Pablo Neruda e Insetti


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Neruda : Il ritorno del soldato errante (1952-1955) - 2^ parte

da 1939 a ...

III
ALLA PACE CON LA POESIA
(1953-1954)

Le due sirene

Di fronte al mare di Isla Negra due sirene,
Marta opulenta e Margarita alata
pettinavano fibre bionde e brune,
affascinati soavi ed affascinate.

Una era rubiconda luna piena,
l'altra come pesce o come spada:
una col sorriso ti incatena
mentre l'altra sogna, sveglia.

Ma c'è un punto chiaro da citare
all'incantesimo di Marta e Margarita
e le riunisce in un rumoroso abbraccio:

quando dimenticando forme e sfumature
si suonano, rombanti, le narici,
e ci stordiscono coi loro strombettii.

Sonetto umoristico di circostanza, probabilmente
scritto all'inizio di 1953 in Isla Negra. Le sirene
erano Marta Jara e Margarita Aguirre.
Raccolto in Varas, p. 22.

Alla pace con la poesia
A LA PAZ POR LA POESÍA. (Pagine 887-894.) Hace tiempo, en el Uruguay, un joven crítico (Tempo fa, nell'Uruguay, un giovane critico) [...] Neruda alludeva ad Emir Rodríguez Monegal, che più tardi svilupperà la tesi della relazione Bello-Neruda (la "Oda a la agricultura de la zona tórrida" come antecedente dell'americanismo di Canto general), nel suo libro El viajero inmóvil, Buenos Aires, Losada, 1966. - [...]uno de los más notables escritores del continente, que en una editorial de gran difusión dirige una colección [...] de novelas de crímenes y de terror [...] (uno dei più notevoli scrittori del continente, che in una casa editrice di grande diffusione dirige una collezione di romanzi di crimini e di terrore). Trasparente allusione a Jorge Luis Borges che allora dirigeva la collezione El Séptimo Circulo dell'editore Emecé di Buenos Aires. Il "settarismo" di quel periodo fa di questo paragrafo un'autocritica indiretta, e non del tutto sincera, perché si sa che Neruda fu sempre un gran lettore di romanzi polizieschi e thrillers.

Benché sembri strano, la suprema prova di una razza è la sua propria poesia. La presenza della poesia o la sua assenza, qualunque delle due cose, ci rivela un paese. Come la fioritura della rosa o l'iris, come il frutto maturo, copiosi o estesi i rami, questo è, in fin dei conti, il sine qua non, il brevetto di intera e risoluta grandezza di qualunque nazione, deve essergli severamente presa in consegna fino a che abbia prodotto poemi originali di prima classe. Le imitazioni non serviranno a niente.

Con queste parole di Walt Whitman voglio cominciare il mio intervento di oggi, la mia conversazione con voi sulla poesia. E perciò è questa la verità. La fisionomia del nostro continente la lavoreranno nella sua profondità minatori ed ingegneri, contadini e pescatori, guerriglieri e sostenitori, ma il viso del nostro continente sarà quello che gli danno i poeti.
Stiamo scavando, scoprendo ed intagliando la gran statua dell'America. Vogliamo lavare le macchie di sangue e di martirio che in tutte le epoche hanno spruzzato la sua statura. Vogliamo splendido il suo viso tra i grandi mari, pieno di luce e di allegria. Vogliamo dare ai suoi occhi un'espressione, un senso indimenticabile, vogliamo mettere nella sua bocca le più nobili parole.
Parlerò ora delle mie esperienze. Alcuni di voi sanno che il mio ultimo libro, il Canto general, fu scritto nella sua maggiore parte in giorni di persecuzione e difficoltà. Io non stavo nella prigione, ma era difficile scrivere senza avere comunicazioni con nessuno. Mi sembra che quei giorni che non voglio ricordare specialmente, erano ombrosi per i cileni. Io trovai che lavorare nella mia poesia era scavare nel tunnel oscuro per il quale pensavamo, era andare verso la luce.
Così andai componendo il mio lungo libro. Ebbi grandi difficoltà con me stesso. Il problema maggiore di questi anni nella poesia, e naturalmente nella mia poesia, è stato quello dell'oscurità e della chiarezza. Io penso che scriviamo per un continente in cui tutte le cose si stanno facendo e, soprattutto, in cui vogliamo fare tutte le cose. Le nostre genti stanno appena imparando professioni, artigianati, arti e mestieri. Per lo meno recuperandoli. I nostri antichi scalpellini, scultori e ceramisti furono quasi sterminati dalla Conquista: Le nostre città devono costruirsi. Abbiamo bisogno di case e scuole, ospedali e treni. Desideriamo averle tutte. Siamo nazioni composte da genti semplici che stanno imparando a costruire ed a leggere. Per quelle genti scriviamo.
Io ricordo che in un paese dell'Europa, un mio verso che causò le più grandi difficoltà per essere tradotto, fu quello frammento "Che di desti il boscaiolo", lì dove dice:

