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da 1919 a 1939
Album Terusa
(1923)
Allora le signorine trascrivevano sulle vergini pagine di album più o meno lussuosi e decorati i poemi da loro prediletti, ma soprattutto sollecitavano le amiche, agli amici, ed in particolare ai corteggiatori, la trascrizione di altri poemi o, meglio ancora, la scrittura di messaggi o testi originali. L’Álbum Terusa è uno di questi documenti. Dal golpe militare del 1973 si ignora la sua ubicazione.
Quando mi fu affidato nel 1971 - per preparare la sua pubblicazione in AUCh - il suo stato di conservazione era piuttosto precario. Nelle sue pagine l'adolescente Pablo Neruda aveva scritto di propria mano - nel febbraio di 1923 e nel villaggio chiamato allora Bajo Imperial e dopo Puerto Saavedra, vicino allo sbocco del fiume Imperial - alcune attestazioni del proprio amore verso una ragazza che più tardi anni nominarono Terusa in "Amores: Terusa" del Memorial de Isla Negra, II (OCGC, vol. II, pp. 1173-1179).
Terusa era nel 1923 una delle ragazze Vásquez incluse nel frammento V del racconto El habitante y su esperanza del 1926: "Che cosa vuole dire questo? Tenti di incontrarla. Ella vive di fronte al chalet dei Vásquez." (OCGC vol. I, p. 222). Terusa Vásquez era una ragazza attraente se non francamente bella, come testimonia il fatto di essere stata scelta regina dei Giochi Floreali di Temuco nella primavera del 1920. L'adolescente Neftalí Reyes fu il poeta che lesse la sua "Salutación a la Reina" durante la cerimonia di incoronazione di Terusa. Il poema si pubblicò sul quotidiano La Mañana di Temuco il 23.11.1920 e separatamente - come mi assicurò nel 1967 Neruda stesso - in un libretto che sarebbe il primo comma registrabile nella bibliografia nerudiana. Disgraziatamente entrambe le pubblicazioni sono oggi introvabili. Ma nella primavera del 1920 il poema fu un’arma molto efficace per la conquista del cuore della Regina, o dell'Andalusa come la chiamò dopo il suo poeta innamorato. Ella sarà più avanti la Marisol (CHV, p. 75) ispiratrice di alcuni dei più celebri tra i Veinte poemas de amor ed anche di "La canción desesperada." Questo ultimo testo sembra avere sanzionato la separazione perché a partire da 1924 si perdono le tracce di Terusa nella scrittura di Neruda.
Devo segnalare qui una curiosità. Il vero nome di Terusa Vásquez - secondo dati degni di fede che mi ha procurato Bernardo Reyes - era Teresa LEÓN BATTIENS. La ragazza avrebbe preso il cognome Vásquez a causa del secondo matrimonio di sua madre, ciò che allora era più o meno un'abitudine generalizzata.
Quando preparai la pubblicazione dell'Álbum Terusa in AUCh, num. 157-160, Santiago, 1971, pp. 45-55, i testi che ora includo in queste Obras completas erano praticamente inediti. L'Álbum Terusa portava inoltre i seguenti testi manoscritti:
(1) poemi 1 e 4 di La cosecha di Rabindranath Tagore il cui trascrizione costituisce l'unica prova documentaria - se fosse necessario - che Neruda non mentiva ogni volta che dichiarò che "Il poema 16 [dei VPA] fu scritto come una parafrasi ad un poema di El jardinero, del poeta bengalese R. Tagore, dedicato specialmente ad una ragazza gran lettrice di questo poeta" (1961).
(2) "Mancha en tierras de color", datato "febbraio 9 o 10 [1923]", poema dopo compreso in Crepusculario con lievi modificazioni.
(3) "Playa del Sur", datato "Imperiale Bajo - secondo mese del 1923", poema dopo compreso in Crepusculario senza modificazioni.
(4) gruppo di versioni manoscritte, molto probabilmente gli originali, di cinque poesie della serie di El hondero entusiasta. I tre primi corrispondevano ai poesie 6, 12 e 9, con alcuni varianti minori, e per ciò non li raccolgo qui. Includo invece il quarto ("Cuando recuerdo que tienes que morirte" che apparteneva senza alcun dubbio alla stessa serie ma non fu raccolto nel libro, probabilmente perché questa era l'unica copia, non disponibile quando Neruda volle recuperare i suoi poemi di 10 anni prima - dispersi e dimenticati - per pubblicare il Hondero all'inizio del 1933, e il quinto che era una versione embrionale del poema 5 del Hondero.
1
[AUEL BOTE, SALVAVIDAS DE UN BARCO MERCANTE...] (Pagine 271-272.) Questa scialuppa fu un personaggio importante nel processo intimo di definizione che portò a Neruda al rifiuto dei poemi del Hondero ed alla contrastante (e vincitrice) accettazione dei Veinte poemas de amor all'inizio del 1924. Vedasi in questo stesso volume il testo "Este libro adolescente", scritto nel 1960.
Quella scialuppa, salvagente di una barca mercantile che conduceva farine di Valdivia al nord, naufragò chi sa dove. Le onde lo portarono a questa costa ed ora riposa nell'orto della mia casa, come un animale dolce e familiare.
Come quelli ricordi che nonostante il tempo sostengono ancora la sua orma inesprimibile nelle anse del cuore, essa conserva ancora alghe minute e marine, licheni dell'acqua profonda, quella flora verde e minuscola che decora le radici delle barche. Ed io credo di vedere ancora l'orma disperata dei naufragi, quelli che nella finale angoscia si aggrapparono a questa intelaiatura marina mentre la tempesta li perseguiva immensamente.
Quando il sole non si è nascosto ancora, mi arrampico a questa naufraga scialuppa, abbandonata tra le erbe dell'orto. Porto sempre un libro che non riesco mai ad aprire. Stendo il mio mantello sulla panca e, steso sopra, guardo al cielo infinitamente azzurro.
Vecchi ricordi, sommersi nell'acqua del tempo, mi assaltano. Sempre, in posti di solitudine, mi spiano questi indefinibili rapinatori. Sempre, in posti di solitudine, sento straniera la mia anima. Rumori inaspettati, mormorii di voci sconosciute, canti soggiogati e nuovi canti conquistatori, una musica strana ed incontenibile si infrange sul mio cuore come il vento su una selva.
Donna, in quelli momenti ti amo senza amarti. In te non penso perché in niente si trattiene il mio pensiero. Come un uccello ebbro, come una freccia perduta, attraversa senza destino fino a perdersi nell'oscura lontananza.
Io stesso non mi ricordo: come potrei ricordarti?
Ma il tuo amore poggia più dentro ed più fuori di me stesso. Bicchiere meravigliato che portò fino alle mie labbra il vino più dolce, bicchiere di amore. Non devo ricordarti. Come una lettera registrata profondamente, mi basta far volare la polvere impalpabile per vederti. Non penso a te, ma, abbandonato a tutte le forze del mio cuore, a te anche mi abbandono e mi arrendo, oh amore che sostieni i miei tumultuosi sogni come la terra del fondo del mare sostiene le abbandonate correnti e le maree incontenibili.
2
Poté questa pagina rimanere da scrivere, come molte di questo tuo quaderno rimarranno. Perché la scrivo? Niente saprebbe dire di me né di nessuno. È l'ora di sempre. La mia anima, una riga diritta ed infinita, senza principio e senza fine.
Il desiderio sale come un'onda sull'orizzonte della nostra vita. E muore come un'onda. Quello è il dramma. Il cuore fatto una pianura grigia e desolata dove si vanno cancellando le orme più profonde, il cuore oramai dove non sta nessuno perché volle contenerli tutti. Non raggiungere, non trovare, non saziare l'ansia innumerabile: è questa quindi la fonte della felicità?
Che non ci sia, allora, che non ci sia mai una corolla per il mio cuore di ape, che non ci sia mai un nido per il mio cuore di uccello viaggiante, e che non trovi mai il flauto di cui ha bisogno la mia bocca di pastore.
3
Lettera ad un sconosciuto
20 febbraio [1923]
Sig. L. Vinci, La Rugiada. – Signore: Oltre le sue parole, e nelle parti che lei forse meno immagini, credo di incontrarla. Le sono grato, completamente, come una mano tesa verso me. Non è l'ora che mi appoggi a lei, forse le mie mani sono capaci di soccorrere quelle altrui, ma, come qualsiasi momento, passa quello dell'allegria ed arriva quello della solitudine. Per allora cerchiamoci. Mi cerchi. Io ho il cuore aperto per tutti. E non si disilluda dopo. Sono povero di monete e di parole, ma disprezzo ugualmente le parole e le monete. Esse, lontane da noi si arrendono e ci vendono o vendono un meschina immagine nostra. Adesso anche mi stanno vendendo. Perché niente desiderio di dire a lei, e se lei stesse con me, si sarebbe seduto su quella poltrona di vimini ed avremmo ascoltato in silenzio la rotolante voce del mare, che si precipita senza esaurirsi nell'imbrunire del porto.
4
10 febbraio [1923]
Oggi all'imbrunire, con la marea alta che riempiva il fiume col suo onda invaditrice e lenta, ho remato fino a stancarmi. A momenti mi stendevo nella panca della scialuppa e fumavo, di fronte al cielo immenso. Oh che vasti, che vastamente vasti questi cieli dei porti! Lo sguardo si ubriaca di guardare l'altezza e bisogna abbassare gli occhi alle coste, stanchi come le colombe di volare sull'orizzonte illimitato.
Dopo, il mare. Il mare questo è fragoroso e magnifico. Nella spiaggia si rompe, si sgretola, si alza, si estende alla fine con le ultime onde che lambiscono le sabbie luminose. Ma dentro, nella lontananza, è puro e sereno, e si arrotonda come il ventre delle madri.
Oggi faceva un crepuscolo, come quelli che i giapponesi dipingono nelle tazze di tè o nei paraventi. Era un sole rotondo, rotondo e rosso come una ciliegia molto rotonda, o piuttosto come un'arancia di porpora o di oro. Giallo, violetta, azzurro, che meravigliosi colori stendeva sulle onde! Soprattutto sulle moribonde, in quelle in cui si baciavano i miei piedi stranieri, come schiave portatrici dei migliori frutti del suo Paese di acqua, di fuoco e di oro.
5
[Y AL IRME, HE DEJADO ESCRITO TU NOMBRE...]. (Pagina 274.) Neruda scrive qui "Paolo e Terusa" ma inoltre l'Álbum Terusa portava un foglio sciolto trasparente, di colore giallo pallido, con la firma Paolo Neruda in uno dei suoi angoli. Ricorda che Neftalí Reyes aveva conosciuto Terusa nella primavera del 1920, la stessa primavera in cui cominciò ad usare l'allora pseudonimo Pablo Neruda. Si può supporre che nel poema "Ivresse", scritto nell'estate all'inizio del 1921 e dopo raccolto in Crepusculario, sono anche Neftalí e Terusa che nascondono la loro passione adolescente dietro le maschere letterarie di Paolo e Francesca: "Oggi che danza nel mio corpo la passione di Paolo / [...] / oh verso dove Francesca, ti porteranno le mie ali!" (OCGC vol. I, pp. 114-115).
Ed andando via, ho lasciato scritto il tuo nome, ed il mio nome, nella sabbia bagnata. Era una scritta grande, larga, così:
PAOLO
TERESA
Ma era più bello di questa.
6
Ella fu di passaggio,
lei incrociò il mio destino
e mi illuminò come una stella:
raffica di amore che me la portò,
strappamela dalle braccia
che non posso stare oramai con lei!
Nell'ora del bacio fummo
ognuno bocca e grappolo,
grappolo e bocca, ognuno,
ed amore come quello che mi consegnò
e dolore come quello che mi diede
non poté provare mai nessuno.
Dio le dirà quanto la volli.
Dio le dirà i giorni grigi
che sarà senza lei nel mio sentiero.
Ora, nella prima ansa,
con lei abbandono tutto:
Dio le dirà quanto la voglio!
7
Il mare, in lontananza, rompe
il suo grido oscuro e spaventoso.
- Madre, raccontami la storia
del Principe che era pazzo.
- Il mio bambino, a te assomigliava
nel pallido e nel triste:
tutto l'amava e sembrava
che odiava tutto quello che esiste.
Di volere senza che lo volessero
era il Principe pazzo:
era solo nelle mattine
e nei pomeriggi vagava solo.
Di aspettare senza che l'aspettassero
era il Principe pazzo:
più in là della terra vasta,
più in là guardavano i suoi occhi:
avvolto nella sua cappa oscura
era più pallido il suo viso
quando nei pomeriggi lo baciava
il sole come un cane d’oro.
Di piangere senza che lo piangessero
era il Principe pazzo:
nessuno [...]
