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da 1939 a ...
Il ritorno del soldato errante
(1952-1955)
I
L'ODORE DEL RITORNO
(1952)
Parole al Cile
PALABRAS A CHILE. PEQUEÑA CANCIÓN PARA MATILDE. (Pagine 837-840.) Combattimento ed amore sono i propositi con cui Neruda ritorna in Cile: li riassumono questi due testi. Sull'imbarco a Cannes e sul viaggio nel transatlantico Giulio Cesare ci sono dettagli tanto nelle memorie di Neruda, (CHV *, pp. 302-303), come in quelle di Matilde (capitolo 12 "Regresamos a Chile en el Giulio Cesare", in Urrutia * *, pp. 135-149), e dalla prospettiva dei Mantaras - gli uruguaiani Alberto ed Olga, compagni di viaggio - in Varas, pp. 131 e ss.
Ritorno alla mia patria chiamato dal mio paese. Sarò in Cile a metà di agosto.
Durante questi anni di esilio ho portato il nome del Cile scritto nella mia fronte. Sulla mia fronte l'hanno letto milioni di uomini e hanno imparato ad amarlo e rispettarlo.
Nella Cina nuova, spaziosa e feconda i coltivatori di riso dei campi ed i villaggi ascoltarono con silenzio religioso la storia di O'Higgins e di Recabarren.
Nel mare Baltico raccontai ai lavoratori dei cantieri navali come vivono e lottano gli uomini di Coronel e Lota.
Agli uomini e le donne della poderosa ed amata Unione Sovietica parlai delle nostre donne e dei nostri uomini, e disegnai per essi in una lavagna, molte volte, un fiore di copihue, fiore di sangue e di libertà.
Dissi agli operai rumeni orgogliosi di costruire l'edifico più grande dell'Europa per la pubblicazione di libri e giornali: "Anche il mio lontano paese, con le sue lotte, ha aiutato ad alzare questi mattoni."
Ai lavoratori di Katowice, nella regione mineraria della Polonia raccontai per ore la vita e le vittorie dei nostri, gli eroes di Chuquicamata, della pampa e del Nord Grande.
Non dimenticai neanche la nostra gente delle città, gli intellettuali, gli impiegati, i professionisti.
In Italia in dieci città ed in fabbriche raccontai la semplice ed eroica vita del paese cileno.
Questo l'ho fatto senza riposo perché credo nel mio paese e nel destino della mia patria.
Siamo un piccolo paese ricco che vive nella povertà, minacciato e sfruttato, ma indomabile.
Ci sono paesi con dozzine di stelle nella loro bandiera, ma non sono soddisfatti, vogliono impadronirsi di altre terre, dominare altri paesi ed aggregare nuove stelle alle loro bandiere.
Noi cileni abbiamo una sola stella nella nostra, e quella ci basta. Amiamo la nostra stella sul suo azzurro meraviglioso. Amiamo la nostra bandiera, la più lontana di tutti i paesi.
Ma non amiamo la solitudine. Vogliamo conoscere, commerciare, scambiare la cultura e l'amicizia con tutti i paesi, senza perdere un atomo dell'indipendenza che conquistò il sangue del Cile.
Per quel motivo vogliamo la pace e la difenderemo.
Io ho insegnato da tutte le parti l'amore per la mia patria ma ho imparato anche molto. Ho imparato ad amare e rispettare gli altri paesi. Da tutte le parti ho visto un'ansietà per comunicare, per capirsi. Sono alcuni quelli che aspirano alla separazione tra gli uomini, quelli che vogliono la distruzione, la guerra e la morte.
I paesi, in tutti i posti, sono tanto semplici e generosi come il paese cileno. Noi uomini semplici siamo più numerosi e migliori, e per questo motivo vinceremo.
Vinceremo la bomba atomica, i microbi intrepidi dall'aria, vinceremo il crimine.
Il futuro dell'umanità può stare in pericolo in mano ad alcuni malvagi, ma non appartiene loro. È nostro il futuro dell'uomo, perché siamo noi la speranza.
Abbiamo molto da fare noi cileni. Con voi, tra voi, uno più di voi, starò lavorando.
Ritornando alla mia patria, dopo tanto lungo esilio vi dico solamente: "Consacrai la mia vita a difendere l'onore del Cile. Ora torno a mettere un'altra volta la mia vita nelle mani del mio paese."
Costa dell'Africa, in viaggio di ritorno
al Cile, 27 Luglio 1952.
Democracia, Santiago, 9.8.1952.
Piccola canzone per Matilde
Le onde vanno, il vento
sparge azzurro ed odore.
Io con amore ti amo,
con amore.
Dove vanno le onde
con noi, al piacere?
Al piacere, o al dolore?
Non lo sappiamo, ahi!
Io con amore ti amo,
con amore.
Così vanno via i giorni,
così li divoriamo
in frutta e fiore.
Sei mia e ti amo,
e con amore ti amo,
con amore.
Non temere le onde
benché vadano rotolando
verso il dolore.
Tutto si andrà perdendo.
Tu ed io noi rimarremo.
Perché, mio amore, ti amo,
con amore.
Tu ed io fioriremo
fino all'ultimo fiore,
fino all'ultima ora
ed al'ultimo tremore.
Perché tu ed io, mio amore,
con amore c'amiamo,
con amore.
Poema scritto a bordo del transatlantico Giulio Cesare
il 1.8.1952. Raccolto in FDV, pp. 88-89.
Io sono cileno del Sud
YO SOY CHILENO DEL SUR. (Pagine 840-844.) Si allude alla prima candidatura presidenziale di Salvatore Allende, quella del 1952. Ce ne saranno altre tre: nel 1958, nel 1964 e nel 1970, nella quale finalmente risulterà vincitore. In quelle quattro postulazioni il candidato Salvatore Allende contò sull'appoggio dei comunisti e, in particolare, su quello del suo amico Pablo Neruda.
Io sono cileno del Sud, i miei pensieri nacquero tra San Rosendo e Carahue. Io devo alla Frontiera, alle terre bagnate del Sud, la mia poesia.
A Santiago devo alcuni gocce di pazzia e di saggezza. Gli devo anche la cosa più importante: la scoperta del mio partito, il Partito Comunista del Cile. Perciò gli devo l'orgoglio di essere un comunista.
Al nord, al Nord Grande, agli arenili e le altezze del rame, a María Elena e Chuquicamata devo una rivelazione, avere conosciuto gli uomini, avere lottato nel più profondo e nel più vivo delle file del popolo.
Devo, dunque, a tutta la terra cilena, e sono ritornato per questo, per pagare il mio debito, per pagare quello che devo a tutta la terra del Cile ed a tutto il popolo della mia patria.
Vengo ad esprimere la mia gratitudine a voi, perché so quello che si è lavorato per il mio ritorno.
E queste sono le mie parole per abbracciarli a tutti, avvolgendovi tutti nel vasto amore della patria.
Che nessuno aspetti da me in questa ora espressioni di rancore o di odio. Dobbiamo imparare la lezione della vita e soffrire in noi stessi le sofferenze di tutti noi, ed in questi anni molta gente semplice ha sofferto più di me. Ma quello che rimane indietro nella storia dobbiamo lasciarlo affinché domani sia studiato e giudicato, cioè, per estrarre dai fatti più dolorosi, la lezione che c'insegni il cammino verso la vittoria.
È questo il nostro lavoro di oggi. Dobbiamo marciare uniti e costruire la nostra vittoria, la vittoria del Cile.
Quale è questa vittoria? Che cosa desideriamo? Come dobbiamo marciare? Come vinciamo?
Siamo uno dei paesi più ricchi del mondo, il nostro paese è uno dei più poveri del mondo. Abbiamo la maggiore quantità di rame che esiste nel pianeta. Ma i bambini del popolo non hanno scarpe. Col nostro rame, col nostro salnitro, col nostro ferro, col nostro iodio, col nostro manganese, e col sudore ed il dolore del popolo del Cile non si costruirono case per i figli della patria, bensì edifici di cinquanta piani nella città di New York.
La miseria del Cile non è qualcosa di accidentale, non è una maledizione del cielo, né una circostanza dolorosa, né meschinità della terra. La miseria del Cile è un coscienzioso lavoro dei nemici del popolo. E questi nemici non stanno solo dentro il paese, ma anche lontano dalle nostre frontiere.
Io ho visto le città spianate dalla guerra, e ho visto nei paesi del socialismo nascente come delle rovine si edifica la costruzione e la speranza. Ma nella guerra contro il nostro paese, ci sono migliaia di vittime: mancano i soffitti, come nelle città bombardate, manca il pane ed i vestiti. E non si costruisce niente per il nostro popolo.
Io sono appena stato nella città di Shanghai, nella nuova Cina Popolare. È una città di 7 milioni di abitanti. È stata spianata e saccheggiata dagli imperialisti giapponesi e nordamericani. E, tuttavia, l'enorme città vive di nuova, costruisce più che mai, produce più che mai. Prima, le corazzate dei colonialisti miravano coi suoi cannoni verso la popolazione. Oggi il fiume Yang-tse è stato ripulito di questi rettili. L'immensa città continua a lavorare e palpitare.
A noi si vuole fare credere che se i nordamericani imperialisti abbandonano Chuquicamata non uscirà più rame dalle nostre miniere. Quella è una bugia. Produrremo più rame. E col prodotto della nostra propria ricchezza potremo fare case, scuole, biblioteche per tutta la popolazione del Cile, che è minore della popolazione della città di Shanghai.
E se i telefoni smettono di essere stranieri, non smettiamo di comunicare per telefono. E se l'energia elettrica smette di essere proprietà straniera, non viviamo nelle tenebre per questo motivo. Io credo che, al contrario, abbiamo più luce, e per tutti.
Stiamo in un momento straordinario della vita nazionale. Stiamo in una crocevia della storia. Non possiamo seguire la strada tracciata per i nemici del Cile; non possiamo continuare a mantenere l'indegna miseria dei contadini e degli operai; dobbiamo continuare a ripudiare grotteschi patti militari; non possiamo continuare ad essere un paese satellite di un imperialismo spietato; non possiamo continuare ad aizzare la mortale malattia della guerra. Vogliamo sottoscrivere un patto di pace con tutte le nazioni e comprendiamo che, benché la nostra patria sia molto piccola nel concerto delle grandi nazioni, se esaa esprime la sua volontà di pace, sarà ascoltata con rispetto da tutti i paesi del mondo.
I milionari ed i generali nordamericani ordinarono, già tempo fa che il nostro paese rompesse relazioni con la grande e generosa Unione Sovietica e con le democrazie popolari. Non intavoliamo ancora relazioni con la Cina Popolare, questa nazione di 475 milioni di abitanti, che estende le sue coste di fronte alle nostre, lavate dall'oceano che non deve separarci, bensì unirci.
Non è questo isolamento interamente irrazionale? Non è questo un incubo?
Io ho conversato con quegli uomini, e nelle lontananze della Cina, nelle coste del mare Baltico, in Polonia, nel meraviglioso rumore della ricostruzione di Stalingrado, io ho parlato di queste cose; io ho parlato di voi, quelli che mi ascoltate; ho parlato con orgoglio della mia patria; ho parlato di tutta la gente semplice della nostra terra, ed essi non mi diedero, per il mio paese, per voi, un messaggio di rancore, né una parola di guerra o di odio, ma mi dissero: "Amiamo al tuo paese. Vogliamo conoscerlo di più. Vogliamo la pace, perchè tutti i paesi si conoscano, si rispettino e si amino".
Io voglio salutare, anche, quello portavoce popolare e candidato del Fronte del Popolo, senatore Salvatore Allende.
Il programma suo e del paese, meritano l'attenzione e l'adesione dei cittadini.
Nel primo giorno del mio ritorno io gli do la mia adesione e comprendo che egli incarna, in questo momento, le aspirazioni popolari.
Ma questa elezione è una tappa in più nel cammino del Cile verso l'indipendenza, la dignità e la libertà. Ci siamo proposti di conquistare la vittoria, ma questa lotta continuerà, sia chi sia il candidato trionfante, dal momento stesso in cui finiscano le elezioni presidenziali.