Ma io amo fino alle radici
il mio piccolo paese freddo.
Se dovessi morire mille volte
lì voglio morire:
se dovessi nascere mille volte
lì voglio nascere,
vicino all'araucaria selvaggia,
dell'uragano del vento meridionale,
delle campane appena comprate.

Questo di "le campane appena comprate" non potevano capirlo. Io parlavo dei paesi del sud del Cile, neonati, con campanile nuovo, con campane nuove. I miei traduttori domandarono agli spagnoli che cosa questo enigma poteva essere. Gli spagnoli rimasero perplessi. È chiaro, in Spagna, in Italia, in Polonia, è da secoli che si comprarono le campane.
Noi scriviamo per genti semplici che ora stanno comprando campane. Scriviamo per genti modeste che molte volte, molte volte, non sanno leggere. Tuttavia, sulla terra, prima della scrittura e della stampa, esistè la poesia. Perciò sappiamo che la poesia è come il pane, e deve condividersi fra tutti, gli avvocati ed i contadini, per tutta la nostra vasta, incredibile, straordinaria famiglia di paesi.
Io confesso che semplicemente scrivere è stato il mio più difficile impegno. Per quei giorni di persecuzione, nascosto in tante case di genti generose, con pochi libri alla mia portata, senza nessuno con cui consultarsi, mi trovai con me stesso. Non credo - e capite bene - di avere inventato mai niente. Tempo fa, nell'Uruguay, un giovane critico, lamento che non sia ora presente con noi, mi disse che la mia poesia somigliava più che a nessun altra a quella di un poeta venezuelano. Io non so se voi riderete quando ascolterete il nome di questo poeta, ma io risi di gusto: è Andrés Bello.
E bene, è Andrés Bello, il cui illustre nome decora questa sala vicino a quello di Sarmiento, che cominciò a scrivere prima di meil mio Canto general. E sono molti gli scrittori che sentirono primordiali doveri verso la geografia e la cittadinanza dell'America.
Unire il nostro continente, scoprirlo, costruirlo, recuperarlo, quello fu il mio proposito. Parlare con semplicità era il primo dei miei doveri poetici. Gli antichi pensatori patrizi, severi come Bello che come rettore non fu né opportunista né codardo, o come Rubén Darío, cascata inalterabile della lingua, c'indicarono questo verso semplicità e di costruzione continentale che ora ci riunisce.
Perché vorrei lasciare ben detto che, per i poeti, America o chiarezza, devono essere un solo nome equivalente.
Mi costò molto uscire dall'oscurità alla chiarezza, perché l'oscurità verbale è passata ad essere tra noi un privilegio di casta letteraria, ed i pregiudizi di classe hanno tenuto come plebea l'espressione popolare, la semplicità del canto. Qui sta tra noi un discendente tropicale del patrizio Martín Fierro, un gran plebeo, un poeta popolare cristallino ma pieno di saggezza che si chiama Nicolás Guillen. Egli può insegnarci molto. Il fatto è che, in tutta l'America, insieme alle caratteristiche dello sradicamento, di contrapatria, di irrealtà, va sempre unita nella nostra poesia americana un'espressione di casta, un desiderio di essere superiori facendoci oscuri. Questo fatto è il risultato della distanza tra i signori feudali col suo splendore e l'oscurità della gleba trasportata nel territorio della poesia. È il riflesso ed il trasferimento delle abitudini eleganti al materiale dell'intelligenza affinché questo conservi in qualche modo i segni signorili.
È, dunque, sulla base di chiarezza che possiamo comprenderci tra noi e farci comprendere dai nostri paesi L'oscurità di linguaggio della poesia è il vestigio dell'antico servilismo.
Lottai contro l'oscurità in quei giorni dentro la mia coscienza e del mio libro nascente, ma non credo di averlo meritato. Mi proposi di essere più semplice, ogni giorno, nei miei nuovi canti. Mi proporsi anche di abbracciare la nostra immensità americana senza avere la folgorazione degli eroi né passar sopra i crimini che ci hanno insanguinati. Ebbi seri dubbi se nominare o no vicino ai progenitori delle nostre patrie i piccoli villani che transitoriamente li macchiano, e decisi che sì, e così lo feci. Ma comprendo che né di eroi né di mascalzoni è completo il ruolo nel mio libro.
Così lavorai nel terreno della cronaca o memoriale che, in un principio, mi sembrò pietroso ed inospitale. Ma pronto trovai che quella cronaca poetica era stata fatta per tutti. Non c'è materiale antipoetico se si tratta delle nostre realtà. E noi dobbiamo compiere quel compito. I fatti più oscuri dei nostri paesi devono essere portati alla luce. Le nostre piante ed i nostri fiori devono essere per la prima volta contati e cantati. I nostri vulcani ed i nostri fiumi rimasero nei secchi spazi dei testi. Che il loro fuoco e la loro fertilità siano consegnate al mondo dai nostri poeti. Siamo i cronisti di una nascita ritardata. Retardata dal feudalesimo; dal ritardo, dalla fame. Ma non si tratta solo di preservare la nostra cultura, bensì di consegnargli tutte le nostre forze, di alimentarla e di farle fiorire.