[Qui si interrompe il manoscritto]
8
Porto fluviale
A volte, quando il remo cade,
mi spruzza di acqua gli occhi:
vado disteso, di fronte al cielo,
ebbro di un piacere silenzioso.
Mi do al cielo che mi copre
e mi abbandono alla corrente.
Oh l'allegria di arrendersi,
arrendersi, arrendersi sempre!
Dove vado? Da dove vengo
e chi mi aspetta? Che cosa mi importa!
La mia vita vale molto meno
che l'ala grigia di un gabbiano!
La mia vita galleggia sull'acqua
e la canoa scossa
porta - alla terra dove vado -
tutta la mia vita!
9
Quando ricordo che devi morire
mi vengono desideri di non andare via mai,
di rimanere sempre!
Perché muori? Come muori?
Ti chiuderanno gli occhi, ti uniranno le mani
come le unirono a mia madre morendo,
e sarà il viaggio, il profondo viaggio che non conosci
e che io non conosco perché tu mi volesti.
Non ti prenderò la mano
e non riposerai nelle mie parole tristi:
andrai
come venisti,
sola, senza questo corpo che cullarono i miei baci
e che si divorerà la terra in cui dormisti.
Lasciami possederti affinché in me perduri!
Lascia che ti faccia vibrare il vento del cuore
e come una corolla vuota in me il tuo profumo!
Baciami fino al cuore.
Trovami ora perché dopo non mi cerchi.
Seppellisciti nei solchi che mi stanno seppellendo
ed arrenditi nei miei frutti più alti e più dolci.
Che i tuoi occhi si finiscano di guardasi nei miei.
Di arrivare alle mie labbra che i tuoi seni maturino.
Separati dalle mie canzoni
come la pioggia dalle nuvole.
Immergiti nelle onde che da me stanno nascendo.
Scottati affinché mi illumini.
10
Amica, non morire!
Ascolta queste mie grida che mi escono ardendo
e che nessuno direbbe se io non li dicessi.
Amica, non morire!
Io sono quello che ti chiama nella stellata notte,
ebbro di amore, perduto di amore e di bellezza.
Sulle erbe verdi, quando il vento singhiozza
ed apre le ali ebbre.
Io sono quello che ti spia nella stellata notte
quando danza la ronda delle ombre immense.
Sotto il cielo del Sud, quello che ti nomina quando
l'aria del pomeriggio come una bocca bacia.
[Qui si interrompe il manoscritto]
Il cacciatore di ricordi
(1923-1927)
I
LA LIRICA MARGINALE
Águeda Rosa
La famiglia delle api ebbre
ÁGUEDA ROSA. LA FAMILIA DE LAS ABEJAS EBRIAS. (Pagine 281-282.) Poema in eneasillabi scritto in Puerto Saavedra per Albertina Azócar, negli stessi giorni in cui scriveva poemi per l'album di Terusa. Il facsimile che portano CMR e NJV=CYP è molto confuso nella parte inferiore. Lo stesso facsimile mi sembra in PAR sospettosamente più chiaro in quella zona, come se la scrittura fosse stata quasi ritoccata. Ciò interessa la lettura dell'ultimo verso. Sergio Fernández Larraín, editore di CMR, evidentemente non osò trascrivere il testo e si limitò a riprodurrlo in confuso facsimile (la risoluzione fotografica è, in generale, di molta povera qualità in quel volume). In NJV=CYP l'editore Juan Ignacio Poveda trascrive così l'ultimo verso: "una inmensa alúa (insetto piroforo – lucciola ?) en reposo", col segno di interrogazione che certifica una difficoltà di lettura in quello punto. In PAR l'editore Cruchaga Azócar (figlio di Albertina e di Ángel) trascrive invece con decisione: "una inmensa alúa en reposo", lettura che non mi convince quando guardo il facsimile (che porta, con grafia dubbiosamente nerudiana, qualcosa come "alua" senza tilde) e che credo influenzata dall'anteriore lettura di Poveda in NJV. Orbene, in DRAE la voce alúa dice: ", Da aluda.) f. R. de la Plata, cocuyo, insetto." E più avanti la voce aluda: ", Da aludo.) f. Formica con ali." Considerando l'umido e soffocato clima erotico del testo, non escludo la formula il "mio ventre si accende come / un'immensa alúa in riposo" per significare una rozza e maschile avidità sessuale, benché il termine alúa mi sembra troppo estraneo al vocabolario nerudiano. Ma propendo a preferire il bene possibile lettura abeja (ape), invece di alúa, per la sua connessione solare e per l'ardente frenesia di vitalità che implica nell'universo simbolico di Neruda (dove lo troveremo frequentemente) oltre ad essere un termine richiamato dal curioso sottotitolo del poema.
Tra i vapori della terra
gira l'estate silenziosa.
Sole del pomeriggio, frutta rovinata.
Volo di uccelli oziosi.
Sto sul bordo dell'acqua
caduta come un iris rotto.
Avidità del mio corpo pieno
di inquietudini e di germogli.
Ho bisogno di un corpo nudo
sul mio corpo caldo.
Striato di vene azzurre
e di desideri poderosi.
Che oscilli i suoi occhi pallidi
sui miei occhi,
come un sguardo di bambino
sullo sguardo di un pozzo.
Allungo le mie gambe magre
nell'imbrunire afoso.
E, al sole, il mio ventre si accende come
un'immensa ape in riposo.
Puerto Saavedra, febbraio 1923
Facsimile in CMR, in NJV ed in CYP
La vita lontana [I]
LA VIDA LEJANA [I]. HORA FLUVIAL. ARABELLA. (Pagine 282-283.) Il termine "fluviale" si associa in questo periodo al piccolo vapore di passeggeri (con la gran ruota di propulsione dietro, come quelli del Mississippi) che copriva il tragitto tra i porticcioli fluviali di Carahue e Bajo Imperial. Da Temuco si viaggiava in treno fino a Carahue, circa 30 o 40 km verso l'ovest, e da lì per il fiume Imperial altrettanti chilometri in vapore fino ad arrivare al mare (perché allora non esisteva la strada tra Temuco e Puerto Saavedra). Al proposito, segnalo altri testi "Puorto fluvial" dell'Álbum Terusa in questo stesso volume, a "Imperial de Sur" in Anillos (OCGC) vol. I, pp. 240-241, e soprattutto a "El primer mar" in Memoriale di Isla Negra, I, OCGC, vol. II, pp. 1148-1149.
- Arabella era uno dei nomi poetici che Neruda assegnò ad Albertina Azocar.
IL SONNO
Dopo, stanco di meditazioni, strisciavo fino al mio letto di coperte. Il freddo tremava nel mio corpo; e volteggiava sulla mia testa, toccandomi le palpebre, la allucinata farfalla del sonno. Metteva la tempia senza ferirla sui miei cuscini rustici, ed improvvisamente, mi addormentavo. Il campo del sud, quella tenda abbandonata e palpitante, io stesso, povero uomo orgoglioso e solitario, tutto era, nel mio sonno, una gran barca incendiata che attraversava e divideva l'onda nera della notte.
ORA FLUVIALE
Andai via disteso sul tetto delle cabine di seconda, ricevendo il sole nella schiena ed il vento nella fronte. Un fiume largo, liscio, orlato di sterpaglie di un verde ombroso. Gli uccelli dell'acqua, sempre fuggenti, si immergevano nell’imboccatura fiume. Dopo, in lontananza, le terre seminate si incurvavano e si muovevano nel terreno collinoso infinito. A volte un stormo uccelli attraversava il fiume e sempre di più si allontanava dando grida brevi che cadevano all'acqua come pietre rammollite.
L'INFINITO
Ma come aleggiando tra la corrente ed il cielo, sorge una musica, al mio fianco. Un'aria che si lamenta, e che fugge. Qualcosa di semplice e che sempre frantuma una nota di nostalgia ululante. Oltre questo fiume, oltre questa terra. Oltre il mio cuore rotto, più in là, amici. Una lingua infinita mi lecca e mi opprime, un braccio fatto di albero e di acqua mi cinge come una cintura, un sentimento altrui mi sfrena, una bocca sconosciuta mi dice.
- È un suonatore di fisarmonica ambulante.
Si chiama Zoemir.
Ho pianto, con un uomo sconosciuto, disteso su una cabina là lontano.
ARABELLA
Non dovevi amarmi, Arabella, non dovevi amarmi. Non andavi a lasciare orma nel mio sguardo in fuga, non andavi a seppellire la tua iniziale nella creta pallida della mia strada, e mi amasti, Arabella, mi ami ancora.
Solo miei furono i tuoi occhi azzurri, le tue trecce gialle, per me sfrenate in quella notte, ed in quell'inverno.
Per me solo devono essere i tuoi crepuscoli, cucendo senza compagnia, ora che un'altra pioggia cade, come allora, sopra il tuo tetto, nel porto. Ti ricordi del vento sinistro che entrava nelle notti, per la finestra rotta?
Non dovevi amarmi, Arabella, per che motivo mi amasti?
I COMPAGNI
Oltre a Zoemir, ed Arabella, ebbi alcuni amici, che ricordo con le cose care di quello tempo. Furono alcuni trasportatori, allegri ed ubriachi, che cominciarono per adularmi, poi si presero gioco di me e finirono per amarmi molto. Poiché nel lavoro, ci univamo, e su una scialuppa a quella riva, alcuni cantavano, altri conversavano di temi familiari ed altri dormivano. Quando oscurava non ci vedevamo, solo il fuoco minuto delle sigarette sembrava vivere: e senza accorgersene, tacevamo tutti, anche noi, nella silenziosa notte infinita.
Buoni ragazzi. Un giorno, pescando, ne annegarono due. Erano quelli che io amai di più.
Claridad, num. 92., Santiago, 16.6.1923.
La vita lontana [2]
LA VIDA LEJANA [II]: HOSPITAL. EL CAZADOR DE RECUERDOS. (Pagine 284-286.) Durante il 1923 Albertina dovette ricoverarsi in un ospedale di Santiago per alcuni mesi. È probabile che le visite alla sua amica malata ispirassero a Neruda questa prosa. – È possibile leggere " El cazador de recuerdos " come espressione del volontarismo del Hondero (il mio cuore prepara l'ubicua "frecciata") raffigura che escludeva la memoria. La rinuncia al progetto Hondero aprirà nel 1924 le porte all'invasione dei ricordi soffocati (attraverso i Veinte poemas, di Tentativo e di Anillos principalmente).
I GIORNI INUTILI
Il cattivo tempo mi toglieva desideri di uscire, e man mano che i giorni correvano stavo rimanendo più solo. Nei pomeriggi nessuno veniva a cercarmi e - senza libri - le ore scivolavano sulla mia assorta inattività.
Una brutta angoscia mi lanciava a volte, fatto nodo, sul letto. La pioggia cadeva, densa e largamente; i venti russanti discendevano dalle colline e la luce del crepuscolo si angosciava come una moribonda dietro la finestra che dava sul fiume.
IL TEMPORALE DELL'AMORE
Volli rifugiarmi nell'imbrunito paese dei suoi occhi, contenere in lei le forze oscure che mi possedevano, calmare i tumultuosi impulsi che come acqua senza alveo mi invadevano e mi esasperavano.
Sceglievo i pomeriggi tranquilli per parlarle, le notti pure. Anche per tacere soli, nel paese povero, lontano da tutte le voci. Amavamo fissare insieme i nostri occhi in uno stesso rosso del giorno finito. O baciarci abbasso lungamente sotto le alte stelle numerose.
Ma dita sconosciute lavoravano in silenzio l'argilla dei nostri cuori. Facevano lampade di incendio, anfore di passione, bicchieri della sete infinita. Un gran vento di febbre precipitò le nostre parole ed aleggiò come un uccello sinistro sui nostri corpi innamorati.
Fuggii da lei come fuggono gli uccelli dagli incendi. Ora troppo tardi, la nostalgia; il mio cuore continua ad incendiare le cose che tocca e fugge da esse come un uccello del fuoco.
OSPEDALE
Un dito di sole giallo che poteva attraversare il tendaggio era, spesso, l'unico centro della mia esistenza. Lo guardavo risplendere, distendersi, defluire. I gemiti dei miei compagni di sala mi tiravano fuori a volte da quella ossessionante osservazione, e tutta la tristezza mortale di quelle sale di malati si svuotava all’improvviso sul mio cuore sconfitto.
Convalescente, percorrevo stranamente a passi lenti i corridori silenziosi. Le sorelle attraversavano al mio fianco nei loro viavai di tutti i giorni, ed a volte, un tremante grido angoscioso mi tratteneva vicino ad una finestra o di fronte al vuoto di una porta. Fragranti cespugli di azalee riempivano i bordi del patio, di fronte alla mia sala. Mi sedevo tra esse nei pomeriggi, sgranando deliranti meditazioni. La notte cadeva bocconi sull'ospedale: le sue oscure dita palpavano le ferite dei moribondi, e si coricava di fianco ad essi, infinitamente spiante. Posseduti dalla febbre, deliravano gli infermi nell'alta notte. Nel centro del patio le suore avevano un altare alla Vergine: una grotta rocciosa, arrampicata di rampicanti. Era l'unico punto luminoso in mezzo all'ospedale in ombra. Di giorno e di notte erano accese tutte le candele di quella nicchia, ed io continuavo ad infiammare animo ad uno le mie sigarette in quelle sacre fiamme che il vento della notte faceva vacillare.