Perciò io chiamo tutti i cileni a lavorare insieme in una prospettiva sempre più ampia che ci porti all'incoronazione del destino storico del Cile. Io chiamo tutti i cileni, i quali oggi sono separati davanti alla vicinanza delle elezioni, per lavorare in comune per la pace del mondo e per la felicità della nostra patria.
Mi sento orgoglioso di appartenere ad un paese che tanto ha lottato per la libertà; mi sento orgoglioso di essere cileno tra i cileni, come mi sentii nell'esilio unito alla mia terra, alla mia bandiera, al mio paese, ai boschi ed i fiumi, ai fiori dei campi ed alle stelle del cielo della patria.
Risento orgoglioso di essere un comunista. Respirando l'aria della terra che amo, io saluto il mio partito, il più nazionale di tutti i partiti, quello che uscì dal pampa di salnitro, il partito che non ha potuto essere vinto, perché ha nelle sue mani indomabili, il futuro e la difesa del nostro paese.
Io saluto tutti i cileni senza partito, tutti quelli che vegliano, si inquietano e difendono il destino del nostro paese.
Io saluto gli scrittori ed i minatori, i soldati ed i contadini, gli impiegati e gli artigiani. Io dico loro:
Oggi è un giorno molto grande per me. Oggi, dopo anni, ho respirato l'aria e ho pestato la terra del Cile. Io mi sento come in una festa, e questa festa la devo a tutti voi. Io voglio pagare il debito che ho e che avrò, e che abbiamo tutti verso la terra che amiamo, lavorando affinché la nostra patria sia ogni giorno più bella, affinché si estirpi di essa la miseria, affinché riconquistiamo il nostro patrimonio nazionale, affinché dentro la pace del mondo ricostruiamo l'onore e la grandezza della nostra patria, dandole maggiore progresso, felicità, dignità, libertà ed allegria.
Parole alla moltitudine riunita nella piazza Bulnes, di
Santiago il 12.8.1952 per celebrare il ritorno in Cile
del poeta, dopo tre anni di esilio. Edito in Democracia,
Santiago, 13.8.1952.
Questa è una nuova tappa che comincia
È largo il mare, è larga la terra, ma l'ho percorsa due volte. Ora sono ritornato per reintegrar- mi con voi in questa nuova giornata; alla ricerca della libertà, del pane, della pace, del progresso e della cultura per tutta la nostra patria.
È lontana la Polonia, ma le mie parole la porteranno in rapidi momenti con voi. Perché ci sono lì genti come noi, ci sono uomini come noi, ma il popolo governa e quello Stato è sempre di più fiorente ed è più brillante la vita e più piena di speranze. Quando arrivai in Polonia, mi invitarono in molti posti, mi invitarono nei posti di riposo speciali per i lavoratori e per gli scrittori che esistono nel regime socialista. Io chiesi una visita che volevo fare. Fu quella di visitare le miniere di carbone della Polonia: alle grandi miniere di Katowice. Una volta arrivato, potei visitare le grandi miniere del carbone e complessi siderurgici che occupano trecentomila operai. Queste grandi miniere e queste imprese siderurgiche annesse erano proprietà dei capitalisti internazionali. Lì stava l'angolo di maggiore oppressione di tutta l'Europa. Quella era la carne di cannone del lavoro dell'Europa e di lì usciva anche l'acciaio per la guerra. Ebbene, ora, col regime popolare, con la nuova Repubblica Democratica della Polonia non si è fermato il lavoro; più di trecentomila operai lavorano, non c'è nessun brutta abitazione, non c'è fame, non ci sono cattivi vestiti, non c'è lavoro spossante. Ci sono luoghi di riposo per i lavoratori nei mari caldi della Romania, ci sono ferie espressamente date ai lavoratori; esiste l'attenzione medica più perfetta; è, in realtà, un nuovo regime di lavoro. Ma di lavoro con calma e con speranze. E chi governa questa immensa impresa di miniere del carbone e siderurgia? Sono grandi tecnici stranieri o grandi acculturati? Tutta questa impresa di trecentomila uomini lavorativi è governata per un comitato di fabbrica, tutti usciti della miniera e tutti usciti della siderurgia. E quello prova a tutti il falso secondo cui il popolo e la classe operaia non possono dirigere le più grandi imprese umane. Il popolo ha in sé tutte le forze creative per costruire, per stabilire il meglio sulla terra e lì hanno quell'impresa di Katowice che funziona meravigliosamente e se non fosse abbastanza, lì sta la vasta, poderosa, grande e gloriosa Unione Sovietica. Lì, la Cina Popolare con la sua classe lavoratrice davanti al suo governo, che in questo momento segnano le rotte della nuova umanità, producendo sempre di più per l'allegria e la felicità dei suoi popoli.
Potei conversare coi dirigenti di fabbriche e con un gruppo numeroso dei minatori. Allora raccontai loro la vostra vita, la vita dei minatori, degli uomini, delle donne e dei bambini della zona del carbone e di Lota in particolare. Molte volte, quando raccontai l'eroico atteggiamento vostro, vidi come si inumidivano gli occhi degli uomini del socialismo, dei nuovi lavoratori della Polonia. E come tracciando le mie parole le tappe culminanti della lotta contro la repressione, e raccontandoloro come Lota non fu mai sconfitta, essi irruppero in applausi e terminando il mio racconto sulle vostre vite, sulle vostre lotte, sui vostri dolori e le vostre vittorie, si alzarono unanimi, in una grande canzone, le voci di tutti i lavoratori. Cantarono in onore a voi una Internazional con le loro voci alte e poderose che erano dedicate alle vostre lotte, alle vostre future vittorie. E quella Internazional, cantata in quello posto, in cui tutti gli sforzi dei lavoratori erano stati segnati dalla vittoria, mi sembrò il più grande omaggio alle lotte di voi, e mi sembrò la più bella Internazional che mai avevo ascoltato nella mia vita. Dappertutto dissi il nome di Lota e lo dissi, perché era orgoglioso di voi.
Fu in Cina, nella vasta Cina, davanti a gruppi di lavoratori o di intellettuali. Fu anche vicino al fiume Danubio in Ungheria, repubblica socialista. Fu nell'Unione Sovietica tra i lavoratori vittoriosi. Fu anche in Cecoslovacchia nelle officine di Kladno, produttrici di acciaio, da tutte le parti, il nome di Lota fu associato al meglio delle lotte del paese in tutto il mondo. E quella è la responsabilità che avete ora; perché il nome di Lota è conosciuto nelle lotte dei lavoratori, da tutte le parti. Ed a questo nome ed a questa tradizione della quale voi fate parte col vostro antico eroismo, in questa nuova giornata dovete dargli nuovo lustro e splendore. Dovete continuare a sostenere il nome di Lota, come un pilastro, come una colonna nella lotta per la liberazione, non solo della nostra patria, bensì di tutti i paesi.
Viene tra i miei bagagli, e la porterò già dopo la campagna, una statua fatta in carbone dai minatori polacchi. Quella statua la regalarono a me e da quello stesso momento promisi di consegnarla un giorno a voi. Già Arriva. E dovete sapere anche che molti bambini nel mondo, molte bambine appena nate, sono stati chiamato Lota. E c'è Lota polacchi, ci sono bambine Lota cinesi, ci sono bambine Lota russe, ci sono bambine Lota cecoslovacche.
[...]
Questa è una nuova tappa che comincia, è molto lungo questa strada. Lo conoscete; perché avete sofferto in questa strada; ma se stiamo insieme e possiamo riunire tutte le volontà popolari contro la miseria, contro l'imperialismo sfruttatore, contro i disertori e traditori politici, contro il feudalesimo e contro questa casta ricca che c'opprime, si uniamo tutte le volontà del Cile. È possibile compagni che non andiamo in avanti? Io vi dico, non è possibile. E questa è la strada che c'indica il Fronte del Popolo. È una strada lunga e larga, è quella verso la liberazione nazionale.
Io vi dico compagni, buona sera!; già vado via; ma ritorno presto. Sembrava molto tempo fa quando ci vedemmo l'ultima volta, che non saremmo più ritornati a vederci insieme. Ma vedete già, è stato difficile e lungo; ma le vostre lotte, le vostre speranze, la fermezza con che abbiamo sostenuto i nostri ideali, l'unità dei lavoratori, l'unità socialista e comunista, tutto questo ha permesso il mio ritorno. Il mio ritorno io lo devo al mio popolo. Non lo devo a nessun incidente gratuito del governo. Io so perfettamente a chi devo lo stare parlando di fronte a voi. Lo devo solamente alla vostra lotta, alla lotta del popolo cileno. Ed allora molto presto ci vedremo per raccontarvi e parleremo più in dettaglio di quello che ho visto. Io oggi sono venuto solo in missione del Fronte del Popolo, per stabilire il primo contatto e darvi il primo saluto e vi dico: Buona sera, compagni! Saluto anche la vostra giornata di sciopero di domani. Ella, anche con la simpatia del Fronte del Popolo, conta sull'adesione di tutti i cittadini patrioti del nostro paese che conoscono le vostre abbandonate vite e le vostre immense lotte.
Io vi dico: state molto pronti; ma in questa attenzione, in ogni giorno che passa, dobbiamo affermare questi sentimenti di lotta senza quartiere verso il futuro e di unità sempre di più ampia, affinché possiamo presto arrivare alla vittoria che speriamo non si fermi solo al nostro paese, bensì per tutti i paesi, la felicità, la pace ed il progresso per tutta la terra.
Democracia, Santiago, 6.9.1952.
Parole del compagno Neruda
Uscii dal Cile in un momento oscuro per la nostra patria. Non pensavamo alla sconfitta. Noi non conosciamo la sconfitta. Ma sentivamo ed accusavamo il golpe. Ora, ritornando, ascoltando questa relazione del compagno Gallo, ho visto come gira la chiarezza alla nostra patria.
Siamo nel grave momento della preparazione della terza guerra mondiale da parte degli imperialisti. Questi si propongono di perdurare del capitalismo, schiacciare all'Unione Sovietica ed i paesi di democrazia popolare, mantenere il sistema coloniale, impedire il trionfo della classe operaia e del popolo nei paesi capitalisti. Perciò motivo la difesa della pace è il più nobile e grande compito. Attraverso lei ci uniamo ad altri paesi ed aiutiamo la liberazione del nostro proprio paese.
La nostra lotta è seguita con attenzione per i combattenti della pace e della democrazia di tutto il mondo. Molte volte riferii i nostri combattimenti. E se è verità che non dobbiamo insuperbirci, è anche verità che non dobbiamo sottovalutarci. E secondo distaccati lottatori antimperialisti noi abbiamo il peccato di essere troppo modesti. La lotta del nostro paese contro il patto militare ha attraversato tutte le censure, è stata celebrata in tutto il mondo. Altre volte, le notizie di Cile che hanno occupato le prime pagine dei quotidiani europei, si sono riferite a terremoti che frequentemente scuotono la nostra terra. Ora infine quelle pagine sono state occupate dalle azioni dei patrioti cileni contro il patto militare con gli Stati Uniti.
In Francia fui invitato un giorno a raccontare le nostre lotte davanti alla Commissione di Relazioni Esterne del Partito Comunista francese. Seduto tra Cachin e Thorez parlai del nostro paese, degli operai del carbone, del salnitro e del rame, del nostro partito, di Recabarren, della Fronte Popolare, del tradimento di González Videla, della repressione e del modo in cui l'affrontiamo. Dopo avermi ascoltato, Thorez disse: "Il Partito Comunista cileno è un gran partito operaio. Un partito che ha imparato tante lezioni come il cileno, non sarà mai vinto. Ha un gran futuro."
Molto tempo dopo, in una conversazione con un distaccato compagno nell'Unione Sovietica, dove la sobrietà nel parlare è caratteristica, aveva nelle mie mani un esemplare del quotidiano Democracia. Nella sua prima pagina si parlava di un sciopero di più di 40 giorni nel salnitro. Si esaltò ed esclamò: "Che lottatori indomabili!": In Romania, in Polonia, in Italia, da tutte le parti dove parlai delle nostre lotte, ascoltai grandi elogi per il nostro paese ed il nostro partito.
