Pablo Neruda e Insetti


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Neruda: Il nuovo linguaggio autobiografico (1962)

da 1939 a ...

Il nuovo linguaggio autobiografico
(1962)

Sugli aspetti generali di questa fase, vale dire sui nuovi tratti che definiscono la scrittura autobiografica di Neruda a partire dal 1956, rimetto al "Prologo" del presente volume, punto 16, pp. 34-36.

Le vite del poeta

LAS VIDAS DEL POETA. A CABALLO ATRAVESÉ LA GRAN CORDILLERA. (Pagine 1079-1082.) Dieci cronache autobiografiche di Pablo Neruda furono pubblicate - tra gennaio e giugno del 1962 - dalla rivista O Cruzeiro Internacional di Río de Janeiro sotto il titolo comune Las vidas del poeta. Memorias y ricuerdos. I titoli di quelle cronache e le date in cui furono pubblicate sono le seguenti:

1 El joven provinciano. 16.1.1962.
2. Perdido en la ciudad. 1.2.1962.
3 Los caminos del mundo. 16.2.1962.
4 La calle oriental. 1.3.1962.
5 La luz en la selva. 16.3.1962.
6 En Ceylán, la soledad luminosa. 1.4.1962.
7 Tempestad en España. 16.4.1962.
8 Las entrañas de América. 1.5.1962.
9 Lucha y destierro. 16.5.1962.
10 Dicciones y contradicciones finales. 1.6.1962.

Dieci anni più tardi Neruda le utilizzò quasi nella loro totalità come testo-base per l'elaborazione delle sue memorie (CHV *), sebbene frammentandole con molto diversa disposizione. Per cui non pubblicheremo quelle cronache come apparvero nella rivista brasiliana bensì secondo la forma che assunsero in CHV (con note di riferimento). Il testo che in questo volume riproduco sotto il titolo "A caballo atravesé la cordillera (A cavallo attraversai la cordigliera)" è (salvo errore od omissione) l'unico frammento esteso che non passò alle memorias, dove Neruda preferì - per evocare lo stesso episodio - un passaggio del discorso tenuto a Stoccolma ricevendo il Premio Nobel della Letteratura nel 1971. Ma ci sono altri passaggi brevi che Neruda per diversi motivi eliminò. Così, dalla CRÓNICA 01, riferendosi a Temuco ed il treno merci di suo padre, rifiutò queste righe:

Quattro o cinque anni fa, per assistere ad un congresso in Guaiana, feci con lo scrittore e senatore Baltazar Castro un viaggio aereo che mi sembrò il più allungo dei viaggi. Al di sopra del vasto Brasile, l'aeroplano da carico in cui eravamo fagotti sul sedile, come condannati, barcollava e scricchiolava per quegli impetuosi cieli. E quando, malconci, finalmente arriviamo all'hotel ed ebbi voglia di affacciarmi alla finestra, vidi una città senza passato, senza ragnatele, in cui tutto si stava incominciando a fare. Un'altra volta un mondo di ferramenta. Mi voltai verso Baltazar e gli dissi: "Tanto soffrire nell'aeroplano, tanto viaggiare per il mondo, e tutto per ritornare a Temuco."
[...]
Questi treni merci portavano pietre e sabbia che depositavano tra le traversine della linea ferrea, affinché l'intensa pioggia non muovesse le rotaie. Dovendo scavare la zavorra delle cave, questo treno di mio padre rimaneva in qualunque angolo selvaggio, per settimane complete.
Il treno era romanzesco. In primo luogo, la gran locomotiva antica, dopo gli innumerevoli carri piani nei quali la pala escavatrice depositava le piccole montagne delle viscere terrestri, dopo i carri dei peones, in generale rudi braccianti agricoli dalla vita disordinata, e dopo il vagone in cui vivevano su ruote mio padre ed il telegrafista. Tutto questo in mezzo a lampioni di vetri verdi e rossi, di bandiere di segnali e coperte di tempesta, di odore di olio, a ferri ossidati, e con mio padre, piccolo sovrano dalla barba bionda ed occhi azzurri, che dominava come un capitano di barca l'equipaggio e la traversata.
Viaggiai molte volte per le diramazioni in questa casetta di mio padre che si tratteneva vicino alla selva primaverile, selva vergine che mi riservava i più splendidi tesori, immense felci, scarabei abbaglianti, curiose uova di uccelli silvestri.

Dalla CRÓNICA 04 fu scartato questo paragrafo sulle fumerie di oppio a Rangún:

Ognuno di queste centinaia di migliaia di locali aveva licenza del governo inglese che assumeva il monopolio dell'oppio, come gli olandesi nelle loro colonie vicine e gli stessi inglesi nella Cina di allora. In alcuni di questi paesi le entrate dell'oppio procuravano ad inglesi ed olandesi il quattordici percento dei redditi nazionali. Nel frattempo, a Ginevra, si pavoneggiavano i puliti funzionari dell'Inghilterra e dell'Olanda, perfetti gentlemen, declamando contro la vendita clandestina dell'oppio. "Questi sciacalli avvelenano il mondo" dicevano nei loro discorsi, mentre i loro eleganti pantaloni rigati erano forse comprati col prodotto di quelle ombrose e solenni fumerie dell'Impero.

Dalla CRÓNICA 06 furono eliminati due frammenti. La prima era un piccolo paragrafo su un avviso che il poeta, di passaggio per Ceylon in un anno recente, aveva messo in un giornale di Colombo per avvisare al suo antico domestico Bhrampy: "Non accorse. Probabilmente sarà sparito nella germinazione, calamità e morte che è la vita dei poveri nell'Oriente capitalista." Il secondo frammento eliminato ha interesse particolare alla luce di avvenimenti posteriori:

Avevo quasi finito di scrivere il primo volume di Residencia en la tierra quando ebbi per la prima volta una relazione fraterna con scrittori di un altro mondo, del piccolo o grande mondo europeo che non era esistito mai per me in forma tangibile. Alejo Carpentier, a Parigi, e dopo il giovane poeta Rafael Alberti, di cui io non avevo mai sentito parlare, lessero i poemi di quel libro e decisero di pubblicarlo. Quei tentativi furono frustrati, ma mi diedero la sensazione che la mia poesia non era sola, che cominciava a palpitare fuori dal mio esilio. Da allora data la mia pura amicizia verso Alejo Carpentier, che ora ho visto in piena rivoluzione cubana fermamente unito al suo paese ed ingrandito e rispettato. In quanto a Rafael Alberti, principe di una poesia sempre fresca e fragrante, la guerra della Spagna ci diede una fratellanza ancora più profonda e duratura.

Come si sa, l'amicizia verso Carpentier si ruppe quando questo scrittore - dal punto di vista del poeta cileno - la tradisce nel 1966 firmando la Carta abierta a Pablo Neruda degli intellettuali cubani. In modo che in CHV non solo spariscono queste righe cordiali ma che saranno sostituite da violenti contrattacchi. Il tempo confermerà invece l'amicizia con Alberti. Ma proseguendo coi frammenti eliminati, la CRÓNICA 08 ne eliminò uno relativo all'inizio della seconda guerra mondiale, con le notti di Parigi in tenebre per paura dei bombardamenti:

Non c'erano meno tenebre nelle anime. Vicino all'odore di sangue che riempiva il chiamato Occidente si svegliava l'avidità. Cominciò nei consolati il traffico dei perseguitati.
In quei giorni entrai improvvisamente all'ufficio di un ministro diplomatico di uno dei nostri paesi dell'America del Sud. Non dimenticherò mai la sorprendente visione che ebbi davanti ai miei occhi. La sua grande scrivania era coperta di colonne di monete di oro. Appena fece attenzione alla mia entrata. Continuò a prendere le monete e ad organizzare le sue colonne. Il ministro era un uomo tracagnotto e pallido, con scarsi capelli biondi sulla sua brillante testa. Le sue mani grassoccie andavano e venivano spostando le lire sterline. Le sue bianche mani di suora volavano sull'oro.
In alcuni giorni il ministro era diventato milionario. Gioiellieri di Amsterdam, commercianti di Bruxelles, ebrei ricchi di tutte parti gli lasciavano i loro tesori e mucchi di orologi e collane per un visto o un passaporto. Il ministro riceveva i presenti, con le sue mani di badessa firmava i documenti che garantivano lo scampo dei perseguitati, ma, poco dopo, affinché tutto rimanesse in silenzio, denunciava alla Gestapo i fuggiaschi. A poco sarebbe servita loro la fiammante documentazione.