ZIO LORENZO
Non ascoltai mai le tue storie, zio Lorenzo, le tue vecchie storie campagnole. Sentivo la tua voce e le semplici parole, il rosario fervente della tua sfortunata vita, le gesta oscure della tua esistenza popolata di ricordi. Ma allora niente seppi di te, e mentre parlavi, la mia anima distante continuava a viaggiare, zio Lorenzo, per altri paesi, e se ti vedeva era attraverso un fumo che faceva vaghe e lontane tutte le cose. Il braciere crepitava ed ardeva il suo incendio familiare. La pioggia scivolava le sue ramature trasparenti sulla casa addormentata. Tu parlavi, zio Lorenzo, raccontavi lungamente; e molte volte mentre parlavi, oscure farfalle di sogno attraversavano aleggiando dal mio cuore verso l’ignoto.
IL CACCIATORE DI RICORDI
Non voglio riviverli, e quasi l'odio. Li dissotterro, e rompo di nuovo i loro vecchi solchi affinché ora rimangano sepolti per sempre. Non sono la mia ricchezza: sono più del minuto ignorato che del conosciuto. Amo prolungarli in una lotta disuguale contro la vita ed il tempo. Ho affondato il mio braccio nel passato e, alzandolo verso il futuro, gocciola cose strane, come le alghe colano cose azzurre del mare.
Vivo incontenibilmente alzato sotto la fuggente frusta del tempo; ed il mio cuore prepara la ubicua frecciata che deve rimbalzare tremando nell'ultimo orario delle ultime tenebre.
Claridad, num. 94, Santiago, 30.6.1923.
La vita lontana [3]
EPILOGO
Ora sento la necessità di fare alcuni righe che finiscano questi brevi racconti e diano fine di continuità alla mia vita lontana. È anche certo che le cose non finiscono mai in definitiva, e meno il passato, ma credo che smettendo di filare questi ricordi ammazzi una volta per tutte un'anima vecchia che andava sempre dietro di me, come un cane acciaccato. Anche mentre scrivo queste ultime righe mi assalta una nozione di piccolezza di tutti questi fatti oscuri che le mani delle cose andarono annodando alla mia esistenza. Non valeva la pena rimuoverli. Non diedero forse dolcezza a nessun essere nella lontananza, e per caso non riuscirono a calmare le mie vecchie ansietà né i miei nuovi desideri. Come non sono invecchiato, nuove cose mi succedono, mi attraggono altre strade, lascio sentieri già camminati. Nella zona di luce corrono a volte strane ombre che il mio proprio cuore fa vacillare. È qui che uno è il modellatore di tutte questi figure di terra oscura che un giorno inaspettato emergono nella nostra compagnia, e che si allontanano fatalmente coi giorni che se ne vanno. Amici rivolti alla zona dell'ombra, donne che contennero baci e sogni distanti; ora, in questa ora di esame, sento che, contemporaneamente, foste solo variazioni che creò la mia sete ed il mio desiderio infiniti che io fui creato da voi nella vostra fuga verso la notte; una malinconia mi riempie a poco a poco, come si riempie un soggiorno di oscurità, nell'ora del pomeriggio. Come ora, per esempio. Cade la notte, mette un gran vento freddo per le aperte finestre, e sette fili di ferro che sto vedendo rigano coi loro sette fili di ombra il chiaro crepuscolo che nella lontananza si spegne immensamente. Scorgo lontano profili che si agitano e si perdono e si rinnovano. Tutto questo mi serve per non continuare a parlare di me, e raccogliermi a pensare abbandonato come un malato, ora che la terra è l'infermiera che arrotola le sue lenzuola di ombra alla testata del sole.
Claridad, num. 97, Santiago, 21.7.1923.
Poema 9/Il prigioniero
Frangia bionda di un sole che non tramonta mai,
che non va via, che ancora ingiallisce l'ambiente,
con una umanità di bocca immensa e pura
che ci matura l'anima baciandoci la fronte.
Luminosa quiete delle cose presenti.
Silenziosa avvertenza delle cose lontane:
il dolore che rinasce vicino al dolore che muore:
ombra e fuoco che arrivano dalla stessa finestra.
Liberami del tuo amore, donna lontana e bella,
che per bella e lontana mi fai male ogni giorno.
Rompi le chiare corde, sciogli le bianche vele
della barca che imprigionano ancora le tue mani.
Ed oh minuto, non tornare ad essere come ora fosti!
La mia anima errante e nostalgica ad ogni sete si complica.
Il mare immenso e libero per nessuno è più triste
che per una barca legata ad ancore d’oro e di seta!
Scritto nel 1923, questo poema fu il num. 9 nella prima
edizione di VPA (1924) e sostituito per un altro poema 9
- definitivo - a partire dalla seconda edizione (1932). Neruda
gli avrebbe dato un nuovo titolo, "Il prigioniero",
scrivendolo su un manoscritto del testo (J. Edwards).
Le ancore
LAS ACLAS. (Pagina 289.) Vedasi sopra la mia nota a "Poesías [I]." "El barco de los adioses."
Dall'eternità navigatori invisibili vengono portandomi attraverso atmosfere strane, solcando mari sconosciuti. Lo spazio profondo ha riparato i miei viaggi che non finiscono mai. La mia chiglia ha rotto la massa movibile di icebergs luccicanti che cercavano di coprire le rotte coi suoi corpi polverosi. Poi navigai per mari di nebbia che estendevano le loro nebbie tra altri astri più chiari che la terra. Poi per mari bianchi, per mari rossi che tinsero il mio scafo coi loro colori e le loro nebbie. A volte attraversiamo l'atmosfera pura, un'atmosfera densa e luminosa che inzuppò la mia velatura e lo fece fulgente come il sole. Per lungo tempo ci trattenevamo in paesi dominati dall'acqua o dal vento. Ed un giorno - sempre inaspettato - i miei navigatori invisibili alzavano le mie ancore ed il vento gonfiava le mie vele folgoranti. Ed era un'altra volta l'infinito senza strade, le atmosfere astrali aperte su pianure immensamente solitarie.
Arrivai alla terra, mi ancorarono in un mare, il più verde, sotto un cielo azzurro che io non conoscevo. Abituate al bacio verde delle onde, le mie ancore poggiano sulla sabbia d’oro del fondo del mare, giocando con la flora storta della sua profondità, sostenendo le bianche sirene che nei giorni lunghi vengono a cavalcare in esse.
I miei alti e diritti alberi sono amici del sole e della luna e dell'aria aromatica che li penetra. Uccelli che non hanno mai visto si trattengono in essi e dopo in un volo di frecce rigano il cielo allontanandosi per sempre. Io ho incominciato ad amare questo cielo, questo mare. Ho incominciato ad amare questi uomini... Ma un giorno, il più inaspettato, arriverà il mio navigatori invisibili. Salperanno il mio ancore diventate alberi nelle alghe dell'acqua profonda, riempiranno di vento le mie vele folgoranti...
E sarà un'altra volta l'infinito senza strade, i mari rossi e bianchi che si estendono tra altri astri eternamente solitari...
Zig-Zag, num. 963, Santiago, 4.8.1923.
Poema nella provincia
Sto aspettando la mia fidanzata
nella mattina di una domenica provinciale.
Come la mia fidanzata civetta,
è da più di due anni che sto aspettando
di vederla spuntare
per i quattro angoli aperti di questa piazza
nella mattina di questa domenica provinciale.
Oh forestale
liturgia delle ore,
oh forestale
incanto di aspettare
teso in un scanno di una piazza di paese.
Sopra il cielo come un mare.
Sotto gli alberi verdi
ed il cuore latente e forestale!
Improvvisamente una musica di ali bianche si estende
ed un coro di ori puri fende l'azzurro sottile.
Come ad un fiore del mare le dita delle reti
questa musica assorta mi ha imprigionato.
Dolce coro anglicano: magra voce unanime
che ho sentito piegarsi come un giunco nella brezza,
mentre il cielo immobile è un esteso sentire
e la terra una chiesa rurale che canta la messa.
Più che sapore di musica, hai sapore di pane.
Pane provinciale, aroma di mele mature.
In questo quieto giorno solo io ti ho assaggiato,
io ed il vento che, a volte, si trattiene ed ascolta.
Musica di questa piazza, attraversi, corri. Ti allontani.
Errante odore di semine e frutta e fogliame.
C'è qui il mio cuore che La aspettava,
avido di seguirti per sempre nel tuo viaggio.
E sei come una porta aperta sotto il cielo,
porta da dove passa tutta la voce del mare:
davanti a te si inginocchiano gli inglesi del paese
ed il mio cuore triste di aspettare.
Dolce coro anglicano che inginocchiato ascolto
mentre aspetto la mia fidanzata,
nella mattina di una domenica provinciale.
Claridad, num. 103, Santiago, 1.9.1923.
Poema dell'assente
A te questo tubare, Piccola, dove sei, dove vai.
Caldo fiume tremante, la tenerezza bagna la mia voce, la mia voce che ti nomina.
Per te, più lontano che i rosso lontani, e le montagne lontane, e le stelle lontane, lontane per te più lontano guardo, più lontano.
Un vuoto qui tra le mie due braccia, un suono tremulo che muore nella mia voce, la macchia del tuo corpo assente del paesaggio, quello sei, Piccola, e tuttavia sei più.
Fiore del mio cuore, anima di acqua che trema nella mia terra, fiore mio.
Piena dei miei dolori e dei miei silenzi, bambina dagli occhi assorti come tutta la mia infanzia, voglio che ti crocifigga nel mio sogni, e mi sopravviva in tutte le cose della terra.
A mezzanotte germogli fatto albero del mio petto, come di una pietra partita, come un albero ti alzi nel cielo profondo e ti costellano le stelle altissime.
Mi occupi come l'aria occupa le sale vuote, come la presenza dell'ombra occupa le sale chiuse, come il profumo satura le corolle dell’estate.
Per caso mi allontani da te. Non ti rattristare. Passa, appena, di fronte alla finestra, il volo di un uccello errante e silenzioso.
L'assente, sei l'assente. Ti chiamo e la mia voce cade e si trascina, ma la senti.
La senti, Piccola, addormentandoti, come il rumore di un fiume distante.
La notte, è la notte. Emergi infiorata da luci azzurre, e sei l'astro che ama il mio desiderio. Non stai.
L'assente, quella che chiude le palpebre, all'altro lato dell'ombra. Ti parlo, e la mia voce si chiama, Piccola. Non andare via, non andare via mai.
La Mañana, Temuco, 10.9.1923 e Claridad,
num. 106, Santiago, 22.9.1923.
Momenti
IL PROBLEMA
Dove già si assentano le ultime case; dove la terra verde ritorna foraggio e fiori e la terra bruna diventa strada, più oltre i sentieri di tutti, di fronte all'onda del vento ebbro che torce e scuote i cespugli umidi. O al piede degli ombrosi eucaliptus, rifugio a cui appendono a mezzanotte i soffocati ed i ladri. Altre volte, camminando per le colline bagnate, quando il sole estende le sue dita di fuoco, ed una nuvola di spavento lo copre e l'annichilisce. O disteso, guardando nell'alta notte gli astri che scintillano e palpitano inchiodati e l'ombra innumerabile. In tutte le parti, sotto il cielo di sole e di luna, sul letto di coperte o di trifogli, il mio desiderio in fuga, sempre in fuga; ancora i miei occhi rivelatori fuggono, sempre fuggono; il mio cuore senza fatica, cerca, come un uccello da preda, cerca sempre.
PIETRE IN RITORNO
Ho lanciato verso la notte infinita tre pietre erranti, accusate per la mia ansietà, indurite ed acuminate dalla mia inquietudine inestinguibile. Le preparai nei pomeriggi di temporale: il vento barcollava la mia abitazione solitaria, i tuoni rimbombavano e cadevano le acque dal cielo inesauribile. Le lanciai con la mia febbre di sapere tre enigmi, tre oscuri segreti, tre furti della notte.
Tardi, disteso nella mia abitazione solitaria, di fronte alla finestra più alta, ho visto cadere tre pietre erranti, dalla notte infinita.
Claridad, num. 106, Santiago, 22.9.1923 e
Nuevos Rumbos, num. 15, Santiago, 15.4.1924.