Ma non ci elogiano solo i nostri compagni ed amici. Un giorno lessi nei rivista Times un commento che più o meno diceva come segue: "Wall Street non è in realtà tanto preoccupata dei prezzi del rame cileno, bensì dell'attività dei comunisti cileni." Questa menzione dei nostri nemici dimostra anche quello che valiamo.
Tuttavia, devo dire che da tutte le parti mi domandavano: e come cammina il movimento contadino cileno? Confesso che arrossivo un po' perché questo è il nostro lato debole. Trovo che questo lavoro non ha progredito e penso che dobbiamo volgerci effettivamente al campo.
In questa riunione ho ascoltato con molto interesse quello che si è detto rispetto allo studio. Nel mio ultimo viaggio all'URSS e democrazie popolari vidi intensificarsi lo studio a tal punto che tutto il mondo cammina con libri. A Stalingrado fui un giorno ad un negozio. Avwva le tende semichiuse. Suonai alla porta. Mi aprirono e vidi che tutti i dipendenti stavano a lezione di marxismo. Mi trovai nell'URSS con vecchi compagni spagnoli. Uno di essi che ebbe gran influenza nella mia entrata al partito e che conobbi a Madrid già più di quindici anni fa, aveva già la chioma bianca. E stava assistendo a lezioni di marxismo, e la stessa cosa sua moglie e sua nipote. Assistei un giorno ad una funzione di balletto. Agiva la prima ballerina dall'Unione Sovietica. Uno dei miei accompagnatori mi invitò a conoscerla il giorno dopo. L'aspettavamo con un tè. E quella ballerina che prima la notte avevo visto vestita di farfalla o di fiore, veniva ora, coi suoi libri sotto il braccio, da una lezione di marxismo. Penso che se nell'Unione Sovietica si studia tanto, con maggiore ragione si deve fare tra noi.
Sono di accordo in cui dobbiamo ingrandire il partito, reclutare nuovi militanti, usando nuovi metodi, come quelli che vidi a Napoli, dove si fanno riunioni aperte e si recluta casa per casa.
Dobbiamo preoccuparci anche per fare più solido e fraterno il lavoro con i nostri alleati socialisti e con tutti i nostri alleati. Avere alleati è molto importante.
Attualmente sto lavorando in un nuovo libro, sulle lotte di tutti i popoli del mondo. Mi sono fatto un'autocritica. Ho cambiato il mio stile, per scrivere più semplice. A poco a poco sono stato spogliando delle forme complicate, affinché tutti capiscano la mia poesia. Con la pubblicazione dei miei libri nell'Unione Sovietica, in Cina, in quasi tutti i paesi e lingue, comprendo che bisogna scrivere affinché tutti ci capiscano.
Testo dell'intervento di Neruda in una riunione del Comitato Centrale del Partito Comunista del Cile, edito in Principios, Santiago, settembre 1952.
[Tutto è nuovo sotto il sole]
Tutto è nuovo sotto il sole, e tra tutte le cose, la poesia. Passano e girano le stagioni, ma in primavera o in inverno cresce, fiorisce e si raddoppia questa rosa di tutti i tempi.
Perciò noi poeti cantiamo tutto quello che esistè, quello che esiste e quello che vivrà domani. La terra e l'uomo hanno perpetua profondità e fecondità per noi. Non respingeremo mai niente tranne la complicità col male, con quello che danneggia gli esseri, con l'oppressione o il veleno. È questa relazione tra la terra, il tempo e l'uomo quella che ha bisogno di irrigazione e fulgore, cioè, la poesia, per risplendere e fruttificare, affinché la fortuna universale sia il nostro regno comune.
Per quel motivo sono nemici della poesia quanti escludono da essa la lotta che è anche il nostro pane di ogni giorno. Quelli che ci pongono una frontiera, vogliono distruggere tutto il castello. Quelli che, politicamente, vogliono allontanare la poesia dalla politica, vogliono imbavagliarci, vogliono spegnere il canto, l'eterno canto.
Io voglio che tutti i poeti cantino la rosa rossa e la rosa bianca, gli occhi azzurri e gli occhi neri, i giorni di sole sulla sabbia e le notti di ombra tempestuosa. Io voglio che tutti cantino i loro amori.
Se non lo facessero, starebbero tradendo i loro propri mandati imperiosi. Ma c'è un tradimento più terrificante, ed è che il nostro canto non condivida, non raccolga o non guidi le strade dell'uomo. La società umana ed il suo destino è materia sacra per il cittadino, ma per il poeta è massa crescente, creazione profonda, obbligo originale. Non c'è poesia senza contatto umano. Nel pane di domani devono distinguersi le mani del poeta.
Ahi a quelli che non compresero altro che il silenzio, quando la poesia è parola, ed a quelli che compresero solo l'ombra, quando la poesia è luce di ogni giorno ed ogni notte degli uomini!
Perciò la strada non va verso il dentro agli esseri, come una rete di sonni. Il verso la poesia esce fuori, per strade e fabbriche, ascolta in tutte le porte degli sfruttati, corre e nota, sussurra e congrega, minaccia con la voce pesante di tutto il futuro, sta in tutti i luoghi delle lotte umane, in tutti i combattimenti, in tutte le campagne che annunciano il mondo che nasce, perché con forza, con speranza, con tenerezza e con durezza lo faremo nascere.
Noi i poeti?
Sì, noi, i popoli.
Los Guindos, novembre 1952
Prologo a Pablo Neruda, Poesia politica,
antologia, Santiago, Austral, 1953.
L'odore del ritorno
EL OLOR DE REGRESO. (Pagine 851-854.) La casa in riferimento - situata nel viale Lynch del quartiere Los Guindos, a Santiago Oriente - è quella che Neruda condivise con Delia del Carril da quando ritornarono dal Messico nel 1943 e che il poeta, in ricordo dei tre anni abitati in quello paese, battezzò Michoacán. Dalla fine del 1955, l'anno della separazione, Michoacán smetterà di essere la "mia casa." Sarà la casa di Delia del Carril fino alla sua morte il 26.7.1989, quando stava per compiere i suoi 105 anni di vita. Sul periodo post-nerudiano di Michoacán, vedasi Sáez, pp. 171 e seguenti.
La mia casa è profonda e ramosa. Ha angoli nei quali, dopo tanta assenza, mi piace perdermi ed assaporare il ritorno. Nel giardino sono cresciuti cespugli misteriosi e fragranze che io ignoravo. Il pioppo che piantai in fondo e che era snello e quasi invisibile è ora adulto. La sua corteccia ha rughe di saggezza che salgono al cielo e si esprimono in un tremore continuo di foglie nuove nell'altezza.
I castagni sono stati gli ultimi in riconoscermi. Quando arrivai, si mostrarono impenetrabili ed ostili con le loro frasche nude e secche, alti e ciechi, mentre attorno ai loro tronchi germinava la penetrante primavera del Cile. Ogni giorno andai a visitarli, perché comprendevo che avevano bisogno del mio omaggio, e nel freddo della mattina rimasi immobile sotto i rami senza foglie fino a che un giorno, un timido germoglio verde, molto lontano in alto, uscì a guardarmi e dopo ne vennero altri. Così si trasmise la mia apparizione alle diffidenti foglie nascoste del castagno maggiore che ora mi salutano con orgoglio ma già abituate al mio ritorno.
Negli alberi gli uccelli rinnovano i trilli antichi, come se niente fosse avrebbe passato sotto le foglie.
La biblioteca mi prenota un odore profondo di inverno e tramonti. È tra tutte le cose quella che più si impregnò di assenza.
Questo aroma di libri rinchiusi ha qualcosa di mortale che va diritto alle narici ed ai luoghi impervi dell'anima perché è un odore di oblio, un ricordo sepolto.
Vicino alla vecchia finestra, di fronte al cielo andino bianco ed azzurro, dietro di me sento l'aroma della primavera che lotta coi libri. Questi non vogliono staccarsi dal lungo abbandono, esalano ancora raffiche di oblio. La primavera entra nelle stanze con un vestito nuovo ed odore di madreselva.
I libri si sono dispersi follemente nella mia assenza. Non è che manchino ma hanno cambiato posto. Vicino ad un tomo dell'austero Bacone, vecchia edizione del secolo XVII, incontro La capitana dello Yucatán, di Salgari, e non si sono trovati male, nonostante tutto. Invece, un Byron sciolto, alzandolo, lascia cadere la sua copertina come un'ala oscura di albatro. Torno a cucire con lavoro dorso e copertina, non senza prima ricevere negli occhi una boccata di freddo romanticismo.
Le lumache sono i più silenziosi abitanti della mia casa. Tutti gli anni dell'oceano passarono prima ed indurirono il loro silenzio. Ora, questi anni hanno aggregato tempo e polvere. Senza dubbio, i loro freddi scintillii di madreperla, le loro concentriche ellissi gotiche o le loro valve aperte mi ricordano coste ed eventi lontani. Quell'inestimabile lancia di luce arrossata è la Rostellaria che il malacologo di Cuba, mago di profondità, Carlos de la Torre, mi concedè una volta come un'onorificenza sottomarina. Qui è un po' più scolorita ed impolverata, la "oliva" nera dei mari della California e, della stessa provenienza, l'ostrica di spine rosse e quella di perle nere. Lì quasi naufraghiamo, in quello mare di tanti tesori.
Ci sono nuovi abitanti, libri e cose che escono da cassoni per lungo tempo chiusi. Questi di pino vengono dalla Francia. Le sue tavole hanno odore del Mezzogiorno, e, alzandoli scricchiolano e cantano mostrando un interno di luce dorata da dove escono le copertine rosse di Víctor Hugo. I miserabili, nella sua antica edizione, arrivano a popolare con multiple e strazianti esistenze i muri della mia casa.
Ma di questo lungo cassone simile ad una bara esce un dolce viso di donna, alti seni di legno che tagliarono il vento, alcune mani intrise di musica e salamoia. È una figura di donna, una statua di prua. La battezzo María Celeste perché porta il mistero di un'imbarcazione persa. Io trovai la sua bellezza radiante in un bric à brac di Parigi, seppellita sotto la ferramenta in disuso, sfigurata per l'abbandono, nascosta sotto i sepolcrali stracci del sobborgo. Ora, posizionata in alto naviga un'altra volta viva e fresca. Si riempiranno ogni mattina le sue guance di una misteriosa rugiada o lacrime marine.
Le rose fioriscono precipitosamente. Dapprima io fui nemico della rosa, delle sue interminabili aderenze letterarie, del suo orgoglio. Ma vedendole sorgere, resistendo all'inverno senza vestiti né cappelli, quando spuntarono i loro petti innevati o i loro fuochi di zolfo tra i tronchi duri e spinosi, mi sono riempito a poco a poco di intenerimento, di ammirazione per la loro salute da cavallo, per la provocatoria onda segreta di profumo e luce che estraggono implacabilmente della terra nera, nell'ora dovuta, come miracoli del dovere, come esercizi esatti di amore all'intemperie. Ed ora, le rose si alzano in tutti gli angoli con serietà commovente che corrispondo, lontane, esse ed io, della pompa e della frivolezza, ognuno lavorando nel suo personale lampo.
Ma di tutte le cappe dell'aria arriva un soave e tremulo viavai, una palpitazione di fiore che entra nel cuore. Sono nomi e primavere andate, e mani che appena si toccarono ed arroganti occhi di pietra gialla e trecce perse nel tempo: la gioventù che batte coi suoi ricordi ed il suo più affascinante aroma.
È il profumo delle madreselve, sono i primi baci della primavera.
Los Guindos, 22 ottobre di 195-2
Vistazo, num. 12, Santiago, 11.11.1952, e Novedades,
Messico, 16.11.1952. Raccolto con lievi varianti in
PNN, pp. 161-163, versione qui riprodotta.
