Pablo Neruda e Insetti


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Neruda : Il ritorno del soldato errante (1952-1955) - 3^ parte

LE NOVITÀ

V

La Verità di Domani (1954-1955)

Ricevendo da Ehrenburg il premio Stalin della Pace

Cari amici:
Ilyá Ehrenburg ha dovuto attraversare la terra per portarmi il "premio Stalin per il rinvigorimento della pace tra i popoli." Quando gli chiesi che lo facesse conoscevo la sua esistenza piena di lavori, la sua laboriosa ed illustre vita di scrittore, ma pensai che onore-rebbe doppiamente il mio paese e la mia patria se io ricevessi delle sue mani questa di-stinzione fino ad ora concessa solo ad alcuni uomini del nostro continente, tra essi il gran-dioso cantante Paul Robeson ed il gran romanziere Jorge Amado.
In effetti, il tuo nome, Ehrenburg, è conosciuto e amato nel mio paese. Scrittori ed operai, contadini e musicisti, medici e minatori, centinaia di migliaia di persone semplici avrebbero voluto stringere la tua mano, guardando affettuosamente la tua testa che il tempo ha coperto di neve e gloria.
Tutto questo popolo, vicino ai suoi fratelli dell'America Latina, sa che la tua visita è un episodio storico. Ricevono spesso i nostri paesi con onori ufficiali i sostenitori della guerra, i predicatori della distruzione atomica, i nemici accaniti della pace e della vita. Tu attraversasti continenti ed oceani per lasciare sul mio cuore una dignità appena creata che parte tuttavia dalla più pura profondità umana, un premio della pace che, per il suo nome ed il suo significato danno alla mia patria un onore che la mia sola poesia non potrebbe meritare se non fosse accompagnata per gli infaticabili aneliti del paese cileno.

L'UOMO AMERICANO E LA PACE

La lotta per l'indipendenza nazionale nei paesi americani non si è fermata. Hai pronunciato i nomi di O'Higgins e di San Martín, di quelli quali fondarono tra il mare e la cordigliera le nostre patrie pacifiche. Essi vollero che le nostre genti e le nostre culture, le nostre abitu-dini e le nostre bandiere fossero rispettate da tutte le nazioni. I popoli latinoamericani con-tinuano questa lotta e sono innumerevoli gli anonimi eroi che caddero fino ad ieri stesso difendendo la dignità americana.
Per elevare questa dignità, l'uomo americano fa sua la causa della pace ed odia i trafficanti dell'odio e del sangue.
Se la mia poesia ha riflesso questo sentimento, se il bicchiere del mio canto ha contenuto la chiarezza ed amore, è perché io sono solo minima espressione della mia terra, piccolo battito della mia patria.

CHE IL MIO CANTO COMPIA IL DOVERE DI QUESTO TEMPO

Nella tua patria, Ehrenburg, fui ricevuto col maggiore decoro e con l'amicizia, la franchez-za, l'ospitalità e l'affetto della nobile nazione sovietica. Tutte le case mi aprirono le loro porte, conobbi le sue costruzioni portentose e la sua ammirevole poesia. Posso dire che insieme ai poeti della mia età, Pushkin e Mayakovski mi aspettavano per mostrarmi tutta la grandezza sovietica.
Io non posso dimenticarlo. E se non abbiamo potuto corrispondere nella stessa misura, il paese e la cultura del Cile ti hanno testimoniato, in molte forme, la loro stima ar-dente.
Arriverà un giorno in cui riceveremo i messaggi dell'amicizia con la dignità che si meritano, allora non si intrometteranno oscuros mercenari, bestie bugiarde a diminuire la fraternità tra le nazioni.
Ricevendo il "premio Stalin per il rinvigorimento della pace tra i paesi", ringraziando un'altra volta per l'ultima distinzione che ricevo, impegno una volta di più la mia vita, la mia parola ed il mio canto affinché continui a compiere nella misura delle mie forze, i doveri di luce, di allegria, di lotta e di amore che costituiscono nel nostro tempo l'onore dei poeti.

El Siglo, Santiago, 11.8.1954.

Il mio saluto a Gabriela

Gabriela Mistral.
In questo mese di settembre fioriscono gli yuyos, il campo è un tappeto tremulo e giallo. Qui nella costa da quattro giorni batte con magnifica furia il Vento Meridionale. La notte è piena del suo movimento sonoro. L'oceano è aperto vetro verde, titanica bianchez-za.
Arrivi, Gabriela, amata figlia di questi yuyos, di queste onde, di questo vento gigan-te.
Tutti ti riceviamo con allegria.
Nessuno dimenticherà i tuoi canti a cactus spinosi, alle nevi del Cile. Sei cilena.
Nessuno dimenticherà le tue strofe ai piedi scalzi dei nostri bambini. Appartieni al popolo.
Nessuno ha dimenticato la tua "parola maledetta." Sei una decisa sostenitrice della pace.
Per queste ragioni, e per altre, ti amiamo.
Orbene, molti di quelli che dicono amarti lo dicono per sommarsi al tuo regno, al va-sto e tragico ambito della tua poesia, ma sono in fondo i tuoi nemici, avversari di ogni poe-sia.
Oggi lessi a Isla Negra un articolo di El Mercurio, pieno di melliflue lodi alla tua illu-stre figura. Farisei audaci! Ipocriti serpenti! Tempo fa, a causa delle tue parole in favore della pace mondiale, ti licenziavano ed era così, rispettabilmente, dopo trenta anni di lavo-ro in quello quotiduano nordamericano, trattata come i padroni di El Mercurio trattano Paul Robeson.
È una tua gloria, ed la ricordo con emozione unendo il tuo nome alla voce del Mississippi nero.
Trovi oggi, in settembre, i petali passeggeri del mandorlo e del ciliegio caduti sulla terra e le prime foglie che lottano un'altra volta, che nascono un'altra volta, chiamate dalla nostra fredda primavera.
Così, anche, il nostro popolo. Un'altra volta lo riunirono, gli promisero maggiore pa-ne, vestiti, caldo, giustizia, e ritornò al suo tragico inverno, alla sua abbandonata miseria. Lo lusingarono senza freno, lo ricevono oggi con pietrificata arroganza.
Invece del maggiore pane che gli fu promesso e giurato, gli comandano una nuova legge di pali e torture.
Ma il tuo popolo, Gabriela, è invincibile. Egli è orgoglioso di te. Anche tu puoi essere orgogliosa, pensatrice, dei semplici uomini e donne del Cile. Non accetteranno lo schiavi-tú. Imporranno la libertà. Non parteciperanno alla guerra, ed in tutto questo saranno come le speranzose foglie invincibili. Cercheranno la luce. Consacreranno la primavera. Accla-meranno la pace.
Sappiamo che grandi pericoli per il Cile si preparano nella terra straniera da dove vieni. Tu hai appena vissuto sconsolata, sono sicuro, Gabriella, l'atto di rapina che annichi-lì il Guatemala. Governa già lì la cinica e buffonesca tirannia, comandano lì i favoriti di Ei-senhower, i Trujillos, Ubicos, i Batista, le Somozas sanguinanti. Già è soddisfatto il dollaro assassino.
Nella bella terra di nostro fratello Walt Whitman un pugno di avventurieri brutali pre-para il dissanguamento dell'umanità.
Hanno ordinato al Cile che non commerci con l'Asia, che non parli con Praga né con Cracovia, luoghi della più antica saggezza, né che conoscano Polonia né Ungheria, né Bulgaria né Albania che non guardino le stelle dell'augusta Leningrado.
I pirati del rame, sazi d'oro, negano il pane a quelli che estraggono il minerale dalla crudele cordigliera.
Hanno deciso che nella culla di Pérez Rosales e di Vicuña Mackenna, nella tua ter-ra e nella mia, anonimi, vigliacci topi al soldo oltraggino e rubino ai più grandi scrittori del mondo contemporaneo, che visitano la nostra patria, perché credono che la nostra patria, tua e mia, continua ad essere patria di amore e pace, terra di intelligenza.
Arrivi, Gabriela, agli yuyos e ai cactus spinosi del Cile. Orbene occore che ti dia il benvenuto vero, fiorito ed aspro, in conformità alla tua grandezza ed al la nostra amicizia infrangibile.
Le porte di pietra e primavera di settembre si aprono per te e nient'altro è più gradi-to per il mio cuore che vedere il tuo largo sorriso entrare nella sacra terra che il popolo del Cile fa fiorire e cantare.
Perdonami perché non mi spetta solo darti il benvenuto, bensì condividere con te l'essenza e la verità che per grazia della nostra voce e dei nostri atti saranno rispettati.
Che il tuo cuore meraviglioso poggi, viva, lotti, canti e creda nell'oceanica ed andina solitudine della patria.
Bacio la tua nobile davanti e riverisco la tua estesa poesia.

Isla Negra, 8 settembre 1954

El Siglo, Santiago, 12.9.1954.


La verità di domani

È curioso vedere una collezione di quotidiani antichi. L'epoca appare più viva leggendo i fatti diversi di ogni giorno, le calamità, commemorazioni, trionfi, imbastiti per il caso del tempo che corre. È quello un giornale.
Quando uno legge El Mercurio di 100 anni fa, osserva che era migliore di quello di oggi, più libero, meno dipendente del capitale straniero, più veritiero. Uno si domanda che impressione nauseabonda avrebbe del nostro paese fra 100 anni i lettori del futuro, se leggessero quella stampa, grossa di spirito e di pagine.
Le pagine dei nostri giornali americani sono state invase dalle bugie preparate dai laboratori disintegranti del Dipartimento di Stato.
Quando il lettore di domani cercherà la verità gli sarà difficile trovarla in questi quo-tidiani rarefatti, soffocati sotto il peso della menzogna interessata.
Quando il quotidiano El Mercurio chiamò nei suoi titolari patrioti i mercenari dell'Uni-ted Fruit che entravano in Guatemala protetti da aeroplani nordamericani, lasciò stampata nella nostra storia di ogni giorno, una falsità, evidente per tutto il mondo di oggi. Ma, chi disse il contrario? Dovranno leggere El Siglo, il quotidiano del popolo e della verità. Do-vranno paragonare la pagina editoriale di quei quotidiani dediti a difendere integralmente l'ingiustizia, l'oppressione e la sottomissione, con le chiare pagine nelle quali El Siglo di-fende con irremovibile valore, il decoro della nostra vita nazionale e le aspirazioni storiche dei cileni.
Perciò siamo orgogliosi di El Siglo. El Siglo è esempio di patrioti in cui si guarderà la storia quando la cercheranno gli uomini onesti di domani.
Io saluto l'unico quotidiano nazionale e popolare, quotidiano di operai e di poeti, quotidiano della lotta e della verità. In lui vive, in lui continua vivente la parola di Ricardo Fonseca, ed il suo cuore fresco e fermo continua a battere in queste pagine.
Se El Siglo non esistesse, le tenebre starebbero coprendo la fronte della nostra pa-tria. Gran parte della luce che irradia il nostro paese la devono i cileni all'instancabile e combattente periodico del popolo.

El Siglo, Santiago, 24.10.1954.


