parole verdi nella montagna. Ed forse ora arrivavano alla mia vita, dopo tanti anni, a comunicarmi il suo silenzio.
Una cacciatrice di radici!
Immaginarla fiutando sull'umido humus tra l'intensa fragranza delle tricuspidarie e le labrinie, lì dove l'Araucaria imbricata, le cupresinia, i libocendrus o il Drimis winterey si mostrano come torri. Attraversare a cavallo gli aghi della pioggerellina, seppellire i piedi nel fango, sentire la lingua gutturale dei choroyes, rovinarsi le unghie spiando ogni volta una radice più importante, più intrecciata, più laconica.
La signora Rogers mi scrive che a volte gli alberi sradicati sono rimasti cento anni al vento, alle intemperie, in pieno inverno. Questo dà alle opere maestre che ella cerca tessiture graffiate, colori di argento cenerino, e, soprattutto, l'imponente bellezza irsuta e straziante che formavano i piedi dell'albero.
Il gran sud forestale si va estinguendo totalmente, spianato, bruciato e combattuto. Il paesaggio si monotoniza ed acquisisce l'abbigliamento industriale di cui ha bisogno la "Cartiera." Finiscono i boschi sostituiti dalle pinete con le loro infinite file di impermeabili verdi. Forse queste radici cilene che la cacciatrice decise di riservare per noi saranno qualche giorno reliquie, come le mandibole dei megateri.
Non solo per questo celebro la sua passione, ma anche perché ella ci rivela un complicato mondo di forme segrete, una lezione estetica che ci dà un'altra volta la terra.
Anni fa, camminando con Rafael Alberti tra cascate, cespugli e boschi, vicino ad Osorno, Rafael mi facevo osservare che ogni ramatura si differenziava, che le foglie sembravano competere nell'infinita varietà dello stile.
- Sembrano scelte da un paesaggista botanico per un parco stupendo - mi diceva.
Anche dopo ed a Roma ricordava Rafael quella passeggiata e l'opulenza naturale dei nostri boschi.
Così era. Così non è. Penso con malinconia alle mie avventure di bambino e di giovane tra Boroa e Carahue, o verso Toltén nelle falconerie della costa. Quante scoperte! L’eleganza dell'albero della cannella e la sua fragranza dopo la pioggia, i licheni, la cui barba d’inverno pende dei volti innumevoli del bosco.
Io spingevo i volti caduti, tentando di trovare il lampo di alcuni coleotteri: dei carabidi dorati che si erano vestiti di riflessi cangianti per un minuscolo balletto sotto le radici.
O più tardi, attraversando a cavallo la cordigliera verso il lato argentino, sotto la volta verde degli alberi giganti, un ostacolo: la radice di uno di essi, più alta delle nostre cavalcature, che ci chiudeva il passo. Lavoro di forza e di ascia fecero possibile la traversata. Quelle radici erano come cattedrali rovesciate: la grandezza scoperta che ci imponeva la sua grandezza.
Tutto questo pensando all'appassionata esistenza di una nuova cacciatrice di radici. Importante compito, come sarebbe quello di collezionare vulcani o crepuscoli.
La cosa certa è che le radici che sempre apparvero nella mia poesia, sono tornate a stabilirsi nella mia casa come se avessero camminato sotto la terra, perseguendomi e raggiungendomi.
Ercilla, num. 1758, 26.2.1969.
I giorni di Capri
Posto di predilezione per i miei lavori furono quelli giorni di Capri. L’isola ha due aspetti ben chisri e delineati. L'estate di Capri è turistica, superpopolata e piena di posti di perdizione che, disgraziatamente, non conobbi mai. Non stavano fuori dalla mia portata, bensì dalle mie tasche.
Per l'inverno Capri conserva il suo lato migliore: il suo viso povero, di gente lavoratrice, ospitale e sottile. Inoltre, in inverno, le altezze di Anacapri si tingono di violaceo di pomeriggio. La vegetazione, cespugli, erbari e graminacee, esce da tutte le parti salutando all'amico fedele che rimase in inverno a vivere con l'altra isola, l'isola vera, pietra semplice circondata dalla schiuma del Tirreno. Lì scrissi gran parte di uno dei miei libri più sconosciuti: Las uvas y el viento.