Con questa primavera, girano le foglie di "El Siglo"
CON ESTA PRIMAVERA VUELVEN LAS HOJAS DE "EL SIGLO". (Pagine 854-855.) Quotidiano ufficiale del Partito Comunista del Cile, El Siglo fu fondato nel 1941 e messo fuori legge da González Videla nel 1948. I comunisti che elusero la persecuzione del governo riuscirono a mantenerlo in vita con difficoltà attraverso il quotidiano Democrazia, che svolse un ruolo decisivo in quegli anni. El Siglo riapparve nel 1952 (è quello che Neruda celebra in questa nota) e fu un quotidiano importante e di buon livello giornalistico fino al 1973, quando la giunta militare di nuovo lo mise fuori legge. Cadendo la dittatura dal generale Pinochet, El Siglo riapparve un'altra volta, fino ad oggi, ma non come quotidiano bensì come periodico settimanale.
El Siglo è stato per molti di noi la luce ed il pane di ogni giorno. In questa epoca in cui solo la violenza sostiene i resti di un sistema caduco e la bugia è l'elemento naturale della stampa capitalista che osa chiamarsi "libera", questo quitiduano fermava l'oscurità e ci dava la luce.
Ci mostrò i conflitti del popolo organizzato ed anche la vita dei piccoli esseri, della gente più semplice.
È stato una lezione di poesia quotidiana.
Ed anche un forte clarino di lotta in pieno sole.
Io presenziai come nasceva ed era commovente vedere gli occhi inumiditi dei vecchi militanti. Dietro la grande rotativa che incominciò a muoversi apparvero il viso di Recabarren, la prima ed umile stampa operaia, i viaggi di Lafertte per la pampa, gli arenili ed il sangue, i colpi della repressione alle macchine, le piccole stampe imprigionate, tante vite e tante cose, tanti combattimenti e tanti martirii, e, finalmente, la gigantesca opera che nasceva, la carta stampata per tutto il popolo, la dignità raggiunta nella continuità inflessibile della nostra lotta.
Quindi arrivarono i Pobletes, i Corteses, i Brun, i ballerini di samba, i Truccos, ed un vento di delatori spense la nostra luce. Io vidi come si dilettavano strappando ad El Siglo editoriali, avvisi, pezzi e frammenti, con gioia sporca, con la loro oscenità beffarda, e credevano che ci stessimo uccidendo, quando essi sono, poveri diavoli, i morti che puzzano o i topi che gioiscono affrettatamente, mentre la luce splendida della verità ritorna a marciare per le strade del Cile.
Non possono fermare la storia.
Col silenzio di questi anni anche El Siglo, il nostro quotidiano, ha aiutato a scrivere la storia, ma a noi mancava la sua voce grande e la sua grandezza di gran albero cileno.
Con questa primavera ritornano i fogli de El Siglo, questo si popolerà di voci, di canto di speranza ed il vento del futuro spargerà per tutti gli angoli della patria i semi della verità. Nel nostro quotidiano dobbiamo insegnare ed apprendere ogni giorno.
In questi giorni di ottobre lungo la patria si sentono tutte le voci delle acque e dei boschi. È qualcosa di naturale e primaverile che si unisca l'antica e poderosa voce del paese ad esse.
Los Guindos, 25 ottobre 1952
El Siglo, Santiago, 26.10.1952.
Il mio amico è morto
È molto difficile per me scrivere su Paul Éluard. Continuerò a vederlo vivo vicino a me, accesa nei suoi occhi l'elettrica profondità azzurra che guardava tanto largo e da tanto lontano.
Questo uomo tranquillo era una torre fiorita della Francia. Usciva dal suolo in cui allori e radici intessono le loro fragranti eredità. La sua altezza era fatta di acqua e pietra, ed in essa salivano antichi rampicanti portatori di fiore e fulgore, di nidi e canti trasparenti.
Trasparenza, è questa la parola. La sua poesia era cristallo di pietra, acqua immobilizzata nella sua costante corrente.
Poeta dell'amore zenitale, falò puro di mezzogiorno, nei giorni disastrosi della patria mise in mezzo ad essa il suo cuore e da lui uscì fuoco decisivo per le battaglie.
Così arrivò naturalmente alle file del partito. Per Éluard essere un comunista era confermare con la sua poesia e la sua vita i valori dell'umanità e dell'umanesimo.
Non si creda che Éluard fu meno politico che poeta. Spesso mi stupì la sua chiara visione e la sua formidabile ragione politica. Insieme esaminiamo molte cose, uomini e problemi del nostro tempo e la sua lucidità mi servì per sempre.
Non si perse nell'irrazionalismo surreale perché non fu un imitatore, bensì un creatore e sparò sul cadavere del surrealismo spari di chiarezza ed intelligenza.
Fu il mio amico di ogni giorno e perdo la sua tenerezza che era parte del mio pane. Nessuno potrà darmi ora quello che egli si porta via perché la sua fraternità attiva era una dei pregiati lussi della mia vita.
La Francia di Pinay, dedita ai saccheggiatori yankee, la Francia prima orgogliosa ed oggi nicaraguanizzada, affrettò la sua fine. Egli sosteneva con la sua colonna azzurra le forze della pace e l'allegria mentre di nuovo i nemici della Francia la corrompono e la divorano. Egli è morto con le sue mani fiorite, soldato della pace, versifica del suo paese.
Torre della Francia, fratello! Mi inchino sui tuoi occhi chiusi che continueranno a darmi la luce e la grandezza, la semplicità e la rettitudine, la bontà e la semplicità che impiantasti sulla terra.
El Siglo, Santiago, 23.11.1952.
II
VIAGGI 5
(1952)
VIAJES 5. VIAJE DE VUELTA. (Pagine 857-885.) Questo testo sembra essere lo sviluppo di una conferenza tenuta a Temuco nel 1952, alcuni settimane dopo il suo ritorno, o vuelta, al paese. - [...] y crucé a caballo la cordillera nevada (ed attraversai a cavallo la cordigliera innevata): questo racconto anticipa, in embrione, quello che Neruda scriverà sullo stesso episodio in Las vidas del poeta (1962) e nel "Discurso de Stoccolma", 1971, al ricevimento del premio Nobel di Letteratura. Vedere anche il poema "Sólo el hombre", UVT, I, I (OCGC vol. I, pp. 913-915). - Vi la ciudad de Shangai con sus siete millones de hombres y mujeres (Vidi la città di Shangai coi suoi sette milioni di uomini e donne): cfr. la cronaca "Invierno en los puertos", datata Shangai, febbraio del 1928, in questo stesso volume, pp. 349-352. - ... y nada se ha reconstruido, nada se ha edificado, salvo, naturalmente, La Serena (e niente si è ricostruito, niente si è edificato, salvo, naturalmente, La Serena). Allusione ironica a quella che era allora la capitale della provincia di Coquimbo (ed oggi della Quarta Regione) nel Nord Chico cileno. La Serena era la città natale, e perciò prediletta, del presidente González Videla. - Questa conferenza fu una specie di introduzione alla lettura del libro Las uvas y el viento, allora in preparazione, al quale appartengono i poemi di Neruda compresi nel testo. Prima fu pubblicata solo nel volume Viajes, Santiago, Nascimento, 1955, pp. 117-162.
Viaggio di ritorno
Questo già quattro anni fa. Passai per Temuco a mezzogiorno, non mi trattenni in nessun posto, nessuno mi riconobbe, portavo barba ed occhiali e mi disporsi ad uscire dal Cile. Per semplice caso era la mia rotta di uscita.
Passai il ponte e Padre las Casas. Mi trovavo già lontano dalla città a mangiare qualcosa durante il tragitto, nella stessa strada, seduto su una pietra. Lì passava un estuario basso, e le acque suonavano. Erano acque di Temuco, suonavano e cantavano le acque nelle pietre e mi dicevano: "Arrivederci." Era la mia infanzia che si congedava.
Pensai che strano era il mio destino. Io crebbi in questa città, la mia poesia nacque tra la collina ed il fiume, prese la voce della pioggia, si impregnò come legno dei boschi, ed ora durante il tragitto verso la libertà, dopo la lotta, mi toccavo di fianco a Temuco, solo, seduto su una pietra, a sentire la voce dell'acqua che mi insegnò a cantare.
Io sapevo che molte porte si sarebbero aperte se io fossi apparso tra la gente, io sapevo che solo amici, conosciuti e sconosciuti, c'erano dietro le porte, ed era strano per me passare senza vedere nessuno, senza che mi vedesse nessuno, senza impegnare nessuno. Perché per me la vita è stata sempre un compromesso ed il nostro dovere è impegnarci ogni giorno.
Tutto si fece, impegnandosi gli uomini e la vita. Così si alzarono le costruzioni nella vasta Frontera, così avanza l'umanità, così si costruisce, in altri posti, il socialismo.
Seguii la mia strada. Poi passai le isole ed attraversai a cavallo la cordigliera innevata.
Non c'era rotta, bisognava farla e segnare sii tronchi degli alberi, con l'ascia, la strada affinché potessero tornare quelli che mi accompagnarono. Ma la selva era spaziosa e soffice, come un salone. I grandi alberi lasciavano solo spazio per il passo delle cavalcature. Sopra si chiudevano gli alberi. Più lontano, gli alberi erano bassi e tozzi. Erano gli alberi che ricevono la neve ed era strano vederli dall'alto come migliaia di piccoli ombrelli. All'improvviso, tutto diventava ripido, tutto diventava pietra, burroni, fiumi vertiginosi, tutto doveva essere superato. Tutto doveva essere vinto.
Già, nell'altezza della cima, i mulattieri mi dissero di prendere alcuni rami secchi, e li tiravamo ai mucchi di rami che al bordo della nostra orma indicavano i morti, i morti di freddo, quelli che non poterono passare. Più lontano cambiò il paesaggio. Scendevamo già dall'altro lato, e nell'ultimo albero del Cile scrissi col mio coltello il mio addio: alcune iniziali. Scendiamo dai cavalli. Tutto era verde ed un'acqua serena sorgeva dai ruscelli argentini. Mi dissero i miei compagni: "Qui bisogna fare il ballo." C'era lì un cranio di bue su un bastone, e lì demmo il giro tre volte su un piede. Quindi bisognava gettare alcune monete nell'occhio del bue, alcune monete per quelli che attraversassero di là a qua, un aiuto allo sconosciuto conquistatore della cordigliera, della distanza e del freddo.
Più tardi, attraversai la pampa. Stava già lontano, già potevo continuare la mia strada con calma, ma, prima di uscire mi impregnai per tutti gli anni che sarebbero venuti di terra fredda e di cordigliera del sud. Temuco mi aveva salutato alla sua maniera, senza parole, perché ci conoscevamo molto, e mi portai per il mondo questo silenzio e questo odore dei boschi e l'acqua del sud che sempre stavo cantando nel mio cuore.
Appena uscii dal Cile, mi misi stivali da sette leghe, cammini verso il nord, navigai verso l'est, volai verso il sud. Scoprii quanto larga è la terra, e scoprii anche come la terra era cresciuta all'improvviso, per me, e come gli uomini erano più numerosi, la mia famiglia era più grande: trovai all'improvviso milioni di fratelli.
Per il vecchio scrittore esisteva un piccolo mondo fuiri della nostra patria e quello era Parigi: appena si affacciava con passi rapidi ad altre città e paesi. La leggenda della cortina di ferro ci assicura che da Praga fino a Vladivostok ci sono tenebre sconosciute. Forse, io ho visto solo chiarezza, io ho fatto un viaggio attraverso la luce.
Arrivai tardi nel crepuscolo al mio appuntamento con una dalle città più belle del mondo, la perla fredda del Baltico, l'antica e nuova, la nobile ed eroico Leningrado, la città di Pedro il Grande e di Lenin il Grande. Quella città, come Parigi, ha "angeli", ha "angeli grigi", viali di colore di acciaio, palazzi di pietra grigia e mare di acciaio verde. I musei più meravigliosi del mondo, tutti i tesori degli zar, tutti i loro quadri e le loro uniformi, tutti i loro gioielli abbaglianti ed i loro vestiti di cerimonie, le loro armi e le loro stoviglie stavano davanti alla mia vista. Ed i nuovi ricordi immortali: la cannoniera Aurora i cui cannoni vicino al pensiero di Lenin abbatterono i muri del passato ed aprirono le porte della storia.