Prologo per Efraín Barquero

Le parole si consumano nell'uso, il senso fugge delle forme, la poesia - troppo usata - si demolisce da sé stessa. Il poeta d'epoca si complica nelle frasi come il pesce nella rete, agonizza fuori dell'acqua, l'aria l'annichilisce. Così escono poemi di carta, interminabilmen-te arrotolati e rarefatti, di moda oscura, poemi senza pelle, senza mani, senza oggetto.
La poesia di Efraín Barquero ha corpo. È un materiale ricco, una ricostruzione se-condo le leggi della vita, con parole, con frasi che sembravano inutili e che al suo richiamo tornano a brillare come spade, rilucono come il vino, si trasformano in pietra, elevano u-n'altra volta la dignità del canto.
Questo poeta portabandiera puteva insegnare poesia pura ad un reggimento di oscurantisti, ma preferì la trasparenza e con lei qualcosa di più: la poesia.
Nessuno può dubitarlo, questo tono non inganna, chi tocca questo libro lo sentirà respirare come un essere vivo, e dopo se lo porterà questo vento della poesia, sopra e sotto, verso il mare ed i boschi, verso le vite dell'uomo.
La natura ed il popolo si mescolano nella poesia del giovane Efraín formando un'u-nità spesso vittoriosa.
Poeta di classe, popolare, campestre e campagnolo, mette la sua devozione nei mestieri, nelle lotte, negli abbandoni del popolo, con la semplicità e l'orgoglio della sua ori-gine.
Perciò questo libro è luminoso e predice un nuovo splendore alla poesia delle no-stre terre americane. Attraversa i poeti davvero giovani, senza tenebre né tiritera soggetti-va. Efraín Barquero è un poeta della verità.
Il suo canto di oggi, mattutino, si imporrà con sonora certezza. Nel suo destino ci sono acqua e foglie, fulgore ed amore, combattimento.
In questo momento in cui gli scuri si oscurano fino a sparire a noi arriva Efraín Bar-quero ricevendo nel suo fine viso e restituendola nel suo canto, la chiarezza del popolo.

Los Guindos, 10 novembre 1954

Prologo ad Efraín Barquero, La piedra del pueblo,
Santiago, Editoriale Alfa, 1954.


Ehrenburg in Cile

Se per tutto il mondo significò un avvenimento il viaggio di Ilyá Ehrenburg nell'America del Sud, per me questa visita aveva un concentrato elemento personale. Ehrenburg è uno dei pochi scrittori europei che si è sempre interessato su noi, i latinoamericani. Il suo interesse viene dalla Spagna. Già molti anni fa tradusse alla lingua russa la Coplas di Jorge Manri-que. Io non conosco il russo, ma ho sentito a volte recitarlo dallo stesso Ehrenhurg, e la sua sonorità mi sembrò la stessa. Non c'è dubbio che come un rintocco risponde ad un al-tro, con la stessa pienezza trasportò il nostro gran amico nella sua lingua quelle strofe es-senziali, fondamento di tutta la poesia della lingua spagnola.
Perduta la Spagna, dominata dai fascisti tedeschi, italiani e nordamericani, Ehren-burg diresse la sua curiosità alla nostra America. La poesia dei nostri poeti lo interessò moltissimo, ma gli interessò anche la vita delle nostre povere genti, i monumenti antichi, la fauna e la flora di questi paesi.
Prima di uscire da Mosca, con quell'interesse esaustivo ed ardente che mette in tut-te le cose, riassunse dai manuali e dai consigli accademici una lista di piante del Cile.
Io non potrei richiamare ad Ehrenburg un uomo politico. È vero che i suoi articoli durante la passata guerra mondiale furono tanto decisivi per la vittoria contro il fascismo come molti carri armati e numerose divisioni; ma credo che Ehrenburg combattè special-mente la guerra, l'oppressione, la mancanza di cultura. Ama le arti più popolari o più raffi-nate con un sentimento possessivo; fanno parte del suo territorio passionale. Quando vie-ne chiamato "portabandiera della pace", questo, che sembrerebbe un luogo comune per molti, si applica correttamente ad Ehrenburg. Ci sono una bandiera o una mano di Ehren-burg che in qualunque parte, già si tratti di un monumento primitivo dell'Isola di Pasqua o della poesia fragrante e galante di Ronsard, si alza sulla pietra, sulle strofe o sui colori per proteggerli dalla regressione o della distruzione.
Abbiamo in Cile un ambasciatore nordamericano che in questo punto differisce considerevolmente da Ehrenburg. Per certe ragioni di ubiquità sempre mister Beaulac si trova nel posto dei disastri. Se gli domandassimo che relazione ebbe questo corretto cava-liere con la morte tragica di Gaitán e gli ammutinamenti di Bogotà, il signore Beaulac mo-strerebbe un sorriso più innocente della Gioconda. Ma lì stava il signore Beaulac quando fu assassinato quell'uomo che difendeva i diritti del popolo colombiano e da allora la mor-te, la distruzione, e la sottomissione agli interessi nordamericani sono passati ad essere normalità nella sfortunata Repubblica della Colombia.
Cose simili accaddero in Grecia e Yugoslavia, dove, per coincidenza, stava rappre-sentando agli sfrenati militaristi yankee mister Beaulac. In quei paesi si estinse la libertà, e la fucilazione di patrioti greci è stata un avvenimento angoscioso nella nostra epoca.
L'arrivo di Ehrenburg coincise con una grande offensiva del fascismo nordamerica-no contro il Cile. Un emulo, collega ed anima gemella di mister Beaulac aveva terminato in America Centrale la "operazione Guatemala" che consistè in bombardare le città indifese per installare il monopolio della frutta nel governo. Il signore Beaulac aveva la gloriosa op-portunità di dirigere la conquista del Cile.
Gli agenti nordamericani si diressero frettolosamente all'aeroporto della capitale ci-lena. Tutti sanno già quello che accadde. Vessarono l'illustre scrittore, saccheggiarono il suo bagaglio, oltraggiarono la legalità ed il prestigio del Cile e cercarono di tessere un grossolano racconto, stupidamente bugiardo, sul suo arrivo.
Questi funzionari confusero la parola Genéve con Genova ee equivocarono la riu-nione dei quattro grandi con un congresso comunista che non esistè.
Ehrenburg mi portava il primo esemplare del Canto general, in bozza ancora, tra-dotto al russo laboriosamente in anni di lavoro da dieci [o undici] poeti sovietici. Gli istruiti funzionari li mostrarono in trionfo ai giornalisti: "Istruzioni di Mosca!", "saranno tradotte!." Perciò il Canto general andava ad essere tradotto un'altra volta, dagli sbirri, al castigliano. L'indignazione nazionale mi liberò di questa traduzione che incominciò a farsi nell'amba-sciata nordamericana.
Le altre carte di Ehrenburg erano una lista di piante cilene coi loro nomi latini ed un prospetto della compagnia scandinava di aviazione. Gli impiegati nordamericani non co-noscono il latino e credettero si trattasse di una lingua segreta. Le parole araucaria imbri-cata causò mal di testa a mister Beaulac.
Il diploma secondo cui mi era concesso il premio Stalin, in spagnolo, causò una sbavante aspettativa nei circoli polizieschi. Lo fotografarono, che è come fotografare la Torre Eiffel, come documento segreto.
Finita la stupidità, processati severamente per la protesta nazionale davanti agli ol-traggi, i funzionari nordamericani propagarono leggende di sapore ridicolo. Il signor E-hrenburg portava dischi con istruzioni. Il signore Ehrenburg era portatore di consegne. Il signore Ehrenburg portava milioni nella valigia.
Tutto passò. Davanti ad un intervento che si conoscerà qualche giorno dopo la poli-zia dovette consegnare il diploma e l'opuscolo della linea aerea, il mio libro e la lista di piante.
Il presidente parlò da La Moneda: "Restituiscano tutto entro dieci minuti." E entro dieci minuti, Ehrenburg ed io riceviamo le carte rubate.
Da quel momento la polizia smise di parlare dei dischi e dei milioni.
Ehrenburg mi consegnò il premio Stalin della pace, in una cerimonia commovente, circondato per il rispetto e la venerazione che gli dimostrò il popolo cileno in ogni momen-to.
Non finirono così le provocazioni. Sconfitti, i facinorosi ricorsero a camioncini con altoparlanti, a dischi stampati nella Radio Sociedad Nacional de Agricoltura, a pubblicazioni bugiarde sulla partenza di Ehrenburg. Queste appendici, col potere che dà loro il monopolio delle notizie, le trasmisero a tutto il mondo. Ehrenburg, tuttavia, conservò un gradito ricordo del Cile. Potè vedere per le strade, nei circoli popolari, studenteschi, intellettuali, l'intenso amore che sentono i paesi dell'America Latina per la pace, l'amicizia, l'affetto che li unisce alla gran nazione sovietica, e l'odio che si sta svegliando in ognuna delle nostre nazioni dagli invasori di paesi pacifici come Corea e Guatemala.
Dalla partenza di Ehrenburg, si è fatto più evidente per i cileni che quelle provoca-zioni all'illustre scrittore erano il principio di un piano. Nuovi oltraggi si registrarono più tardi contro visitatori, parlamentari nazionali, impiegati ed operai. Le stesse forze che cercarono in forma molto villana, ed a volte grottesca, di fare della visita di Ehrenburg un incidente in-ternazionale, continuano la cospirazione contro i diritti e le libertà pubbliche del Cile.
Il piano nordamericano di repressione è in funzione. Ha docili esecutori che lo muovono ogni giorno. Emarginazioni, proibizioni, attentati contro la Costituzione, una rete di fili avvelenati pretende di trattenere i muscoli e l'azione del nostro paese, preparando un regime di completo arbitrio e obbligazioni, come quelli che esistono già in altri posti in America Latina.
Il paese cileno, le sue organizzazioni, i suoi partiti politici, senza che li divida nessun stretto concetto davanti al pericolo maggiore, i suoi intellettuali, i suoi studenti, contadini, impiegati, industriali e sicuramente lavoratori faranno polvere e fumo dei tentativi di san-gue di quelli quale vollero offendere Ilyá Ehrenburg e dovettero battersi in ritirata con la coda tra le gambe.
Il grande scrittore dai capelli aggrovigliati passò per il Cile con la rapidità di un rag-gio; ma chi potrà dimenticare quei giorni, la sua presenza, la sua gagliardia indomita in di-fesa dei valori più belli dell'uomo e della terra?

Aurora, num. 2, Santiago, dicembre 1954.


Le lampade del Congresso
LAS LÁMPARAS DEL CONGRESO. (Pagine 967-992.) Conferenza-relazione sul Secondo Con-gresso degli Scrittori Sovietici (Mosca, dicembre 1954), letta nel Teatro Dieciocho, Santiago, ed e-dita in Aurora, num. 3, Santiago, aprile 1955.

Il cielo è bianco. Alle quattro del pomeriggio è già nero. La notte da quell'ora ha chiuso la città.
Mosca è una città d'inverno. È una bella città d'inverno. Sui tetti infinitamente ripetu-ti si è stabilita la neve. Brillano sempre i pavimenti puliti. L'aria è un vetro duro e trasparen-te. Un colore soave di acciaio ed i piumini da neve che si affollano, l'andare e venire di mi-gliaia di passanti come se non facesse freddo, tutto mostra che Mosca è un gran palazzo d'inverno con straordinari arredamenti spettrali e viventi.
Trenta gradi sotto zero. Un'altra volta in questa città tante volte amata, questa Mo-sca che come stella di fuoco e neve, come acceso cuore, è situata in mezzo al petto della terra.
Guardo dalla finestra. Ci sono guardie di soldati per strade. Che cosa accade? Per-fino alla neve si è trattenuta dal cadere. Seppelliscono al gran Vishinski. Le strade si apro-no solamente affinché passi il corteo. Questo gran silenzio, questo riposo nel cuore dell'in-verno per il gran combattente. Avanza l'imponente accompagnamento ed il fuoco di Vi-shinski si reintegra colle fondamenta della patria sovietica.
I soldati che presentarono armi al passaggio del corteo rimangono ancora in forma-zione. Di quando in quando qualcuno di essi fa un piccolo ballo, alzando le mani inguanta-te e battendo un po' coi suoi alti stivali. Per il resto, sembrano immobili.
Dopo la Grande Guerra mi raccontava un amico spagnolo che vive da lunghi anni a Mosca, nei giorni di più intenso freddo, di più di quaranta o cinquanta gradi Fahrenheit, e giostro dopo un bombardamento, si vedeva i moscovita che mangiavano gelati per strada. "Allora seppi che i sovietici avrebbero vinto la guerra - mi diceva il mio amico -, quando li vidi mangiare gelati con tanta tranquillità in mezzo alla guerra ed il freddo."
Gli alberi dei parchi, bianchi di neve, si sono brinati. Niente può dare idea di questi petali cristallizzati dei parchi nell'inverno di Mosca. Il sole li rende semitrasparenti, strappa loro fiamme bianche senza che si strugga una goccia della floreale struttura. È un universo arborescente che lascia passare attraverso la sua primavera di neve le antiche torri del Cremlino, le snelle frecce millenarie, le cupole dorate di San Basilio.
Appena lontano di Mosca vedo alcune larghe rotte bianche. Sono i fiumi gelati. E nell'alveo dei fiumi immobili di quando in quando vedo, come una mosca su una tovaglia abbagliante, ad un pescatore assorto. Domando e mi raccontano tutta la tecnica della pe-sca d'inverno. Il pescatore si trattiene nel vasto lenzuolo gelato, sceglie un punto e rompe il ghiaccio, lo perfora fino a lasciare visibile la corrente sepolta. Allora non può pescare perché lì i pesci si sono spaventati con il picchiettare. Allora il pescatore sparge nel buco alcuni alimenti per attrarre ai pesci. E va via e a qualche distanza di lì dove fa un altro bu-co e dopo un altro più in là. Poi ritorna al primo, getta il suo amo ed attende. Attende per ore ed ore in quel freddo da diavoli.