I viaggi immaginari
IL PADRONE DI TUTTO
Che di tutte le cose qualcosa fosse caduto fino alla mia rete delirante, che io avrei potuto alterarlo e trasformarlo tutto. Questo silenzio non è la mia parola, questa esistenza non è la mia esistenza? Solo, nel pomeriggio circondato di rosso, con la testa inumidita nella nebbia, sono il più vasto impulso della terra che sale al pomeriggio infinito. Fanno del mio cuore, come delle crete bruciate le anfore che alloggiano fusti teneri, ghirlande fiorenti. Crescono delle mie braccia i vimini dove agitano i grappoli da frutta. Che il fuoco ascenda il suo braccio rampicante tra le mie cosce e l'acqua si divida in fiumi rumorosi uscendo dalle mie vene liberate dell'ormeggio dei limiti. Là lontano, le bende della nebbia agitate dal vento violento ed i lontani alberi inginocchiati, e i rintocchi delle torri di musica ed altezza, e le ombre che giocano e litigano tra le colline nere e i vapori selvatici che, scuotendosi, emergono dai foraggi bagnati; quello, tutto quello, è il mio gioco solitario e terribile, queste sono le figure che muovono le mie dita senza riposo; quelli, i tronchi che getto nel falò del sole affinché sorgano ed agonizzino incendiandosi ed illuminino morendo la mia testa sommersa nell'ombra. Come potei ereditare questo impero senza margini né origini; raggiungere una torre che possa scrutare terre altrui; dite amici, dite lo scongiuro o il segno che stermini ed allontani il mio potere infinito, la mia scienza dolorante.
BALLATA POLVEROSA
Affinché nessuno possa sentirlo continuerò a spargere un segreto in queste parole, ed in esse si anniderà affinché nessuno possa sentirlo. Non è un enigma, compagni; tracciate una lunga linea da un monte ad una stella difficile; fate tenace la linea e dura e diritta; ed attraversate, compagni, per quella corda di pericolo, attraversate dai monti verso la stella difficile.
Tramate anelli di metalli ardenti, e fate che il vento delle notti si chini e passi saltando per le vostre rotelle. Fate cadere le pietre che avvicinano i fiumi, e che l'acqua furiosa frusti le sue statue senza nome.
Cacciate gli uccelli temibili che volano senza anime, intrecciate i serpenti macchiati di polline, e raccogliete prima che cada, l'astro pazzo che vagò della notte.
Questo è, compagni, ed indovinate il segreto che andai spargendo e nascondendo in queste parole affinché nessuno, affinché nessuno lo sapesse.
L'ONDA VERTIGINOSA
Invece di fuggire da lei, la cullai con le braccia, e mi arrampico dal mio cuore all'onda temibile.
A nessuno chiedo soccorso, non mi lamento se sono stanco. Voglio solo dire, cantare, la risacca poderosa che si schiantò al mio petto.
Salii caldo e tremante; io, sbagliato, non cercai di estinguerla, ed abbracciando invadevo ed inondavo, e gli aneliti, allora, crebbero e cantarono.
Gli aneliti oscuri che seppellii in un altro tempo, aleggiarono feriti di parossismo. Si alzarono spianando le zone ombrose ed il suo volo selvaggio incendiò i crepuscoli.
Bolle e si muove la mia anima, e l'onda oceanica sospende le mie grida. Mi agito, ed il mio movimento è danza e la mia anima balla sbriciolata nell'onda oceanica.
Nell'onda violenta che infranse la sua frusta nelle mie ansie. Volli solo dire, cantare, la risacca angosciosa che si schiantò contro il mio petto.
Claridad, num. 116, Santiago, 1.12.1923.
[Donna, voglio che sia come sei]
Donna, voglio che sia come sei,
così sorgendo appena dall'oscurità,
come ti vedo ora, come mai
più ti vedrò.
Come mai più. Per questo voglio
che sia come sei in questo istante,
che si trattenga il tempo nel tuo sguardo,
in questo amore
che da te si stacca come una frutta da un ramo.
Immobile di fronte a me, tu sarai il mio destino.
Io, invece, non sono niente.
Sono l'atteggiamento mirante di tutte le cose
che verso te convergono e da te si allontanano.
Sono il cerchio stretto di muschi che circonda
la gloria del roseto che esplode,
o il nastro del fiume moltiplicato in gocce
in ogni pietra delle montagne.
Donna, inutile il desiderio
ed inutili tutte le parole.
Cambi come il dolore nel minuto,
come la luce nell'acqua.
Guardami molto
negli occhi aperti che chiuderò domani
per conservare in essi il tuo sguardo
contro l’acquazzone del tempo
che piove sempre lacrime!
Dionysos, num. I, Santiago, dicembre 1923.
[Goccia di canto, ape di silenzio]
Goccia di canto, ape di silenzio,
bicchiere di poesia, cuore di spiga,
getto nelle tue braccia tutto quello che ho,
rosa di pane, infiltrazione di allegria.
Vapore di orto, colombaia di sogni,
pausa di estuario, campana battuta,
mi hai consegnato tutto quello che hai,
creta di aroma, ala di rondine.
Probabili quartine di un sonetto incompleto che
suppongo scritte in Porto Saavedra, estate 1924.
Facsimile in CMR, in NJV = CYP ed in PAR.
Un vecchio muro
La pioggia del cielo, il muschio della terra, la solitudine degli uomini, scrissero nella tua fronte segni polverosi, segni di morte, cicatrici di assenza. Dietro te morirono gli uomini e tacquero le voci umane. Di notte scricchiolavano i vecchi pluviali, cadevano le tavole marce, si scioglievano le tegole consumate, tutto correva a sterminarsi in un'oppressione incontenibile. Roditori gialli, ragni di straccio, pipistrelli riservati, ah!, voi, i padroni di quella fucina notturna, come martellavate, come mordevate, come annichilivate quella rovina immobile, bocciata nel tempo per la fatalità dei propositi. Abbattuto il tetto orgoglioso, cancellato il limite delle stanze, tutti si immerge nella terra, e sopra ai mattoni crudi il foraggio danza e divora. Ma tu rimani, vecchio muro, fermo ancora su quella confusa quiete e su quel tenace sterminio. La pioggia del cielo, il muschio della terra, la solitudine degli uomini, ti intimidirono e forgiarono la tua triste bellezza. Sei fatto di quello che non esiste, dei mattoni crudi caduti, delle porte che ti mancano, dell'ombra divisa in te in grosse rughe, della prodiga luce che decora in cinabri fuggitivi. Hai un albero amaro come un crocifisso, ai tuoi piedi. Stanco viso da vecchio, medaglia sgretolata e rettangolare, un maleficio oscuro scacciò gli uccelli e perfino le foglie che strappa il vento dall'autunno si allontanano da te, licenziate per un sortilegio di abbandono. Solo io, povero, vagabondo ed abbandonato, ho riposato alla tua ombra e ho registrato date e nomi tra le tue crepe, con le mie mani pieni di speranze. Nella tua distruzione, nel tuo mutismo, nella tua immobilità sventurata, trovano rifugio i miei aspri sonni, le mie sanguinanti allegrie. Dietro le tue porte sconquassate, non ci sono stanze che mi imprigionino, né sentieri che mi guidino. Appari inutile, perché niente aspetti, ed all'improvviso accogli l'invasione dei miei pensieri. Al tuo fianco passano senza trattenersi gli sguardi umani, perché hai l'apparenza di quello che non esiste. Circondati di spettacoli meravigliosi, gli occhi cercano sempre quello che non riescono a vedere. Ma io, aiutato per una vecchia grazia di meditazione e di angoscia, ti faccio emergere, vecchia parete abbandonata, tra le cose meravigliose, ed alla tua ombra di morte, intreccio e sciolgo, il gomitolo del mio cuore disperato.
Zig-Zag, num. 5199, Santiago, 12.4.1924.
Il fumo
EL HUMO. (Pagine 298-299.) Afferrare la cosa reale quotidianA ma a distanza della modulazione post-naturalista, tale è la novità della "avanguardia" nerudiana. Neruda si sta avvicinando al linguaggio di Residencia.
A volte mi raggiunge il desiderio di parlare un po', senza poema, con le frasi mediocri in cui esiste questa realtà, dell'angolo di strada, orizzonte e cielo che scruto all'imbrunire, dall'alta finestra dove sto pensando sempre. Desiderio, senza nessun senso universale, legatura primaria che è necessario allungare per sentirsi vivo, vicino alla più alta finestra, nel solitario imbrunire.
Dire, per esempio, che la strada polverosa mi sembra un canale di terre immobili, senza potere di riflesso, definitivamente taciturna.
Le grandi nebbie invadono di fumo l'aria ferma, e la luna spuntata da quel bordo gocciola grosse uve di sangue.
La prima luce si accende nel postribolo dell'angolo, ogni pomeriggio. Esce sempre al marciapiede il finocchio della casa, un adolescente debole e preoccupato sotto al suo spolverino di canapina. Il finocchio ride ad ogni momento, emette acute grida, e sta facendo sempre qualcosa, col piumino o piegando alcuni vestiti o pulendo con una scopa le spazzature dell'entrata. In tale modo che le prostitute escono ad affacciarsi pigramente alla porta, spuntano la testa, tornano ad entrare, mentre il povero finocchio sempre sta ridendo o pulendo con un piumino o preoccupato per i vetri della finestra. Quei vetri devono essere neri di terra.
Io, guardando queste piccole azioni, posso stare con l'anima in viaggio: Isabel aveva la voce triste, o tentando di ricordare, per esempio, in che mese venni al paese. Ah, che giorni logori nella mia mano estesa! Solo voi lo sapete, scarpe mie, letto mio, finestra mia, solo voi. Forse mi credono morto. Camminando, camminando, pensando. Piove, ah il mio Dio! Benché supponga che un cane debole ed acciaccato attraversi annusando e pisciando lentamente per il bordo delle case, quello cane è esatto e reale, e non cambierà mai la sua camminata immaginaria.
Sembra che sia forzoso mettere un po' di musica tra quelle lettere che tiro a caso sulla carta. Indispensabile fisarmonica, scala di ubriachi che a volte inciampano. Ma anche un organetto che fa girare i suoi grossi valzer sopra ai tetti.
Anche ora mi sembra lei quella che viene, ma ora, per cosa verrebbe? Ululano i levrieri del campo. Che lunga corrida di eucaliptus paurosi, neri e paurosi!
Ricordarla è come se seppellissi il mio cuore nell'acqua. Anche ora mi sembra lei, ma a per cosa verrebbe ora? Ah che giorni tristi! Mi stenderò un'altra volta sul letto, non voglio guardare un'altra volta questa prospettiva umida. I tuoi occhi: due sonnolenti tazze annerite con maquis della selva. Nella selva che foglia di rampicante bianco, fragrante, pesante, ti avrei portato. Tutto si allontana da questa solitudine forgiata a forza di pioggia e pensiero. Padrone della mia esistenza profonda, limito ed estendo il mio potere sulle cose. E dopo tutto, una finestra, un cielo di fumo, insomma, non ho niente.
Carretti passano barcollando, risuonando, trascinando. La gente scarabocchia camminando figure sul suolo. Illumina una voce dietro a quella finestra. Sigarette accese tra l'ombra. Chi batte con tanta fretta nella casa di sotto? La montagna del fondo, ombrosa cintura che stringe la notte. Niente più fatale che quel colpo alla porta, dopo i passi che salgono la mia povera scala: qualcuno mi viene a vedere. Allora scrivo con difficoltà: la notte, come un albero, ha nelle mie radici, tenebrose radici. Aggrovigliato di frutti ardendo, sopra, sopra il fogliame, tappezzando la luna.
Povero, povero campanaro, che scacci la solitudine a colpi e batacchio. Il rintocco buca l'aria e cade velocemente. e rimane solo, arrampicato alle tue campane, lassù.
Claridad, num. 122, Santiago, giugno 1924.
Poemi di Lorenzo Rivas [1]
POEMAS DE LORENZO RIVAS [1]. (Pagine 300-301.) Tentativo in direzione ad alleggerire, dimagrire, essenzializzare il linguaggio, come volendo fare compatibili l'avanguardia e il mondonovismo ancora vigente. Tentativo di abbandonare l'ambito protetto dei sonni (coordinate Notte-Sud) per riprendere contatto con la realtà diurna, col mondo esterno, attraverso una deliberata prosaicità espressiva. - Neruda sembra proporre in Lorenzo Rivas il suo alter ego in quanto poeta, come Florencio Rivas è l'alter ego del narratore-protagonista in El abitante y su esperanza.
VIADOTTO
Lì corre
acqua tra pietre partite.
Trapezio della notte.
Tutto di triangoli e di vertebre affonda
la sua tenaglia di ferro in due smeraldi immensi.
Treno di giocattolo, a volte,
soffiano gli uccelli.
Lì sotto nuvole.
Vacche di olio.
A mezzanotte
in fretta, camminò verso il Nord.
Verso là, dove c'è una croce
ammazzarono Lonconao, ladro di animali.