Abbiamo parlato del cinema ed anche delle danze, dei canti e delle abitudini delle nostre terre americane. Sul cinema voglio aggiungere, benché esca da me materia essenziale che quello importato di Hollywood è, in generale, una terribile droga non solo contro le nostre abitudini, bensì contro la nostra morale. Non credo come Subercaseaux che il protestantesimo abbia dato ai paesi anglosassoni una superiorità etica. Credo che in tutti gli ambiti del mondo capitalista la morale sociale e la morale politica siano in grave crisi; ma credo che fare ostentazione di quella in immensa scala, con un macchinario tanto poderoso, è stato solo dato all'industria nordamericana del cinema. Non c'è dubbio che grandi artisti, come Chaplin - al quale oggi è impedito di ritornare negli Stati Uniti -, contribuirono col loro genio ad elevare in forma meteorica la cinematografia nordamericana. Ma questa, oggi, ricorre quasi esclusivamente alla pornografia e la violenza per sedurre le masse, alterando così brutalmente la formazione del nostro pubblico. Lo stesso succede con le riviste, false storie infantili e romanzi polizieschi. Tutta questa convulsione di sangue, di perversità e di orrore sciolta sui nostri paesi non può lasciarci indifferenti.
Ed all'ombra di tali alluvioni commerciali si va sterminando la manifestazione popolare e l'espressione delle nostre culture. Abbiamo il caso straordinario di uno dei più notevoli scrittori del continente, che in una casa editrice di gran diffusione dirige una collezione, non di classici o di maestri, bensì di romanzi di crimini e di terrore tradotti dall'inglese.
Non possiamo per tali obiezioni fondamentali stare contro le culture straniere alla nostra America. Al contrario, la saggezza del mondo c'insegna a trovarci ed abbiamo bisogno di tutta la creazione. Ma respingiamo la deformazione deliberata della mentalità del nostro paese fatta da grandi organizzazioni mercantili estranee.
Ho camminato molto con Walt Whitman in questo ultimo tempo. Già in 1880 il gran poeta nordamericano scriveva:

Io chiederei un programma di cultura tracciato non ferma una sola classe o per i saloni di conferenze, bensì con un occhio verso la vita pratica, all'ovest, ai lavoratori, ai fatti delle fattorie e degli ingegneri... Io chiederei di questo programma o teoria un'ampiezza tanto generosa che includesse la più larga area umana.

Naturalmente, questo è il vivo pensiero di un gran poeta che corrisponde alla salute intellettuale del continente.