A tutto questo, voi siete venuti per ascoltare quello che io vi racconto del Congresso degli Scrittori e mi direte: che cosa ha a vedere questo col congresso?
Per prima cosa vi dirò che volevo raccontarvi questo, avevo voglia di parlarvi di quei pescatori, neri su fondo bianco; per seconda cosa che non posso separare la natura dagli uomini; per terza cosa che mi costa molto incominciare a raccontare un racconto, e per quarta cosa, molto più importante, attenzione, che il lavoro degli scrittori e quello di quei pescatori artici ha molto in comune.
Lo scrittore deve cercare il fiume e se lo trova gelato deve rompere il ghiaccio. Deve avere pazienza, deve sopportare la temperatura, la critica avversa, deve sfidare il ridicolo, deve cercare la corrente profonda, lanciare l'amo giusto, e dopo tanti e tanti lavori tirare fuori un pesce piccolino. Poi tornare a pescare contro il freddo, contro il ghiaccio, contro l'acqua, contro il critico, fino a raccogliere ogni volta una pesce maggiore.
Lì stavano, seduti nella presidenza, i grandi pescatori, i grandi scrittori dell'Unione Sovietica. Fadéiev col suo sorriso bianco ed i suoi capelli argentati, Fedin con viso di pe-scatore inglese, magro ed acuto, Ehrenburg coi suoi ciuffi turbolenti ed il suo abito che benché sia nuovo dà l'impressione che ha dormito vestito, Símonov col suo viso di turco, Tíjonov.
Lì stavano anche quelli che rappresentavano le letterature delle lontane repubbli-che, popoli che prima non conoscevamo neppure di nome, popoli nomadi che non aveva-no alfabeto, erano rappresentati anche nella presidenza coi loro visi mongolici ed i loro libri da poco stampati.
In due grandi medaglioni, Lenin e Gorki presiedevano dalla storia questo congres-so.
All'improvviso, la sala si alza in piedi. Hanno preso posto nella presidenza il partito ed il governo. Jruschov, Málenkov, Mólotov, Bulganin, tutti hanno avuto tempo per ascolta-re le prime deliberazioni.
In quell'atmosfera di solennità e di semplicità, che è difficile da trasportarsi a mi-gliaia di chilometri, e vedere come nella notte seguente i quotidiani occidentali deforme-ranno questa semplicità solenne. Non preoccuperà El Mercurio il fatto che vicino ai lavori dell'intelligenza si situino gli uomini di maggiore responsabilità storica del nostro tempo, ma, previa una succulenta conversazione con Mr. Beaulac, consacreranno colonne della loro pesante pagina editoriale a commentare chi entrò per primo, se Málenkov, o Kagáno-vich, se Mólotov si sedette vicino a Bulganin, se Jruschov guardò a sinistra o a destra. Nessuno guardò a sinistra né a destra, perché il partito ed il governo sovietico e tutto il Congresso guardavano in avanti, verso la vita, verso il comunismo, e non entrò nessuno prima di un altro, tutti entrarono con la storia, tutti entrarono nello stesso momento con la volontà di lavoro, di pace e di bellezza che sta trasformando al mondo.

Molti scrittori stranieri erano accorsi e tra essi alcuni dell'America del Sud. Ma di tutti essi videnzierò un vecchio amico mio di cui vi ho parlato molte volte.

Trovai sempre Nazim Hikmet risoluto e vibrante, un'intensa preoccupazione velava i suoi occhi chiari. Da anni nell'esilio, scappato delle prigioni della Turchia, accolto dall'amore e dall'ammirazione della cultura sovietica, divora il gran poeta un'inquietudine terribile. Dopo quindici anni di detenzione nelle inumane prigioni turche visse l'idillio tessuto nella prigio-ne, riuscì a sposarsi ed a vedere nascere a suo figlio prima di scappare miracolosamente dai boia che lo cercavano di nuovo, questa volta per condannarlo a morte. Ma non lascia-no uscire sua moglie e suo figlio dalla Turchia. Si sono fatte molte pratiche burocratiche, ma fino ad ora tutto è stato vano. Fa poco seppe l'ultima notizia. Sua propria moglie ha chiesto la sua uscita al ministro dell'Interno e questo gli aveva risposto in questa forma: "Non uscirai dalla Turchia, e neppure tuo figlio. Vogliamo che egli soffra e muoia per non stare con voi. Tu lo seguirai poco dopo alla tomba e questo bambino rimarrà nelle nostre mani affinché gli insegniamo ad odiare suo padre."
Queste parole testuali riflettono il vero viso dei nostri comuni nemici. Ma davanti a tanta inquietudine, che cosa facciamo noi? Dove sta la nostra azione solidale?
Paul Robeson, molestato dai mastini del Dipartimento di Stato, non può uscire dagli Stati Uniti, né lo lasciano lavorare lì, nella sua patria, alla quale ha dato onore. Si sa già che Chaplin scappò per poco alla persecuzione ed alla prigione dal fascismo ufficiale nor-damericano. Howard Fast, il più grande romanziere del Nordamerica, lavora sotto le stes-se dolorose condizioni, come Walter Lowenfels, appena uscito della prigione, è un'altra volta perseguito e minacciato. Io chiamo qui gli intellettuali presenti a lottare contro queste persecuzioni. Che orgogliosi ci sentiremo se la piccola voce del Cile può alleviare questi dolori, può aiutare alla concordia, può riscattare le illustri vittime della crudeltà sistematica!

Con la relazione di Súrkov cominciarono i dibattiti del congresso, dibattiti appassionati ed orgogliosi. La letteratura sovietica da Gorki fino a questi giorni ha conquistato il suo posto nel mondo. Ha conquistato questo posto nonostante il boicottaggio, del silenzio e dell'osti-lità dei nemici aperti o coperti dell'avanzamento della società.
Lì vidi nel congresso le grandi difficoltà dello scrittore sovietico e lì tutte le idee furo-no esposte in forma appassionata ed appassionante. Il socialismo cambiò la vita di centi-naia di milioni di uomini. Cambiò la terra che si vide fecondata ed estesa, l'uomo ascese fino a possibilità non sognate. Si vinse il deserto, si crearono mari, tutto il mondo ebbe pa-ne, vestiti, libri, dignità. Allora milioni di uomini reclamarono quelli libri, ascesero alla digni-tà della musica, reclamarono la loro integrazione alla cultura.
Si tratta, dunque, che i libri mostrino questa trasformazione, questa conquista della natura, questa salita dell'uomo. Lo scrittore sovietico non vive minacciato dalla fame. Ha tutta la libertà creativa che necessita ed il suo popolo gli esige una visione profonda e pe-netrante della sua esistenza.
La scrittrice di sessantasei anni, Marietta Shaguinián, era seduta di fronte a me. Molto inquieta ed un po' sorda, mi toccò a volte aiutarlo a trovare gli auricolari perduti. Ella ci racconta che dei suoi quarantacinque anni di lavoro come scrittrice, vari di essi si svi-lupparono nell'antica Russia zarista. Daregli la parola per apprezzare la differenza di con-vinzioni:

Primo e più importante, la dimensione ed i tratti specifici del pubblico lettore. Noi, scrittori, non avevamo davanti a noi la gran massa della popolazione della vecchia Russia. La massa della popolazione non comprava libri, né poteva farlo. Non andava al teatro, né poteva andare, benché fosse solo per la ragione che il vasto numero di città provinciali, senza contare i villag-gi, non aveva teatri in quei giorni. Non andava alle gallerie di pittura perché non c'era nessuna. Non ascoltava concerti, perché non c'erano concerti da ascoltare. Le masse del paese poteva-no soddisfare le sue necessità artistiche solo con i suoi propri mezzi, mezzi folcloristici - versi non scritti, racconti e canzoni e suonando strumenti folcloristici -. L' "arte" che i villaggi riceve-vano della città consisteva in stampe economiche e stridenti e calendari.

Quindi ci racconta quello che accadeva agli scrittori:

Tutto il mondo conosce la vita di Massimo Gorki. Alla cima della sua fama fu arre-stato, imprigionato ed esiliato della capitale dal governo zarista e questo accadde più di una volta.
Ricordate la vita di Lev Tolstói. Quando ammiratori del suo genio venivano a visitar-lo di tutte parti del globo, mentre i suoi romanzi erano tradotti a tutte le lingue del mondo, la Chiesa russa lo scomunicava, i sacerdoti gli lanciavano anatemi nelle chiese, i maestri nelle scuole non potevano menzionare il suo nome ed i censori proibivano romanzi come Resur-rezione.
Questa era la vita dei geni creativi. Non è necessario dire che con autori di minore talento le autorità zariste non si fermavano in nessuna considerazione.

E finisce Marietta Shaguinián:

Abbiamo libertà creatrice noi scrittori sovietici? Questo posso dirloro: Solo dalla Ri-voluzione, solo nella terra sovietica, solo attraverso andando per il paese e sentendo la no-stra connessione col paese, siamo arrivati ad essere genuinamente liberi come artisti crea-tivi. Sono arrivata a comprendere gli elevati propositi dello scrittore ed a lavorare per rag-giungerli con quella piena libertà di scegliere, con quel solido stimolo del paese, con quel sentimento di profonda soddisfazione di essere utili che dà ad ogni artista creativo, ad ogni persona che lavora, il diritto ad una coscienza chiara ed il rispetto del suo paese.