REPUBBLICA
In qualche modo farò il tuo elogio.
Camminando per la costa
o comprando frutta recenti.
Quando l'ombra si arrampica sul continente
vermi di luce errante indeboliscono la tua testa.
Patria, parola triste
come "termometro" o "ascensore."
Qualche giorno, sazia di uccelli,
fosti il terreno di grazia,
cordigliera di parole morte.
Il mare batte dappertutto.
Tutta una famiglia di visita.
STORIA DI AMORE
Scrivo cose d’amore senza letteratura
per Inés Arellano che vive nel Sud.
Trecce di inchiostro, mancanze di ortografia:
sembra che mi voglia.
C'è un fiume nella notte,
fiume che corre come una domanda.
Ella, occhi tanto neri,
tesse il mio nome con acqua di pioggia
per guardare attraverso le cose.
Vive in una conceria dei suoi fratelli.
Per parlare della mia vita è necessario
mettere ogni momento un lampione rosso.
Claridad, num. 125, Santiago, settembre di 1924.
Panorama del Sud
VIAGGI
Una stella corse dietro il treno, tutta la notte. Abbottonata al cielo, il caso della strada, i cespugli, i paesi, i ponti, la nascondevano.
E lì quel diamante sorge ogni volta nell'orizzonte di ombra. Attraverso la notte, a scossoni, corre il treno alla inseguimento dell'aurora. È il campo senza nessuno, senza niente, nella distanza desolata.
Punti di luce, a volte si spengono, riappaiono. Nei vetri del vagone l'aspetto del viaggiatore scruta l’ignoto. Improvvisamente il treno si incrocia in una stazione con l’alba livida. Vacilla ancora l'ombra, ma il giorno, uccello di rugiada, si alza dall'erba.
ATTRAZIONE DI LA CITTÀ
Cioè la bandiera del giorno ondulando su soffitti scarsi. Allegria commovente, luce di meli bianchi, cielo pilotato da bollettini allegri. Linea ferrea attraversa la mattina, perdendosi nella stessa direzione della vita. Verso là tutto, tutto il paesaggio si incammina. Le case aprono verso quel lato le loro finestre, verso là gli alberi fanno segni. Anch’io ho gli occhi messi in quella lontananza, e continuo a camminare con fretta, come volendo partire. È la direzione della città, ed il vento torce le banderuole, ed il desiderio dirige le rotaie verso quello punto confuso dalla distanza. Case piccole, di tende azzurre, bisogna salutare sempre. Alloggiati solo in anni di riposo la speranza del viaggio. Tetto per rondini, letto per viaggiatori, chi designa nell'aria il cammino delle inquietudini? Si apre la porta ed il viaggiatore discende. Azzurreggiano le violette, ardono le meraviglie nell'orto, ma non ritorna, non ritorna ancora. Tutto corre verso le città, ogni speranza segnala l'orizzonte. Sterminando notizie dell'altro lato del mondo, gravita la solitudine sulle cose.
Buon tempo, allegria di sole, fuggitiva allegria. Ti assalta anche la nostalgia, e fuggi, errante, nella direzione della vita.
VOLANTINO
VOLANTÍN. POESÍA DEL VOLANTÍN. (Pagine 302-304.) Il Secondo testo è uno sviluppo o elaborazione del primo. Ogni tanto i testi permettono che ci affacciamo al laboratorio del giovane Neruda.
Volantino dei bambini, alto sui paesi, oltre le campane.
Tulipano di carta, individuo con fumo, decori l'azzurro ardendo:
E come voli, grave ed audace, come ammalandoti.
Padre della freccia, non ti spaventano le colombe e ti fermi sopra al tuo arco gioioso.
Vento felice, gonfi la corda che sostiene il giocattolo ed aiuti ad innalzare questi fragili sonni.
Farfalla disgraziata, condotta per il vento, attratta dal filo.
Goccia di colore, fiore simulato, entusiasmo dei miei occhi.
Verso da dove proviene il suono dalle campane, verso da dove la mia amica sta col suo triste sorriso, o più in là ancora, dove nessuno mi aspetta.
Lontano, lontano ed ardendo, alto sui paesi, lontano, lontano ancora.
Voli, fiore di carta, sostenuta con fumo, nel cielo affrettato.
El Mercurio, Santiago, 19.10.1924.
Poesia del volantino
Volantino dei bambini, alto sui paesi, designi la tua salita.
Tulipano di carta, individuo con fumo, cadi verso l'est.
Portai sulla collina orlando il cielo.
Ah, più libero della mia anima, errante, solo.
Passai l'inverno dietro una finestra
ed un sole di rugiada improvvisamente si fermò nell'erba.
Da un'altra parte, delle città, lontano, lontano da qui.
Tuttavia, orlando il cielo, sorgesti nella collina.
Balli, grave ed audace, come ammalandoti.
Fratello della freccia, spaventi le api e ti arrampichi al tuo arco di filo.
Vento, vento senza presenza, tendi la corda che sostiene il giocattolo ed innalzi quella fragile allegria.
Farfalla senza fortuna, vacillante innanzitutto.
Pubblichi la primavera più in alto dei meli bianchi.
Goccia di colore, fiore simulato, entusiasmo di tutto.
Io gridai sulla collina, fuggivo lontano verso da dove proviene il rintocco,
dove
la mia amica sta col suo triste sorriso.
O più in là ancora, perché nessuno mi aspetta.
Vieni da lontano, cuore mio, e ti allontani ancora.
Ti guardo, ingarbugliato nell'erba, guardando verso i boschi e non ti riconosco.
Qui giochi, apri il tuo abbandono in ventaglio.
Tuttavia, accesa la luce, e la mano nella fronte,
per che motivo dire: "questo fu così", "questo è morto".
È che rinasce tra cicatrici la radice sepolta.
A chi appartiene il bianco vento? gridai solo nel bosco.
Triste, libero di tutti, difendesti la tua anima.
Tristezza perché dirlo, e fuggire, fuggire sempre.
Ti associo, compagna,
mia donna dolce.
Era, senza dubbio, quella che il vento voleva trascinare
dietro la sua slitta, tra farfalle defunte.
Lontano dalla collina, intercettando cielo, all'improvviso vacilli.
Lontano, lontano ed ardi alto sugli alberi.
Tulipano di carta, sostenuto con fumo nel vento affrettato
giri tra i suoi aspi pesanti di silenzio.
Atenea, anno I, num. 10, Concepción ,
Cile, dicembre 1924.
Poemi di Lorenzo Rivas [2]
SOLITUDINE DI LORENZO
SOLEDAD DE LORENZO. (Pagine 304-305.) L’espressione "Mi Browning enlutada" allude ad una macchina fotografica a forma di scatola nera, molto diffusa allora
A grandi grida estinguo
il sole affinché si metta in moto.
Clown dalla spina dorsale verde, montagna del sud,
incurva il suo omaggio irsuto di bicchieri verdi.
Metto una stella, formo una croce,
camminando in segreto nella punta dei roveri.
Il mio Browning a lutto insegue il giorno d’argento.
Tronchi marci, grandi cuciture fisse,
ed il soffice volo degli uccelli repentini.
Con nessuno devo fare, a niente mi sono legato.
Annuso appena il foraggio, e le croste degli alberi umidi
soffiano i loro odori chiari come suoni.
Attraversando spade il vento china i rami
e mi entra per sotto, dal pene fino al petto.
ALTEZZA DI SELVA OSCURA
C’è tra tutti un paese.
Che coraggio di dire storie che a nessuno importano.
Fermo sul bordo di una linea ferrea,
uomini, pietre, pecore, ed una direttrice di scuola.
Inoltre i finanzieri.
La strada come dormendo sotto il casale,
nessuno si pente di avere vissuto qui.
Nella notte ritornando alla mia cantina
inciampo con venti ubriachi e nelle tasche
alcuni lucciole.
INDIVIDUO INNAMORATO
Saluto alla mia fidanzata, sciocca come un libro,
e ci sediamo a tavola.
Compagno, chi tu sia, vieni a vedere la mia esistenza
e comprendi quello che vale un uomo.
Ella è seduta e, essendo trasparente,
l'ovest balla tra acque ebbre.
Personaggi sonnambuli sostengono lo specchio
che bambini senza nome rompono a colpi di pietra.
Ella è seduta nella sua sedia di vimini
e con l'orecchio, a volte, copre l'angoscia del mondo.
Selva Oscura, 1924
Claridad, num. 129, Santiago, gennaio 1925.
Vignette di lutto
VIÑETAS DE LUTO: SOLEDAD DEL OTOÑO. (Pagine 306-307.) Questa prosa, perdendo il titolo, sarà il frammento IX (intermedio lírico) di El abitante y su esperanza.
OCEANO
Come mi costò adattarmi, non vederti per niente, ed apparve l'autunno nell'angolo del tuo paese. Le foglie rompendosi segnalano le date dell'abbandono. Triste, triste è la solitudine. Nella porta tu, bambola dagli occhi rotondi. Navi di minerali doloranti, fiore azzurro albeggiati tra braccialetti e resti di naufragio. Bene, da lontano ti lancio la mia ansietà, preparata con cinture difficili, voglio che ti sorprenda, quando esca la bambina col suo fidanzato, di fianco a lui saremo fissamente interessati. Tra noi due un itinerario attraversato da semine e strade, mi ricordo di te. A volte ti era apparso qualcosa dietro gli occhi come un viso incollato ai vetri in una casa sola. Mi ricordo di te, sei olmi rinchiudono le tue dita in quello vicolo ombroso. Incantatrice come una stella o un triangolo, lavori senza dubbio nel metter i loro nome ai giorni,
Nella mattina, quando il sonno diventa denso, si attacca ai vetri un treno di rose di villaggio, un treno che arriva dai campi, ed il cui fumo paralizza il latrato delle migliaia di cani. Viene dai campi e rimane lì trattenuto nella finestra tutta la mattina notturna, col suo odore di rose delle strade.
SOLITUDINE DELL'AUTUNNO
Con gran passione le foglie si trascinano lamentando, gli uccelli si lasciano cadere dalle alte voliere e ruotano rumorosi fino al pallido tramonto, dove stingono lievemente, ed esiste per tutta la terra un grave odore di spade polverose, un profumo senza riposo che fatto una massa per intero sta galleggiando rovesciata tra i lunghi diritti alberi come un animale grigio, pelato, dalle ali lente. Oh animale dell'autunno, fatto di disfatte farfalle con odore di polvere della terra che si nota ancora silenzioso nella notte che sale dei buchi coprendolo tutto col suo manto incessante.
Di pomeriggio è un bocciolo freddo da dove come scuri fiori emergono ombre, passano carrozze triturando il giallo delle foglie, giallo livido di cadute morte che trascinano fragili biancherie intime, coppie inclinate in loro stesse che passano barcollando come campane, dirigendosi verso quella direzione in cui una carta da gioco di metallo in monete emerge sulla parete. Autunno spaventato, viavai di cose senza rumore che annusandosi si divertono, in quella maniera irriducibile per la quale il cieco conosce il velluto e la bestia si sottomette alla notte.
Perfino inchiodato implacabilmente nell'atmosfera che circonda le costellazioni, circola come un anello lungo gettando al vento solitudini, frantumi di illusioni, quelle non già definitivamente perdute, perché sono quelle che il vento può scuotere, lasciare cadere a sferzate, galleggiare in mezzo ai mucchi di foglie rotte, sprofondare nel profondo dei patii disabitati, delle camere da letto troppo grandi, arrivando a tutto inondandolo e a stabilirsi come non si può dire che composizione misteriosa negli specchi, negli assiderati ragni di luce, nelle frange delle stanche poltrone, ahi perché tutto quello vuole ristabilirsi verso la sua vera, ignorata vita segreta ed a ritornare senza sentirsi troppo morto.
Atenea, anno III, num. 3, Concepción,
Cile, maggio 1926.
Vicinanza delle sue palpebre
Le tue palpebre di leghe ho dovuto percorrere.
Esse hanno il sintomo, la portata pura.
Tra esse come il corpo tra le lenzuola
Si alimenta un cresciuto esercizio di fulgore.
Avvicinandosi fino al punto di ruotare
fino all'erba nelle cui dita crescono la rugiada,
di dolore e lutto rimasti sul bordo degli occhi
come sentinelle nell'ombra dell'aurora, silenziosi,
oscuri, con colore di campane che il vento ha perduto
da un estremo ad un altro dell'estate sta il nostro sonno.
Avvicinate le vostre uve al mio cieco
quando il vostro minerale di maiolica vuole piangere
e state come due vedove dopo la guerra
sedute nella luce con pianto nelle dita.
Da ogni parti arriva il colore del cielo.
Le tue palpebre conservano la forza del giorno. Incrociano
le rondini volando verso l'alto.
Atenea, anno IV, num. 4, Concepción,
Cile, giugno 1927.