Città del Baltico gelato, città del futuro!
Io accorsi ad un appuntamento con un vecchio poeta morto 100 anni fa, Alexandr Pushkin, autore del Borís Godunov, autore di tante immortali leggende e romanzi. Quello principe di poeti popolari occupa il cuore della grande Unione Sovietica. In quelli giorni si celebrava il suo centenario. Ed i russi avevano ricostruito pezzo per pezzo il palazzo degli zar per fare un museo di Pushkin. Ogni muro era stato alzato come prima esisteva. I nazisti avevano distrutto con l'artiglieria gran parte della città, ed il palazzo era rimasto ridotto a rottami polverizzati. Ebbene, tutto lo avevano costruito di nuovo i sovietici ed avevano utilizzato i vecchi piani del palazzo, tutti i documenti di un'epoca, costruendo le vetrate di nuovo, i ricamati cornicioni, i capitelli fioriti. Tutto per onorare il loro meraviglioso poeta di un altro tempo. Nel frattempo a Mosca io potei vedere come nella statua di Pushkin si accumulavano i fiori e come la statua riceveva lettere e poemi del popolo. È questo fatto quello che voglio che conosciate voi, genti di Temuco che siete come io sono, genti semplici, e dobbiamo vedere quello che passa alle genti come noi. Ci hanno spaventati molto con la gente sovietica che sono gente simili a noi, gente che lascia fiori e lettere ad un poeta morto cento anni fa, genti che cantano e lavorano come noi.
E nell'immenso palazzo ricostruito vive ora un abitante, che molto torturarono, nel suo tempo, i despoti dell'antica Russia: il poeta romantico, realista e rivoluzionario: Alexandr Pushkin. Dopo essere stato confinato per il suo attività antizarista, il creatore della moderna lingua russa morì in un dolore, in una provocazione, veramente assassinato da uno spadaccino della corte imperiale. Ed ora, l'Unione Sovietica celebrava l'anniversario della sua nascita. Tutte le stazioni delle ferrovie, i teatri, le scuole si trasformarono in musei di Pushkin, con fotografie e con libri. Nei campi, vicino alle strade, nel posto dove vediamo qui gli annunci della Coca-Cola, si alzavano grande cartelloni con strofe dai poemi di Pushkin. I ritratti di Pushkin fluttuavano nel vento su tutta la vasta terra sovietica. Ma in quello gran museo, con le sue immense sale dedicate a tutti i libri nazionali e stranieri del poeta, agli abiti delle opere che egli ispirò, ai personaggi dei suoi libri, alle marionette e figure popolari che ricordavano le sue opere, alle sue lettere ed i suoi ricordi, ai ritratti dei suoi più celebri contemporanei, ai suoi amori e la sua morte, in quel grande museo stava tutta la vita del paese russo. Lì si celebrarono le serate e balli della nobiltà, dei nemici di Pushkin. Per quelle finestre entrò la fiamma della Rivoluzione di ottobre e salì il popolo, per volta prima, le sue scalinate di marmo per alzare in alto la bandiera rossa della liberazione. Gli imperialisti prussiani lo ridussero a cenere, e dalla cenere, dall'incendio e dalla morte, le mani sovietiche avevano alzato di nuovo la grandezza del vecchio palazzo affinché lì vivesse, alta e risplendente, popolare ed eterna, indistruttibile e vincitrice, la memoria di un poeta.
Orbene, voglio che comprendiate che Leningrado stette due anni sotto i cannoni del nemico, interamente assediata e tagliata dappertutto. Non c'era luce. La razione di pane era di 15 grammi al giorno, ed il doppio per i soldati, come unico alimento. Ho visto nel museo come le suole di scarpe conservavano l'orma dei denti. Non c'era più acqua che quella degli stagni delle strade, non c'erano finestre perché tutti i vetri furono rotti dalle esplosioni. Per effetto del freddo i cadaveri si conservavano, e così le mogli continuavano a dormire coi loro mariti morti, le madri vicino ai cadaveri dei loro piccoli figli. Solo di quando in quando arrivavano i soldati di ritorno dal fronte, morti di fatica. Potevano appena seppellire ai morti. E durante questi due anni, voglio che mi ascoltiate: gli architetti di Leningrado si riunivano nelle cantine della città e programmavano la ricostruzione di tutto quanto distrutto, di tutto quello che si andava distruggendo ogni giorno, e sulla base di quei piani tracciati sotto la pioggia delle bombe, sotto il terrore e sotto la morte, lo stesso giorno che finì la guerra, cominciò la ricostruzione di Leningrado.
Io domando a quelli che vogliono fare la guerra, a quelli che sono a favore del fuoco: è possibile distruggere un paese tanto eroico? Ci sono bombe atomiche per distruggere questo seme sacro? Non è possibile e per questo motivo, noi, tutti gli uomini di Temuco, modestamente come cittadini del sud del mondo, gli uomini di New York e gli uomini di Leningrado e di Pechino, dobbiamo lottare per la preservazione della pace, perché la guerra non distruggerà l'indistruttibile.
E così visitai anche Stalingrado. Lì mi condussero i miei antichi canti di amore alla città eroica, e vidi anche lì crescere la nuova città bianca e raggiante, dalle sue rovine, e come prima uscirono armi per la sua difesa, mi vidi montare davanti ai miei occhi, pezzo per pezzo, i trattori, ed uscire verso i campi col loro profondo messaggio di fecondità. Ed allora scrissi il mio terzo canto a Stalingrado.
Sette giorni viaggiai nella ferrovia transiberiana. Era autunno nella piana siberiana. Vicino alla via le betulle di tronco bersaglio si erano coperte di oro. Le nuove città della Siberia respiravano nelle stazioni. Il treno era pieno di architetti, di ingegneri sovietici, di uomini che andavano a perforare le isole artiche cercando petrolio, o costruendo centrali idroelettriche nelle solitudini più remote. Vicino al lago Baikal mangiai con gli investigatori della vita biologica del lago, gente semplice come tutta la gente sovietica. Essi mi fecero provare pesce raccolto a 1.500 metri di profondità. È il lago più profondo che esiste nel pianeta, vecchio lago romantico la cui estensione di mare significò per gli evasi di Siberia l'orizzonte della libertà. Le vecchie canzoni popolari menzionano sempre il lago Baikal. La Siberia era, durante il regime zarista, una steppa di prigionieri, il pianeta dei dimenticati. Questi attraversavano, per liberarsi, le pianure immense ed arrivati al lago ed attraversate le sue acque, erano liberi. Quanto è cambiato il mondo. Oggi la Siberia anticamente terrificante è un campo di germinazione e di vita. Grandi città nuove, magnetiche centrali idroelettriche, nuove coltivazioni che adattano le piante alla natura d'accordo coi rivoluzionari successi della scienza sovietica, la Siberia è oggi la steppa della speranza. Invano vogliono intorbidare questo processo di creazione i fomentatore della guerra con l'invenzione di campi di schiavi e di milioni di uomini che lavorano obbligatoriamente. È precisamente l'Unione Sovietica la terra del lavoro, ed il lavoro e l'allegria sono il centro della vita, non solo in Siberia, bensì in tutta la terra sovietica.
Attraversai allora tutta la terra sovietica. Era autunno in Siberia. Le betulle brillavano il loro tremulo pizzo di oro. Veniva il freddo dal nord. Le nuove città colossali trepidavano di attività, i kolckoz duplicavano i loro raccolti, tutto lo splendore della nuova prosperità inondava il vasto territorio.
Vidi in Mongolia gli antichi monaci buddisti rispettati nella loro religione dalla Repubblica Socialista, vidi le carovane di cammelli e le tende degli erranti mongoli del deserto, ma vidi anche gli istituti di biologia, l'università luminosa e gli studenti che imparavano le più moderne strade della scienza in quello posto che prima fu solo teatro della superstizione e della miseria.
Di lì volai verso la Cina. Vidi come la terra delle fame nera e le inondazioni si converte in terra dell'abbondanza. Il primo ministro della Cina, Chou En-lai, mi disse: "abbiamo oramai problema di sovrappopolazione." Quattrocento settanta cinque milioni di uomini che aumentano un milione per anno, nella terra delle catastrofi e del ritardo, quando anticamente gli scheletri umani coprivano chilometri di carrozzabili.
Vidi la città di Shangai coi suoi sette milioni di uomini e donne risplendente di attività, con tutte le sue fabbriche tessili ed i suoi mercati aperti. Non vidi ad un solo straccione. Tuttavia, il Cile ha meno abitanti che la città di Shanghai e non ci sono stanze né scarpe, né vestiti, né scuole, né alimenti per il nostro paese. Io avevo visitato molti anni fa quella nazione ed aveva visto le navi da guerra di tutte le potenze occidentali vicino al fiume, minacciando il cuore di Shangai. Era la città che viveva come un gran postribolo, come il luogo di estrazione di tutte le ricchezze cinesi per i colonialisti sfrenati. Era la città del crimine e dell'oppio, la città del gioco e della prostituzione. Ed ora mi raccontava il sindaco, con orgoglio, che non si era prodotto un solo atto criminale in quella città di sette milioni di abitanti da sei mesi. Il cammino del socialismo può produrre disorientamento in molti uomini, può trasformare le idee di molti che pensavano ai sistemi sociali come a una routine inesorabile, ma c'è qualcosa di più importante che nessuno può negare: è la pulizia morale, il risanamento della vita, delle abitudini, dell'intelletto. È molto diverso sentire la musica nordamericana (la contorsione grottesca, sessuale e paranoica) che sentire per esempio la musica sovietica, musica nella quale i più nobili accenti, le più alte modulazioni dello spirito sono espresse.
Il sindaco di Pechino mi raccontavo come del Lago dei Loti, vicino al Palazzo dell'Imperatrice, per tre mesi interi estrassero l'immondizia accumulata per secoli. Nel cuore di Pechino i loti fiorivano negli immensi stagni nei quali si accumulavano i rifiuti. La pestilenza cresceva, le malattie decimavano alla popolazione, ma l'imperatrice, i turisti, Chiang Kai-shek erano contenti. Ora ci sono meno loti a Pechino, ma non ci sono malaria né pestilenza. La città è pulita. Così deve succedere con la nostra arte. Probabilmente dovremo sacrificare molti fiori, dovremo eliminare molte seducenti apparenze, ma troveremo un contenuto più puro, seguiremo il cammino della pulizia e della verità.
Abbiamo abbandonato le grandi linee dell'umanesimo. La gente dimentica Cervantes e Romain Rolland e vuole immergersi nelle fangose acque dell'esistenzialismo, della perversità creata per i nemici dei paesi.
Dobbiamo comprendere il fenomeno che si sviluppa nel mondo attuale. Prima della seconda guerra mondiale la Cina era schiavizzata, non esistevano le democrazie popolari, il mondo socialista era limitato all'Unione Sovietica, circondata questa dai suoi più accaniti nemici. In questo momento più di 600 milioni di uomini vivono nello sviluppo e nella cultura socialisti. Questo ha cambiato il bilancio economico e culturale il mondo, il mondo capitalista produce cannoni, il mondo socialista produce libri. Orbene, il fatto che milioni di uomini di campagna ed operai abbiano raggiunto un nuovo livello culturale nel mondo socialista significa che tutti i canoni antichi con cui misuravamo l'estensione della cultura sono finiti bruscamente. Uno scrittore non scrive già per duemila persone, bensì per molti milioni. Un musicista o un pittore dovranno affrontare un pubblico nuovo ed un'esigenza più spaziosa. Pertanto devono esaminare la loro azione creativa e dirigerla verso i nuovi consumatori di arte, verso le grandi masse popolari e queste vogliono e chiedono due canoni eterni: la verità e la bellezza.
Questo è un compito molto antico per gli artisti, ma non per essere antico è meno perentorio.
Questo mondo ci minaccia? Questa esigenza della verità e della bellezza significa il crollo di qualche cosa eterna? Sì. Significa il crollo del male e la bugia.
Questo mondo del futuro vuole sopprimere l'amore e la tenerezza, vuole sopprimere lo spirito nazionale, vuole sopprimere le patrie?