Queste parole della scrittrice sovietica ci avviano al centro del dibattito. Lì stanno i protagonisti della cultura, della nuova cultura, domandandosi nell'intimità: Fino a dove ab-biamo adempiuto?
In effetti, è molto più difficile l'arte letteraria con una responsabilità diretta. Questa responsabilità non può essere evitata dagli scrittori della nostra epoca e, specialmente, dagli scrittori liberati dal capitalismo. Il problema si pone non solo nell'intenzione, bensì nei risultati.
A me sembra più facile scrivere un gran libro nei paesi martirizzati dall'oppressione economica, che nella piena e raggiante elevazione di vita dei paesi. Questo nuovo libro ha nuove condizioni di nascita e di ambiente. Nuovi problemi per lo scrittore.
Deve incominciare per lottare con sé stesso e questa lotta può essere mortale. Constantino Fedin è considerato uno dei più grandi valori della letteratura sovietica e fu uno dei pochi per cui il Congresso si alzò in piedi quando salì alla tribuna. Tuttavia, è sti-mato piuttosto per i suoi ultimi libri e dopo un lungo silenzio, silenzio pieno di lavoro.
Prendo i due libri che stimo straordinariamente. Si tratta del romanzo che io ammiro oltremodo, Mamita Yunái, di Carlos Luis Fallas. Questo libro lo raccomando sempre. È il libro che io darei al mio amico che fa un viaggio, nello sportello del treno, sicuro di fargli un servizio. Descrive con intensità, con drammaticità ed umorismo la vita dei lavoratori bana-nieri dell'America centrale. Ora abbiamo un libro irreprensibile che tutti amiamo, come Un hombre de verdad, di Borís Polevói. Fallas prende un lavoro senza uscita sociale, descrive i più dolorosi stati di oppressione, di miseria, di abiezione, nell'inferno bananiero. Ma i suoi eroi non leggeranno mai il suo libro. Questo si nota nel libro di Fallas. È un'assenza gene-rale in quasi tutti i libri della nostra America disperata.
Orbene, il libro di Polevói sarà letto dal protagonista, da centinaia di protagonisti, dagli eroici difensori di Stalingrado, da tutti quelli che presero parte alla gran guerra patria, e tutti essi paragonano, deducono, stimano, e soprattutto aspettano profondità e precisio-ne, nello stile, semplicità di mezzi espressivi e vicino al bruciante splendore della guerra l'eco di ognuna delle loro vite, l'indomabile energia, la costruttrice speranza degli uomini sovietici.
Tutto quello è specchiato in quello piccolo libro semplice che si chiama in realtà Un hombre de verdad .
Perciò la necessità vitale, permanente di illuminare la vita e la coscienza dei cam-biamenti nella vita sovietica hanno fatto anche più difficile e più importante le opere dei nuovi periodi postrevolucionarios. Per il mio gusto, libri come El tren blindado, Cemento, di Gládkov, i libri che leggevamo 25 anni fa, hanno una rapidità ignea, un fulgore ed una ve-locità seducenti, ma non si confrontano alle opere piene di questa epoca della letteratura sovietica, ad Un verano extraordinario di Fedin, Tempestad di Ehrenburg, La cosecha di Galina Nikoláieva. Quelle opere sono come bicchieri pieni che raccolgono con generosità la grandezza della vita sovietica.

Lasciamo parlare ai congressisti. Non posso imprigionare in questa conversazione con voi gli attacchi e contrattacchi, le repliche e controrepliche, ma citiamo alcuni frasi.
Dice Shólojov:

Le realizzazioni della letteratura sovietica multinazionale durante queste due decadi sono grandi, senza nessun dubbio. Numerosi scrittori di talento sono sorti dalle nostre scuole. Ma, nonostante tutto questo, continua ad affliggerci un'onda grigia ed incolore di let-teratura mediocre che, in questi ultimi anni, supera le pagine delle riviste ed inonda il mer-cato del libro.

Dice Fadéiev:

Esaminando le ragioni che entravano in un sviluppo più rapido e più completo della nostra letteratura, non può sottovalutarsi il fatto della lotta del nostro ideologia umanista contro l'ideologia imperialista di odio all'umanità.
[...] L'assimilazione critica della ricchezza della forma di letteratura classica facilita l'arricchimento e la diversità delle forme del realismo socialista.

Dice Ehrenburg:

Conosciamo autori contemporanei che comprendono insufficientemente i suoi contemporanei. Altri, perché nella diversità del mondo si sono abituati a non distinguere che due colori: il bianco ed il nero. [...] Il loro mondo di candido zucchero è popolato da esseri primitivi, da bambini modelli fatti di cera che non hanno niente a che vedere con gli uomini sovietici, con la loro vita interna tanto profonda e completa. Una letteratura che si sviluppa e si fortifica non deve temere una rappresentazione veritiera. Nella nostra letteratura, la veridicità non si allontana dallo spirito di partito: al contrario, è intimamente legata ad esso. Sappiamo che la gran arte fu sempre sostenitrice, cioè, appassionata [...] Descrivendo il mondo interno dell'uomo, lo scrittore lo trasforma per quell'azione [...] Lo scrittore non è un osservatore della vita: è un creatore.

Dice Símonov:

Lo scrittore sovietico, creando la sua opera col realismo socialista per base, osserva l'essere umano nella sua totalità, ma ama quello che in lui conduce verso il futuro. Non chiude gli occhi davanti a quello che c'è sotto, ma considera quello che è elevato come proprio dell'uomo. Comprende le debolezze dell'essere umano, ma vuole educare e fortifi-care in lui quello che è più forte.

Uno dei pericoli è, dunque, l'impoverimento dei fatti e delle vite attraverso una letteratura che abbia solo come obiettivo la lusinga politica o l'opportunismo. Ed un altro pericolo è quello di fare della letteratura un specchio viziato in cui il negativo domina il vittorioso e il meglio della vita. È in questo senso che ricevono critiche Vera Pánova ed Ehrenburg per il suo Dishielo. Ehrenburg replica con il suo contundente fioretto d'acciaio:

Decine di milioni di sovietici sanno come si fonde l'acciaio, come i selezionatori col-tivano nuove specie di meli, come lavorano i costruttori di edifici monumentali, ma molti let-tori sono lontani da immaginare come si creda un romanzo. La psicologia della creazione artistica è poco conosciuta.
Per caso i nostri critichi, analizzando il successo o il fallimento di un scrittore, metto-no in chiaro i problemi legati all'origine di un'opera artistica?
No. Disgraziatamente abbiamo ancora ben poco critici e storiografi seri della lettera-tura. Per certi critichi i libri si dividono in due categorie: i degni di essere applauditi e quelli che non meritano altro che la riprovazione. Quando analizzano i libri della prima categoria, espongono abitualmente l'argomento come lo fanno gli alunni della settima classe e, alla fi-ne dei conti, per mettere di rilievo la sua indipendenza ed evitare i rimproveri che possano essergli fatti dalla sua "mania" di gettare incenso, alzano un inventario di quello che non sta nel libro in questione e si lamentano dell'autore. Quando analizzano un libro che secondo i loro punti di vista merita riprovazione, questi critichi si trasformano in pubblici ministeri ac-cusatori... È possibile che il romanzo sia frustrato, benché sia stato scritto con una fine lo-devole, da un autore il cui probità civica nessuno può mettere in dubbio; ma il suo romanzo è considerato da loro come qualcosa di criminale. Quando parlano di un certo libro, i critichi non espongono l'argomento, bensì citazioni isolate dal contesto e si servono da esse come prove a carico.
Sia che i critichi mettano nelle nuvole un romanzo o lo critichino lapidariamente, non si trattengono molto nei legami che unisce un'opera con le altra dello stesso autore. Con-cedono note, come esaminatori, ma non tentano di spiegare il successo o il fallimento di un scrittore, di mostrare come nascono le opere artistiche, quali sono i lacci stretti che unisco-no tutta l'opera al carattere dello scrittore.
Mai e da nessuna parte è esistito come nell'Unione Sovietica un interesse tanto vivo per la letteratura come per gli scrittori. Non esiste tra noi, credo, un scrittore che non abbia ricevuto centinaia di lettere dai lettori. Forse gli scrittori, senza paura di esser tacciati di immodestia, raccontano ai lettori come hanno concepito le loro opere? Scrivono sui libri degli altri autori? Perché, sapendo per esperienza propria come maturano e vengono al mondo le opere artistiche, possono abbordare i libri dei loro colleghi con qualcosa più che discorsi di giubileo o conclusioni accusatorie; possono fare chiarezza sulle fonti della creazione. No, raramente rendiamo conto ai nostri lettori tanto della nostra esperienza creativa come della nostra opinione sui libri di altri.
Negli articoli di certi critichi il lettore trova invariabilmente rimproveri. Si rimprovera ad un autore di essere stato in silenzio troppo tempo; ad un altro il non avere mostrato nel suo romanzo sulla guerra, l'eroismo della retroguardia; ad un terzo, il fatto che il suo eroe non è sufficientemente ottimista o che è troppo presuntuoso. Al lato di questi articoli il letto-re può leggere l'informazione che certi letterati hanno "pianificato" i romanzi devoti a tali o quale costruzione o ramo dell'industria e che le redazioni di riviste hanno inviato autori in missioni creative affinché scrivano romanzi sui differenti rami dell'economia nazionale!

Sentiamo ora la voce di Foschia Nikoláieva, in alcune delle più belle definizioni dell'umanesimo che mi ha toccato ascoltare:

Il contenuto dell'arte è sempre la realtà obiettiva che costituisce anche il contenuto della scienza, ma l'arte a differenza della scienza concentra principalmente della sua atten-zione sulla lotta per la bellezza. Le opere d'arte che riflettono gli aspetti mostruosi ed insi-gnificanti della realtà non si trasformano in opere di un'arte vera se non quando stigmatiz-zano questi aspetti mostruosi e per questo stesso combattono contemporaneamente per il bello. Le opere che non rappresentano il mostruoso per richiamare alla lotta per il bello, ma si dilettano e si compiacciono in lui, tali opere escono dai limiti dell'arte e è quello che carat-terizza l'arte borghese reazionaria attuale.
L'opera più bella e perfetta della natura è l'uomo e è naturale che l'oggetto principa-le dell'arte sia precisamente l'uomo, non tanto quanto individuo biologico (la biologia, l'ana-tomia, etc., si occupano di questo aspetto), bensì come essere sociale, in tutta la ricchezza e l'insieme dei suoi atti, pensieri, sentimenti. Questo emerge con un'evidenza particolare quando studiamo il carattere specifico della letteratura. La letteratura ha la particolarità di essere inseparabile del linguaggio. Il linguaggio è "la realtà del pensiero" (Marx), tutto quel-lo che è accessibile al pensiero, è accessibile al linguaggio, è per questo che col suo aiuto si può ottenere tutta la ricchezza dello spirito umano nel suo movimento e nel suo svolgi-mento È proprio per questo che Stalin ha chiamato gli scrittori gli ingegneri delle anime "u-mane."

Il rifugio destro della critica si esercita a viva voce e neanche l'autocritica spaventa gli scrittori. Il poeta Alexis Surkov, segretario dell'Unione di Scrittori, parla con ogni chia-rezza:

L'opinione pubblica sovietica ed i propri scrittori manifestano spesso il suo scontento con relazioni all'Unione di Scrittori. Frequenti casi di pubblicazione, nelle riviste dell'Unione di Scrittori, di opere non elaborate, di articoli erronei; la mancanza di omogeneità nell'attivi-tà delle redazioni; la mancanza di partecipazione della Literatúrnaia Gazeta nel processo vivo dello sviluppo della letteratura; la pubblicazione sotto il sigillo delle Edizioni degli Scrit-tori di libri superficiali e mediocri; la passività delle forme sociali della vita letteraria; tutto questo indica che gli organi di direzione dell'Unione degli Scrittori lavorano ancora di un modo insufficiente, che le relazioni vive tra gli scrittori, nella cornice del loro mestiere sono rimpiazzate spesso dall'agitazione dell'apparato burocratico e da una vera furia di riunioni.

Spesso passa per il congresso lo spettro della critico occidentalista contro la letteratura "diretta", etc. Al volo Shólojov risponde:

Oltre le nostre frontiere, i nostri nemici pieni di rabbia, pretendono che noi, scrittori sovietici, scriviamo secondo le direttive del partito. In realtà, la cosa è qualcosa di differen-te: ognuno di noi scrive secondo le direttive del suo cuore. In quanto ai nostri cuori, essi appartengono, in effetti, al nostro partito ed il nostro paese, al servizio di cui abbiamo mes-so la nostra arte.

Questo dibattito dell'arte diretta mi fa pensare a quella risposta di Mayakovski quando a New York gli domandarono, per provocarlo: È verità che lei ha fatto, a domanda del governo, versi sugli agnelli? Mayakovski rispose: "È maglio scrivere sugli agnelli per un governo intelligente, che per gli agnelli su un governo idiota."