Ma ritornando ai miei lavori, dopo il mio Canto general ed i miei viaggi per il mondo, ho scritto un libro, ancora senza nome, in cui raccolgo quello che più ho amato dell'antica e della nuova Europa. Richiamo nuova Europa l'Europa socialista Voglio che questo libro sia la mia contribuzione alla pace. In lui cerco i migliori fatti dell'Europa occidentale e dell'Europa orientale, cerco gli eroi ed i paesi, paesaggi e prodotti, terre, ponti, paesi, vini. Voglio che questo canto riunisca questa unità minacciata: il nostro mondo di oggi.
Perché noi poeti abbiamo doveri verso le essenze nazionali e verso la comunicazione con tutti gli esseri. Abbiamo anche un dovere supremo e è quello di contribuire alla pace del mondo. La non cultura è la guerra. La pace è la cultura.
Ed in questa tappa, il nostro dovere verso la cultura ci impone di preservarla, non solo dalla deformazione velenosa, bensì dalla distruzione totale. Perciò la nostra riunione è opera di pace. Io credo che questo congresso ha le presenze di esseri eminenti e cari, di rappresentanti di paesi fraterni, ma c'è qui un'assenza che mi tocca più direttamente. Io avrei voluto che stesse tra noi, col suo capello grigio, irsuto e la sua saggezza, il grande scrittore ed il nostro amico Ilyá Ehrenburg, come i suoi compagni, cinematografari e scienziati sovietici che, per ragioni che tutti conoscono, non poterono venire.
Io sento che senza di loro ci manca un elemento profondo nella nostra riunione. Conosco ed ammiro al popolo sovietico ed i suoi dirigenti per i loro straordinari fatti incancellabili nella storia umana. Ma quello che più ammiro di quella terra è la sua consacrazione alla cultura. Forse fra tutti, questo è il tratto più fondamentale e più impressionante della vita sovietica, con la fioritura piena dell'individuo, mai raggiunto prima nella storia.
Io vorrei che l'invito che facemmo questa volta ai nostri amici russi possa realizzarsi nella nostra terra prossimamente e mi piacerebbe che in qualche nazione dell'America, in una qualunque di esse, potessero riunirsi, magari entro alcune settimane o mesi, intellettuali venuti dell'Unione Sovietica con intellettuali venuti degli Stati Uniti del Nordamerica. Il mondo sta respirando con ansietà l'aria di una futura pace in Corea e del termine della spaventosa Guerra Fredda che ci sta gelando le anime. I grandi scrittori degli Stati Uniti hanno il dovere di dialogare coi valori culturali dell'Unione Sovietica. Il 20 dicembre del 1881, Walt Whitman scriveva: "Voi russi e noi americani, i nostri paesi tanto distanti, tanto differenti in condizioni sociali e politiche... e tuttavia, in certi tratti, e molto vasti, tanto simili l'uno all'altro... L'informe e nebuloso stato di molte cose che ancora non stanno permanentemente fissate, ma che stanno d'accordo sull'essere la preparazione di un futuro infinitamente più grande... sono in realtà caratteristiche che voi russi e noi americani possediamo in comune...."
Che queste parole di buona volontà e di ampiezza generosa possano confrontarsi nella nostra propria terra e grazie al nostro sforzo comune.

Io so che molti intellettuali impressionati dall'intensa propaganda contro la nostra riunione, o sinceramente convinti della cosa perniciosa dei nostri pensieri, non sono qui per conversare con noi o per ascoltarci. Io mi dispiaccio. È senza dubbio una perdita per noi, ma è una perdita molto maggiore per essi. È possibile che anche essi desiderino affermare il loro antagonismo con ragioni che devono interessarci.
Io credo che il passato ed il futuro si difendono e lottano in ogni uomo ed in ogni gruppo umano. Io credo sinceramente che quelli gruppi ostili, in un modo o nell'altro, sono legati ad un passato di accanimento, di divisione, di rancore e di ignoranza. Questo passato continuerà a lottare per sussistere.
Io credo nello splendore che viene. Credo nell'uomo e negli uomini. Io so molto bene che in tutti gli angoli della nostra America ci sono persecuzioni e violenze. Io so che le prigioni ci racconteranno terribili cose quando si aprono e si scriva in maniera onesta la martirizzata storia dei nostri paesi.
Ma io so che tutto questo passerà.
Io so che il nostro amato amico, uno dei più grandi artisti che sono esistiti in questo mondo, Paul Robeson, è stato ostacolato colla forza per assistere al nostro congresso.
Io sono sicuro che Paul Robeson sarà con noi nella nostra prossima riunione, a L'Avana, a Lima, a Bogotà o forse a New York.
Io ho fiducia nel tempo che viene. Questo tempo si costruisce davanti alla nostra vista, si costruisce davanti alla nostra vista la fraternità del futuro. La fraternità, figlia della pace, grappolo del gran vigneto umano.
Io so che in Spagna, in Turchia, in Grecia da anni, scrittori, artisti come maestri vivono imprigionati. Nell'isola di Makronisos, da molti anni, scrive dietro il fil spinato il gran poeta della Grecia Juan Ritsos. Io credo che tutto questo passerà.
Pochi anni fa io dovetti attraversare a cavallo la frontiera del Cile, clandestinamente, dovetti passare la gelata cordigliera mentre qui la persecuzione aumentava, la falsità ed il delitto erano armi ufficiali contro il popolo.
Una gran fraternità ed amicizia mi accolse da tutte le parti. Ed ora posso parlare a voi, delegati del continente, dal cuore stesso di Santiago di Cile che c'accoglie.
Questo non è un miracolo, bensì il tempo che avanza.
Questa fiducia in tutti gli uomini ci fa confidare ma, sperare più in noi stessi. Questa sicurezza di un destino umano è quello che ci congrega.
Alla chiarezza che risplenderà sulla terra si va unendo d'ora in poi la voce dei poeti, il canto universale dei miei fratelli. Perché il tempo che viene impianterà, tra molti doni, la ripartizione di tre tesori comuni a cui aspiriamo tutti gli uomini: il pane, la giustizia e la poesia.