II
CRONACHE E NOTE
Sachka/I libri [1]
SACHKA / LOS LIBROS [1] - [2]. (Pagine 309-313.) Il frammenti "Propósito" e "Poemas del hombre: libros del corazón, de la voluntad, del tiempo y del mar, di Carlos Sabat Ercasty" suppongono confusione tipografica e parziale ripetizione di "le stesse parole [che] si incrociavano in distinte reti", come spiega l'autore nel frammento "Esto en la palabras" (Questo delle parole). Attenzione alla parola "Propósito" che, consociata alla poesia di Sabat Ercasty, insinua il progetto Hondero. Lo conferma l’espressione "la frecciata scintillante" che evoca il simile e recente "il mio cuore prepara l'ubiqua frecciata" citata più su nella mia nota a "La vida lejana [II]" "El cazador de recuerdos." Ricordo che il personaggio dell'anelato libro andava a chiamarsi el Flechero (Arciere) entusiasta prima di diventare Hondero (Fromboliere) (vedere la mia nota al poema 4 di HOE in OCGC) vol. I, p. 1141. - Cifuentes Sepúlveda: vedere più sopra sulla mia nota al testo "A los poetas de Chile."
PROPOSITO
Percorriamo a poco a poco questa fiamma che c'attraversa: ella continua a barcollare fino ad illuminare zone totali ed ombrose. Insicura: chi detta e chi guida? La parola che emerge dall'oscurità di tutti gli elementi? Ritardata: fino a dove si proietta questa sfrenata fuga di limiti e che mano minuziosa continuerà la sua tormentosa elaborazione se non c'è la campana che per lei si rompa nei campanari più lontani? Qualcosa come una corda piena di vibrazioni la percorre in vincoli di strepiti e musiche o la distende in abbandonata languidezza. È quello, solo un rosario di parole attratte dalla lontananza dei suoi meditatori, fino a questa pressione, che la comprime e l'amplifica in file di versi, chinati scavatori dell’infinito. Arriva alla rigidità: è l'innumerabile coro delle allegrie degli oceani o la disarticolazione di tutte le domande di fronte al muro fatale. O è la contorsione del pensiero nelle altezze ed il viavai delle parole, riverberando come razzi fantasmi. Tutto sotto la pressione di un'attiva coscienza di analitico stampo esperto degli elementi primi della ragione e dell'enigma. In realtà è gran cosa questo uruguaiano. Niente di questi poeti branditi dal Cile. Egli si è lanciato e bruciacchiandosi le dita modella fessure in metalli ardenti. Egli è la tromba della vittoria, il canto che divide le tenebre, e la frecciata scintillante che perfora il dimenticato cuore della Sfinge.
WALT WHITMAN SECONDO TORRES RIOSECO
Cioè la predica di un ideale ginnasta per i poeti. L'apprendistato della vitalità nelle energie che scoppiano, la dimenticanza delle vecchie cantilene sotto la nuvola di fumo del paese venturo, consiglia anche - Marinetti lo faceva - ammazzare il chiaro di luna. Parole perdute! Ogni poeta canterà quello che vuole, senza fare caso ai precetti igienici. Perché ognuno per cantare deve situarsi come Adamo: credersi il primo scopritore delle cose ed il suo primo padrone consegnandogli nomini. Porta questa libro animazione da parte di questo araucano propagandista che è A. Torres Rioseco, e belle parole dell'uomo di Camdem, versate per la prima volta in un castigliano degno del quale le scrivesse in inglese.
LA ROMANTICA STORIA DI SARCHIA POGODIN,
CONTATA DA LEÓNIDAS ANDRÉIEV
È da molto tempo che leggemmo questo libro. Ci fece piangere in qualunque ora lontana la leggenda dal bambino Yegúlev che si fece brigante nelle terre della Russia. Ricordiamo ancora la sua infanzia nell'ombrosa casa di sua madre, Ellenico Petrovna, "che aveva grandi occhi neri, come circondati di ceneri spente, ma scalda ancora." Venne dopo Kolésnikov, il predicatore, inviato dello sconosciuto, che doveva trascinare a Sarchia Pogodin al sacrificio.
Poi - ricordo ancora - il vento nero di tragedia che passò con quell'orda di uomini selvatici, quando il pallido bambino Yegúlev li conduceva. Fu più tardi la caverna nascosta, e Yegúlev, le mani nella fronte, ascoltava la tremante lacrima della balalaika. O la morte del marinaio, su una rotta di indemoniati, mentre si perdeva al galoppo dei camerata in fuga. Così fu Sacha Pogodin. "Triste e tenero, amato da tutti a causa della sua bellezza e della purezza dei suoi pensieri, alcune labbra assetate bevvero il suo sangue, e perì molto giovane, di una morte solitaria e terribile."
Claridad, num. 86, Santiago, 5.5.1923.
Sachka/I libri [2]
"POEMI DELL'UOMO: LIBRI DEL CUORE,
DELLA VOLONTÀ, DEL TEMPO E DEL MARE",
DI CARLOS SABAT ERCASTY
Carlos Sabat è un gran fiume di forze espressive. Le incatena in atletiche successioni, le arrotola in risacche invaditrici, le precipita in diafane collane di sillabe. Prima di lui chi, nei nostri paesi, raccolse queste vittoriose scosse del singhiozzo, queste eroiche guerre dell'ancestrale, chi, prima di Sabat, si dibatté con più delicatezza tra le fiammate e le ombrosità dell'infinito del passato e del futuro? Possessore della musica più attesa, quella dell'idea. Guardiamo come, senza smettere di essere canto, ella rimescola la sua carovana disperata fino a schiantarsi nell'espressione, che la comprime e l'amplifica in file di versi, chinati scavatori dell’infinito. Arriva alla rigidità: è l'innumerabile coro delle allegrie degli oceani o la disarticolazione di tutte le domande di fronte al muro fatale. O è la contorsione del pensiero nelle altezze ed nel viavai delle parole, che riverberano come razzi spettrali.
Ogni sotto la pressione di un'attiva coscienza di analitico, stampo esperto degli elementi primari della ragione e dell'enigma. In realtà è gran cosa questo uruguaiano. Niente di questi poeti branditi dal Cile. Egli si è lanciato e scottandosi le dita modella figure in metalli ardenti. Egli è la tromba della vittoria, il canto che divide le tenebre, e la frecciata scintillante che perfora il dimenticato cuore della Sfinge.
QUESTO DELLE PAROLE
O la linotipia sbagliata potremmo chiamare a questa meditazione di adesso. Perché qualcuno noterà la ripetizione dei commenti anteriori portati qui di nuovo per una deplorevole abitudine dello stampatore di linoleum. Erano, senza dubbio, le stesse parole. Ma si incrociavano in distinte reti e saltavano in posizioni diverse al suo stimolatore. Ora, di nuovo attratte al fuoco di due occhi strani, passano nelle loro primitive file e soffrono la punizione di essere di nuovo meditate per essere dimenticate un'altra volta. Senza dubbio, a Sachka alcuno inquietudine causerebbe il suo disordine: ma egli pensa che in esse non riuscirono a stare propositi e meditazioni che fuggirono come onde agitate al voler sorprenderli. Il mio impegno è fermarle, ed è qui che oscure forze dominatrici le fanno emergere e rilucere come inanellate al dominio delle fatalità. Il mio impegno è spingerli, e guardate come torcono per vecchie carrozzabili e si annodano ai ricordi ed ai pensieri inesprimibili. Sigillate da gole sconosciute portano in grembo e deformano i suoi contorni passando come monete tra prodighe o avare dita. Androvar amava paragonarli con vecchie vesti che conservano ancora l'orma dei suoi primi padroni. Un altro li immaginò bicchieri assetati, e ci fu ancora uno straniero che li sentì grate in cui i suoi impulsi ed i suoi vestiti sbattevano. Ma - monete fugaci, o calici, o grate o vestiti oppressori - per tutti danzarono, per tutti arsero e da tutte le labbra io le ho viste continuare a discendere fino allo stesso orecchio dalla dimenticanza.
"LA TORRE": L'ACCENTO VAGANTE DI ALCUNI POESIE DI CIFUENTES SEPÚLVEDA
Allora sembra come se fosse a staccarsi da qualche parte il verso e fosse a cadere da dove stava. Improvvisamente lo seguono e lo continuano nuovi torrenti tremanti che si abbandonano. Si precipitano per i pendii lamentandosi e gridando come fluenti di sangue e vertebre. Si disturbano e si capiscono nel disperato esodo che gli manifesta. È la fuga degli oggetti che rotolando si rompono, e lo scontro di una mano tremula che si ferì raggiungendoli. A volte sembra che ostili voci si affollino dietro ogni verso, e è solo il fondo rimosso degli echi che si svegliano e si perseguono.
Il mio amico, il silenzioso Zoemir Araiz, crede scoperta dal poeta una novità e difficile forma: il "terzetto rotolante"!!
"DESOLAZIONE", POEMI DI GABRIELA MISTRAL
Uniscono a Gabriella in questo libro - stampato negli Stati Uniti - quasi tutti i poemi che conoscevamo, ed altri meno colti. Rosario tormentoso, le dita di lei hanno lasciato nei suoi conti, orme che solo le sue dita poterono imprimere. Di Gabriella dice Araiz che gli palpitano i versi, cosa che tutti dicono del cuore.
UN ALTRO LIBRO DI VERSI
Questi giocatori di bussolotto mettono la loro intenzione come un dado dentro alla strofa, e li rimescolano e li mescolano le carte, "per farle suonare".
Claridad, num. 87, Santiago, 12.5.1923.
La bontà
LA BONTAD. (Pagine 313-314.) Il volontarismo del nietszchiano Hondero impone questa critica - significativamente sfumata - dell'ideologia della bontà che aveva ispirato poemi di Neftalí Reyes nei suoi quaderni e negli inizi di Crepusculario.
Induriamo la bontà, amici. Ella è anche buona, la coltellata che fa saltare il rodimento ed i vermi; è anche buona la fiamma nelle selve che si incendiano affinché spacchino la terra gli aratri buoni.
Induriamo la nostra bontà, amici. Non c'è oramai pusillanime dagli occhi annacquati e parole soffici, non c'è oramai cretino dalla sotterrata intenzione e gesto accondiscendente che non porti la bontà, per voi concessa, come una porta chiusa ad ogni penetrazione del nostro esame. Vedete che necessitiamo siano chiamati buoni quelli dal retto cuore, e non i piegati, ed i [non] sottomessi.
Vedete che la parola continua a diventare accogliente delle più vili complicità, e confessate che la bontà delle vostre parole fu sempre - o quasi sempre - bugiarda. Qualche volta bisogna smettere di mentire poiché, in fin dei conti, solo da noi dipendiamo e stiamo rimordendoci sempre solo della nostra falsità, e vivendo così rinchiusi in noi stessi tra le pareti della nostra astuta stupidità. I buoni saranno quelli che più velocemente si liberino da questa bugia spaventosa e sappiano dire la loro bontà indurita contro tutto quello che se la meriti. Bontà che va, non con qualcuno, bensì contro qualcuno. Bontà che non manipola, né lecca, ma che sviscera e litiga perché è l'arma stessa della vita.
E così solo saranno chiamati buoni quelli dal retto cuore, non i piegati, gli insubordinati, i migliori. Essi rivendicheranno la bontà marcita da tanta bassezza, essi saranno il braccio della vita ed i ricchi di spirito. E di essi, solo di essi, sarà il regno della terra.
Claridad, num. 92, Santiago, 16.6.1923.
Sachka/I libri [3]
SACHKA / LOS LIBROS [3]: LAS EXTRAÑAS HISTORIAS DE MAR-CEL SCHWOB. AMIGOS, NO OS ES POSIBLE. (Pagine 314-316.) Due testi di Schwob, «La ciudad durmiente» y «El incendio terrestre», furono tradotti da Neruda nel 1923 per i numeri 953 e 974 della rivista Zig-Zag di Santiago. - Llenáis de signos débiles vuestros minutos (Riempite di segni deboli i vostri minuti): testo di consumo personale: il poeta, mascherato per gli abituali amici, si autoinfonde valore per produrre i segni forti che gli reclama il progetto Hondero. Le linee finali del frammento sono esplicite in tale direzione: " se cimbra en la noche una honda atrevida (si agita nella notte una fionda audace)", " las hondas valientes, las piedras que ascienden (le fionde coraggiose, le pietre che ascendono)".
"LA PUERTA" DI RUBÉN AZOCAR. "BARCO EBRIO” DI SALVADOR REYES.