Dalla CRÓNICA 10, finalmente, Neruda lasciò fuori delle sue memorias alcune righe circa Vicente Huidobro. Dopo dice: "In tutta la sua poesia c'è un splendore europeo che egli cristallizza e sgrana con un gioco pieno di grazia e di intelligenza", aggiungeva:

Questa lucentezza europea non sottrae niente all'opera di Huidobro. Egli aveva il pregiudizio della originalità, voleva essere ad ogni costo inventore, creazionista. Questa mania dell'originalità è la nevrosi del nostro tempo.
I più giovani poeti di oggi vogliono nascere dal niente, uscire dal mare senza bagnarsi. Il mio buon amico Don Francisco de Quevedo ha molte odi e sonetti con questa didascalia al margine: "Imitazione di Orazio", "Imitazione di Ovidio." Ma molti poeti, tra essi Huidobro, fuggirono dalla modestia come di una malattia di media gravità. Egli scelse sempre un atteggiamento provocatorio e d'annunziano.

A CAVALLO ATTRAVERSAI LA GRAN CORDIGLIERA

La montagna andina ha passi sconosciuti, utilizzati forse anticamente da contrabbandieri, tanto ostili e difficili che neanche sono custoditi dalle guardie rurali. Fiumi e precipizi si in-caricano di intercettare il viandante.
Il mio amico Jorge Bellet era il capo della spedizione. Antico pilota, uomo di azione, ora avviava una grande segheria vicino al lago Maihue. Di lì usciamo un giorno all'alba. Stavano già cadendo le prime piogge. La selva vergine era avvolta nella sua nebbia o nella pioggia mattutina. Alla nostra scorta di cinque uomini, buoni fantini ed esperte guide, si unì il mio vecchio amico Víctor Bianchi, che era arrivato in quei paraggi come esperto agricolo in alcune liti di terre. Non mi riconobbe. Io portavo la barba cresciuta in un anno e mezzo di vita nascosta, ma appena seppe il mio progetto di attraversare la selva ci offrì i suoi grandi servizi di esperto esploratore. Prima già aveva asceso l'Aconcagua in una tragica spedizione della quale fu quasi l'unico sopravvissuto.
Andavamo in fila nella solennità dell'alba. Erano molti anni, dalla mia infanzia, che non montavo a cavallo, ma qui andavamo al passo.
La selva andino australe è popolata da grandi alberi appartati tra loro. Sono giganteschi larici e maitene, dopo tepa e conifere. Il raulí stupisce per il suo spessore. Li misurai. Erano del diametro di un cavallo. Verso l'alto non si vede il cielo, sotto le foglie sono cadute per secoli formando una cappa di humus in cui affondano gli zoccoli delle cavalcature. In una marcia silenziosa attraversavamo quella gran cattedrale della selvaggia natura.
Le esperte guide andavano avanti e dietro di noi, proteggendoci ed ascoltando gli infiniti piccoli rumori della lerra vergine. Di quando in quando battevano coi loro machete un albero della strada che lasciava immediatamente, all'altezza delle nostre teste, un'umida cicatrice gialla. Erano i segni per trovare il cammino verso il ritorno.
Salendo la cordigliera, gli alberi diventarono più tozzi e somigliarono delle cime una moltitudine di ombrelli. La neve non li lasciava crescere. Non c'era strada. Come si orientavano le esperte guide? Non lo seppi. Ma di quando in quando si sapeva che per di là era passato prima qualcuno. Si sapeva da un tumulo fatto da altri viandanti. Erano piramidi di rami e legni ad uno ed all'altro lato della direzione che prendevamo. Sotto quelli tumuli giacevano altri viaggiatori sfortunati. La neve li aveva fermati per sempre. Religiosamente, avvicinandoci ad uno dei tumuli anonimi, tagliavamo un ramo che ognuno tirava sul mucchio di pali come un postumo omaggio al caduto.
A piena notte troviamo un luogo abitato. Erano i bagni di Chihuío. Stavamo già vici-no alla frontiera con l'Argentina. Non dimenticherò mai l'arrivo a quell'alto punto della cordigliera.
In un hangar scalcinato in cui si vedevano montagne di formaggi, ardeva un albero intero in un focolare, nel suolo. Lì intorno c'erano alcuni ombre impossibili da riconoscere come esseri umani, perché non c'era altra luce che quella delle braci. Sembravano cantare e l'arpeggio di una chitarra emergeva dall'oscurità con un suono malinconico di acqua di pioggia.
Troviamo il rifugio che non si nega a nessuno a quelle altezze della terra e prima di dormire tutti ci mettemmo nelle incandescenti acque termali quasi bollenti e che c'alzavano in bilico con la loro saturazione minerale.
All'alba seguente, freschi e riposati continuiamo la marcia.

La strada diventò ripida. Era difficile avanzare. Sembrava che gli stessi muri rugosi ed eterni delle Ande si stringessero per ostacolarci il passo. I cavalli, entrando in questi tunnel di roccia, scivolavano, ed un scoppiettio di scintille saltava dai ferri di cavallo.
Più tardi ci fu un fiume ed un altro fiume. L'inviolata grandezza della natura non voleva lasciarci passare. In fila entriamo nel fiume che scorreva con ruggito e canto di bestia terribile, incoronato di schiume. Io appena mi reggevo perché avevo alzato i piedi fino a collocarli sul collo della cavalcatura. Il fiume mi sembrava sempre di più largo, mentre il mio cavallo ondulava e lottava per mantenersi in linea dietro gli altri che arrivavano già alla riva.
Toccando la terra ferma mi sentii vivo di nuovo e guardai la guida che mi seguiva. Gli dissi:
- Bene, e se cado e mi porta il fiume?
Sempre sorridendo mi rispose:
- No, poichè, Don Pablito, vede che qui stesso cadde mio padre e lo portò l'acqua. E così io vengo col lazo nella mano, pronto per lanciarlo.
Dopo i fiumi ed i guadi accadde qualcosa di strano nel paesaggio ed anche negli uomini.
Come se all'improvviso in una grande sinfonia il direttore ferma la turbolenza delle grandi masse di suono per produrre un filo finissimo, una cadenza pastorale che si alza e ci rinfresca l'anima angosciata, così accadde con le violente cordigliere.
Eravamo arrivati ad un'altra altura ed oltrepassandola troviamo un esteso paesaggio verde, di infinita soavità serena. Prati e prati come fatti dalla mano dall'uomo, di erba soffice come il prato inglese, si estendevano nelle infinite solitudini ed un giocherello di ruscelli cristallini che si incrociavano serpeggiando, sembravano disposti lì come in una pagina di Garcilaso. Rimasi attonito. Mancavano lì solo le naiadi nude che immergevano i loro piedi argentati nell'acqua di vetro.
Arrivati al centro di quello splendore verde scendiamo e disselliamo le cavalcature. Appena potevo muovere le gambe, e sul punto di stendermi nel foraggio che mi invitava brillando al sole freddo, notai che le guide si preparavano per un nuovo rito.
Un gran teschio di bestiame riluceva al sole in mezzo ad un circolo quasi perfetto in cui avevano fatto molte impronte. Le guide e dopo tutti noi gettiamo monete nella teschio del bue mentre gli giravamo intorno saltando su un solo piede.
Le monete erano per i viaggiatori perduti. E quello rito del ballo? Fino ad ora non lo so. Mistero di cordigliere, rito degli uomini erranti.
Una capanna abbandonata ci indicò la frontiera.
Era già libero. Aveva già lasciato dietro la persecuzione. Scrissi nella parete della capanna: "Arrivederci, mia patria. Vado via, ma ti porto con me."

Frammento di " Las vidas del poeta. Capítulo noveno: Lucha y
destierro", en O Cruzeiro Internacional, Rio de Janeiro, 16.5.1962.