Io voglio rispondere con due incidenti della mia lunga strada. In Cecoslovacchia, in una città, vidi un nuovo edificio di gente lavoratrice. Era durante le ore del giorno e molte madri si erano presentate ai loro lavori. Il piano di sotto era pieno di creature. Una dottoressa e due infermiere avevano a loro carico l'asilo infantile dell'edificio. Vidi i bambini più piccoli dormire nelle loro culle. Vidi i più grandi giocare nel giardino. Vidi tutta la protezione di una società per le madri ed i bambini. Pensai alle nostre madri, nei loro terribili problemi per curare i loro figli e guadagnarsi il pane di ogni giorno. E pensai che l'amore in una nuova società ha una nuova dimensione: il futuro. Ha una nuova proiezione: la responsabilità di tutti. Il bambino non ha perduto sua madre, ma ha guadagnato in maternità, ha la società intera come vigilanza e come azione difensiva.
Nella Cina Popolare andai per le strade ed arrivai ad un villaggio in cui le terre dei latifondisti erano state ripartite tra i contadini. In quei paesi tanto indietro per secoli le madri avevano venduto le loro piccole figlie, e perfino esisteva il posto in cui li precipitavano, li tiravano in un burrone di pietra perché l'avere una figlia in più era una maledizione. Io arrivai a quel villaggio e trovai l'orgoglio dei nuovi colonizzatori. Mi mostrarono i loro maiali e le loro vacche, i loro granai e le loro case, le loro scuole e le loro fattorie. Tutto era tanto semplice ed era stato tanto difficile. La produzione si era raddoppiata. Ma quando io entrai nel patio dove i bambini e le donne cantavano e mi ricevevano con bracciate di fiori osservai una piccola gabbia con dozzine di cicale, cicale... Queste cicale della Cina sono più carine delle nostre, hanno visi dipinti di verde e di ocra e cantano molto alto, con un suono di violoncello. Per quel motivo i cinesi li mettono in piccole gabbie di bambú, affinché i bambini le ascoltino e le amino. E bene, io diedi più attenzione a quell'estranea gabbia di insetti che cantavano che agli innumerabili progressi del villaggio socialista. Mi diedero dopo da mangiare riso e tè, carne di papero e frutta deliziosa e mi portarono da ogni parte mostrandomi tutto e sorridendo. Mi mostrarono anche la casa dell'antico proprietario, che conobbi, ed a cui avevano lasciato la sua antica casa e la stessa quantità di terra che a tutti gli altri. Nessuno si lamentava lì di niente. Quando salutai mi circondarono i bambini, quegli irresistibili bambini cinesi, che sembrano bambini di un negozio di giocattoli, e che gridare: "Adiós, Neluda", "Viva il Cile."
Più tardi, quando salii all'automobile che mi portava di ritorno, mi trovai che lì stava la gabbia di cicale, il castello delle cicale sonore che lì si chiamano cicada. Io domando: si è soppresso in quel mondo la tenerezza? Ricordiamo che fa tanto poco tempo quei contadini lottarono con le armi nelle mani sconfiggendo Chiang Kai-shek e gli imperialisti. E, tuttavia, avevano la delicatezza di pensare ad un regalo per me e per la mia poesia. Per lungo tempo mi accompagnarono le cicale che cantavano ad ogni ora nel mio hotel e non lasciavano dormire a nessuno. Ma per me era qualcosa di molto grande, erano la terra cinese.
Allora scrissi:
Riempiva la mattina del villaggio
l'autunno stridente
delle cicale sonore.
Mi avvicinai: le prigioniere
nelle loro piccole gabbie
erano la compagnia dei bambini,
erano il violoncello innumerevole
del piccolo villaggio
e della Cina il rumore
ed il movimento d'oro.
Scorsi appena le prigioniere
nelle sue gabbie minuscole
di bambú fresco,
ma quando tornai per partire
i contadini
misero il castello di cicale
nelle mie mani.
Io ricordo nella mia infanzia gli operai
del treno in cui mio padre lavorava,
i collerici figli
delle intemperie, appena
vestiti con stracci,
i visi maltrattati dalla pioggia o dalla sabbia,
le fronti divise
da cicatrici aspre,
e quelli mi portavano
uova colorate di pernice,
cantaridi dal colore di luna,
e tutto quel tesoro
dalle mani giganti rovinate
alle mie mani da bambino,
tutto quello
mi fece ridere e piangere,
mi fece pensare e cantare,
là nei boschi
piovosi
della mia infanzia.
Ed ora
queste cicale
nel loro castello di bambú odoroso,
dal fondo della terra cinese,
grattando la loro stridente
nota d'oro,
venivano alle mie mani
per mani battezzate dalla polvere da sparo
che conquistò la libertà, arrivavano
dalle larghe terre
liberate,
ma erano le mani del popolo,
le grandi mani,
che nelle mie lasciavano
il loro tesoro.
[...]
Dovete sapere voi che la Cina era una dei più importante mercati del nostro salnitro nel mondo. Ma arrivò la Guerra Fredda e da Washington ordinarono al governo satellite del Cile che non riconoscesse alla nuova Cina Popolare. Il governo che si dice cileno, di questi ultimi anni, ubbidì senza fiatare ed allora per opera e grazia di questa servile obbedienza non esiste per noi l'immensa Cina, coi suoi 475 milioni di abitanti ed il suo desiderio di comprarci al miglior prezzo, tutto il nostro salnitro. Sembra che ci sia un ambasciatore di Formosa, che è come se avesse all'estero, per rappresentare al Cile, un ambasciatore di Chiloé, se Chiloé potesse essere, qualche volta, come lo è Formosa, governata per burattini dei nordamericani.
Come può progredire il nostro paese se possono prodursi tali assurdi? Si pretende che ignoriamo l'esistenza della metà della terra con danno della nostra economia e della nostra indipendenza. Nel frattempo, Stalingrado si ricostruisce, e la Cina intera è l'alveare prodigioso di un nuovo rinascimento umano. Nuove fabbriche, nuove università, la guerra contro la miseria e l'analfabetismo, la guerra contro le epidemie e le inondazioni, la vittoria dell'uomo tanto largamente sperata per quello nobile paese.
Sapete quanto di meno detti al Cile, conoscete alcuni dei miei versi e delle mie ansietà, sapete che il mio cuore non si allontanò mai dalle sue radici che qui rimasero sepolte tra le zolle della patria. Sapete che le lotte del mio paese, del nostro paese, sono il centro della mia vita, e che quelle lotte mi accompagnarono, mi sostennero e mi fecero ritornare.
Ma sono appena ritornato. Sono grigi questi giorni, la nostra primavera miracolosa comincia solo a sbattere le palpebre. Trovai come se l'oscurità avesse tinto le pareti e schiacciato le case. Solo quartieri di lusso si costruiscono nella città di Santiago. I tuguri ed i porcili ci spiano da tutte le parti. Santiago mi sembrò screpolata, come se sei anni di male governo gli avessero passato sopra col peso di tutti i dolori e della fame del nostro paese. A Lota, vicino ad alcune casette fiammanti per brillare davanti agli stranieri, tornai a trovare i nostri indomabili minatori, esempio di eroismo nelle lotte popolari del mondo intero, e che continuano a vivere nelle sue fatidiche, scalcinate e terribili abitazioni. Ed un gran dolore mi entrò per il costato, e mi portò su alla bocca un sapore di sale.
Perché compresi che le città bombardate si alzano di nuovo, con amore e con forza, compresi che gli effetti della guerra si cancellarono nelle città ed i paesi del socialismo, e qui trovai un paese bombardato, case senza soffitti, tane invece di stanze, e vidi che di questa guerra, di questa guerra terribile contro il paese del Cile, sono rimaste le rovine e niente si è ricostruito, niente si è edificato, salvo, naturalmente, La Serena.
Ma che gli autori di questa Guerra Fredda, gli imperialisti ed i feudali, sappiano che in Cile ci sono forze che li sconfiggeranno: c'è un esercito di pace, ci sono tutte le prospettive dell'unità in difesa della patria e soprattutto esiste nel paese cileno, vicino al suo indomabile spirito, la stessa forza di creazione di quei grandi paesi di cui vi ho parlato. E con queste forze ricostruiamo la patria.
Raddoppieremo ora la lotta contro l'isolamento. Non accetteremo che ci si apparti. Vogliamo conversare col mondo intero. Vogliamo fraternizzare con tutti i paesi. Nessuno ci disputerà il nome di patrioti, nessuno romperà i lacci che ci vincolano alla lotta o alla costruzione degli uomini di tutti i paesi. E così, profondamente nazionali, siamo estesamente internazionalisti. Viviamo il progresso umano in tutta la sua estensione e lotteremo con tutti i paesi contro l'isolamento e perché la pace riunisca ed incoroni tutti gli sforzi umani.
Nei prossimi giorni si celebrerà a Pechino una Conferenza della Pace dei paesi asiatici e dei paesi del Pacifico. Il nostro paese è invitato. Lì accorreremo. Andranno i nostri intellettuali ed i nostri minatori, industriali e studenti, donne e giovani. La nostra Canzone Nazionale, in una di suoi "esse strofe, dice:
e quel mare che tranquillo ti bagna
ti promette futuro splendore...
Fino ad ora è stato enigmatico questo verso, e non passava di essere un frammento di visione poetica. Ma la Conferenza della Pace di Pechino sarà il primo passo verso quello "futuro splendore". Gli imperialisti nordamericani che hanno perso centomila giovani vite preziose lanciandoli all'invasione criminale della Corea, si sono riuniti alle Hawai, nel territorio rubato ai dolci polinesiani, per fissare il campo di guerra del Pacifico, cioè, affinché i nostri porti e le nostre città siano colonizzate in primo luogo e dopo distrutte dalla guerra che preparano. In Cina si riuniranno i paesi del Pacifico, e lì, con l'assistenza dei nostri rappresentanti, si studieranno le forme della lotta per la pace e la felicità dei paesi del Pacifico. Forse, in un giorno non lontano, imbarcazioni cilene e cinesi si incroceranno in alto mare portando nella pacifica merce la fraternità che ci hanno voluto negare e che ci è necessaria.
Quando uno esce dalla sua terra comincia a cercarsi amici che più tardi sono simili. In Temuco, nel cimitero del dorso Ñienol giace molta della mia gente. E per il mondo io allora stavo ricomponendo la mia famiglia, fabbricandomi zii, riconquistando cugini, facendomi fratelli.
Non è stato per me compito difficile. Prima i cileni partivano a vedere i monumenti meravigliosi del passato, la Torre di Eiffel, le piramidi, le vecchie strade dell'Europa. Io sono uscito a cercare dappertutto un monumento strano: l'uomo nuovo, l'uomo che esce dalle rovine della guerra e dall'odio, per ricostruire le sue città e progettare il futuro. Quello è il mio prossimo parente. Quello è mio fratello. Per quel motivo la mia famiglia si è ingrandita, n solo la ho a Temuco, ma anche nei sobborghi di Varsavia, nelle fabbriche della Romania, vicino ai fiumi della Cina. Di tutte parti sono arrivate uomini e donne che mi hanno riconosciuto. Mi hanno detto: "Vieni da lontano, abbiamo letto i tuoi versi, sappiamo che esistono l'operaio del carbone e del salnitro, conosciamo le lotte del tuo popolo." Ora presento uno dei miei nuovi fratelli, il poeta turco Nazim Hikmet. Stette 18 anni nella prigione. È un risuscitato.