Ecco qui due libri paralleli. C'è qui una stessa inquietudine portata ad un stesso incrocio di strade, fino al necessario vertice in cui si allontanano le sue differenze. Se per l'uno corre un'alata separazione delle cose di qui, e sono velature e graffiate sartie i suoi simboli, corre per l'altro un oscuro senso delle cose usuali, figurato e definito nel nervoso verso che appartiene ad ambedue. Al che maggiori virtù proteggono, più grandi difetti riducono. Dico di La puerta che è il più profondo dei due. Azocar sorprende più apertamente il gesto tragico della vita; io so che dietro tutto risplendono i segni della poesia, e chi rivela solo le cose più nascoste sarà chi le rivela tutte. Reyes è più inquieto dell'altro nel tema e nella parola. Orizzonte di mare e scelte frasi di indolenza ed eleganza. Più leggero, forse, più sorprendente: le sue figure eccellono in ogni verso spiano nei fine di strofa, saltano agli occhi, corrono. Maggiore arte, in questo, della sistemazione, maggiore sforzo nell'altro e maggiore sete dell'acqua delle cose trascendenti, di quell'acqua che inumidendo eternizza.
Anche dei due dico questo: che manca in essi il gran vento che scuote e lacera l'ultima radice ed il più nascosto proposito. Il gran battito, il vasto impulso, il numero che integra le dimensioni permanenti. C'è un atomo eroico che col suo presenza ritorno e turba il midollo dell'arte, c'è un elemento titanico che muove sulla nostra opera oscure grandi ali che non ubbidiscono ai nostri desideri infiniti e che tuttavia lasciano la sua orma di ali sulla nostra opera oscura. Di questo irraggiungibile elemento non comunicano questi due libri. Ambedue camminano per sentieri angusti. Raggiungono la loro fine, possiedono la loro chiave, seppelliscono le loro frecce, ambedue. Ma se romba un tuono, benché lontano, giriamo la testa.
LE STRANE STORIE DI MARCEL SCHWOB
Terra piena di fiori stranieri, fiumi strani seppelliti nell'altro tempo, Marcel Schwob, che carico indeciso e pieno apportasti all'Eternità. Leggo le tue storie, sigillate dalla tua mano allucinata, e ti seguo attraverso il tuo pensiero che attraversa le età e raccoglie i fatti singolari. È la Ciudad Durmiente (Città Addormentata), coi suoi pallidi mercanti assorti in un sonno di pietra: è il capitano del Pabellón Negro (Padiglione Nero), errante come nessuno e come voi; è la storia della creatura Moflía "quella che sta e sparisce", o sono i chiari mimi, hantés dell'illusione greca e pieni di profumi e di oli balsami. E così è piena la pagina che ci trasmettesti, di numeri cancellati e di effigie auree.
Da questo pezzo di terra che tu non conoscesti seguo, Marcel Schwob, la tua strada finita; ed affinché nella morte lo trovi tiro verso il cielo, nel tuo omaggio, il rosario di conti bianchi che dimenticò Arabella nelle mie mani, l'ultima domenica.
"SERENAMENTE", VERSI DI FERNANDO MIRTO
Capisco che sta cominciando.
"EL SILBAR DEL PAYASO. (“IL FISCHIARE DEL PAGLIACCIO.") POEMI DI MARIO CHÁVEZ. PERÙ
Verso ansioso di nuove forme ma atrocemente scolorito e senza tormento. Non mi piace.
AMICI, NON VI È POSSIBILE...
Amici, non vi è possibile concepire e regolare un'arte meno piena di piccolezza, una più grande nobiltà, non vi è possibile isolare le vostre inquietudini dalle vostre falsità ed attecchire sebbene solo per una volta nella nascosta bocca del solco primo? È la notte, amici: vapori neri ascendono delle chiusure addormentate, fuggono a volte le stelle, ed i vostri cuori, oh amici, sentono passare sopra di loro i piedi e le ali del silenzio. Tutto sarà perduto, tutto, notte, stelle, lontane colline, ombre infinite, tutto sarà perduto. Riempite di segni deboli i vostri minuti, intrattenete di risate giullari l'ora che corre, l'ora che non ritorna, e tutto, amici, tutto sarà perduto. Vedete, una mano si solleva, si scuote nella notte una fionda audace ed è qui che verso l'altezza vola e ruota e vacilla e porta sulla pietra che nell’oscurità elaborò un desiderio umano. Osate, amici, contenete anche gli impulsi effimeri; tagliate anche le legature che vi legano senza cause, e lanciate con me, le fionde coraggiose, le pietre che ascendano nel viaggio senza ritorno.
Claridad., num. 95, Santiago, 7.7.1923.
Miserabili!
MISERABLES! (Pagine 317-318.) Il titanismo esaltato e provocatorio che Neruda esibisce in questo periodo proviene da Sabat Ercasty (con "briciole di Nietzsche") e procede – in linea con testi precedenti come "La bontad" e "Amigos, no es posible..." - verso l’anelata apoteosi trionfante del Hondero che lo stesso Sabat Ercasty farà fallire, come si sa, con la sua famosa risposta a Neruda all'inizio di 1924.
Siamo dei miserabili... Giochiamo a vivere, tutti i giorni; tutti i giorni escono al sole le nostre pelli, spesse di quanta ignominia si trascina sotto il sole, maculati di tutte le lebbre della terra, stracciati a furia di strofinarsi alla porcheria circostante; disfatti, sterili, vani, di tanta ansietà insoddisfatta, di tanto sonno sacrificato. In quello pezzo giornaliero di esistenza, in quell'affacciarsi a ricevere la malvagità ed a restituirla, siamo interi, amici. Con la nostra viltà inutilmente rattoppata per i vecchi sogni eroici di altri uomini e di altri giorni. Con le nostre radici, affondate di fango, rimescolando il pantano e gli ossari, inutilmente coperti dal telone del cielo infinito.
Quello siamo, amici, e meno che quello. Che cosa abbiamo fatto della nostra vita, compagni? Schifo e lacrime, lacrime mi sommano alle domande, che cosa avete fatto delle vostre vite? Tutti, tutti, i più alti, i migliori, avete consentito tutti di annichilirvi mutuamente, come chi compie un compito, come chi lavora il suo destino. Vi ho visti a baciarvi, a mordervi, rodendovi, sporcandovi, rimpicciolendovi, sempre altrettanto grigi e bestiali. Alla mia fede che avete compiuto il compito, miserabili... Oramai non siete niente, oramai non potete essere più. Acqua che ritornò alla terra. Nuvola che la raffica fece cenere. Sterco che succhiò la radice. Quello che fu, quello che non poté essere senza l'aiuto di tutti, quello che venne dal niente ed andò via - oh amici! - senza uscire dal niente...
Ed io? Chi è questo che vi sfida, che purezza e che totalità sono le sue? Io, anche come voi. Come voi rimpicciolito, maculato, sporco, disfatto, colpevole. Come voi. C'inghiotte la stessa feroce gola, lo stesso mostro terribile. Ma, sentitemi, io devo liberarmi. Lo comprendete? Il salto verso l'altezza, il volo contro il cielo infinito, sarò io che lo faccio, e prima di voi. Prima di marcire mi dovrò essere un altro, trasformarmi, liberarmi. Voi potete seguire la fiera. Io no. Evito questo, strappo questi vestiti con cui mi conosceste fino ad ieri e pazzo di tempesta, ebbro di libertà, agitato da minacce, vi grido: Miserabili !
Claridad, num. 103, Santiago, 1.9.192?
Editorial de portada.
Figure nella notte silenziosa
L'infanzia dei poeti
FIGURAS EN LA NOCHE SILENCIOSA. LA INFANCIA DE LOS POETAS. (Pagine 318-319.) In contraddizione col titanismo di "Miserabiles!" (cioè, con l’ambiziosa rotta verso il Hondero) questa importante nota rappresenta nel 1923 l'oscura pressione di quell'opposta e sotterranea linea di scrittura che sboccherà nei Veinte poemas de amor. Neruda parafrasa liberamente gli autori che ha scelto. La fonte delle citazioni dell'italiano Giovanni Papini (1881-1956) è senza dubbio il volume autobiografico Un uomo finito (1912) il cui capitolo iniziale - "Un mezzo ritratto" - finisce così: "No, no: quello non é il ritratto di un bambino. Io vi ripeto che non ho avuto fanciullezza."(in italiano nel testo) Il libro di Papini, letto apparentemente in edizione italiana (prestata da Aliro Oyarzún?), ebbe sulla scrittura di Neruda una proiezione importante in quel periodo di transizione, oltre la sua evidente risonanza nel titolo Tentativa del hombre infinito (per dettagli rimetto a Loyola * 1986). - Del francese Octave Mirbeau (1848-1917), il riferimento implicito potrebbe essere il suo romanzo Sébastien Roch (1889). - Il paragrafo relativo ad Abraham Valdelomar (1888-1919) lo lascio con la forma di citazione che gli diede Neruda, benché a rigore fosse solo un sua rielaborazione di alcuni versi del sonetto "Tristitia" che qui riproduco per il suo interesse documentale:
La mia infanzia che fu dolce, serena, triste e sola
scorse nella pace di un villaggio lontano,
tra la mite rumore con cui muore un'onda
ed il suonare doloroso di una vecchia campana.
Mi dava il mare la nota della sua malinconia,
il cielo la serena quiete della sua bellezza,
i baci di mia madre una dolce allegria
e la morte del sole una vaga tristezza.
Nella mattina azzurra, al risveglio, sentivo
il canto delle onde come una melodia
e dopo il soffio denso, profumato, del mare.
Quello che egli mi diceva ancora nella mia anima persiste;
mio padre taceva e mia madre era triste
e l'allegria nessuno me la seppe insegnare...
La riserva è valida anche per le righe affezionate all'amico cileno Romeo Murga (1904-1925) i cui versi originali - che non riuscii a confrontare - con probabilità non coincidono esattamente con quelli che qui cita Neruda. - Un commento a questa nota di Neruda in Concha, pp. 22-25.
Ha quello povero e doloroso poeta lirico Giovanni Papini, un principio di libro, che racconta la sua infanzia, sconsolato e tristissimo. Guarda i suoi compagni, allegri ragazzi fiorentini, cerca e non trova il segreto di quelle allegrie. Li spia coi suoi seri occhi verdi, e separato da tutti è il suo giudice ed il suo nemico. Lo perseguono e lo maltrattano. In modo che l'allattò la solitudine della sua campagna coltivata toscana al bambino, e fino al fine della sua vita segna il suo cuore quell'infanzia sola e disperata, invasa di oscuri sogni, macchiata di inchiostro e di dolori. Poi sono i terribili accessi di quello bambino meditativo; i mesi di rodere biblioteche, le notti di lettura accanita che gli lasciano sciupati gli occhi per sempre... Ed in tutte le parti dove si posano i suoi gravi occhi di piccoli, rattristati, una cosa, una sola e terribile cosa: la solitudine. Oh, no! Io non sono stato bambino... No, egli non fu mai bambino: ignora quello paese quieto ed assopito da dove germogliamo. Giovanni Papini, triste poeta lirico, filosofo accanito e discontinuo, non fu mai bambino. lo vi ripeto che non ho avuto fanciullezza.
È una parola in Baudelaire che ritorno e ritorna di continuo: la solitudine. L'accompagna quella viaggiatrice allucinata e è la chimera che gli becca la schiena. Dall'infanzia leggo nel suo diario che l'ebbe sempre al suo fianco. "Sensazione di isolamento, da molto bambino, ancora tra i camerati." È il mosaico nero che riappare ad ogni guardata, la solitude esasperante, la radice umida che, sepolta nell'infanzia, solleva e sostiene il disgusto imperiale del dandy Charles.
Ci sono ancora i bambini di Octavio Mirbeau, prodigiosi giocattoli di un cattivo sonno, campane di nervi, infanti lacerati lunatici. Poeti tutti. Sensibili.
Vite perse in una trepidazione interminabile. Tormentati da genitori malvagi o ignoranti, vagano per le loro case immense, percorrono i parchi solitari, si ammalano di un'angosciosa necessità di soffrire, e vivono e muoiono bambini, tra la nebbia di quelli sordi romanzi di Mirbeau, dove, come un ritornello desolato, un bambino soffre: il poeta Mirbeau.
O è l'infanzia dei più giovani e vicini: quella del peruviano Valdelomar, serena, triste, sola / nel villaggio lontano I tra il rimore dell'onda / ed il suonare di una vecchia campana. / Egli, nella mattina azzurra sentiva, / al risveglio / il rumore, la canzone, la melodia, / del mare. / Quello che il mare gli disse nella sua vita persiste. / Sua madre era silenziosa I suo padre ero tanto triste! / e l'allegria nessuno gliela seppe insegnare.