Polevói viene a mangiare con me. Pochi scrittori danno una sensazione di tanto fresca vi-talità. Mentre si toglie la gran pelliccia e deposita sul mio tavolo mezza bottiglia di cognac, dicendomi che "questo sì che è buono" che lo trovò "nel Caucaso", già è imbarcato in una nuova storia, mentre un ciuffo ribelle è agitato ogni minuto sulla sua fronte. Ha cambiato già tema e mi parla del posto di Stalingrado, in cui prese parte (il suo petto è coperto di onorificenze). Mi fa un ritratto indimenticabile dal maresciallo Rokossovski, mi conta come nel polo Nord, nella stazione scientifica sovietica, una notte i marinai lessero "El fugitivo" del mio Canto general. Rapidamente mi racconta come un russo bianco, capitano dello zar, lottò in Ucraina in forma eroica contro i nazisti, al suo fianco, come guerrigliero, e co-me nel proporglisi una promozione il capitano Ivanov rispondeva: Solo lo zar può promuo-vermi"." Morto nella lotta, Polevói mi dice, c'è una strada in Ucraina che porta il nome del capitano. Io gli dico: "C'è un scrittore in Cile che ti piacerebbe conoscere. Va sempre cac-ciando balene e non è raro che in questo momento stia nel Polo Sud. Si chiama Coloane, Pancho Coloane. Quando sarai un'altra volta al Polo Nord, mi piacerebbe che parlassi con Coloane da Polo a Polo" ed ogni volta che me lo trovo nel congresso, nei corridoi, Polevói che passa rapido e col ciuffo verso un lato ed un altro sulla sua frnote, mi grida: Sarà già arrivato Pancho al Polo Sud?."
Con Galina Nikoláieva mi trovo spesso. La famosa autrice di La cosecha è bella e matura. Conversiamo lungamente.
- Su cosa sta scrivendo ora, Pablo? - mi domanda.
- Sui pomodori, gli rispondo.
- Sui pomodori? E perché non sopra un'altra cosa?
- Su quale altra cosa, Galina?
- Sull'amore, per esempio.
- È una buona idea - gli dico.
Mi sembra ricordare che fosse il poeta Antokolski quello che lesse la relazione sulle traduzioni. Questo compito letterario è intimamente legato allo sviluppo culturale dell'Unio-ne Sovietica. Basti dire che negli anni del potere sovietico, secondo dati della Camera del Libro in tutta l'Unione Sovietica, si sono pubblicati 279 milioni duecentomila esemplari di libri stranieri. La letteratura straniera si presenta in 63 lingue di quel paese multinazionale. Così, dunque, ogni popolazione sovietica legge nella sua propria lingua le opere degli a-mericani, inglesi, francesi, tedeschi, italiani, cinesi ed altri scrittori stranieri.
Chi ha sentito parlare della lingua karapalka o dell'ocielino? A queste e all'ebraico sono stati tradotti libri di venti paesi.
Nelle librerie si formano code quando si annunciano la pubblicazione di opere com-plete di Jack London, Romain Rolland, Jules Verne, Víctor Hugo, etc. La pubblicazione delle opere di Shakespeare sorpassa i due milioni e mezzo di esemplari. Solamente Amle-to si pubblicò circa a quaranta volte in 19 lingue. In totale, si pubblicarono 223 edizioni di Shakespeare su 25 lingue. Shakespeare che tanto difficilmente si presta a traduzioni.
Possono essere faticosi questi numeri statistici. Ma credo che parlino in forma im-pressionante della relazione integrale della cultura con la massa sovietica, dell'intensità dello sforzo culturale.
A quell'instancabile persecutore di comunisti, l'anonimo signor Herrera, ministro del-la Educazione del Cile che ha perfezionato il suo analfabetismo nella Spagna franchista, gli dedico questi altri numeri:
Jack London. La tiratura corrente delle opere di questo scrittore è superiore ai 13 milioni di esemplari. 632 edizioni in 31 lingue.
Víctor Hugo. Vicino a 9 milioni di esemplari. 317 edizioni in 44 lingue.
Ch. Perrault. Più di 7 milioni e 700 mila esemplari. 101 edizioni in 34 lingue.
Balzac. Più di 6 milioni di esemplari. 161 edizioni in 16 lingue.
Jules Verne. Vicino a 6 milioni di esemplari. 237 edizioni in 16 lingue.
Guy di Maupassant. Vicino a 6 milioni di esemplari. 264 edizioni in 16 lingue.
Mark Twain. Vicino a 6 milioni di esemplari. 198 edizioni in 24 lingue.
Ch. Dickens. Quasi 4 milioni e mezzo di esemplari. 157 edizioni in 16 lingue.
Émile Zola. Più di 3 milioni e mezzo di esemplari. 164 edizioni in 15 lingue.
Soprattutto si presenta ampiamente la letteratura francese. Negli anni del potere sovietico, si sono emesse 3683 opere di 418 autori, nella quantità di 76.882.000 esempla-ri. Libri di Rolland se ne pubblicarono quasi due milioni e mezzo. Sono tradotti a venti lin-gue dei paesi dell'URSS.
Approssimativamente, la tiratura di opere di H. Barbusse è tradotta in 22 lingue, come quello di A. France ed altri.
A. Fadéiev intervenne in 1949 nel Congresso di Uomini di Scienza e Cultura S. Sh. A. in difesa della pace del mondo, dimostrando l'interesse dei sovietici per il paese ameri-cano, con le cifre delle pubblicazioni degli scrittori americani che provocarono grande im-pressione.
Ora esse rimangono antiquate, l'ampia tiratura di 39709 si alza a 51552.
La letteratura inglese presenta 219 autori. Solamente dal 1952 al 1953 si emisero più di cinquanta opere in dodici lingue. Undici delle quali sono opere di Dickens.
Durante gli anni del governo sovietico le opere di Swift furono tradotte in 40 lingue; quelle di Defoe, in 36. In generale, la pubblicazione di opere di letteratura inglese nel-l'URSS sorpassa i 38 milioni.
I nomi dei grandi classico della letteratura tedesca, W. Goethe, Heine, F. Schiller, sono conosciuti nell'URSS quasi da tutti, dagli scolari fino ai vecchi.
23 edizioni di Intrighi ed amore, 22 di Guglielmo Tell, 20 di Il corsaro. Faust si pub-blicò 19 volte in otto lingue.
Con gran interesse stanno conoscendo i lettori sovietici il folclore del paese cinese per l'ispirazione di ciascuno dei suoi scrittori.
Solamente le opere di Li Sin, sono pubblicate 27 volte. Cinque volte si pubblicò l'insieme delle sue opere scelte.

Non ha dimenticato, gli americani, questo impulso, questo potere culturale. Traduzioni dei poemi di Guillén, dei romanzi di Fallas, di Gravina, di Jorge Amado, i miei propri libri, in-cludendo le Odas elemenles che, per il mio piacere, hanno già numeroso pubblico di letto-ri, ed altri libri sudamericani sono rapidamente divorati dal lettore sovietico. Poemi e rac-conti di scrittori di tutti i paesi americani appaiono frequentemente nelle riviste letterarie. Durante il congresso venni a sapere di un fatto emozionante. Nella rivista Lef, la famosa rivista diretta da Mayakovski, ed in occasione della visita all'Unione Sovietica del nostro maestro Luis Emilio Recabarren, si pubblicò una nota su lui, sottolineando il suo sforzo nella creazione di un teatro operaio in Cile.
In corso di traduzione stavano i romanzi di Volodia Teitelboim e di Diego Muñoz, come un'antologia del pensiero di Martí, un'antologia di pettegoli americani ed un'altra di poeti della nostra America.
Nel frattempo, che cosa facciamo noi? La Guerra Fredda raggiunge la vita culturale dei nostri paesi, e produce il suo impatto nelle nostre relazioni. Il governo del Cile, conti-nuando fedelmente la politica servile di González Videla, ha mantenuto l'isolamento di-plomatico e commerciale che ci trasmise quel governante irresponsabile, ma, nel terreno della cultura, non ci rendiamo partecipi abbastanza per rompere questo blocco. Io ricordo che nell'anno 1921 io ero un giovane scrittore che, tuttavia, come molti della mia genera-zione, potemmo leggere rapidamente e tradurre dal francese, dell'inglese o del tedesco, lingue importanti di quell'epoca di dopoguerra. Se si rivedono le collezioni di Claridad, la combattente rivista di quegli anni, si vedranno le mie multiple traduzioni, pagine intere di Rilke, di Jean Grave e di altri ideologi e scrittori. La generazione attuale deve imparare il russo e tradurrlo. Non è possibile questa inerzia mentale e culturale. Dobbiamo leggere la poesia russa tradotta dai nostri poeti ed i nostri poeti devono comprendere che il mondo già ha smesso di essere solo Parigi e solo Londra. Che Mosca, Praga, Varsavia, sono ca-pitali del pensiero contemporaneo, e quella luce generosa devono apprendere per inse-gnare al nostro paese. Dobbiamo dire che i poeti sovietici sono stati male tradotti fino ad ora, travisati ed infantilizzati da traduttori di buona volontà, ma che non navigavano nel ve-liero della lirica. Ai miei amici sovietici dissi che più che traduttori, questi erano stati caccia-tori di poeti. Questi armaioli per molti anni, credendo essere fedeli traduttori, stanno get-tando al vento uno per uno tutte le figure della poesia sovietica.
Dobbiamo riparare a questo danno grave, e prendere questi compiti della cultura mondiale con le nostre piccole mani. Già mi hanno udito numeri statistici. Nella relazione di Antokolski sulle traduzioni si incitò ancora ad un maggiore numero di esse, a maggiore qualità e più sforzo. Si disse che Pushkin tradusse Byron che Lérmontov lasciò versioni abbaglianti dei romantici tedeschi. Cioè, che la grande nazione, la più poderosa della ter-ra, non basa la sua felicità solo nei suoi luminosi risultati organici e materiali, nelle sue fabbriche e nella sua produzione, ma anche nella sua relazione spirituale con le più distan-ti, remote e piccole culture. Noi, piccoli scrittori di un moderato semicoloniale, maneggiato in generale da tirchi governanti che si rifiutano anche di tender loro la mano, siamo ascol-tati, interpretati, studiati e amati dal paese sovietico. E che cosa diamo in ricompensa? Dove stanno i nostri giovani scrittori? Sono preparati per farci conoscere la lirica ed il tea-tro della Russia rinnovata? Perché non prendono contatto con quel vasto mondo?
Se non credono nella "Cortina di ferro", frase che coniò l'ultimo pirata inglese prima di consegnare l'Inghilterra ai nuovi ami nordamericani del mondo capitalista, se credono che dovremmo rompere l'isolamento imposto alla nostra patria ed alla nostra America, da dove incominciare, se non per la porta luminosa che si apre ad un nuovo splendore e per una lingua nobilitata, non solo da Pushkin, da Tolstói e da Gorki, anche da Lenin, da Stalin e dai marinai che puntarono i cannoni della crociera Aurora verso il Palazzo di Inverno in una mattina di ottobre.