Mariano Latorre, Pedro Prado e la mia propria ombra

MARIANO LATORRE, PEDRO PRADO Y MI PROPIA SOMBRA. (Pagine 1082-1101.) Questo straordinario testo condensa, da una prospettiva matura e serena, le idee fondamentali di Neruda non solo sulla sua poesia bensì sopra il significato del fare letterario in Cile. Il poeta si situa, diciamo, al di sopra delle diverse fasi del suo proprio sviluppo ma contemporaneamente le comprende e le abbraccia tutte, affrontando e risolvendo le apparenti contraddizioni del suo itinerario come non aveva fatto mai prima. Lo fa inoltre con singolare eleganza stilistica, con la disinvoltura di un classico vivente. Il testo si pubblicò su un volume di 91 pagine: Pablo Neruda e Nicanor Parra, Discursos, Santiago, Nascimento, 1962, che includeva la seguente nota esplicativa:

Il 30 marzo del 1962, la Facoltà di Filosofia ed Educazione dell'Università del Cile, in sessione pubblica celebrata nel Salone di Onore, ricevette Pablo Neruda in qualità di Membro Accademico, in riconoscimento al suo vasto lavoro poetico di categoria universale. L'atto fu presieduto dal rettore Juan Gómez Millas, dal Decano della Facoltà, Eugenio González, e dal Segretario Generale, Álvaro Bunster. Nicanor Parra, membro docente della Corporazione, ebbe al suo carico il discorso di accoglienza.

Nunca tuve relación con Mariano Latorre y es a fuerza de razonamiento y de entendimiento... (Non ebbi mai relazione con Mariano Latorre ed è a forza di ragionamento e di intendimento...) Credo che a nessun altro scrittore Neruda rendesse l'omaggio di deporre unilateralmente - poiché non ci fu almeno un avvicinamento finale come con Huidobro - il feroce rancore di gioventù determinato per la critica arrogante ed incomprensibile. Il testo "Exégesis y soledad" del 1924 (in questo volume, pp. 323-324) denuncia l'ira di Neruda di fronte ai commenti giornalistici di Alone e di Mariano Latorre, avversi ai Veinte poemas de amor. A parte la sua fama nazionale come narratore mondonovista, Latorre fu professore di letteratura cilena nella stessa Facoltà di Filosofia ed Educazione che ora riceve il poeta. Non ho notizie che Latorre abbia scritto di nuovo su Neruda oltre quelle "Dos palabras" cotenute in Pro Arte, num. 157, Santiago, 11.8.1952, unendosi schiettamente al benvenuto degli intellettuali cileni al poeta che ritornava dell'esilio. Invece Neruda in cambio lo salutò alla morte con un testo di rara bellezza ("Despedida a Mariano Latorre", in pp. 1001-1003 di questo volume), adottato perfino dai libri di lettura nelle scuole. - Eduardo Barrios. In realtà Neruda fu troppo parco rispetto alla sua amicizia con Barrios. E non gli mancavano cose da raccontare. Laura Arrué mi raccontò per esempio che Pablo volle nel 1925 o 1926 concretare il piano - progettato in comune - di "rapirla" per vivere insieme l'amore proibito (dai genitori di lei). Orbene, dato che la casa degli Arrué era situata fuori di Santiago (forse in Malloco o Peñaflor), Neruda dovette procurarsi l'aiuto dell'unico amico che possedeva un'automobile. Ma in vano i fari del veicolo fecero quella notte i segnali intermittenti convenuti fra gli amanti. Laura mi confessò - non senza pentimento retrospettivo - che gli mancò il coraggio per fuggire da casa con Pablo nell'automobile guidata da Don Eduardo Barrios, - la torre de Pedro Prado, torre de los veinte: Los Diez era in effetti il nome del gruppo letterario iniziato da Prado "che non cessò di essere un circolo un tanto arbitrario che confinava col gioco e col lavoro letterario" (José Promis, La novela chilena actual, Buenos Aires, Fernando García Cambeiro editore, 1977, p. 31). - el libro de Daniel de la Vega [...] en los campos de Quepe [... ] Vedasi in questo stesso volume, pp. 128-130, il poema dedicato a Daniel de la Vega, scritto da Neftalí precisamente in Quepe il 14.12.1919.

Poco abituato agli atti accademici volli conoscere il tema del mio discorso e tra i suggerimenti dei miei amici sorsero due nomi di illustri scrittori, ambi antichi membri di questa facoltà, entrambi definitivamente assenti delle nostre umane preoccupazioni: Pedro Prado e Mariano Latorre.
Questi due uomini risvegliarono eco differenti e contrarie nella mia memoria.
Non ebbi mai relazione con Mariano Latorre e è a forza di ragionamento e di intendimento che apprezzai le sue condizioni di gran scrittore, legato alla descrizione e la costruzione della nostra patria. Un vero scrittore nazionale è un eroe puro che nessun paese può permettersi il lusso di evitare. Questo rimane al margine delle incidenze contemporanee, del tanto percento che deve pagare per il suo lavoro, del disinteresse affrettato ed obbligatorio delle nuove generazioni, o della malevolenza, personalismo o superficialità della critica.
L'unica cosa che conobbi bene di Latorre fu il suo viso secco ed affilato e non credo essere di stato misurato dalla sua infaticabile maldicenza. Ma solo il contumace rancoroso prenderà in considerazione la piccola cronaca, le discussioni, il vapore degli angoli e caffetterie facendo la somma delle azioni di un uomo grande. Ed uomo grande fu Latorre. Se aveva bisogno di largo petto per scrivere in lui tutto il rumoroso nome e la diversità fragrante del nostro territorio.
La chiarezza di Mariano Latorre fu un gran tentativo di portarci all'antica essenza della nostra terra. Situato in un altro punto della prospettiva sociale ed in un'altra orientamento della parola e dell'anima, molto lontano io stesso del metodo e dell'espressione di Mariano Latorre, non posso che riverire la sua opera che non ha misteri, ma che proseguirà essendo ombra cristallina del nostro compleanno, vimine patrizio della culla nazionale.
Un'altra cosa differente e molto più profonda significò Pedro Prado per me. Prado fu il primo cileno in cui vidi il lavoro della conoscenza senza il pudore provinciale a cui io ero abituato. Da un filo all'altro, da un'allusione ad una presenza, persona, abitudine, racconti, paesaggi, riflessioni, tutto si andava annodando senza ambagi nella conversazione di Prado in una relazionesenza discorsi ambigui in cui la sensibilità e la profondità costruivano con misteriose incanto un magico castello, sempre incompiuto, sempre interminabile.