Arrivava molto presto di mattina la signora campagnola che ci faceva di cucina e pulizia. Vestita di grigio, indefinibile di età, minuta e rapida. La battezzai "Olivito", perché sembrava un piccolo olivo che si muoveva nelle stanze come mossa dal vento invisibile che soffiava dalla Marina Maggiore.
Tutto diventava ordinato nella casa e poco dopo mezzogiorno spariva coi suoi vestiti di olivo.
- Perché va via tanto presto? - le domandava Matilde.
- Sto costruendo la mia casa, signora - rispondeva -. Una donna senza proprietá non vale niente.
Con le sue proprie mani, fragili e formidabili, stava costruendo una casetta di pietra. Ci invitò una volta a vedere la sua costruzione. Non era una casetta. Era una costruzione di pietra di due piani, archi e balconi. Quando arriviamo a vederla aveva appena finito la cisterna. Ci salutò allegramente, con le mani piene di fango e cemento.
Io scrivevo tutte le mattine in fogli sciolti. Quella volta il mio tema era "El viento en la Asia", un lungo poema sulla Cina, sulla Rivoluzione, su Mao, che mi sembrava allora grandioso. C'erano anche capitoli sulle cicadas, cicale cinesi che si vendono in minuscole gabbie fino a formare un grattacielo.
Il caso è che notai una volta che il mio lavoro era sparito. Vicino sotto al tavolo stava il cesto delle carte dove a volte cadevano i miei originali. L'efficienza di Olivito non poteva arrivare alla divinazione: le mie carte sul tavolo erano lavoro, le carte dentro il cesto erano spazzatura.
Mettemmo il grido nel cielo. Con Olivito ed un ispettore municipale, designato specialmente per frugare, ci trasferiamo negli immondezzai di Capri. Orrore! Le spazzature non formavano solo promontori, bensì cordigliere. Il funzionario indicò vagamente una montagna sotto la quale potevano giacere le mie ardenti strofe. Ma quello vulcano rimase spento. Nessuna combustione interna rivelò l'esistenza di buona o cattivi versi.
E dovetti ricostruire il lungo poema che si divorò la spazzatura.
Valeva la pena?, mi sono domandato molto tempo dopo, ma non per ragioni poetiche.
Fino alla mia casa a Capri arrivava da Napoli il focoso, eloquente ed energico Mario Alicata e Sarah, sua moglie.
Alicata ascoltò una certa volta il mio entusiasmo per la cipolla che egli condivideva. Quanto più io conversavo sulle sue preparazioni differenti, sapori ed odori, più si incurvavano le sopracciglia protuberanti di Mario Alicata, fino a che senza contenersi, mi interruppe con una cascata di eloquenza.
- Come osi tu, appena arrivato all'uso ed al culto della cipolla, a darmi una lezione su questo fondamento della cucina mediterranea? Noi, fenici, etruschi, levantini, romani, elaboravamo mille preparazioni della cipolla prima che voi foste scoperti e molti secoli prima che comprendeste quello che è una cipolla.
Risposi non con meno brio:
- Non si tratta sempre dell'invenzione. Il Nuovo Mondo diede grandezza, pluralità e vigore alla cipolla. Le fece più poderosa ed estesa, gli consegnò regni inesplorati. La cipolla, grata, diventò più succosa, più trasparente e più essenziale che in qualunque parte. Noi, americani, non possiamo vivere senza lei, né lei senza noi.
Li sfidiamo affinchè successivamente nella mia casa e nella sua, accompagnati da giudici inesorabili, dirimessimo tanto importante controversia, presentando ognuno il suo menù di cipolla.
Arrivò puntualmente coi giudici. Matilde ed io avevamo preparato cipolle in marinatura di vino rosso, insalata alla erba cebollina, panzerotti fritti incipollatissimi, e marinata di gamberi capresi sovraccarichi di cipolla violetta.