Una delle presenze invisibili del congresso fu Mayakovski. Alcuni critichi ed un clan perti-nace fecero ben amari la vita di Mayakovski e contribuirono alla sua morte. Questi critichi negativi che penetravano lo sviluppo della creazione furono fustigati molte volte nel con-gresso. Critici "liquidazionisti" li chiamano gli scrittori sovietici. Godevano nello sterminio di un poeta, nello squartamento di un romanziere. Grandi acclamazioni dei delegati salutaro-no le allusioni a questi irresponsabili. Fu elevata la critica costruttiva, senza capriccio ami-chevole, generatrice di valori, specialmente dei valori giovanili.
Questi gruppi di bulli intellettuali, nemici di Mayakovski, continuarono la loro inimici-zia verso il gran poeta ancora dopo morto, fino a che Stalin pronunciò la sua famosa frase:
"Mayakovski era e continua ad essere il meglio, il più dotato poeta della nostra epo-ca sovietica."
Ed ora, Mayakovski era presente in ogni deliberazione perché chi se non lui fu il nemico del formalismo vuoto e del sinistrismo senza bellezza? E questi furono i problemi della poesia che lì si dibatterono. Ea nuova poesia sovietica cerca liberamente i temi più umani. Dopo anni di lotta, fiorisce la poesia amorosa, senza perdere di vista la carta e-semplare del canto, la sua responsabilità civile.
Domandai a vari scrittori, nell'intimità, come avrebbero formato un'antologia di poe-sia sovietica, e raccogliendo opinioni cito qui quello che sembrava essere un elemento di apprezzamento.
Mayakovski, Essenin, Bagritski, Tíjonov, Selvinski, Asseséiev, Svetlov, Martínov, Tvardovski, Pasternak.
A questi bisognerebbe aggiungere Símonov, Kirsánov, Surkov, Vera Inber, Chtchipatchev. Cominciamo tra noi questa antologia.
Traduco loro così correndo i versi di Mayakovski sopra il passaporto sovietico, scritti dopo l'ultimo viaggio che fece il gran poeta all'estero:

Divorerei
la burocrazia
come un lupo.
Non ho rispetto
per le disposizioni
ed invito
"tutti i documenti"
a passeggiare
col diavolo,
ma questo...
Passando ai compartimenti e le cabine
un funzionario molto educadito avanza.
Ognuno passa il suo passaporto
ed io gli tendo
il mio
piccolo libretto scarlatto.
Per certi passaporti hanno un sorriso
ed ad altri gli sputerebbero.
Al rispetto
hanno diritto, per esempio,
i passaporti con leone inglese
dai due sedili.
Divorandosi con gli occhi al buon signore
facendogli saluti ed inchini
prendono
come si riceve una mancia
il passaporto
di un nordamericano.
Per il polacco
hanno un sguardo
di capra di fronte ad un poster.
Ma, senza muovere
per niente la testa,
questo è senza esprimere nessuna
emozione forte,
ricevono senza battere ciglio
i passaporti danesi
e gli svedesi.
All'improvviso,
come punta per il fuoco,
la bocca
del buon signore si torce.
Il signore
funzionario
ha toccato
la porpora del mio passaporto.
Lo tocca
come una bomba,
lo tocca
come un riccio,
come un coltello a doppia lama,
lo tocca
come un serpente a sonagli
di venti punte,
e di due metri o più di lunghezza.
Complice,
ha chiuso un occhio
al facchino che è pronto
per portare il bagaglio.
Il gendarme
contempla il poliziotto,
il poliziotto
al gendarme.
Con che voluttuosità
la casta poliziesca
ci avrebbe
frustato, crocifisso,
perché ho nelle mie mani,
alzando la falce,
alzando il martello,
il passaporto sovietico.
Io divorerei
la burocrazia
come un lupo.
Non ho nessun rispetto per i
disposizioni
ed invito "tutti i documenti"
a passeggiare col diavolo,
ma questo...
Tirerò fuori
delle mie tasche profonde
l'attestazione
di un gran itinerario.
Leggano bene,
e mi invidiano:
io sono
un cittadino
dell'Unione di Repubbliche Socialiste Sovietiche.

Chi ascoltando questi versi scritti nell'anno 1929 non si mette immediatamente di fronte ad una scena che svergogna ancora tutti i cileni? Ilyá Ehrenburg in Cile... Passano i passaporti argentini, senza causare "emozioni forti", i nordamericani sono ricevuti come se fossero una "mancia" ed all'improvviso i gendarmi guardano il poliziotto e questi si sentono punti come da un serpente sonaglio. "Mi invidi, sono un cittadino dell'Unione Sovietica." Senza ricordare forse il verso di Mayakovski quella fu l'atteggiamento che mantenne il no-bile Ehrenburg di fronte a quelli che pretesero di oltraggiarlo.
Chi conosce Svetlov? Andiamo a tradurrlo: nel 1926 scrisse questo meraviglioso poema:

Granada

Sfilando passo a passo
o montando all'assalto
portavamo tra i denti
la canzone di Yablotchko.
Ahi, è la nostra canzone
e ha dormito fino ad ora
sotto l'erba verde,
malachite della steppa.
Ma è un'altra canzone
che di un'altra terra parlava
quella che andava col mio amico
con lui ed il suo cavallo.
Cantava contemplando
le sue praterie natali:
"Oh Granada, Granada,
oh mia Granada amata."
Ripeteva questo canto,
cantava a memoria,
da dove tirerebbe fuori
la sua tristezza spagnola?
Rispondi, Alexándrovsk,
e tu, Jarkov, rispondi:
Da quando sapete
cantare in castigliano?
E dimmi la mia Ucraina
non è sotto questo orzo
dove da tempo riposa
il berretto di Chevchenko?
Da dove viene, amico,
questo canto alla tua bocca?
"Oh Granada, Granada,
oh mia Granada amata."
Sognatore ucraino
Tardi a rispondermi:
"Fratello, questa Granada
io la lessi in un libro
ed il nome è tanto bello...."
E che onore più insigne!
L'angolo di Granada
che trovati in Spagna!
Io lasciai la mia capanna,
partirò a combattere
perché dìano a Granada
la terra ai contadini.
Addio, genitori cari,
addio famiglia, addio,
"Oh Granada, Granada,
oh mia Granada amata."
E ci affrettiamo
per sapere immediatamente
le sue pallottole, il suo alfabeto,
la sua lingua, i suoi combattimenti.
L'aurora si alza,
la notte è ritornata,
si affaticò il cavallo
a saltare nella steppa,
più la truppa cantava
il canto di Yablotchko,
arco dei dolori
nel violino del tempo.
Di a cosa serve, mio amico,
questa canzone:
"Oh Granada, Granada,
oh mia Granada amata."
Oltrepassato da pallottole
cadde a terra il suo corpo,
fu il mio amico il primo
in cadere dal cavallo.
Vidi sui suoi resti
inclinarsi la luna,
e le sue labbra inerti
mormorare "Oh Granada."
Sì. Verso altri luoghi lontani
oltre le nuvole,
portando la sua canzone
partì il mio compagno.
Oramai non lo sentiranno più
le praterie natali:
"Oh Granada, Granada,
oh mia Granada amata."
Il battaglione non seppe
la morte del soldato
e cantò fino alla fine
il canto di Yablotchko.
Fragile pianse la pioggia
lasciando cadere la sua lacrima
sulla notte nera.
La vita ha concepito
altre canzoni nuove.
Ragazzi, non bisogna farlo
piangere, questo ritornello.
Non piangete, compagni,
"Oh Granada, Granada,
oh mia Granada amata."

Credo che a tutti sia arrivato al cuore questo poema. Io continuerei a completare questa antologia. Così me lo indicano i miei doveri di poeta. Ma voglio invitare i più giovani poeti cileni a lavorare con fraternità e coscienza affinché in questo posto, o nell'università che sono sicuro aprirà le sue porte per una festa tanto illustre, continuino questa antologia del fiore e del frutto della poesia sovietica.

Perdonate la mia sconclusionata chiacchierata su un congresso che neanche fu molto im-bastito. Nessuno guadagnò lì, in quella competenza, nessun scrittore, se non il paese sovietico. Magari i nostri paesi guadagnassero ogni giorno qualcosa coi nostri lavori di scrittore.
Io non credo che i congressi trasformino la materia intima essenziale della letteratu-ra. Credo che dei successi e dei fallimenti implacabilmente enumerati in questa gran riu-nione da tutti gli scrittori della più grande nazione contemporanea, tiriamo fuori in bella co-pia che le consegne rivoluzionarie non aggiungono nessun talento a chi non lo possiede, che neanche la creazione letteraria è un mistero, ma che, senza il vincolo col popolo, sen-za la trasformazione della realtà vivente, della conoscenza profonda di questa realtà, noi, gli scrittori, non possiamo rimanere soli di fronte alla carta, non possiamo incitare la crea-zione.
Per affrontarci con quello pezzo bianco di ogni giorno, di ogni giorno e non di ogni mese, di ogni giorno e di ogni ora, dobbiamo arricchire il nostro cuore, avvicinarci frater-namente all'opera degli altri, strappare i segreti al passato, vigilare la coscienza del futuro. Il realismo socialista non è una formula magica che può fare di punto in bianco miracoli di senso e di forma.
Io ho lavorato per molti anni andando dalla solitudine verso il popolo, mi sono trova-to ad ogni passo con l'insulto, con l'ingiuria, coi piccoli clan formati dall'amarezza della ste-rilità che non crea. Nella mia piccola esperienza di poeta del mio paese, fedele al mio par-tito ed alla mia patria, posso assicurarvi che ho mantenuto il lavoro costante come arma inesorabile contro le cariche dell'invidia e dei nemici del popolo.
Questa lezione della mia modesta poesia la vidi corroborata dal gigantesco lavoro dei miei compagni sovietici nel loro vittorioso congresso.
Poco prima di partire mi cercavano alcuni scrittori sovietici che attraverso vari inter-preti mi dissero il loro desiderio di mettere nelle mie mani un'antologia, nel suo lingua shia, in cui figuravano i miei poemi.
Erano della repubblica autonoma di Chuvashia. Erano piccolini e somiglianti ai no-stri indi di Chiloé o agli aymara del nord. Qui ho il libro graziosamente stampato.
Per me nel congresso, se volessi riassumerlo in qualcosa di fondamentale, non fu-rono tanto impressionanti i dibattiti come la presenza multipla di scrittori come quegli uo-mini piccolini e bruni.
Per millenni vicino al circolo artico pieni di terrore di ombra e di patimenti, lontano da ogni corrente della cultura umana, vicino ai fiumi il cui solo nome fu per noi un brivido, l'Ob, lo Jenisej, l'Indigirka, l'Alazeja, abitarono tribù frustate dalla peggiore ignoranza e dai climi più duri.
Qui venivano con un libro nella mano, appena arrivati da università recenti, da bi-blioteche, da biblioteche ed edizioni di riviste di scienza ed arte. Pensai ai nostri alacalufe scomparsi, nei nostri araucani decimati e perseguitati.
Le lampade colossali della Sala di San Jorge, ognuna di tre tonnellate di peso e di fulgore brillarono prima sulle parrucche ed i decolletés dell'aristocrazia... Oggi illuminarono una festa di tutta la cultura in cui noi ed i popoli russi avevamo la nostra parte di splendo-re.
Questa luce fu conquistata dal partito, difesa dalla grande Unione Sovietica e non la estinguerà sulla terra né la bugia né il sangue.
Agli scrittori di tutti i paesi, e agli intellettuali del partito in tutti i paesi spetta il grande compito che ci lasciò esposto il congresso, la fedeltà del destino della cultura spinta dalle notizie ed invincibili forze della storia.

Aurora, num, 3, Santiago, aprile 1955.


Salve e che cominci il ballo!