Nazim Hikmet visse nel suo paese, la Turchia, che con Yugoslavia, Grecia e Spagna, sono i paesi della maggiore crudeltà, del maggiore terrore, del maggiore dispiacere. Nazim l'accusarono di voler far ribellare la marina del suo paese, e lo condannarono a tutte le pene dell'inferno. Lo giudicarono in una barca di guerra. Mi raccontavo come lo fecero camminare attorno alla barca, fino ad affaticarlo, e dopo lo misero nel posto degli accusati, in cui le latrine e gli escrementi si alzavano mezzo metro sul piano. Allora mio fratello, il poeta, si sentì svenire, la pestilenza lo faceva barcollare. Ma pensò: i boia stanno osservandomi da qualche punto, vogliono vedermi cadere, vogliono contemplarmi nella disgrazia. Ed allora le sue forze risorsero, accese una rigaretta e cominciò a cantare, dapprima a voce bassa, con voce più alta dopo e dopo con tutta la sua gola. E così cantò tutte le canzoni, tutti i versi di amore che ricordava, e tutti i suoi poemi e tutte le canzoni dei contadini e delle lotte del suo popolo. Cantò tutto quello che sapeva. E così trionfò sulla pestilenza e sul martirio. Io gli dissi, quando mi raccontava queste cose: "Fratello mio, cantasti una volta, cantasti per tutti noi. Non dovremo oramai pensare a quello che faremo, tutti sappiamo già quando dobbiamo incominciare a cantare". "Cantasti per tutti noi, buon amico, buon camerata, buon poeta."
È il canto vittorioso che i tiranni non possono sommergere nel suo marciume, nella sua pestilenza o nel suo terrore. Il canto di mio fratello Nazim Hikmet, lì, tanto vicino alla morte, era un canto di vittoria, era il canto della vittoria dell'uomo, vittorioso tra i nemici dell'uomo.
Nelle nostre lunghe conversazioni, e quando io gli parlavo delle terribili condizioni di vita della nostra gente, delle miserabili capanne della popolazione mineraria, delle popolazioni delle baraccopoli, anche lui mi raccontava i dolori del suo paese.
I contadini sono brutalmente perseguiti dai signori feudali della Turchia. Nazim li vedeva arrivare dalla prigione e cambiare dopo alcuni giorni, il pezzo di pane che per unica razione gli davano, con tabacco. Dopo, mi raccontava, cominciavano a guardare il foraggio del patio, prima con una certa distrazione e dopo con più intensità, alcuni filamenti di foraggio si portavano alla bocca nei primi giorni, dopo lo strappavano a mazzi che divoravano frettolosamente. Più tardi già mangiavano il foraggio a quattro piedi, come gli animali. Quell'era il loro unico alimento.
La Turchia è una dei paesi favoriti dell'imperialismo. Le basi fasciste per la guerra più sicure sono, secondo loro Spagna, Yugoslavia, Grecia e Turchia. In tutti questi paesi la repressione è crudele, la vita è miserabile. Questi poveri campagnoli che mangiano foraggio nelle prigioni della Turchia sono, come il nostro paese, la carne di cannone con la quale sperano i nordamericani di fare la guerra affinché prosperino i loro palazzi e le loro banche.
Quelli contadini mangiando foraggio nelle prigioni, i tuguri e la tirannia in America Latina, le regímenes fasciste di Franco e di Tito, i buffoni sanguinanti come Somoza e Trujillo, 40.000 uomini privati dei suoi diritti nel nostro piccolo paese, i massacri di prigionieri indifesi in Corea, il bastone coloniale contro i popoli di colore, la discriminazione contro i cittadini neri negli Stati Uniti, la miseria, l'inflazione, la prostituzione, l'analfabetismo, la delinquenza infantile, questo, questo è chiamato "la cultura occidentale, la cultura cristiana" e sembra che bisogni armarsi immediatamente e firmare patti militari per difendere questi orrori.
È grande Nazim Hikmet, ha quasi due metri di statura, ha occhi azzurri ed è l'uomo più allegro che ho visto. È chiaro che si dimentica tutte le notti di spegnere la luce della sua stanza, perché per 18 anni dormì con un'ampollina accesa sulla sua cella, è chiaro che si dimentica da tutte le parti le chiavi, perché per 18 anni altri aprirono e chiusero la serratura della sua cella, ma con tutti quei vantaggi e svantaggi presento questo nuovo membro della mia famiglia il gran poeta Nazim Hikmet. Questo è uno dei suoi poemi:
Se col signore Nuri, quello commissionario,
la mia città, Istanbul, mi rimettesse
un baule di cipresso, di quelli di nozze,
quando lo aprissi, suonerebbe schinnnn...
la campana della serratura.
Due pezzi di tessuti provenienti dal Cile,
due paia di camicie,
alcuni fazzoletti bianchi con ricami di argento,
i fiori di lavanda in sacchi di tulle
e tu.
E quando da lì dentro tu uscissi,
io ti farei sedere sull'orlo del mio letto,
stenderei ai tuoi piedi la mia pelle di lupo
e, davanti a te, rimarrei
le mani giunte, la testa china...
ti guarderei - oh, giubilo! - ti guarderei affascinato:
che bella sei, il mio Dio, che bella sei!
Di Istanbul, la mia città,
l'atmosfera e l'acqua giocando nel tuo sorriso,
la sua voluttuosità nel tuo sguardo...
Oh, la mia sultana, mia Signora!
E, se lo permettessi
ed il tuo schiavo Nazim si decidesse,
sarebbe come se egli aspirasse
e baciasse d Istanbul nella tua guancia.
Ma, attenzione!
Attenzione con dirmi "Avvicinati":
credo che se toccassi la mia mano con la tua mano,
sul piano di cemento cadrei morto.
A Berlino è dove ebbi la visione più chiara di come sta dividendo l'umanità per lo stesso sistema differente di vita. Di un lato, la modesta vita di lavoro e di pace che trionfa ogni giorno ricostruendo vasti settori di Berlino. E dell'altro lato, meglio leggerlo in questo poema scritto dopo il mio passaggio per la Germania:
Svegliati. Era Berlino. Per la finestra
vidi il cuore sdentato,
la pazza sepoltura,
la cenere,
le rovine più pesanti,
con rosoni e fregi
malridotti,
balconi avulsi ad una nera mandibola,
muri che già persero, che non trovano
le loro finestre, le loro porte,
i loro uomini, le loro donne,
ed una montagna dentro
di rottami ammucchiati,
sofferenza e superbia confusi
nella farina finale, nel mulino
della morte.
Oh, cittadella, oh sanguini
inutilmente scomparsa,
forse è questa, è questa
la tua prima vittoria,
ancora tra rottami neri
la pace che hai conosciuto,
pulendo le ceneri ed elevando
la tua cittadella verso tutti gli uomini,
tirando fuori delle tue rovine
non i morti,
bensì l'uomo comune,
il nuovo uomo,
chi edificherà le strutture
dell'amore e della pace e della vita.
[...]
Berlino tagliata
continuava sanguinando
secerne sangue, oscura
la notte andava e veniva.
Lo splendore del tempo
come un lampo a Berlino dall'Est
illuminava il passo
dei giovani liberi
che alzavano la città di nuovo.
Nell'ombra passai di lato a lato
e la tristezza di un'età antica
mi riempì il cuore come una pala
carica di immondizia.
A Berlino custodiva l'Occidente
la sua "Libertà" immonda,
e lì anche stava
la statua colla sua falsa
lanterna, la sua maschera lebbrosa
dipinta di alcolico carminio,
e nella mano il bastone
appena sbarcato di Chicago.
[...]
In India trovai quasi il mondo di prima. La moltitudine riempiva le città ed i villaggi, le cerimonie strane, i monasteri sbucciati, gli idoli di pietra dipinti di colori violenti. La fame passeggia per i campi e le strade dell'antico Indostán, ma ancora la popolazione si inginocchia vicino agli idoli di pietra, chiedendo inutilmente qualcosa ai dei immobili.
Io non smetterò mai di ricordare la mia visita anni fa al tempio dalla dea Kali, a Calcutta. Io coincisi coi poveri pellegrini venuti degli angoli dell'India. Entrando al tempio, dopo aver camminato per giorni sotto il sole terribile, li rinchiudevano, i sacerdoti gridavano loro, tirando fuori le loro ultime monete che essi goffamente, con mani tremule, cercavano slegando i loro fazzoletti. Ed allora il colpo dei tamburi, il rumore dei gong di bronzo, il grido dei cantanti sacri, il fumo pesante dell'incenso, tutto li stordiva. Appena avevano passato un velo, una porta, una tenda. E lì i sacerdoti sacrificavano capretti in onore della dea della morte, con un solo taglio tagliavano le magre gole ed il sangue spruzzava le pareti. Già il terrore li dominava, arrivavano davanti alla dea vuoti, rovinati per l'attacco dell'idolatria e lo sfruttamento. Allora, alta vari metri, con una lingua rossa fino alle ginocchia, dipinta di nero e con una collana di teschi al collo, lì stava la dea della morte e della fertilità. E per la porta uscivano gli sfruttati pellegrini, mentre la miseria dell'India, la fame, la malattia e l'ignoranza passeggiano per le strade ed i campi.
Ma i poeti che mi circondarono per dirmi le loro canzoni ed i loro versi non erano gli stessi. Accompagnandosi coi loro tamburelli, vestiti coi loro talari vesti bianche, seduti coccoloni sul foraggio, ognuno di essi lanciava un roco, intermittente grido e saliva una canzone che avevano composto con la stessa forma e metro delle canzoni antiche, millenarie. Ma il senso delle canzoni non era lo stesso. Erano già molto poche le canzoni di amore, di sensualità o di piacere. Queste erano le canzoni di protesta, canzoni contro la fame, canzoni scritte nelle prigioni. Molti di questi giovani poeti che trovai in tutta l'India ed i cui sguardi ombrosi non potrò dimenticare, erano appena usciti dalla prigione, nella quale tornavano ad entrare forse domani di nuovo. Perché questi poeti pretendevano di ribellarsi contro la miseria e contro gli dei, ed allora devono andare nella prigione a comporre le loro canzoni. Questa è l'epoca in cui ci è toccato vivere. E questo è il secolo d'oro della poesia universale. Mentre i nuovi cantici sono perseguiti, per la periferia di Bombay un milione di uomini dorme ogni notte vicino alla strada. Dormono, nascono e muoiono. Non ci sono stanze, né pane, né medicine. Così ha lasciato il suo impero coloniale l'antica orgogliosa Inghilterra. Ha salutato i suoi antichi sudditi senza lasciare né scuole, né ingegni, né abitazioni, né ospedali, bensì prigioni e montagne di bottiglie vuote di whiskey.
Appena arrivato all'Italia, cominciai a notare intorno a me una specie di mosca oscura con differenti visi e baffi. Era la polizia. La trovava perfino a nella zuppa. Un giorno mi comunicarono che dovevo abbandonare l'Italia. Protestai. Dissi loro quanto io amavo la loro terra. Mi fecero molte scuse, ma mi portarono in treno verso la frontiera. La poesia è abbastanza pericolosa per i brutti governi. La parola pace sta essendo tanto grave che molti non osano pronunciarla. E siccome io scrivo poesia e pronuncio a voce alta la parola pace, mi succedono questi incidenti. Sul treno, i poliziotti mi dissero: "Siamo genitori di famiglia, dobbiamo eseguire questi ordini ripugnanti. Per favore, ci lasci un autografo per i nostri figli poiché essi non saranno poliziotti."
Arriviamo da Roma, e lì mi aspettavano centinaia di scrittori, di artisti e di operai. Ad un certo punto, mi strapparono alla polizia. Tutti gridavano: "Evviva la pace"... e mi agitavano tra la polizia ed i miei amici. Lì si batterono gli scrittori e le scrittrici, ed una di esse, il dolce Elsa Morante, ruppe il suo piccolo ombrello sulla testa della polizia.
Pochi giorni dopo potevo rimanere in Italia. "Quanto tempo lei voglia", mi dissero. Era una lotta in più del popolo italiano in difesa della pace. Ed era anche un omaggio al Cile che stava lì presente. Un omaggio a tutti voi, al paese del Cile, a tutti quelli che lottate e sostenete gli ideali migliori di questo tempo.
Risiedetti in Italia gli ultimi mesi. Grandi lotte si sviluppano nelle città e nella bella campagna coltivata italiana. I contadini avanzano verso le terre, se le ripartiscono, essi hanno seminato ed alzato le loro case prima che arrivino i carabinieri a sloggiarli.