Prima di finire il menù di cipolle, Mario, con gli occhi fuori delle orbite e le mani in alto, proruppe: "Basta, basta! È non necessario il mio cibo. Ti dichiaro vincitore. È umiliante riconoscerlo, ma ne sapete più voi che i fenici. E potete insegnare a mangiare cipolla ai romani."
Ma, in realtà, la vincitrice fu Matilde. Le sue buone lacrime le costò la battaglia della cipolla.
Da lì, di Capri, uscirono anche Los versos dal Capitán, libro segreto che Paolo Ricci, pittore napoletano, amico affettuoso e giudice della cipolla, pubblicò in edizione bellissima di 50 esemplari.
Il primo sottoscrittore fu il grande Togliatti. Il libro andò senza padre conosciuto per molti anni. Diede la lotta per il suo conto fino a che si fece uomo. Lo riconobbi quando aveva già molte edizioni. Aveva l'età matura per uscire dall'oscurità e nascere di nuovo.
Quei giorni di Capri furono fecondi, amorosi e profumati dalla dolce cipolla mediterranea.
Ercilla, num. 1760, 12.3.1969.
Crepuscolo ad Aysén
CREPÚSCULO EN AYSÉN. (Pagine 211-214.) /.../ diversas luminarias en la crepusculosidad del mundo /.../ testigo del Aysén deslumbrante, con sus cerreríos /.../ (diverse luminarie nella crepuscolosità del mondo /... / testimone dell'Aysén abbagliante, colle sue terre incolte /... /) termini crepusculosidad e cerreríos corrispondono ad un tipo di neologismi strumentali (usa e getta) che al Neruda postmoderno piaceva introdurre nel suo discorso, con signorile autorità di poeta, per risolvere per analogia e senza maggiore fatica incidentali situazioni o problemi espressivi. I modelli probabili sarebbero in queste caso parole della tipo meticulositad e roqueríos.
Don Luis mi sembrò bassino di statura, ma forte e deletreante. Con la sua eloquenza ed il patriottismo di ogni margaritegno, mi incitò: i crepuscoli dell'isola Margarita sono i più belli del mondo. Ma la crema di questi crepuscoli la potrete vedere dalla cima della Rocca Patrocinio.
Don Luis è governatore dell'isola Margarita, famosa per l'agata rosso scorreria del tiranno Aguirre. Qualcuno ricorderà come questo capitano ribelle dei conquistatori sfidò il suo imperatore dalle sabbie smerigliate di questa isola.
Ci sediamo nella rocca e nella sedia di roccia che mi propiziava il governatore, e lì, in gruppo eccessivo, aspettiamo l'indicato crepuscolo.
Apparve all'improvviso una nuvoletta che cercò di imporporarsi. Altre vennero in sollecita prodigalità. Il vuoto del cielo si andava riempendo con la rapida notte del tropico. Aspettavamo.
Aspettavamo, ma non arrivò. Il connotato crepuscolo non arrivò all'appuntamento. L'ultima luce si disperse fino a soccombere nel traffico dell'ombra che veniva.
Non mi sentii sorpreso. I grandi tramonti di sole non si presentano così non più ai congreganti riuniti e molte volte si lasciano cadere subitanee, inaspettate ed ardenti, sullo spettatore meno preoccupato del panorama del tramonto.
La mia prima collezione di questa specie la mostrai nel mio libro Crepusculario, sezione «Los crepúsculos de Maruri». In quegli anni, e nella strada famosa, io mi sedevo al balcone a guardare l'agonia di ogni pomeriggio, il cielo imbandierato di verde e carminio, la desolazione dei soffitti locali minacciati dall'incendio del cielo. Da allora potei annotare, senza più coraggio per festeggiare l'avvenimento vagabondo, diverse luminarie nella crepuscolosità del mondo, attraverso i miei viaggi.
Alcuni furono veloci ed insostituibili, per la loro gran profusione di palme ed il monsone che li scuoteva, in Ceylon dove scrissi i miei versi con solitaria angoscia ed accompagnamento di qualche altra ragazza torrida avvolta dalle fiammate del mare fosforescente e la liturgia celeste.