Cari giovani di tutti i paesi:
Permettetemi che vi presenti i giochi, i balli, le canzoni tristi ed allegre, le birichinate e l'essenza dei popoli americani.
Ci lasciarono gli aztechi il loro seme, i looro canti dei raccolti, i loro inni di guerra, i loro riti di pace. I maya stabilirono il loro fuoco fiorito nella scarna vita dell'America centra-le.
Gli araucani ballarono sotto i loro alberi tutelari.
Gli spagnoli lasciarono un nastro di sospiri, l'aria allegra delle regioni montanare ed il linguaggio in cui per secoli si sgranarono lotte, illusioni, oscuri drammi del popolo, storie incredibili.
Nel Brasile tremarono i fiumi più poderosi della terra, raccontando e raccantando storie. Gli uomini e le donne si cullarono e ballarono sotto le palme. Dal Portogallo arriva-rono i più dolci suoni, e la voce dal Brasile si penetrò delle sue profondità selvatiche e di zagare marine.
Queste sono le canzoni ed i balli dell'America.
In questo continente, il sangue e l'ombra sommersero molte volte la speranza, sem-bravano dissanguati i popoli, un'onda di terrore annichilì i cuori: tuttavia, cantiamo.
Lincoln fu assassinato, sembrò morire anche la liberazione, tuttavia, per le rive del Mississippi cantarono i neri. Era un canto di dolore che ancora non finisce, era un canto profondo, un canto con radici.
Nel Sud, nelle grandi pampe, solo la luna illuminò la solitudine delle praterie, la luna e le chitarre.
Nell'alto Perù cantarono gli indio come le sorgenti nella cordigliera.
In tutto il continente l'uomo ha conservato le sue canzoni, ha protetto, con le sue braccia e la sua forza, la pace dei suoi piaceri, ha sviluppato la sua antica tradizione, il ful-gore e la dolcezza dalle sue feste, la tstimonianza dei suoi dolori.
Vi presento il tesoro dei nostri paesi, la loro grazia, quello che preservarono attra-verso avvenimenti terribili, abbandonati e martirizzati.
Che l'allegria, le canzoni ed i balli delle terre americane brillino in questa festa della gioventù e della pace, vicino ad altre allegrie, altre canzoni ed altre danze.
Dal più lontano dei paesi dell'America, dal Cile, separato del mondo dalla cordiglie-ra andina ed unito a tutti i paesi dal suo oceano e dalla sua storia di lotte, io saluto i giova-ni del festival e dico loro:
Più alte delle nostre montagne furono le nostre canzoni, dato che qui possono a-scoltarsi, più insistenti delle onde dell'oceano furono le nostre danze, dato che qui mostre-ranno la loro allegria. Difendiamo tutta questa forza delicata, difendiamo uniti l'amore e la pace che li sostenne. Questo è il compito di tutti gli uomini, il tesoro centrale dei paesi e la luce di questo festival.
Salve e che cominci il ballo.

Isola Nera, il 22 Luglio 1955

Per il Festival della Gioventù a Varsavia. Edito in
PNN, pp. 375-376.


Prologo per Práxedes Urrutia

Práxedes Urrutia, diafana nel suo canto, plurale come l'invisibile volo di mille uccelli, rac-coglie in questo poema una commozione universale.
La sua voce deve essere ascoltata. È come il coro antico, la sua radice viene dalle tenebre e ci porta ad una abbagliante chiarezza.
Práxedes Urrutia assume nella sua passione una responsabilità che molti poeti non capirono o non osarono prendere: che la dolce ed alta lira canti dalla morte l'eternità di un tormento ed il volo inesauribile della speranza umana.

1955, agosto

Nota-prologo a Práxedes Urrutia, Canciòn de amor por
tu sueño de paz, Santiago, Austral, 1955. Raccolta in
Prólogos, p. 3 8.


Venturelli

Venturelli è il mio amico di molti anni, benché io abbia passato i cinquanta ed egli appena i trenta. Personalmente è un gigantesco ragazzo. Non parla molto. Sorride con gli occhi e le mani: così hanno fatto sempre i pittori. Noi, i poeti, non sappiamo muovere le mani. Essi lasciano la frase senza finirla, la prendono nell'aria, la modellano, la portano contro la pa-rete, la dipingono.
Venturelli fu malato molto tempo al polmone, lassù, in un sanatorio dell'alta cordi-gliera cilena. Quella era un'epoca piena di mistero. Il pittore morì, e quando già andavamo a seppellirlo non c'era. C'arrivavano dozzine di meravigliose pitture, bozzetti illuminati pa-zientemente coi colori drammatici che solo Venturelli possiede: gialli insanguinati, ocre verdi.
Io camminavo là per le strade, per le miniere, per i fiumi, armando la guerra ad un tirannello che disturbava come una mosca il mio paese. Di quando in quando si incrocia-vano i suoi disegni ed i miei poemi, quando venivamo scendendo dai monti innevati o sa-lendo dagli arcipelaghi botanici. Ed in questo incrocio di lampi io sentii che si illuminavano i miei poemi e che contemporaneamente la mia poesia trasmigrava alla sua pittura.
Erano incontri di viaggiatori, di guerriglie. Tutti siamo viaggiatori e guerriglieri in questo territorio che ci diede la vita. Il Cile, affilato come una spada, con neve, sabbia, con squarci mortali di oceano e montagne, ha una primavera marina estesa e dorata e la mise-ria che abbaia di giorno e di notte vicino alle case dei poveri.
Così, dunque, si scambiavano di passaggio le nostre ansietà, le nostre singolari lampade, e di lì nacque la nostra amicizia lavoratrice.
Quindi io diventai più misterioso di Venturelli. Mi ripiegai nelle viscere del mio pae-se: la polizia mi cercava. Era la polizia di quella mosca, ma, siccome non doveva trovarmi, cambiai di casa, di strada, di città. Cambiai fumo. Cambiai ombra.
Io scrivevo il Canto general. Ma i fogli appena fatti potevano cadere nelle mani degli inseguitori e per quel motivo, appena essi lasciavano le mie mani, correvano per misteriosi canali a copiarsi, a stamparsi.
Venturelli, risuscitato ed attivo, diresse l'edizione clandestina e nei segreti "sotterra-nei della libertà", come direbbe Jorge Amado, si accumulavano migliaia di fogli che stava-no formando il libro. Tutto stava a volte per cadere nelle mani dalla mosca, i poliziotti inter-rogavano tutto il mondo, molte volte lo fecero seduti su mucchi di fascicoli del mio libro. Venturelli continuava a portare e portando pagine, correggendo le prove, ordinando i di-spersi settori del libro, depositati in posti nascosti, come chi ricompone lo scheletro di un animale preistorico.
Ma durante queste andate e venute di viandante e guerrigliero, Venturelli aggiunse ai miei poemi le sue stampe commoventi. Ritrasse il conquistatore con la croce ed il coltel-lo, il piccolo indio andino, l'ussaro eroico, gli scioperanti mitragliati. E disegnò anche le ef-figie pazze della mia poesia, l'anfora di creta con una farfalla, la statua nuda che volò in una prua.
Venturelli è grande, è infantile e drammatico come l'America. È terribile all'improvvi-so. Non vede nient'altro che il lutto ed i corvi. È abbandonato. Guarda l'abisso e muore. Stanno morendo i paesi, cadiamo sotto il peso di tante crudeltà, non possiamo già sussi-stere. Ma, all'improvviso, Venturelli sorride. Tutto è cambiato. Le sue torturate figure sono state cancellate dalla maturità: l'azione è la madre della speranza.
Cari tedeschi:
In questo libro sta tutto Venturelli straziante e sorridente, viaggiatore e guerrigliero. È difficile forse per gli uomini biondi, che ricostruiscono di nuovo la sua patria ammirabile dalle ceneri, penetrare così di colpo il mondo americano di Venturelli. Ma, la sua forza di espressione vi farà scuotere: è il linguaggio dei nostri vulcani.
Negli ultimi anni, José Venturelli, più vivo che mai, più viaggiatore che mai, attraver-sò la planetaria Unione Sovietica, si stabilì nella Cina Popolare.
La sua visione del mondo è cambiata. Oramai non guarda l'abisso. Diventò sor-prendemente puro nella sua linea, sorridente e sicuro nella sua descrizione del mondo.
Il gran ragazzone, l'inclinato della cordigliera andina, è resuscitato un'altra volta e ci insegna le esposizioni magnifiche del suo rinascimento: l'ordine, l'intelligenza, la bontà, l'allegria ed il lavoro.
Il giovane maestro oramai non deve trovarsi con me in mezzo alla strada, tra la ne-ve e la schiuma marina, nel soprassalto delle cordigliere. Andiamo per la stessa strada, prendendoci per la mano.

Prologo al volume affezionato all'opera pittorica di José
Venturelli (Leipzig, RDA, 1955). Raccolto in La Gacta
de Chile, núm. 1, Santiago, settembre 1955.


Uniti al popolo
UNIDOS AL PUEBLO. (Pagine 997-1001.) Questo articolo fu pubblicato il 3.10.1955 da El Diario Ilustrado di Santiago, organo dell'ultradestra conservatrice, col seguente preambolo: "Por una Paz Duradera è il titolo di un giornale pubblicato dall'Ufficio di Informazione del Partito Comunista di Bucarest. In lui troviamo, sopra la firma di Pablo Neruda, l'articolo che riproduciamo per il curioso elenco di nomi che il suo autore evidenzia". Non si indicano né il numero né la data della pubblica-zione menzionata, ma senza dubbio il testo è autentico. La questione è: perché El Diario Ilustrado riprodusse nella sua pagina editoriale questo articolo di Neruda? Che cosa aveva di "curioso" l'elen-co di persone menzionate dal poeta, non tutte di militanza comunista ma tutte di notoria e dichiarata posizione di sinistra? La chiave potrebbe stare nel quarto paragrafo, dove Neruda accusa Sergio Fernández Larraín di dedicarsi alla delazione poliziesca e di avere pubblicato "un libro intero coi nomi di quelle persone che hanno assistito a qualche congresso di pace", etc. Non è improbabile che lo stesso Fernández Larraín abbia imposto la pubblicazione dell'articolo per "dimostrare" che Neru-da incorrerebbe anche in uguale delitto di delazione col suo elenco di sostenitori della pace. Così si spiega il "sibillino" preambolo redazionale che suggerisce un volere scagionarsi dalla colpa. Al pro-posito, è opportuno tirare qui in ballo un fatto di quasi 20 anni posteriore all'articolo. In 1974 l'edi-tore Rodas di Madrid pubblicò le volume Cartas de amor de Pablo Neruda. Recopilación, intro-ducción, notas y epílogo de Sergio Fernández Larraín, che portava a pagina 9 la seguente dedica: "All'ispiratrice / di alcuni dei / Veinte poemas de amor y una canción desesperada / e molti più / con occasione di realizzarsi il cinquantenario della sua / prima edizione." L'ispiratrice allusa era Al-bertina Azócar che riuscì giudizialmente recuperare dopo le lettere e poemi di Neruda che Fernán-dez Larraín avrebbe pubblicato su modo abusivo. Non interessano qui i dettagli della causa. Ho vo-luto solo rilevare le singolari contorsioni intime di un personaggio che nel 1955 fece pubblicare questo articolo di Neruda e che nel 1974 commemorò (per via dubbiosamente legittima) i cinquanta anni dei Veinte poemas senza dire una parola sui pochi mesi trascorsi dalla morte di Neruda nel set-tembre del 1973. La ragione evidente: ciò l'avrebbe obbligato a riferirsi alle circostanze pubbliche in cui si produsse il decesso, dodici giorni dopo il colpo di stato di Pinochet e del bombardamento di La Moneda, dove morì anche Salvatore Allende.