Io arrivavo dalla pioggia meridionale e della monosillabica relazione delle terre fredde. In questo tacito apprendistato a cui si era conformata la mia adolescenza, la conversazione di Prado, la gioiosa maturità della sua infinita comprensione della natura, la sua perenne divagazione filosofica, mi fece comprendere le possibilità di associazione o società, la comunicazione espressiva dell'intelligenza.
Perché la mia timidezza australe si basava sull'inseparabilità della solitudine e dell'espressione. La mia gente, genitori, vicini, zii e compagni, appena si esprimevano. La mia poesia doveva mantenersi segreta, separata in forma ferrea delle sue proprie origini. Fuori della vita esigente ed immediata di ogni giorno non potevano alludere nella loro conversazione i giovani del sud a nessuna possibile ombra, misterioso tremore, né sconfitto aroma. Tutto quello lo lasciai io in uno scompartimento chiuso destinato alla mia trasmigrazione, cioè, alla mia poesia, sempre che io potessi sostenerla in quei compartimenti letali, senza comunicazione umana. Naturalmente non c'era solo in me e nel mio pessimo sviluppo verbale, colpa di clima o peso regionale, di estensioni spopolate, ma il peso demolitore delle differenze di classe. È possibile che in Prado si mischiasse il sortilegio di un attivo ed originale meditatore alla semplicità sociale della gran borghesia. La cosa certa è che Pedro Prado, testa di una straordinaria generazione, fu per me, molto più giovane di lui, un supremo punto di riferimento tra la mia ostinata solitudine e l'inaudito piacere dell'intelligenza che la sua personalità spiegava ad ogni ora ed in tutti i posti.
Tuttavia, non tutti gli aspetti della creazione di Prado, né della sua multiforme personalità, mi piacevano. Né i miei compagni letterari, né io stesso, volemmo fare mai la facile figura di squartatori letterari. Nella mia epoca prima l'iconoclasta era passato di moda. Non c'è dubbio che rivivrà molte volte. Quella carta di strangolatore piacerà sempre all'avvolgente vanità collettiva degli scrittori. Ogni scrittore vorrebbe essere, unico sopravvissuto rispettato, in mezzo all'assemblea della dea Kali e dei suoi adepti strangolatori.
Gli scrittori della mia generazione devono ai maestri anteriori debiti contanti e sonantes, perché si esercitava allora una generosità indivisibile. Annotando nel libro dei miei propri conti non sono numeri poveri quelli che accrediterò a tre grandi della nostra letteratura. Pedro Prado scrisse prima di nessun altro sul mio primo libero Crepusculario una tranquilla pagina maestra, carica di senso e presentimento come un'aurora marina. Il nostro maestro nazionale della critica, Alone, che è anche maestro in contraddizioni, mi prestò quasi senza conoscermi qualche denaro per tirare fuori quello stesso mio primo libro dagli artigli dello stampatore. In quanto ai miei Veinte poemas de amor, racconterò un'altra volta che fu Eduardo Barrios che lo consegnò e raccomandò con tale ardore a Don Carlos George Nascimento che questo mi chiamò per proclamarmi poetaa pubblicabile con queste sobrie parole: "Molto bene, pubblicheremo la sua opera."
La mia differenza con Prado si basò quasi sempre su un altro senso della vita ed in piani quasi extra-letterari che ebbero sempre per me maggiore importanza che questo o quel problema estetico. Gran parte della mia generazione situò i veri valori più in là o più in qua della letteratura, lasciando i libri nel loro posto. Preferivamo le strade o la natura, i tuguri pieni di fumo, il porto di Valparaíso col suo fascino straziante, le assemblee sindacali turbolente dell'IWW.

I difetti di Prado erano, per noi, quella perdita di passione vitale, una elucubrazione interminabile attorno all'essenza della vita senza vedere né cercare la vita immediata e palpitante.
La mia gioventù amò lo spreco e detestò l'austerità obbligatoria della povertà. Ma presentivamo in Prado una crisi tra questo equilibrio austero e l'incitante tentazione del mondo. Se qualcuno portò un sacerdozio di un tipo elevato della vita spirituale quello fu, senza dubbio, Pedro Prado. E per non conoscere abbastanza l'intimità della sua vita, né voler toccare neanche la sua segreta esistenza, non possiamo immaginarci i suoi propri tormenti.
La sua insoddisfazione letteraria ebbe molta inquietudine passiva e deviò quasi sempre verso una costante interrogazione metafisica. Per quelli tempi, influenzati da Apollinaire, e nonostante il precedente esempio del poeta da salotto Stéphane Mallarmé, pubblicavamo i nostri libri senza maiuscole né punteggiatura. Perfino scrivevamo le nostre lettere senza punteggiatura alcuna per sorpassare la moda della Francia: può vedersi ancora il mio vecchio libro Tentativa del ombre infinito senza un punto né una virgola. Per il resto, con stupore ho visto che molti giovani poeti nel 1961 continuano a ripetere questa vecchia moda francesizzata. Per punire il mio proprio passato cosmopolita, mi propongo di pubblicare un libro di poesia sopprimendo le parole e lasciando solamente la punteggiatura.
In ogni caso, le nuove onde letterarie passano senza commuovere la torre di Pedro Prado, torre dei venti, aggregando il suo valore a quello degli altri, perché si sa già che egli valeva per dieci. C'è una specie di freddezza interna, di anacoretismo che non lo porta lontano, ma che lo impoverisce.
Ramón Gómez de la Serna, il Picasso della nostra prosa materna, lo rimescola tutto nella penisola ed assume una specie di amazzonica corrente in cui città intere passano di rotta al mare, con avanzi, veglie funebri, preamboli, antiquati busti, barbe di persone eminenti, posizioni istantanee che il mago capta nel suo fulminante minuto.
Quindi viene il surrealismo dalla Francia. È verità che questo non ci consegna nessun poeta completo, ma ci rivela l'ululato di Lautréamont nelle strade ostili di Parigi. Il surrealismo è fecondo e degno delle più sollecite riverenze, per quanto con un valore catastrofico cambia di posto le statue, fa buchi nei brutti quadri e mette baffi a Monna Lisa che, come tutto il mondo sa, aveva bisogno di essi.
Prado non è sciolto dal surrealismo. Egli continua a perforare nel suo pozzo e le sue acque ritornano sempre di più ombrose. In fondo del pozzo non trova il cielo, né le splendide stelle, ma un'altra volta la terra. Nel fondo di tutti i pozzi sta la terra, così come nella fine del viaggio dell'astronauta che deve ritornare alla sua terra ed alla sua casa per continuare ad essere uomo.
Gli ultimi capitoli del suo gran libro Un juez rural si sono messi già dentro questo pozzo e stanno oscurati non dall'acqua che fluisce, bensì dalla terra notturna.

Pensando in modo più generalizzato, si vede che nella nostra poesia c'è una tendenza metafisica, che non nego né a cui do importanza. Non parto da un punto di vista critico estetico, bensì piuttosto dal mio piano creativo e geografico.
Vediamo questa solitudine emisferica in molti altra dei nostri poeti. In Pedro Antonio González, in Mondaca, in Max Jara, in Jorge Hübner Bezanilla, in Gabriela Mistral.
Se si tratta di un scappatoia dalla realtà, della ripetizione retrospettiva di temi già elaborati, o della dominante influenza della nostra geologia, della nostra configurazione vulcanica, turbolenta ed oceanica, tutto questo si parlerà e discuterà, poiché i trattatisti aspettano tutti i poeti coi loro telescopi e fucili.
Ma non c'è dubbio che siamo protagonisti semisolitari, orientati o disorientati, di vasti terreni appena coltivati, di raggruppamenti semicoloniali, assordati dalla tremenda vitalità della nostra natura e dall'antico isolamento a cui ci condannano le metropoli di ieri e di oggi.
Questo linguaggio e questa posizione sono espressi ancora dai più alti valori della nostra terra, con regolare intermittenza, con una specie di ira, tristezza, o strappo senza uscita.
Se questa espressione non risolve la grandezza dei conflitti è perché non li affronta, e non lo fa perché li ignora. Di lì un'inquietudine piuttosto formale in Pedro Prado, incantatoramente efficace in Vicente Huidobro, aspro e cordiglierano in Gabriela Mistral.
Di tutti questi difetti, con tutte questi contraddizioni, di prova ed oscurità, aggregando all'amalgama l'infinita e necessaria chiarezza, si forma una letteratura nazionale. A Mariano Latorre, maestro delle nostre lettere, corrisponde questa carta ingrata di crivellarci con la sua chiarezza.
In un paese in cui persistono tutti i tratti del colonialismo, in cui la moltitudine della cultura respira e traspira con pori europei tanto nelle parti plastiche come nella letteratura, deve essere così. Ogni tentativo di esaltazione nazionale è un processo di disubbidienza anticoloniale e deve disgustare le classi che tenacemente ed inconsciamente preservano la dipendenza storica.