Ora faccio germogliare della notte silenziosa un'ultima infanzia di un ultimo poeta. Quella di Romeo Murga quasi bambino ancora. Egli ricorda / la casa bianca, la madre che cuciva e stava zitta / e quello bambino solitario ed addormentato che io ero / attraversando in silenzio i pezzi imbruniti. È ancora la solitudine, la solitude, farfalla oscura che si posa sulle fronti di quelli neonati e fa loro giocare tutta la vita tra le sue due ali. Il mosaico nero che appare e riappare nelle loro vite che evoco in questa notte silenziosa. Attraverso i campi; vicino alle finestre dove cantano e singhiozzano le piogge australi; abbandonati nella secca campagna fiorentina; dimenticati nella Bretagna acre, nel Perù sonnolento, in Cile. Da tutte le parti è il bambino rattristato che non parla, l'uomo che ha da dirci più tardi, con la mano nella fronte, ricordando: no, io vi ripeto, non ho avuto fanciullezza...
Zig-Zag, num. 974, Santiago, 20.10.1923.
Saluto allo scultore Tótila Albert
Esseri di vertigine e spavento, creature senza nome, erette in una risacca incontenibile, figure magre ed assorte, linee inaspettate, furia, parossismo, irritazione: lo statuario ruppe tutti i suoi alvei ed assunse la sua più virtuale intenzione di fabbro di aneliti nudi di metalli o pietre. Tenace e poderosa mano che getta nella parete della notte il pezzo di desideri, il pezzo da dove saltano realizzati gli impulsi più liberi. Che quella è la guerra, tra l'ansia imponderabile che chiede azione ed alveo, ed il cuore inamovibile della terra. Tutto viene a torcere il nostro proposito, ed il latte non accorre al seno desideroso, e la freccia non scivola dell'arco riempito, e la pietra non sale dalla fionda scintillante. Lodo a chi rovesciò il latte del seno desideroso, ed a chi scivolò la freccia ed a chi fece saltare la pietra scintillante. Lodo a quello che cercò e trovò, al quale fece frantumi l'inquietudine della forma nella forma vittoriosa, ed al quale spinse il suo cuore fino a farlo assetato ed anelante della sua propria inquietudine. Di questi uomini ristagna un fluido di forza in azione eterna, e la terra li torse con le dita che incoraggiarono gli iris. Di questi uomini, oggi saluto lo statuario Tótila Albert, un contemporaneo nello spazio e nel tempo, prodigioso raffiguratore della furia, attraversato come i campi per l'acqua di irrigazione, dai desideri inspiegabili e dalle correnti infinite.
Claridad, num. 117, Santiago, 8.12.1923.
Anatole France
Fu solamente un gran scrittore. Apprendista della saggezza, si trovò durante il tragitto la perfezione, e dimenticò il suo destino. Alla forma solo chiese essere forma: tuttavia, situato nel vertice dell'intelligenza, la sua posizione di pura espressività non gli impedì la tendenza alla lotta, il desiderio e la delusione della lotta. Ma parliamo al presente, perché questo uomo non è morto. Il suo personaggio conversa con noi sull'attuale realtà e l'attuale illusione. Appartiene al presente ed il suo cuore distrutto e duraturo ancora infiamma fiamme. Senza qualità morale senza legatura dello spirito, la sua presenza perdura. Come i grandi pensieri, ottenne una profonda relazione di delusione, e raggiunse qualche volta nella solitudine dell'intelligenza l'isolamento della disperazione. È certo che lo mantenne tra gli uomini l'ancora di un sorriso permanente.
Nota-prefazione ad Anatole France, Páginas escogidas,
selezione di Pablo Neruda, Santiago, Nascimento, 1924.
Cronaca di Sachka [1]
CRÒNICA DE SACHKA [1]. ALIRO OYARZÚN. TOMÁS LAGO. (Pagine 321-323.) Frequenti invocazioni a "amici" e "compagni" furono il segno, in questo periodo, di una costante che attraversò tutta la traiettoria di Neruda: percepire la letteratura come il prodotto di una comunità di scrittori impegnati in una missione.
ALIRO OYARZÚN
La terra, il capriccio dei destini sotterranei alza a volte esseri deboli, costruzioni nel piano inclinato della tristezza. In essi la vita duplica le sue forze delicate, i suoi spiriti sono perpetuamente tesi come le corde sonore e stanno come nel viaggio, battendo col cuore la porta misteriosa. Fatti di età sommerse, ed annunci di anni prossimi, passano vacillando tra i passanti preoccupati. Di essi fu Aliro Oyarzún, prematuramente morto, quando cercava sé stesso, disperato di sé
L'ATENEO PIENO DI TOPI
Da molto tempo si popolò di roditori, di tele di ragni e di barbe. Ogni volta si immergevano più nell'angolo, da dove non si deve uscire.
Al calendario della sciocchezza strappavano solo le foglie alcune signore sofferenti di gastrite che accorrevano con grave scontento delle bambinaie. Arrampicato ad una ringhiera qualche topo rodeva una lattina macilenta strappandogli il peculiare suono dal graffio.
DIFESA DI VICENTE HUIDOBRO
La sua poesia stranamente trasparente, ingegnosamente ingenua. Con quella purezza del vecchio lied del nord, motivo nudo, di realizzazione d’acqua. Creazione, creazionismo, estetica nuova, tutta quella è formula, scarabocchi, vestiti usati. L’unico è il poeta e la strada da lui al suo poema. Huidobro, che fresca sensazione infantile, di gioco audace, mescola dell'estatico hay-kay col trepidante scoppiettio dell'Occidente.
UNA ESPRESSIONE DISPERSA
Ancora circolano i veicoli, piange disperatamente un autobus, io scrivo e scrivo senza che il mio pensiero mi incateni, senza liberarmi delle associazioni del caso. Simultaneamente coincidono con l'atto di creare, mille atteggiamenti ammirabili dell'ambiente. Esse entrano con poteri subdoli nell'espressione sensibile, esse fatturano segretamente i pensieri confusi, esse condizionano, agiscono sul risultato dalla meditazione. Perché disprezzarli? Neanche sfigurarli. Fare che tanta espressione stimoli la realtà, si succeda o si sincronizzi nel poema. Il pensiero non fa altro che eliminare in ogni momento i legami accordati per la sua espressione: balla, si trattiene e senza alzarsi in trampolini ingannevoli, finisce salti mortali tra regioni inaspettate. Annodare, dare vertebre a questo contenuto imponderabile, riempirlo di ponti e lucchetti, ah criminali! Lascio libera la mia sensazione in quello che scrivo: dissociata, grottesca, rappresenta la mia profondità diversa e discordante, costruisco nelle mie parole la cosa costruita dalla libera materia e distruggo creando quello che non ha esistenza né appiglio sensibile.
TOMÁS LAGO
Ah, giovani compagni, pieni di forza ed oscurità! La selva è incrociata, piena di sentieri. Una foglia sbriciolata moltiplica la luce del mondo. Agili compagni, prigionieri del supremo piacere di arrendersi, sfruttate l'ora, il minuto che gira l'angolo. Tomás, disuguale, delicato, continua a ricamare con occhi difficili quanta maglia singolare gli designa la strada.
Agili compagni, pieni di forza, è l'epoca degli straripamenti.
Claridad, num. 122, Santiago, giugno di 1924.
Esegesi e solitudine
EXÉGES Y SOLEDAD. (Pagine 323-324.) Replica a commenti di stampa - in particolare a quelli di Alone (La Nación, Santiago, 3.8.1924) e di Mariano Latorre (Zig-Zag, Santiago, 16.8.1924) - avversi ai Veinte poemas de amor.
Intrapresi la più grande uscita di me stesso: la creazione, volendo illuminare le parole. Dieci anni di compito solitario, che fanno con esattezza la metà della mia vita, hanno fatto succe-dersi nella mia espressione ritmi diversi, correnti contrarie. Legandoli, intrecciandoli senza trovare la cosa durevole, perché non esiste, lì stanno Venti poemi di amore ed una canzone disperata. Dispersi come il pensiero nella sua imprendibile variazione, allegri ed amari, io li ho fatti e anche ho sofferto facendoli. Ho cantato solo la mia vita e l'amore di alcuni donne care, come chi comincia per salutare con urla grandi la parte più vicina del mondo. Tentai di aggregare sempre di più l'espressione al mio pensiero ed alcuno vittoria ottenni: mi misi in ogni cosa che uscì da me, con sincerità e volontà. Senza vacillare, gente onesta e sconosciuta - non impiegati e pedagoghi che mi detestano personalmente - mi hanno mostrato i loro gesti cordiali, da lontano. Senza dar loro importanza, concentrando la mia forza per intercettare la marea, non feci altra cosa che dare intensità al mio lavoro. Non mi stancai di nessuna disciplina perché non l'ebbi mai: i vestiti usati che conforma gli altri, mi rimase piccola o grande, e la riconobbi senza guardarla. Buon meditatore, mentre ho vissuto ho dato alloggio a troppe inquietudini affinché queste passassero improvvisamente per quello che scrivo. Senza guardare verso nessuna direzione, liberamente, incontenibilmente, mi si sciolsero i miei poemi.
La Nación, Santiago, 20.8.1924
Cronaca di Sachka [2]
LIBRO DI GERARDO SEGUEL
Uso queste parole di benvenuto di questo giovane spirito delineando confuse realtà del cuore. Appassionando circostanze e passeggeri movimenti, scivolando nebbie, disperse figure in questo suo sentimento e la sua strada verso la cima. Metto in lui qualcosa più che la situazione della speranza. Ha il fisso segno dell'opera in mezzo al sonno, la sua veglia è costellata per un'alta cintura di astri.
Incomincia Gerardo ad intercettare gli emissari fantasmi portatori dell'incantesimo e comincia a scoprire le stelle sopra al soffitto, spuntando all'improvviso gioielli umidi. Sta nel primo gesto del suo temperamento.
Dobbiamo lodare questa realizzazione piena di caratteristiche di solitudine e di indecisione. Come ha l'età dell'alba, sta come l'alba diluendo cose, uscendo dal sonno.
VIAGGI ALLA GERMANIA DI [YOLANDO] PINO SAAVEDRA
Pino Saavedra, poeta della sensazione sentimentale e della lenta trama, dobbiamo dire arrivederci in queste righe e fare al fianco alla sua partenza il commento degli addii.
Augurare all'amico silenzioso il viaggio pieno di sortilegi ed il felice approdata ed anche il ritorno e le notizie ed i versi. E la permanenza allegra nella terra che l'attrae, e la sua depurazione di artista solitario, in mezzo ad altri compagni e ad un'altra solitudine.
Claridad, num. 129, Santiago, gennaio di 1925.
Pablo Vidor ed il Salón Oficial (Salone Ufficiale)
Come nota umoristica deve sapersi che nella contrattazione di questo Salón 1926 furono declassate due tele del pittore ungherese Vidor, attualmente il più poderoso temperamento pittorico esistente in Cile, e figura artistica che onorerebbe un'esposizione di grande nazione. Tuttavia, il sotterfugio, il ladrocinio, la sfrontatezza cinica e sudamericana, dopo avere riempito di pus la politica, l'amministrazione, la giustizia, il commercio, le opere pubbliche, le passeggiate pubbliche, il transito, le società di aiuto, la polizia, il liquore, la gioia popolare, tutto quello che tocca, mette la loro testa di millepiedi nei commerci falsamente artistici della scuola di belle arti.
Claridad, num. 135, Santiago, ottobre-novembre di 1926.
[Il romanzo è la classica imboscata dello scrittore]
[LA NOVELA ES LA CLÁSICA EMBOSCADA DEL ESCRITOR.] (Pagine 325-326.) Questo raro testo dimenticato, felicemente ritrovato da Alberto Buhadla, bisogna metterlo in relazione col «Prólogo» a El habitante y su esperanza (OCGC) vol. I, p. 217, per la sua visione della narrativa.
Il romanzo è la classica imboscata dello scrittore. Questo si attacca fraudolentemente al miserabile essere della realtà e la sua espressione si trasforma in nudi residui, in congregazioni sterili di azioni e suo premeditato fluire si trascina a stanchi scossoni. La brutta legge del sensazionalismo, del naturalisrno, del localismo inaugura quasi sempre la piuma del giovane autore e lo trasforma in rampollo di innumerabili generazioni decadute. In tale corrente di libri non appare nessun elemento soprannaturale o delicato, il suo tessuto è superstiziosamente uguale e non sviluppa quella sottrazione dall'anima al mondo che conservi come tesoro la condizione di poeta esemplare.
Non così in questo quaderno di Pérez-Doménech. Tra le sue lettere e muovendole un po', disordinando la sua rigidità tipografica, passa un'aria dolce, letale, entusiasta, misteriosa, che inzuppa i suoi oggetti letterari e che li accende con luce libera.
Questo quaderno ha anche sapore di viaggi, e come un generoso itinerario, esibisce la sua rapida designazione di terre, imbarcazioni, acque notturne, attraversamenti e passione.
Prefazione a J. Pérez-Doméneck, La moscovita de los
trasatlánticos, num. 30 di Lectura Selecta, rivista
settimanale di romanzi brevi, Santiago, 8.4.1927.