Negli ultimi anni, la gran borghesia dell'America Latina ha dovuto lasciare molto a malin-cuore il suo orgoglio castigliano e si è sminuita al ruolo di intermediaria dei commerci yankee. Prodotto di questa subordinazione alla volontà dei monopoli nordamericani sono i governi di Odría nel Perù, di Pérez Jiménez nel Venezuela, il governo sanguinario della Colombia ed il dispotico comando militare nel Paraguay.
In Cile fu González Videla l'iniziatore di questa sottomissione, ed il generale Ibáñez ha continuato fino ad ora la politica di quel detestabile traditore.
A tutti essi cade loro come un acido bruciante sui vestiti, qualunque menzione alla causa universale della pace. Immediatamente si infuriano. Nella loro furia eseguono atti che molte volte li mettono allo scoperto. Il caso del signore Fernández Larraín è tipico.
Questo signore è un latifondista di Melipilla. Le sue proprietà sono celebri per le grandi estensioni dei suoi seminati e per la miserabile condizione dei contadini che lavora-no le sue terre. Il signore Fernández Larraín è un entusiasta sostenitore della dominazione nordamericana ed un fervente nemico della pace. Orbene, come si è manifestato questo cavaliere feudale nelle sue attività bellicose? Credete che abbia invocato forse la sua a-scendenza di pretesa nobiltà nella quale senza dubbio figurano curati carlisti con trombo-ne e catechismo? No. Con inaudita pazienza questo oscurantista della pergamena si de-dica alla delazione poliziesca e ha pubblicato un libro intero coi nomi di quelle persone che hanno assistito a qualche congresso di pace, a qualche riunione di scrittori a Vienna, alle celebrazioni di Schiller in Germania, a qualche concorso musicale a Varsavia. È un minu-zioso elenco di nomi che riempiono centinaia di pagine. Per tutte quelle persone chiede la scomunica civile e gli anatemi celestiali, quando non semplicemente la prigione di Santia-go del Cile.
Fortunatamente, non tutto il Cile pensa come Fernández Larraín. Gabriela Mistral, per esempio, questa scrittrice che ottenne il premio Nobel alcuni anni fa è stata lusingata in forma straordinaria dai nemici della pace e del paese cileno. Tuttavia, ad un'età avanza-ta e nonostante occupasse un carico ufficiale, ella ha manifestato varie volte la sua ade-sione alla causa più nobile della nostra epoca. Forse il paese cileno dimentica i suoi famo-si Sonetos de la muerte. Ma non dimenticherà la sua "Parola maledetta." In questo famoso articolo, la gran poetessa racconta con parole semplici il suo allarme di fronte alla perse-cuzione delle idee di pace e di amore che hanno diretto la sua vita di maestra rurale e di umanista.
Un'altra delusione si sono presa i sostenitori della guerra in Cile con Francisco Coloane. È questo, senza dubbio, una delle figure più popolari della nostra cultura. Molto popolare, fisicamente, è anche per il paese cileno lo scrittore Coloane che lo riconosce tra l'equipaggio di un barca baleniera o tra il concorso di un meeting popolare. Tra viaggio e viaggio ha meritato l'augurio degli organismi della pace perché raccolse le più prestigiose firme per l'appello mondiale per la proibizione delle armi nucleari.
Ma non solo gli scrittori in questo lontano paese si distinguono nella causa della pa-ce. In prima fila delle chiamate e riunioni vediamo il musicista Armando Carvajal, creatore dell'Orchestra Sinfonica Nazionale del Cile, e Blanca Hauser, sua moglie, cantante distin-ta, il pianista Óscar Gacitúa, premiato recentemente a Varsavia nel concorso Chopin. Le prime figure del balletto nazionale, come Patricio Bunster ed altri ballerini, hanno aderito o lavorano attivamente per la pace e l'amicizia tra i popoli.
Uguale cosa accade coi migliori pittori. L'officina di Nemesio Antúnez, considerato dalla critica come il migliore esponente della pittura giovane, pittore delicato dell'intimità umana e l'allegria nella natura, è una distaccata militante della causa della pace. Per i Fernández Larraín è stato un colpo demolitore vedere che le tribune dei comizi del Movi-mento della Pace furono decorate con immensi murali di questo pittore squisito. Ma più di-spiaciuti furono ancora questi signori quando videro Camilo Mori, artista devoto, dai capelli bianchi, premio Nazionale dell'Arte, dare tutti i suoi sforzi in difesa della vita, collaborando con bellissimi poster e cartelli al Movimento della Pace.
Baltazar [sic] Castro, Olga Poblete, entrambi scrittori, percorrono il paese nella campagna di firme. Non è difficile trovarli nei posti più lontani del territorio, a Punta Are-nas, capitale dello stretto di Magellano, che parlano alle popolazioni di pastori, di operai del petrolio e di navigatori sul pericolo che rappresentano le prove atomiche.
Giornalmente lavorano nell'organizzazione del Movimento dei Pace scrittori come l'autore del libro famoso Hijo del salitre: Volodia Teitelboim, o Francisco Pezoa che ha ap-pena pubblicato un eccellente libro lirico: Nada parece. Il dottor Gustavo Mujica, anche la-voratore assiduo del Movimento Nazionale della Pace, ha pubblicato una collezione di racconti: Coral blanco sugli effetti degli scarichi nucleari tra i pescatori giapponesi.
Tanto Pedro de la Barra come Domingo Piga, fondatori e direttori del Teatro Speri-mentale dell'Università del Cile, sono ferventi e decisi sostenitori della pace. Il Teatro Spe-rimentale viene ad essere come il teatro ufficiale del Cile e la sua sala è piena ogni giorno. L'ultima opera che si è rappresentata in questo teatro è Todos son nuestros hijos di Arthur Miller. L'opera di questo scrittore nordamericano è drammaticamente pacifista e ha susci-tato interesse ed appassionate polemiche. Ma quasi tutti gli attori ed attrici del Teatro Spe-rimentale che è orgoglio del paese sono attivi nei tavoli che spingono la lotta contro la guerra. Basterebbe citare due nomi straordinariamente cari per il paese del Cile, gli sposi Roberto Parada e María Maluenda. È raro trovare un atto del Movimento della Pace in cui non raffigurino questi intelligenti e prestigiosi attori.
Il poeta Ángel Cruchaga Santa María, premio Nazionale di Letteratura ed uno dei moderni classici della poesia cilena, nonostante la sua indisposizione perché lo angoscia una grave malattia alla vista, partecipa agli atti della pace e è ricevuta sempre con ardenti applausi la sua emozionante parola. Il primo dei poeti tra le generazioni più giovani, Ju-vencio Valle, è un devoto lavoratore pacifista. Il gran romanziere e professore Rubén Azó-car è appena ritornato dal sud del paese. In quella vasta regione ha fatto conferenze ed interviste difendendo la causa della pace. I giovani poeti che hanno appena pubblicano i loro primi libri, come Jorge Soza ed Efraín Barquero, impiegano gran parte del loro tempo e della loro giovanile energia al lavoro organizzato della pace.
Poco tempo fa, la polizia cilena, la stessa che tentò di ostacolare la visita di Ilyá E-hrenburg, trattenne i passaporti di una dozzina di persone che si trasferivano al festival di Varsavia o al Congresso della Pace di Helsinki. Il governo spiegò che poteva negare que-sti passaporti. Queste misure di coercizione sono state impiegate già in altri paesi: Cuba, Nicaragua, Venezuela, etc. Per farlo, in tutti quei paesi ed in Cile, si sono invocati gli ac-cordi anticomunisti ed antipopulari di Rio de Janeiro.
Ebbene, in Cile è fallita tale misura ed il governo si è visto obbligato a concedere i passaporti a tutti i viaggiatori della pace.
Irritato, il presidente Ibáñez ha inviato al Congresso un disegno di legge chiedendo l'autorizzazione parlamentare e legale per negare passaporti ed ostacolare l'assistenza a qualunque riunione o congresso della pace ed ai viaggi il cui oggetto sia vedere le grandi realizzazioni dell'URSS e dei paesi di democrazia popolare.
Senza dubbio, questo grottesco e mostruoso progetto sarà respinto nel Parlamento del Cile. Ci sono già evidenti segni che così succederà. Il quotidiano di estrema destra, or-gano dell'alta banca, El Mercurio, di Santiago del Cile, nella sua edizione del 16 di Luglio consiglia alle Camere di respingere questo disegno di legge con queste parole: "È di spe-rare che... la maggioranza del Congresso Nazionale desapprovi questo progetto come una modo di indicare al potere esecutivo lo scarso spazio che nel paese ricevono le iniziative chiamate a restringere le libertà definite e garantite dalla Costituzione politica vigente."
L'inflazione e la miseria hanno frustato implacabilmente al Cile negli ultimi tempi. I governanti hanno continuato la politica cieca ed impopolare di González Videla: maggiori tributi e nuove concessioni alle compagnie yankee del rame e del salnitro. La situazione delle masse è disperata.
Benché la popolazione del Cile non raggiunga sei milioni, l'ultimo sciopero paralizzò l'attività di un milione e trecentomila operai ed impiegati. Questo sciopero fu un'avverti-mento ed un reclamo collettivo contro l'impoverimento del paese, prodotto in gran parte dalla politica di guerra. La parola pace fu molte volte pronunciata nel gran meeting che precedè lo sciopero.
Il popolo del Cile si sente unito ed orgoglioso della sua poderosa unità. Nella sua gran maggioranza gli artisti, gli scrittori, i professionisti, i professori, gli intellettuali cileni, sono uniti al nostro eroico paese nella sua lotta comune per la libertà e per la pace.

El Diario Ilistrado, Santiago, 3.10.1955.


Addio a Mariano Latorre

Questo giorno freddo in mezzo all'estate è come la sua partenza, come la sua sparizione repentina in mezzo alla gioia moltiplicata della sua opera.
Non faccio un discorso funerario per Mariano Latorre.
Voglio dedicargli un volo di queltehues vicino all'acqua, le sue grida nefaste ed il suo piumaggio bianco e nero che si alzano all'improvviso come un ventaglio a lutto.
Gli dedico un lamento di pidenes e la macchia bagnata, come sangue nel petto, di tutte le loicas del Cile.
Gli dedico un sperone di contadino cileno, con rugiada mattutina, di qualche fantino che si mette in viaggio nell'alba per le rive del Maule e la sua fragranza.
Gli dedico, alzandola nel suo onore, il bicchiere di vino della patria, colmo per le es-senze che egli descrisse e godè.
Vengo a lasciargli un rosario giallo di topa-topa, fiori irregolari, fiori selvaggi e puri.
Ma egli merita anche il sussurro segreto delle maitenes tutelari e la fronda dell'a-raucaria. Egli, più che nessuno, è degno della nostra flora, e la sua vera corona sta da og-gi nei monti dell'Araucania, tessuta con boldi, mirti, copihue ed allori.
Una canzonetta di vendemmie l'accompagna, e molte trecce delle nostre ragazze silvestri, nei corridori e sotto le gronde, alla luce della stagione estiva o della pioggia.
E quel nastro tricolore che si annoda al collo delle chitarre, al filo delle canzonette, sta qui, cinge il suo corpo come una ghirlanda e lo accompagna.
Sentiamo vicino a lui i passi di contadini e di lavoratori della pampa, di minatori e di pescatori, di quelli che lavorano, inseguono, scavano la nostra terra dura.
In queste ore sta crescendo il cereale ed fra qualche tempo i campi di grani maturi muoveranno le loro onde gialle ricordando all'assente.
De Victoria al sud fino alle isole verdi, in campi e casali, in capanne e strade, non starà con noi, gli daremo di meno. Le golette voleranno sulle acque cariche coi suoi frutti marini, ma già Mariano non navigerà tra le isole.
Egli amò le terre e le acque del Cile, li conquistò con pazienza, con saggezza e con amore, le marcò con le sue parole e coi suoi occhi azzurri.
Nelle nostre Americhe il governante, da un clima ad un altro, non fa altro che con-segnare le ricchezze originali. Lo scrittore, accompagnando la lotta dei popoli, difende e preserva le eredità. Si indagherà più tardi, se sono state sacrificate le nostre abitudini ed i nostri abiti, le nostre canzoni e le nostre chitarre, il tesoro che protessero uomini come Ma-riano Latorre, irriducibili nel loro canto nazionale.
Andremo a cercare nella frasca dei suoi libri, accorreremo alle sue pagine preziose a conoscere e difendere il nostro.
I classico li produce la terra o, piuttosto, l'alleanza tra i suoi libri e la terra, e forse abbiamo vissuto vicino a nostro primo classico, Mariano Latorre, senza stimare quello che avrà di permanente la sua fedeltà al mandato della terra.
Gli uomini dimenticati, gli attrezzi e gli uccelli, il linguaggio e le fatiche, gli animali e le feste, continueranno a vivere nella freschezza dei suoi libri.
Il suo cuore fu un'imbarcazione di legno odoroso, uscita dei boschi del Maule, ben costruita e martellata nei cantieri navale della foce, e nel suo viaggio per l'oceano conti-nuerà a portare la forza, il fiore e la poesia della patria.

Testo letto nelle funzioni funebri del narratore cileno il 12.11.1955. Edito in La Nación, Santiago, il 13.11.1955.



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