La Spagna mi propose imbrunire secchi, con un freddo piccante che viene dalle catene montuose e che lascia solo spazio per la contemplazione interna. E l'estate lo passavo circondato dagli amici che divoravano vongole e giovani anguille nella Birreria delle Poste. Tra sherry e vino di Montilla, non si lasciava posto per i riti del sole ponente.
In realtà, fu pochi giorni fa, e quasi al piede della patria che mi trovai col crepuscolo imperiale, con tutti i suoi cavalli bardati, le sue tiare ed i suoi diademi: un inaspettato spreco della gran solitudine del Sud.
Io venivo da Puerto Montt, stupito per il gran lago General Carrera, da quelle acque metalliche che sono un parossismo della natura, solamente paragonabili al mare colore turchese di Varadero, a Cuba, o al nostro Petrohué. E dopo del selvaggio salto del fiume Ibáñez, incomparabile nella sua terrificante grandezza. Venivo anche affranto per l'incomunicabilità e la povertà dei paesi della regione, senza luce elettrica di fianco all'energia colossale, con vestiti poveri e rotti tra le infinite pecore laniere, fino a che arrivai a Chile Chico.
Lì, chiudendo il giorno, il gran crepuscolo mi aspettava. Il vento perpetuo tagliava le nuvole di quarzo. Fiumi di luce azzurra isolavano un gran blocco che il vento manteneva in sospensione tra la terra ed il cielo.
Terre di allevamento, campi seminati che lottavano sotto la pressione polare del vento. Intorno la terra si alzava con le torri dure del Roca Castillo, punte taglienti, aghi gotici, merli naturali di granito. Le montagne arbitrarie di Aysén, rotonde come palle, elevate e lisce come tavoli, mostravano rettangoli e triangoli di neve.
Ed il cielo lavorava il suo crepuscolo con tessuti di seta e metalli: scintillava il giallo nelle altezze, sostenuto come un uccello immenso dallo spazio puro. Tutto cambiava all'improvviso, si trasformava in bocca di balena, in leopardo ardente, in luminarie astratte.
Sentii che l'immensità si dispiegava sulla mia testa, nominandomi testimone dell'Aysén abbagliante, coi suoi terreni incolti, le sue cascate, i suoi milioni di alberi morti e bruciati che accusano i loro antichi omicidi, col silenzio di un mondo in nascita in cui è tutto predisposto: le cerimonie del cielo e della terra. Ma mancavano la protezione, l'ordine collettivo, l'edificazione, l'uomo: quelli che vivono in tanto gravi solitudini hanno bisogno di una solidarietà tanto spaziosa come le loro grandi estensioni.
Mi allontanai quando si spegneva il crepuscolo e la notte cadeva, impressionante ed azzurra.
Ercilla, num. 1762, 26.3.1969.
Grandezza e fine degli eccentrici
Si usa meno e meno l'artista eccentrico. Sparisce coi regali e le miserie da un altro tempo. Sono il primo a deplorarlo. Niente mi sarebbe piaciuto di più che appartenere io stesso a quella promozione di virtuosi. La premura e la lotta di classe stanno finendo con loro.
Le strade sono infernali fiumi di consumatori e consumati. Nessuno vuole trattenersi davanti alla squisita presentazione di un individualista riconcentrado che ha preparato, come un'opera d'arte, la sua sfida alle monotone abitudini. D'altra parte, è troppo serio questo mondo in cui si affrontano sfruttatori e sfruttati per fermare menti nel disinteressato esibizionismo.
Io ammiro, tuttavia, l'eroico e solitario Kirby, che non è solo un ocarinista consumato, ma che, nonostante i suoi anni, porta a spasso la sua vistosa eleganza per le strade di Valparaíso, sempre accompagnato da un cane spettacolare, ed a volte di un uccello cantore che obbedisce ai suoi invisibili ordini.