Questa lotta per la terra acquisisce, così, una tragica intensità. Passando per le strade, i villaggi ci mostrano le abitazioni miserabili dei contadini senza terra. I vestiti sistemati ad asciugare, penzoloni da tutti i balconi, è la vera bandiera dell'Italia, una bandiera di pace, di povertà e di lavoro. Così, dunque, la Riforma Agraria è stata imposta dai contadini al governo falsamente democratico e falsamente cristiano del signor Di Gasperi. Ed il motore di questa conquista della terra è l'unità di due grandi partiti popolari, il Partito Comunista ed il Partito Socialista italiani.
La povertà aumenta ogni giorno a causa dell'intervento nordamericano in tutta la vita italiana. Ma contadini ed operai si raggruppano vicino ai loro partiti e lottano con straordinaria disciplina ed eroismo. Così io ho visto una tappa di queste lotte, la presa delle terre dai contadini.
Sì, stetti in Italia, non come lo disse uno spiritoso deputato della destra, nell'isola di Capri in cui solo, secondo lui, possono vivere i potentati come il re Farouk ed io. L'Italia è terra di gran povertà, e tutti potremmo vivere lì, re, poeti in esilio o contadini straccioni. Ma c'è una minaccia per l'Italia e è la guerra. Non c'è un paese più pacifico di questa terra dell'olio e della zagara. Ascoltavo nelle strade cantare i viandanti solitari. Dappertutto mi strinsero le generose mani dell'Italia popolare.
Si capisce che quando essi, cinesi o mongoli, italiani o russi, turchi o polacchi, mi strinsero la mano, salutavano il Cile e questo è il saluto che io porto per tutti. Io porto il saluto del mondo, io porto il fiore della terra, io porto il canto della pace, per tutti.
Per queste strade, vicino al fiume Cautín, uscì la mia poesia a conoscere le terre e gli uomini. Lì stavo fondando il mio pensiero sotto la pioggia di tutti i giorni, lì mi sedetti su una pietra nella prima tappa del cammino verso l'esilio, ma in realtà non uscii mai da lì, non mi abbandonò mai l'araucaria, né i copihues, né i monti del sud, né lo sbocco del fiume Imperial, né i ricordi degli uomini e donne di Temuco, né l'ombra e la terra della mia patria, né del mio paese in cui sotto l'irsuta flora dal colle Ñielol giacciono dormendo i miei genitori e le origini della mia poesia. Mai dimentico né dimenticheremo quello che fu fatto con amore, perché usciamo dall'amore e lo gireremo per la strada della pace. Perciò, prima di abbandonare l'Europa, prima di lasciare agli europei coi loro drammatici conflitti, io lasciai loro questo messaggio di addio:
Parole all'Europa
Io, americano delle terre povere,
delle metalliche mesete,
dove il colpo dell'uomo contro l'uomo
si unisce a quello della terra sull'uomo,
io, americano errante,
orfano dei fiumi e dei
vulcani che mi procrearono,
a voi, semplici europei
delle strade storte,
umili proprietari della pace e l'olio,
saggi tranquilli come il fumo,
io vi dico: qui sono venuto
ad imparare di voi,
da alcuni e da altri, da tutti,
perché a cosa mi servirebbe
la terra, per quale motivo si fecero
il mare e le strade,
se non per continuare a guardare ed imparare
da tutti gli esseri un po'.
Non mi chiudiate la porta
(come le porte nere, picchiettate di sangue,
della mia materna Spagna).
Non mi mostriate la falce nemica,
né lo squadrone blindato,
né le antiche forche per il nuovo ateniese,
nelle larghe vie consumate
dallo splendore delle uve.
Non voglio vedere un soldatino morto
con gli occhi mangiati.
Mostratemi da una patria ad un'altra
l'infinito filo della vita
cucendo l'abito della primavera.
Mostratemi una macchina pura,
azzurra di acciaio sotto il grosso olio,
pronta per avanzare nei campi di grano.
Mostratemi il viso pieno di radici
di Leonardo, perché quel viso
è la vostra geografia,
e nell'alto dei monti,
tante volte descritti e dipinti,
le vostre bandiere unite
che riceveno
il vento elettrizzato.
Portate acqua del Volga fecondo
all'acqua dell'Arno dorato.
Portate semi bianchi
della resurrezione della Polonia,
e dalle vostre vigne portate
il dolce fuoco rosso
al Nord della neve!
Io, americano, figlio
delle più larghe solitudini dell'uomo,
venni ad imparare la vita di voi
e non la morte, e non la morte!
Io non attraversai l'oceano,
né le mortali cordigliere,
né la pestilenza selvaggia
delle prigioni paraguaiane,
per venire a vedere
vicino ai mirti che conosceva solo
nei libri amati,
le vostre orbite senza occhi ed il vostro sangue secco
nelle strade.
Io al miele antico ed il nuovo
splendore della vita sono venuto.
Io alla vostra pace e le vostre porte,
alle vostre lampade accese,
alle vostre nozzi sono venuto.
Alle vostre biblioteche solenni
da tanto lontano sono venuto.
Alle vostre fabbriche abbaglianti
arrivo a lavorare un momento
ed a mangiare tra gli operai.
Nelle vostre case entro ed esco.
A Venezia, in Ungheria la bella,
a Copenhagen mi vedrete,
in Leningrado, conversando
col giovane Pushkin, in Praga
con Fucik, con tutti i morti
e tutti i vivi, con tutti
i metalli verdi del Nord
ed i garofani di Salerno.
Io sono il testimone che arriva
a visitare la vostra dimora.
Offritemi la pace ed il vino.
Domani presto vado via.
Sta aspettandomi da tutte le parti
la primavera.
Per questo motivo sono venuto. Larga e vasta è la terra. Gli oceani ci separavano, ma io sono ritornato per compiere un dovere: il dovere di lottare in mezzo al mio popolo.
Vidi i porti italiani pieni di truppe nordamericane. Vidi i marinai ebbri disturbare le donne, violare le case. La prostituzione e la violenza segnano il posto dove arrivano gli istigatori della guerra. Il processo di colonizzazione del mondo dai fascisti nordamericani comincia in un periodo di esasperazione. La resistenza dei paesi è sempre di più grande.
Credo che possiamo vincere la guerra, la miseria e la repressione nei paesi. Il denaro consumato in armamenti si occuperà nobilmente in nobilitare la condizione umana. Perciò, non mi dirigo agli uomini di partiti, bensì a tutti gli uomini e donne e giovani. Voglio che siamo rispettosi di molte idee, ma inflessibili nella nostra volontà di pace.
Oggi, esiste un mondo della pace. E è una fortezza che difenderanno la maggior parte degli abitanti della terra. E sono molto semplici le ragioni. Sono piccole e grandi cose che io ho visto coi miei occhi.
Nell'Unione Sovietica, nelle democrazie popolari quando si fanno notificazioni ufficiali su prezzi è per ridurrli. Immaginiamoci paesi in cui questo ribasso dei prezzi degli alimenti, dei vestiti, delle medicine, di tutto, si ripete periodicamente. Non stanno lì le donne disperate per comprare prima del prossimo rialzo, ma coscienti che ogni articolo ha il suo giusto prezzo e che scenderà col maggior consumo e produzione.
Trovai interrotta la circolazione nel viale Gorki vicino all'hotel dove abitualmente risiedo a Mosca. E sapete perché migliaia di persone occupavano la più grande arteria della città? Si apriva quella mattina la sottoscrizione di una nuova edizione delle opere di Balzac, e quegli erano i primi sottoscrittori del primo volume che volevano assicurarselo prima che vertiginosamente si esaurisse. Perché questo amore della pace porta uno svolgimento travolgente della cultura. Tutti i grandi valori dell'Occidente sono conosciuti lì e si legge più Shakespeare che in Inghilterra e più Cervantes che in Spagna. Il nuovo pubblico che si incorpora alla cultura chiede immense quantità di libri, di musica, di teatro e di musei. Sono milioni di operai e di contadini che hanno aperto le porte di un mondo che nell'Occidente è chiuso per essi, il mondo della cultura universale e nazionale.
Per questo motivo la volontà di pace si trasforma in forza creatrice. I volontari accorrono a migliaia alle nuove opere. Vidi una casa di appartamenti in Stalingrado costruita dai giovani di Leningrado. Appena finita la guerra gli studenti universitari e giovani operaio regalarono questa casa costruendola loro stessi alla città eroica di Stalin. Lì dormirono in caverne, difficilmente passarono i materiali sui rottami, ma delle mani di quella gioventù incomparabile uscì il primo edificio bianco ed allegro dalle rovine. Ed in Romania, dove si sono formati più di centomila gruppi folcloristici che cantano e ballano per il paese, vidi come si cambiava corso al fiume Danubio affinché fertilizzasse le terre sterili. E vidi anche come una parte delle gigantesche opere le facevano molti volontari, allegri ed orgogliosi di avere messo le loro mani nella costruzione di un'opera di pace e di fecondazione.
Io lasciai agli europei, prima di abbandonare l'Italia, con rispetto e con amore, il mio messaggio contro la morte. In esso sono contenute le mie ansietà ed il mio addio.
Un'altra volta continueremo a conversare. Ho visto per strade e negli sguardi dei cileni, come non si è spento la luce accesa nel 1810. Vedo le prospettive sempre più larghe e sicure per una maggiore unità e risolvere così i nostri problemi alla luce della pace che conquisteremo. Sono sicuro del destino del Cile. Le strade ed i giorni oscuri passeranno. E così, dunque, col messaggio che lasciai agli europei dell'ovest come addio, va il mio saluto a quelli che non smisero mai di ricordarmi, a tutti voi ed a quelli che arriveranno senza cessare ad esaltare la nostra patria ed a condurrla ad una vittoria che sarà anche la vittoria di tutti i paesi.
Io attraversai le ostili
cordigliere,
tra gli alberi passai a cavallo.
L'humus ha lasciato
nel suolo
il suo tappeto di mille anni.
Gli alberi si toccano nell'altezza,
nell'unità tremula.
Sotto oscura è la selva.
Un volo breve, un grido
l'attraversano,
gli uccelli dalla elettrica coda,
una gran foglia che cade,
ed il mio cavallo pesta il soffice
letto dell'albero addormentato,
ma sotto la terra
gli alberi di nuovo
si capiscono e si toccano.
La selva è una sola,
un solo grande pugno di profumo,
una sola radice sotto la terra.
Le punte mi mordevano,
le dure pietre ferivano il mio cavallo,
il ghiaccio stava cercando sotto i miei vestiti rotti
il mio cuore per cantargli e addormentarlo.
I fiumi che nascevano
davanti alla mia vista passavano veloci
e volevano ammazzarmi.
All'improvviso un albero occupava la strada
come se si fosse
lasciato andare ed allora
l'avrebbe abbattuto
la selva, e lì stava
grande come mille uomini,
pieno di chiome,
pullulato di insetti,
imputridito dalla pioggia,
ma dalla morte
voleva fermarmi.
Io saltai l'albero,
lo ruppi con l'ascia,
accarezzai le sue foglie, belle come mani,
toccai le poderose
radici che molto più di me
conoscevano la terra.
Io passai sull'albero,
attraversai tutti i fiumi,
la schiuma mi conduceva,
le pietre mi mentivano,
l'aria verde che creava
gioielli ad ogni minuto
attaccava la mia fronte,
bruciava le mie ciglia.
Io attraversai le alte cordigliere
perché con me un uomo,
un altro uomo, un uomo
andava con me.
Non venivano gli alberi,
non andava con me l'acqua
vertiginosa che voleva uccidermi,
né la terra spinosa.
Solo l'uomo,
solo l'uomo
stava con me.
Non le mani dell'albero,
belle come visi, né le gravi
radici che conoscono la terra
mi aiutarono.
Solo l'uomo.
Non so come si chiama.
Era tanto povero come me, aveva
occhi come quelli miei, e con essi
scopriva il cammino
affinché un altro uomo passasse.
E qui sto.
Perciò esisto.
Credo
che non c'uniremo
nell'altezza.
Credo
che sotto la terra niente c'aspetta,
ma sulla terra
andiamo insieme.
La nostra unità sta sulla terra.
Prima pubblicato solo sul volume Viajes,
Santiago, Nascimento, 1955.