Nostro primo romanziere creolo fu un poeta: Don Alonso de Ercilla. Ercilla è un raffinato poeta dell'amore, una rinascimentale legato con tutto il suo essere alla tremula schiuma mediterranea dove è appena rinata Afrodite. Ma la sua testa, innamorata del gran tesoro risorto, della luce zenitale che è arrivata a schiantarsi vittoriosamente contro le tenebre e le pietre della Spagna, trova in Cile, non solo alimento per la sua ardente nobiltà, bensì gioia per i suoi estatici occhi.
In La Araucana non vediamo solo l'epico sviluppo di uomini uniti in un combattimento mortale, non solo la prodezza e l'agonia dei nostri padri abbracciati nel comune sterminio, ma anche la palpitante catalogazione forestale e naturale del nostro patrimonio. Uccelli e piante, acque ed uccelli, abitudini e cerimonie, lingue e chiome, frecce e fragranze, nevichi e maree che ci appartengono, tutto questo ebbe finalmente nome, in L'Araucana e per ragione del verbo cominciò a vivere. E questa che riviviamo come un lascito sonoro era la nostra esistenza che dobbiamo preservare e difendere.
Che cosa facemmo?
Ci perdemmo nell'incursione universale, nei misteri di tutto il mondo, e quel patromonio compatto che ci rivelò il giovane castigliano si andò calando nella realtà e morendo nell'espressione. I boschi sono stati incendiati, gli uccelli abbandonarono le regioni originali del canto, la lingua si andò riempendo di suoni stranieri, gli abiti si nascosero negli armadi, il ballo fu sostituito.

Improvvisamente, in un pomeriggio di estate sentii necessità della conversazione di Prado. Mi attirò sempre quell'andare e venire dalle sue ragioni, alle quali appena si univa qualche pulviscolo di personale interesse. Era prodigioso il suo scaffale di osservazioni dirette degli esseri o della natura. Forse questo è quella che si chiama la saggezza e Prado è quello che più si avvicina a quello che nella mia adolescenza potei denominare "un saggio". In questo c'è forse più di superstizione che di verità, dato che dopo conobbi più e più saggi quasi sempre carichi di specialità e di passione, posseduti dall'insurrezione, riscaldati nel forno dell'umana lotta. Ma quella sensazione di potere supremo dell'intelligenza ricevuta nella mia giovane età non me l'ha dato niente dopo. Né André Malraux che attraversò più di una volta con me, in interminabili giornate, le strade tra Francia e Spagna, scoppiettando gli elettrici doni del suo cartesianismo estremista.
Un altro dei miei saggi amici è stato molto dopo il grande Ilyá Ehrenburg, anche abbagliante nella sua corrosiva conoscenza delle cause e gli esseri, ardente ed inamovibile nella difesa della patria sovietica e della pace universale.
Un altro di questi grandi signori della conoscenza la cui intima amicizia mi ha concesso la vita, è stato Aragon, della Francia. Anche lo stesso torrente discorsivo, la più minuziosa e precipitosa analisi, il volo della profonda cultura e dell'audace intelligenza: tradizione e rivoluzione. In un modo o nell'altro, ma all'improvviso Aragon esplode, e la sua esplosione mette allo scoperto la sua belligeranza spaziale. La collera repentina di Aragon lo trasforma in un polo magnetico caricato dalla più pericolosa tempesta elettrica.
Così, dunque, tra i miei saggi amici questo Pedro Prado della mia gioventù è rimasto nel mio ricordo come l'immagine tranquilla di un grande specchio azzurro in cui si sarebbe riflesso, in una maniera estesa, un paesaggio essenziale fatto di riflessione e di luce, serena coppa sempre abbondante del ragionamento e dell'equilibrio.
In quel pomeriggio attraversai la strada Matucana e presi lo scalcinato tram del polveroso sobborgo in cui l'annosa casa avita dello scrittore era l'unica cosa decorosa. Tutto il resto era povertà. Attraversando il parco e vedendo la fonte centrale che riceveva le foglie cadute, sentii che mi avvolgeva quella atmosfera allegorica, quella chiarezza abbandonata dal maestro. Si univa, impregnandomi, un aroma circa la cui origine Prato conservò per me un sorridente mistero, e che dopo scoprii che era prodotto dall'erba chiamata "del varraco", pianta odorosa delle gole cilene che perderebbe il suo profumo se la chiamassimo pianta "del varraco ", seccandola immediatamente. Già confuso e divorato dall'atmosfera, bussai alla porta. La casa sembrava disabitata di puri silenzio.
Si aprì la pesante porta. Non distinsi nessuno nella penombra dell'ingresso, ma mi sembrò sentire un evidente o pellegrino rumore di catene che strisciavano. Allora, tra le ombre, apparve un uomo mascherato che alzò verso la mia fronte un lungo dito minacciante, spingendomi a camminare verso il gran soggiorno o salone dei Prado che anch'io conoscevo, ma che ora mi si presenta completamente cambiato. Mentre camminavo, un essere molto più piccolo, con tunica e maschera che lo coprivano completamente e curvo dal peso di una pala piena di terra, mi seguiva, gettando terra su ognuna delle mie impronte. In mezzo al soggiorno mi fermai. Attraverso le finestre, il pomeriggio lasciava cadere l'estraneo crepuscolo da quello parco perduto fuori dalle mura sgretolate di Santiago.
Nella sala quasi vuota, potei distinguere, addossate ai muri una dozzina o più di poltrone o seggi e su essi, accoccolati, altrettanti enigmatici personaggi con turbanti e tuniche che mi guardavano senza dire una parola, dietro le loro maschere immobili. I minuti passavano e quel silenzio fantastico mi fece pensare che stavo sognando o mi ero sbagliato di casa o che tutto si sarebbe spiegato.
Cominciai a retrocedere, timoroso, ma finalmente scoprii un viso che riconobbi. Era quello del sempre biricchino poeta Diego Dublé Urrutia che, senza maschera che lo occultasse, mi guardava, fermati i suoi lineamenti in una smorfia, che faceva alzandosi il naso con l'indice dalla mano destra.
Compresi che ero penetrato in una delle cerimonie segrete che dovevano celebrarsi sempre in qualche parte e da tutte le parti.
Era naturale che la magia esistesse e che adepti e sognatori si riunissero in fondo di abbandonati parchi per praticarla.
Mi ritirai tremante. Gli astanti, sicuramente pieni di orgoglio per essersi mantenuti nelle loro singolari posizioni, mi lasciarono andare, mentre quello folletto rotondo, che più tardi conobbi come Acario Cotapos, mi accompagnò con la sua pala fino alla porta, coprendo di terra le mie impronte di fuggiasco.
Non potrebbe parlare di Prado senza ricordare quell'impressionante cerimonia.
Per piacere e fortuna della sua creazione, l'amara lotta per il pane non fu conosciuta dall'illustre Pedro Prado, grazie alla sua condizione ereditaria, membro di una classe esclusiva che fino ad allora, durante la vita del nostro compagno e maestro, non soffriva di soprassalti. E la polverosa strada che conduceva all'antica casa di Pedro Prado continuerà per molti anni senza oltrepassare lo steccato di quell'elevato pensiero.
Ma forse per recondita e soffocata soddisfazione del poeta, nei miei scarsi ritorni per quei luoghi sperduti ho visto che sparirono le inferriate e che centinaia di bambini poveri delle strade vicine irrompono oggi nelle stanze avite trasformate in una scuola. Non si dimentichi che Pedro Prado, inalterabile tradizionalista, si inchinò davanti alla tomba di Luis Emilio Recabarren lasciando come una corona più del suo abbondante pensiero un deciso omaggio alle idee che egli credé, qualificò con innocenza conservatrice, come irraggiungibili utopie.