Anni fa circolava per Santiago il signor Mac Queen, indiscutibile principe di un'insolita gerarchia. Lo vidi passare una o due volte nella sua carrozza, una vittoriana landau popolare alla quale egli aggregava l'estranea maestà del suo abbigliamento. Perché Mac Queen stava lì sgradevolmente seduto, avvolto in oscura cappa, con un pappagallo verde su una spalla ed una lunga spada scoperta, che non serviva per minacciare nessuno. Era, forse, l'insegna del suo grado nella singolarità.
Il mio amico lo scrittore Omar Vignole scandalizzò Buenos Aires per molti anni per la prediletta compagnia della sua vacca, che l'accompagnava da tutte le parti. Il suo trionfo maggiore fu quando entrò con la vacca alla hotel Plaza, dove si celebrava un Congresso del PEN Club, presieduto da Victoria Ocampo ed Aldous Huxley. Il trionfo consistè nel fatto che la polizia aveva preso tutte le precauzioni affinché Vignole non passasse col suo quadrupede. Ma egli mise la sua vacca in uno spazioso carro di traslochi, e discese con lei, solennemente, alle porte del hotel.
Povero Vignole, tanto incompreso! Ebbe ragione nell’intitolare i suoi libri: Conversaciones con la vaca, Lo que me dijo la vaca, etc.
Questo uomo tanto inoffensivo fu discusso e negato dai suoi contemporanei. Egli si difendeva quanto poteva, ed alla sua maniera. Usava alcuni biglietti da visita che lasciava nelle case dove non volevano riceverlo. Conservo uno di questi biglietti. In corretto tipo corsivo ed in rilievo può leggersi in esso: "Omar Vignole, scrittore", e più sotto, in carattere più piccolo: "Vada Lei alla merda."
Ovviamente che in un mondo di beatniks e hippie, l'eccentrico abbigliamento sparisce sommerso da un'immensa marea, che copre il mondo con barba, rosari, strane magliette, orecchini ad anelli maschili e feticci. Questi invasori contemporanei, che caricano i loro colli sulla schiena, ignorano i loro precursori, quel grande esercito di eroi dimenticati che lottò contro una società protocollare, indurita per i pregiudizi, inamidata da convenzionalismi che si estinsero grazie, in parte, a questi indomiti individualisti.
Il dandismo fu una scuola di eccentrico aristocratizzanti che, con l'esacerbazione dell'eleganza, contribuirono a scavare la stabilità ereditaria delle istituzioni. Baudelaire riunisce già i tratti del dandista e del ribelle.
Ed un altro dandy che ammiro, il romanziere Eugéne Sue, fondatore del Jockey Club della Francia, che irritò in tale maniera la mondanità col suo libro Los misterios de París che fu allontanato, esecrato e sloggiato degli alti circoli parigini del secolo scorso. Ma ebbe la sua propria ricompensa. Fu scelto deputato dai suoi lettori e dal popolo di Parigi. Fu uno dei primi deputati socialisti della Francia.
Anni fa, a Londra, accorsi ad un recital mondiale di poeti. Tutto si sviluppava con magnifici programmi di poesia, con festeggiamenti, interviste, macchine fotografiche e microfoniche. Qualche attenzione ci dispensavano Spender, Olson, Magnus Enzensberger, Auden, Ungaretti, Berryman ed a me. Per lo meno, io venivo di più lontano. Avevamo l'attenzione generale, e si formavano crocchi intorno a noi con investigatori letterari e collezionisti di autografi.
Tutto questo fino a che arrivò il poeta beatnik nordamericano Allen Ginsberg.
I capelli gli cadevano sulle spalle. Dalla sua barba cadono a terra i suoi mistici sorrisi. Dal collo pendono amuleti, rosari e cianfrusaglie tibetane. I suoi pantaloni stanno umilmente, o espressamente, spiegazzati. Il poeta beatnik finisce in basso senza calzini e con sandali.
Questo non ha niente di strano ai nostri giorni. Ma lo strano fu che tutti i fotografi ed i cacciatori di autografi c'abbandonarono.
Tutti se li prese Ginsberg.