Una terza possibilità di questo discorso sarebbe stata un autocrítico esame di questi quaranta anni di vita letteraria, un incontro con la mia ombra. In realtà, questi si realizzano in questa primavera appena passata, unendosi all'odore dei lilla, delle madreselve del 1921, e della stamperia Selecta, della strada San Diego il cui penetrante odore di inchiostro mi impregnò entrando ed uscire col mio piccolo primo libro, o librettino, la Canciòn de la fiesta che lì si stampò in ottobre di quell'anno.
Se io tentassi di classificarmi dentro alla nostra fauna e flora letteraria o di altre faune e flore extraterritoriali, dovrei dichiarare in questo esame doganiere e precisamente in questo salone centrale dell'educazione la mia indeclinabile deficienza dogmatica, la mia precaria condizione di maestro.
Nella letteratura e nelle arti si producono spesso i maestri. Alcuni che hanno molto da insegnare ed alcuni che muoiono per ammaestrare, cioè, per la volontà di dirigere. Credo di sapere, del poco che so di me stesso, che non appartengo né agli uni né agli altri, bensì semplicemente a quella gregaria moltitudine sempre assetata di quelli che vogliono sapere.
Non dico questo ricorrendo ad un sentimento di umiltà che non ho, bensì alle lente condizioni che hanno determinato il mio sviluppo in questi lunghi anni dei quali devo lasciare in questa occasione qualche attestazione.
Perchè dubito che il sentimento di supremazia ed il prurito dell'originalità svolgano un ruolo decisivo nell'espressione.
Questi sentimenti che non esisterono nella faticosa ascensione della cultura, quando le tribù alzavano pietre sacre nella nostra America ed in Occidente ed Oriente gli aghi delle pagode e le frecce gotiche delle basiliche volevano raggiungere Dio senza che nessuno le firmasse con nome e cognome, si sono andati esacerbando nei nostri giorni.
Ho conosciuto non solo uomini bensì nazioni che prima di elaborare il prodotto, prima che le uve maturassero, prima che le botti fossero piene e quando le bottiglie vuote asperattano, avevano già il nome, le conseguenze, e l'ubriachezza di quello vino invisibile.
Lo scrittore inascoltato ed aggrappato contro la parete delle condizioni mercantili di un'epoca crudele è uscito spesso nella piazza a competere con la sua mercanzia, liberando le sue colombe in mezzo alla vociferante riunione. Una luce agonica tra crepuscolo della notte e sanguinante alba lo mantenne disperato e volle rompere in qualche modo il silenzio minacciante. "Sono il primo" il, gridò: "Sono l'unico", continuò a ripetere con incessante ed amara egolatria.
Si vestì di principe come D'Annunzio e non smise di incitare lo stupefatto carnaio elegante delle spiagge questo audace falsificatore dell'audacia. Nelle nostre Americhe selvatiche si alzò contro l'irsuta pannocchia di dittatori senza legge e di brutali commissionari l'elegante Vargas Vila, che coprì con la sua prodezza ed la sua croccante prosa poetica tutta un'epoca autunnale della nostra cultura.
Ed altri ed altri continuarono proclamandosi.
In realtà, non si tratta che questa tradizione egocentrica con la sua caotica formulazione vada oltre le parole. Si tratta solo, ed in forma straziante, del povero scrittore angosciato per il muro della città che non l'ascolta e che egli deve abbattere con la sua tromba per vedere incoronati agli angeli della luce. Ed affinché questa luce arrivi non solo alla delirante superbia della sua opera alzata contro l'eternità, ma attragga in forma dolorosa, ed a volte con l'esplosione finale del suicidio, l'attenzione verso l'azione dello spirito, ferito da una società di cuori aspri.

Molti scrittori di gran talento, nonostante nella mia generazione, dovettero scegliere questo verso i tormenti, in cui si crocifigge il poeta bruciato per la sua propria vita messianica.
In piena accoglienza atmosferica di quello che veniva e di quello che andava via, io sentii pesare sulla mia testa queste raffiche della nostra inumana condizione. Dovevamo scegliere tra apparire come maestri di quello che non conoscevamo affinché fossimo creduti, o condannarci ad una perpetua ed oscura situazione di contadini, di fecondatori del fango. Questo crocevia della creazione poetica ci portò ai peggiori disorientamenti. Continueranno a portare forse quelli che cominciano a sentirsi perplessi tra le fiamme ed il freddo della vera creazione poetica.
Solo Apollinaire col suo genio telegrafico ha detto la parola giusta:

Entre nous et pour nous, mes amis,
Je juge cette longue querelle de la tradition et de l'invention
De l'Ordre et de I'Aventure
Vous dont la bouche est faite á l'image de celle de Dieu
Bouche qui est l'ordre méme
Soyez indulgents quand vous nous comparez
á ce qui furent la perfection de l'ordre
Nous qui quétons partout l'aventure
Nous ne sommes pas vos ennemis
Nous voulons vous donner de vastes et d'étranges domaines
oü le mystére en fleurs s'offre á qui veut le cueillir
II y a la des feux nouveaux des couleurs jamáis vues
Mille phantasmes imponderables
Auxquels il faut donner la réalité
Nous voulons explorer la bonté contrée enorme où tout se tait
II y a aussi le temps qu'on peut chasser ou faire revenir
Pitié pour nous qui combattons toujours aux frontiéres de l'ilimité et de I'avenir
Pitié pour nos erreurs pitié pour nos peches

[Tra noi e per noi, miei amici, / Giudico questa lunga lite della tradizione e dell'invenzione / Dell'ordine e delI'Avventura / Voi di cui la bocca è fatta a immagine di quella di Dio / Bocca che è l'ordine stesso / Siate indulgenti quando ci paragonate a ciò che furono la perfezione dell'ordine / Noi che bracchiamo dovunque l'avventura / Non siamo i vostri nemici / Vogliamo darvi vasti e strani campi / Dove il mistero si offre in fiore a chi vuole coglierlo / Ci sono là dei fuochi nuovi dei colori mai visti / Mille fantasmi imponderabili / Ai quali occorre dare la realtà / Vogliamo esplorare la bontà regione enorme dove tutto tace / C'è anche il tempo che si può cacciare o fare ritornare / Pietà per noi che combattiamo sempre alle frontiere dell'illimitato e dell'avvenire / Pietà per i nostri errori pietà per i nostri peccati]

Quanto a me, io raggomitolai nei miei sensi e sicuramente mi disporsi ad accumulare e pesare i miei materiali, per una costruzione che forse pensai, ed ora confermo, durerebbe fino al fine della mia vita. Dico sicuramente perché non è possibile predirsi a sé stesso e quello che lo fa è già condannato ed edito nella sua insincerità. Sincerità, in questa parola tanto modesta, tanto antica, tanto calpestata e disprezzata per il seguito risplendente che accompagna eroticamente all'estetica, sta forse definita la mia costante azione. Ma sincerità non significa una semplicista consegna dell'emozione o della conoscenza.
Quando sfuggii in primo luogo per vocazione e dopo per decisione da ogni posizione di maestro letterario, da tutta l'ambiguità esteriore che mi avrebbe smesso in trance perpetua di esteriorizzare e non di costruire, compresi in una maniera vaga che il mio lavoro doveva prodursisi in forma tanto organica e totale che la mia poesia fosse come la mia propria respirazione, prodotto ritmato della mia esistenza, risultato della mia crescita naturale.
Pertanto, se qualche lezione derivava da un'opera tanto intimamente e tanto oscuramente legata al mio essere, questa lezione potrebbe essere sfruttata oltre la mia azione, oltre la mia attività, e solo attraverso il mio silenzio.

Uscii nella strada durante tutti questi anni, disposto a difendere principi solidali, ad uomini e paesi, ma la mia poesia non potè essere insegnata a nessuno. Volli che si sciogliesse sulla mia terra, come le piogge delle mie latitudini natali. Non l'esigei né in cenacoli né in accademie, non l'imposi a giovani trasmigranti, la concentrai come prodotto vitale della mia propria esperienza, dei miei sensi, che continuarono aperti all'estensione dell'ardente amore e dello spazioso mondo.
Non reclamo per me nessun privilegio di solitudine: non l'ebbi se non quando mi fu imposto come condizione terribile della mia vita. Ed allora scrissi i miei libri come li scrissi, circondato dall'adorabile moltitudine, per l'infinita e ricca moltitudine dell'uomo. Né la solitudine né la società possono alterare i requisiti del poeta, e quelli che si reclamano di uno o di un altro esclusivamente falsificano la loro condizione di api che costruiscono da secoli la stessa cellula fragrante, con lo stesso alimento di cui ha bisogno del cuore umano. Ma non condanno né i poeti della solitudine né gli altoparlanti del grido collettivo: il silenzio, il suono, la separazione e l'integrazione degli uomini, tutto è materiale affinché le sillabe della poesia si uniscano precipitando la combustione di un fuoco incancellabile, di una comunicazione inerente, di una sacra eredità che da migliaia di anni si traduce nella parola e si alza nel canto.
Federico García Lorca, quel grande incantatore incantato che perdemmo, mi mostrò sempre gran curiosità per quanto io lavoravo, per quanto io stavo in trance per scrivere o finire di scrivere. Ugual cosa accadeva a me, uguale interesse ebbi per la sua straordinaria creazione. Ma quando io mi portavo in mezzo per leggere qualcuna delle mie poesie, alzava le braccia, gesticolava con testa ed occhi, si copriva le orecchie, e mi diceva: "No! No! Non continuare a leggere, non proseguire, che mi influenzi!."
Educato io stesso in quella scuola di vanità delle nostre lettere americane in cui ci combattiamo gli uni con gli altri con rocche andine o si galvanizzano gli scrittori a puri burattinai, fu saporita per me questa modestia del gran poeta. Ricordo anche che mi portava capitoli interi dei suoi libri, estesi rami della sua flora singolare, affinché io sopra di loro scrivessi un titolo. Così lo feci più di una volta. D'altra parte, Manuel Altolaguirre, poeta e persona di grazia celestiale, improvvisamente tirava fuori un sonetto incompiuto dalle sue tasche di tipografo e mi chiedeva: "Scrivimi questo verso finale che non mi esce." Ed andava via molto tronfio con quel verso che mi strappava. Egli era generoso.
Il mondo delle arti è una gran officina nella quale tutti lavorano e si aiutano, benché non lo sappiano né lo credano. E, in primo luogo, siamo aiutati dal lavoro di quelli che ci precedettero e si sa già che non c'è Rubén Darío senza Góngora, né Apollinaire senza Rimbaud, né Baudelaire senza Lamartine, né Pablo Neruda senza tutti loro insieme. Ed è per orgoglio e non per modestia che proclamo tutti i poeti i miei maestri, dunque, che cosa sarebbe di me senza le mie lunghe letture di quanto si iscrisse nella mia patria ed in tutti gli universi della poesia?
Ricordo, come se ancora lo avessi nelle mie mani, il libro di Daniel de la Vega, di copertina bianca e titoli in ocra che qualcuno portò alla casa di campagna di mia zia Telésfora in un'estate di molti anni fa, nei campi di Quepe.
Portai quel libro sotto l'odorosa frasca. Lì divorai Las montañas ardientes, così si chiamava il libro. Un estuario largo batteva le grandi pietre rotonde sulle quali mi sedetti per leggere. Salivano aggrovigliati gli allori poderosi ed i coigüe increspati. Tutto era aroma verde ed acqua segreta. Ed in quel posto, in piena profondità della natura, quella cristallina poesia correva scintillando con le acque.
Sono sicuro che qualche goccia di quei versi continua a correre nel mio proprio alveo, al quale arriverono anche dopo altre gocce dell'infinito torrente, elettrizzate da maggiori scoperte, da insolite rivelazioni, ma non ho diritto di eliminare della mia memoria quella festa di solitudine, acqua e poesia.

Siamo arrivati dentro un intellettualismo militante a scegliere all'indietro, scegliere quelli che previdero i cambiamenti e stabilirono le nuove dimensioni. Questo si è falsificarsi da sé stessi falsificando gli antenati. A leggere molte riviste letterarie di ora, si nota che alcune scelsero come zii o nonni Rilke o Kafka, cioè, quelli hanno già il loro segreto ben chiaro e con buoni titoli e fanno parte di quello che è già pienamente visibile.
In quanto a me, ricevei ora l'impatto di libri malfamati, come quelli di Felipe Trigo, carnali ed a lutto con quella lussuria ombrosa che sembrò sempre abitare il passato della Spagna, popolandolo di stregonerie e bestemmie. I fioretti di Paul Feval, quelli spadaccini che facevano brillare le loro armi basso la luna feudale, o il famoso mondo di Emilio Salgari, la malinconia fuggitiva di Albert Samain, il delirante amore di Pablo e di Virginia, i versi tripentalici che elevò Pedro Antonio González dando alla nostra poesia un accompagnamento orientale che trasformò, per un minuto, la nostra povera patria di cordigliere in un gran salone dorato e con tappeti, tutto il mondo delle tentazioni, di tutti i libri, di tutti i ritmi, di tutte le lingue, di tutte le api, di tutte le ombre, il mondo, infine, di tutta l'affermazione poetica, mi impregnò di tale maniera che fui successivamente la voce di quanti mi insegnarono una particella, passeggera o eterna, della bellezza.
Ma il mio libro più grande, più esteso, è stato questo libro che chiamiamo Cile. Non ho smesso mai di leggere la patria, non ho separato mai gli occhi dal lungo territorio.
Per virtuale incapacità mi rimase sempre molto da amare, o molto da comprendere, in altre terre.
Nei miei viaggi per l'Oriente estremo capii solo alcuni cose. Il violento colore, il sordido atavismo, l'emanazione degli incrociati boschi le cui bestie ed i cui vegetali mi minacciavano in qualche modo. Erano posti reconditi che continuarono ad essere, per me, indecifrabili. D'altronde neanche capii bene le rinsecchite colline del Perù misterioso e metallico, né l'estensione argentina delle pampe. Forse con tutto quello che ho amato il Messico non fui capace di comprenderlo. E mi sentii estraneo nei Monti Urales, malgrado lì si praticasse la giustizia e la verità del nostro tempo. In qualche strada di Parigi, circondato dall'immenso ambito della cultura più universale e della straordinaria moltitudine, mi sentii suolo come quegli alberelli del sud che si alzano mezzo bruciati sulle ceneri. Qui sempre mi accadde un'altra cosa. Si commuove ancora il mio cuore - sebbene sia passato tanto tempo - con quelle case di legno, con quelle strade scalcinate che cominciano in Victoria e finiscono in Porto Montt, e che gli uragani fanno suonare come chitarre. Case in cui l'inverno e la povertà lasciarono una scrittura geroglifica che io comprendo, come comprendo nella pampa grande del nord, guardata da Huantajaya, il sole che si pone sulle cime arenose che allora prendono i colori intermittenti, fantastici, folgoranti, risplendenti o cenerini del collo della colomba silvestre.

Io imparai da molto piccolo a leggere il dorso delle lucertole che esplodono come smeraldi sui vecchi tronchi marci della selva meridionale, e la mia prima lezione dell'intelligenza costruttrice dell'uomo ancora non ho potuto dimenticarla. È il viadotto o ponte ad immensa altezza sul fiume Malleco, tessuto con ferro fine, snello e sonoro come il più bello strumento musicale, sottolineando ognuna delle sue corde nell'odorosa solitudine di quella regione trasparente.
Io sono un patriota poetico, un nazionalista delle crete del Cile. La nostra patria commovente! Costa un poco intravederla nei libri, tanti rami militari hanno continuato a sfigurare la sua immagine di neve ed acqua marina. Un'aureola agguerrita che cominciò il nostro Alonso de Ercilla, quel padre diamantino che ci cadde dalla luna, ci ha impedito di vedere la nostra intima ed umile struttura. Con tante storie in cinquanta tomi ci fece dimenticare di guardare la nostra maiolica nera, figlia del fango e delle mani di Quinchamalí, la cesteria che a volte si intreccia con fusti di copihues. Con tanta leggenda o verità eroica e con quelli pesanti centauri che arrivarono dalla Spagna a ferirci gravemente ci si dimenticò che, nonostante La Araucana e del suo doloroso orgoglio, i nostri indios camminano fino ad ora senza alfabeto, senza terra ed a piedi nudi. Quella patria di pantaloni rotti e cicatrici, quell'infinita latitudine che ci limita dappertutto con la povertà, ha fecondità di creazione, piovosa mitologia e possibilità di granaio numeroso e genetico.
Conversai con le genti nei magazzini di San Fernando, di Rengo, di Parral, di Chanco, dove le dune avanzano fino a coprire le abitazioni, parlai di ortaggi coi contadini della valle di Santiago e recitai i miei poemi nella Vega Central, al sindacato dei caricatori, dove fui ascoltato da uomini che usano come abbigliamento un sacco legato alla vita.
Nessuno conosce come me l'emozione di dire i miei versi nel più abbandonato giacimento di salnitro e vedere che mi ascoltavano, come tostate statue ferme nella sabbia, sotto il sole straripante, uomini che usavano l'antico "cotona" o maglietta del salnitro. Nei tuguri del porto di Valparaíso, come in Puerto Natal o in Puerto Montt, o nelle officine della grande Santiago, o nelle miniere di Coronel, di Lota, di Curanilahue, mi hanno visto entrare ed uscire, meditare e tacere.
Questa è una professione errante e si sa già che da tutte le parti mi riprendono, ad orgoglio ce l'ho, non mangio più solo come un cileno, che non è dire poco, bensì come un buon compagno che è già molto dire. Questa è la mia arte poetica.