Credo che fosse il poeta inglese Sacheverell Sitwell che scrisse un libro sugli eccentrici vittoriani. Non mi incrociai mai con lui e non lo ho letto. Ma una certa volta incitai Benjamín Subercaseaux a tracciare gli splendidi tratti dei nostri più eminenti eccentrici cileni. Subercaseaux stava quel giorno di pessimo umore, e mi rispose che egli non era un umorista, e che tali personaggi non entravano nel suo dominio. È una pena. Io non mi considero scrittore prosaico (così chiamano i prosatori nelle lingue slave) e non scriverò mai tale libro che con una prosa rabbonita e pertinace persegua date, atteggiamenti e riti che lascino scritta la storia di alcuni dei nostri stravaganti compatrioti.
Nella letteratura non ci mancherebbero seduttori esemplari.
In generale, noi scrittori coltiviamo le nostre manie, da Pérez Rosales, fantasista e chimerico, fino ad Alone, eccelso scrittore ed eccentrico politico.
Ercilla, num. 1764, 9.4.1969.
Direttore di riviste, anche
REVISTERO, TAMBIÉN. (Pagine 217-220.) /.../ ahora, por primera vez, se publican versos míos /.../ (adesso, per la prima volta si pubblicano i miei versi). Neruda si riferisce qui a "Oliverio", in Sur, num. 313, Buenos Aires, 1968 (ed in allegato). Si tratta del poema "Oliverio Girondo", di Fin de mundo, in queste OCGC, vol. III, pp. 416-430.
- “Caballo Verde para la Poesía." Furono sei numeri di gran bellezza. Dei sei se ne conoscono solo quattro. Secondo Neruda ci fu un numero 5-6, dedicato al poeta uruguaiano Julio Herrera y Reissig che avrebbe dovuto apparire il 19 Luglio del 1936 ed i cui esemplari, già stampati, si persero nella confusione dei primi giorni della guerra civile spagnola (cfr. il racconto “se ha pedido un Caballo Verde", di questa stessa sezione).
Benché quasi vedessi nascere la rivista Sur otto anni fa, a Buenos Aires, ora, per la prima volta, si pubblicano i miei versi su questo numero 313 appena apparso.
La verità è che sono poco favorevole che i miei versi escano nelle riviste e se in qualche modo escono è perché mi volarono dal tavolo.
Penso che tirare fuori una foglia all'albero che sta crescendo il debilita in qualche modo, lo spoglia. Può essere una superstizione che si è andata accentuando coi miei anni. Il libro a cui lavoro lo costruisco come si plasma un compact disc. Perciò mai, o quasi mai, usai le dediche nei poemi. Non per mancanza di consacrazioni o di amicizia, bensì perché le trovai esterne ed insopportabili. Ma sento gran rispetto per le riviste. La stessa continuità di Sur è un'epopea di passione letteraria. Le sue deviazioni o le sue tendenze non possono ridurrla.
Ci sono già riviste che non leggiamo per il loro peso ed appena guardiamo; per esempio, i Quadernos Americanos, Atenea, o le tante riviste universitarie del nostro frondoso continente. Ma se queste spariscono cadranno nell'acqua dal tempo con un colpo tristissimo e ci spruzzeranno il viso alcune gocce di malinconia e dispiacere. Unirono nelle loro pagine studi e tributi, mode e ricordi, e se il loro spessore le portò a poco a poco al silenzio, vuole dire che si andarono ritmando con una vita secretiva e segreta.
Io fui epico fondatore di riviste, ma presto le lasciai, o mi lasciarono. Prima del 1927, non ricordo che numero ebbe quell'anno, fondai un tale Caballo de Bastos. Era il tempo in cui scrivevamo senza punteggiatura e scoprivamo Dublino attraverso le strade di Joyce. Il poeta Díaz Casanueva usava allora un sweater con collo di tartaruga, grande audacia per un poeta dell'epoca. La sua poesia era bella ed immacolata, come ha continuato ad essere. Rosamel del Valle si vestiva interamente di nero, dal cappello alle scarpe, come dovevano vestirsi i poeti. Questi due compagni eminenti li ricordo come collaboratori attivi. Dimentico altri. Ma quel galoppo scosse l'epoca.