In Temuco mi toccò vedere la prima automobile, e dopo il primo aeroplano, l'imbarcazione di Don Clodomiro Figueroa che si staccava del suolo come un inaspettato bolentino senza più filo che la solitaria volontà di nostro primo cavaliere dell'aria. Da allora, e da quelle piogge del sud, tutto si è trasformato e questo tutto comprende il mondo, la terra, che ora i geografi ci mostrano meno rotonda, senza convincerci ancora bene perché tardino anora gli uomini a smettere di credere che non era tanto piana come si pensava.
Cambiò anche la mia poesia.
Arrivarono le guerre, le stesse guerre che in passato, ma arrivarono con nuove crudeltà, più devastanti. Da questi dolori che mi coinvolsero e mi tormentarono in Spagna vidi nascere il Guernica di Picasso, quadro che alla stessa altezza estetica della Gioconda sta anche nell'altro polo della condizione umana: uno rappresenta la contemplazione serena della vita e della bellezza e, l'altro, la distruzione della stabilità e della ragione, il panico dell'uomo per l'uomo. Così, dunque, cambiò anche la pittura.
Tra le scoperte ed i disastri che fecero trepidare le pietre abbasso i nostri piedi e le stelle sui nostri pensieri arrivò, dalla metà del secolo scorso fino ai principi di questo secolo, una generazione di straordinari genitori della speranza. Marx e Lenin, Gorki, Romain Rolland, Tolstói, Barbusse, Zola, si alzarono come grandi avvenimenti, come nuovi conduttori dell'amore. Lo fecero con fatti e con parole e ci lasciarono sopra al tavolo, sopra al tavolo del mondo, un pacchetto che conteneva un'abbondante eredità che ci spartiamo: era la responsabilità intellettuale, l'eterno umanesimo, la pienezza della coscienza.
Ma dopo vennero altri uomini che si sentirono disperati. Essi misero nuovamente di fronte al fogliame delle generazioni lo spettacolo dell'uomo terrorizzato, senza pane e senza pietra, cioè, senza alimento e senza difesa, barcollando tra il sesso e la morte. Il crepuscolo diventò nero e rosso, avvolto in sangue e fumo.
Tuttavia, le grandi cause umane rivissero fortemente. Poiché l'uomo non voleva perire si vide di nuovo che la fonte della vita può seguire intatta, immacolata e creatrice. Uomini di molta età come l'insigne lord Bertrand Russell, come Charles Chaplin, come Pablo Picasso, come il nordamericano Linus Pauling, come il dottore Schweitzer, come Lázaro Cárdenas, si opposero in nome di milioni di uomini alla minaccia della guerra atomica ed all'improvviso potei vedere l'essere umano che erano rappresentati e difesi tutti gli uomini, anche i più semplici, e che l'intelligenza non poteva tradire all'umanità.
Il continente nero che rifornì di schiavi e di avorio l'avidità imperiale, diede un colpo nella mappa e nacquero venti repubbliche. In America Latina tremarono i tiranni. Cuba proclamò il suo inalienabile diritto a scegliere il suo sistema sociale. Nel frattempo, tre ragazzi sorridenti, due giovani sovietici ed uno nordamericano, si fecero un abito strano e si allontanarono a passeggiare tra i pianeti.

È passato, dunque, molto tempo da quando entrai per la prima volta con riverenza alla casa avita di Pedro Prado, e da quando seppelli i resti di Mariano Latorre nel nostro disordinato Cimitero Generale. Seppelli quello maestro come se seppellissi il campo cileno. Qualcosa andava via con lui, qualcosa si integrava definitivamente nel nostro passato.
Ma la mia fede nella verità, nella continuità della speranza, nella giustizia e nella poesia, nella perpetua creazione dell'uomo, vengono da quello passato, mi accompagnano in questo presente e sono accorsi in questa circostanza fraterna in cui ci troviamo.
La mia fede in tutti i raccolti del futuro si afferma nel presente. E dichiaro, per quanto già si saapia, che la poesia è indistruttibile. Si farà mille schegge e tornerà ad essere vetro. Nacque con l'uomo e continuerà a cantare per l'uomo. Canterà. Canteremo.

Attraverso questa lunga memoria che presento all'Università e la Facoltà di Filosofia ed Educazione che mi riceve e che presiedono Juan Gómez Millas ed Eugenio González, amici a cui mi uniscono i più antichi ed emozionanti vincoli, avete ascoltato i nomi di molti poeti che circolano dentro la mia creazione. Molti altri non li nominai, ma anche loro fanno parte del mio canto.
Il mio canto non finisce. Altri rinnoveranno la forma ed il senso. Tremeranno i libri negli scaffali e nuove parole insolite, nuovi segni e nuovi timbri scuoteranno le porte della poesia.

Discorso letto da Neruda il 30 marzo 1962 nel Salone d'Onore dell'Università del Cile, durante l'atto della sua incorporazione alla Facoltà di Filosofia ed Educazione in qualità di Membro Accademico. Pubblicato in Pablo Neruda e Nicanor Parra; Discursos, Santiago, Nascimento, 1962, e raccolto in PNN, pp. 388-408.

Prefazione per "Sumario" (1962)

È questo il primo passo indietro verso la mia propria distanza, verso la mia infanzia. È il primo ritornare nella selva verso la fonte della vita. Si dimenticò già la strada, non lasciamo orme per ritornare e se tremarono le foglie quando passammo allora, oramai non tremano né fischia il raggio nefasto che cadde a distruggerci. Camminare verso il ricordo quando questo si fece fumo è navigare nel fumo. E la mia infanzia vista nell'anno 1962, da Valparaíso, dopo avere camminato tanto, è solo pioggia e nuvola di fumo. Vadano con lei quelli che mi amano: la sua unica chiave è l'amore.
È chiaro che queste raffiche disordinate nate al piede vulcanico di cordigliere, fiumi ed arcipelaghi che a volte non sanno ancora il loro nome, porteranno appiccicato la disubbidiente espadaña e le rughe ostili della mia origine. È così il patrimonio degli americani: nascemmo e crescemmo condizionati dalla natura che contemporaneamente ci nutriva e ci puniva. Sarà difficile cancellare questa lotta a morte, quando la luce ci battè con la sua scimitarra, la selva c'incitò per perderci, la notte ci ferì col suo freddo stellato. Non avevamo da chi recarsi. Nessuno ci fu prima in quelle regioni: nessuno lasciò per aiutarci qualche edificio sul territorio né dimenticò le sue ossa in cimiteri che solo dopo esistettero: furono nostri i primi morti. Il buono è che potemmo sognare nell'aria aperta che nessuno aveva respirato. E così furono i nostri sogni i primi della terra.
Ora questo ramo di ombra antartica deve ordinarsi nella bella tipografia e consegnare la sua asprezza a Tallone, rettore della suprema chiarezza, quella dell'intendimento.
Non pensai mai, nelle solitudini che mi originarono, di raggiungere tale onore e consegno queste parziali pagine alla rettitudine del grande stampatore come quando nella mia infanzia scoprii ed aprii un favo silvestre nella montagna. Seppi allora che il miele selvaggio che aromatizzava e volava nell'albero tormentato fu alloggiato in cellule lineari, e così la segreta dolcezza fu preservata e rivelata per una fragile e ferma geometria.

Valparaíso, 1962

Prefazione a Pablo Neruda, Sumario. Libro donde nace la lluvia,
Alpignano (Torino), A. Tallone stampatore, 1963.
Detto volume, senza questa prefazione, sarà il tomo I di
Memorial de Isla Negra, Buenos Aires, Losada, 1964.




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