Fondai un altro cavallo a Madrid: Caballo Verde por la Poesía. Furono sei numeri di gran bellezza. Componeva la rivista il poeta Manuel Altolaguirre in grande tipografia bodonica. Mi piaceva vedere Manolito, sempre pieno di risate e di sorrisi, alzare i caratteri, collocarli nelle scatole e dopo azionare col piede la piccolo pressa di stampa. A volte Altolaguirre si portava tutti gli esemplari nella carrozzina della sua figlia Paloma. I passanti lo fermavano: Che papà tanto ammirevole! Attraversare l'indiavolato traffico con quella creatura! Ovviamente, era la poesia che faceva un viaggio nel suo Caballo Verde.
Lì si pubblicò il primo nuovo poema di Miguel Hernández e, naturalmente, quelli di Federico, Cernuda, Aleixandre, Guillen (il buono: lo spagnolo). J. R. Jiménez, nevrotico, novecentista, cominciò a lanciarmi dardi domenicali. Non importava, non importa. Alberti si arrabbiò per il titolo: perché era verde il cavallo? Caballo Rojo, doveva chiamarsi.
Non gli cambiai il colore. Ma non litigammo per quel motivo. Non litigammo mai per niente. C'è abbastanza posto nel mondo per cavalli e poeti di tutti i colori dell'arcobaleno.
Quindi qua, di ritorno al Cile, in piena seconda guerra mondiale, fui direttore della rivista Aurora de Chile. Tutta l'artiglieria letteraria (non avevamo altro), si precipitava contro i nazisti, che si stavano inghiottendo a poco a poco tutti i paesi. Bisogna dire che nel sud, da Villarrica a Valdivia, ondeggiava di porta in porta la croce uncinata. L'ambasciatore hitleriano in Cile regalò libri della chiamata cultura neo-tedesca alla Biblioteca Nazionale. Rispondemmo chiedendo a tutti i nostri lettori che ci mandassero i veri libri della vera Germania, proibiti da Hitler. Fu una grande esperienza. Potemmo vedere l'insolenza e la paura tra i residenti tedeschi in Cile. Ricevetti minacce di morte. Ed arrivarono molti pacchetti correttamente imballati come libri che contenevano immondizie. Ricevemmo anche collezioni intere dello Stürmer, giornale pornografico, sadico ed antisemita, diretto per Julius Streicher, giustamente impiccato anni dopo a Norimberga. Ma a poco a poco, con timidezza, cominciarono ad arrivare le edizioni in lingua tedesca di Heine, di Thomas Mann, di Anna Seghers, di Einstein, di Arnold Zweig. Quando fummo vicini a cinquecento volumi andammo a lasciarli alla Biblioteca Nazionale, con grandi ritratti degli scrittori proibiti.
Oh sorpresa! La Biblioteca Nazionale ci aveva chiusi le porte con lucchetto.
Formammo allora una sfilata e penetrammo al Salone di Onore dell'Università coi ritratti del pastore Niemöller e di Karl von Ossietzky. Non so per quale motivo si celebrava lì in quell'istante un atto presieduto per don Miguel Cruchaga Tocornal, ministro delle Relazioni. Collochiamo con cura i libri ed i ritratti nel palco della presidenza, e quegli uomini che allora giacevano nei campi di concentramento solennizzarono anche quell'atto accademico. Si vinse la battaglia. I libri furono accettati.
La mia ultima incursione nel mondo delle riviste fu La Gaceta de Chile. Furono scarsi ma succulenti numeri che ancora ricordo affettuosamente. I giovani poeti si disputavano la supremazia con tanto ardore come lo fanno oggi e lo faranno domani. Allora neanche mancavano critici che aizzavano gli uni contro gli altri, per comunicare come veggenti o viventi del probabile futuro. Per ciò inventai una Rosa de Poesía, dedita a tutti i venti e la cui autonomia permise che si aprissero tutti i fiori di quel momento. Alcuni continuano ad essere aperti.
Ercilla, num. 1766, 23.4.1969.