Testo del discorso letto nel Teatro Caupolicán di
Santiago il 26.5.1953, davanti all'Assemblea Plenaria del Congresso Continentale della Cultura. Pubblicato in
El Siglo, Santiago, 31.5.1953.

[Credo che Diego Muñoz...]

Credo che Diego Muñoz sia lo scrittore più interessante del Cile. Ci sono nella nostra piccola letteratura figure maestose o singolari, ma nessun sviluppatore come Diego Muñoz. Scrisse improvvisamente anni fa la discordante nouvelle De repente, specie di Oblomov cileno, racconto ineguagliato in cui il protagonista principale è la miseria. Nonostante le concessioni di stile di quel breve romanzo, credo che questa descrizione estremista di un esasperato ambiente di sopore e rovina sarà considerata qualche giorno come un classico della nostra letteratura. È un'opera maestra del realismo pessimistico, cioè del passato.
Giorni dopo gli eventi che condussero alla caduta della dittatura, nel luglio del 1931, Diego Muñoz scrisse La avalancia (La valanga), testimonianza diretta di chi visse ora per ora quegli eventi, reportage vivo della lotta che si sviluppò di giorno e di notte, fino alla vittoria clamorosa. Per le pagine di quello romanzo fuggono o aggrediscono le moltitudini e gli individui la cui disubbidienza si slega per strada ed impera finalmente in lei per rimanere come avvertenza storica. Il realismo, l'obiettività di questo libro ansiosamente scritto ed edito, hanno fatto che lo si segnali, qui ed in altri paesi dell'America, come documento di quei cinque giorni di commozione.
Ma Diego Muñoz è un scrittore invisibile che sparisce all'improvviso, collocato in multiple azioni generose. Se lo è divorato un'ombra feconda. Riappare all'improvviso alzando alla luce alcuni racconti di mare e terre lontane, abbaglianti alcuni, col fulgore di cieli caldi, col raggio verde imprigionato nelle sue navigazioni.
Lo scrittore invisibile non se ne sta quieto. Patriota attivo, si fa scopritore e fertilizzante dell'intima leggiadria della patria: di dimenticata la poesia popolare. Apparve un giorno nella mia casa, dopo una qualunque delle sue assenze, con in braccio un albero. Questo albero antico e nobile si chiamò Abraham Jesús Brito, l'ultimo dei grandi poeti popolari del Cile. Grazie a Diego avemmo i poeti colti, il piacere di conoscere ed amare questo semplice e gigantesco albero del popolo e grazie a Diego potè il gran poeta analfabeta sedersi nel tavolo col presidente della Repubblica (naturalmente era Don Pedro Aguirre Cerda). Arrivò molto più lontano ancora che quel tavolo onorevole. Il libro delle poesie e canti di Brito edito e commentato da Diego Muñoz, fu conosciuto lontano dal Cile ed onorato nell'Unione Sovietica come pochi altri libri cileni, con l'attenzione, il rispetto e l'amore che lì si dispensa alle grandi opere da tutti i paesi.
Da allora Diego Muñoz unì il suo destino alla poesia popolare della nostra patria, contribuendo allo sviluppo inaspettato che oggi la caratterizza.
Diego è all'improvviso nel fondo piovoso della provincia, nel funerale di un bardo, aiutando nella solitudine del cimitero a scaricare la bara silvestre. Quindi nella redazione della Lira Popular, ordinando quantità di decime e sentenze che come fiume bello continua ad accumulare tristezze, birichinate, predilezioni, proteste ed avventure amorose del nostro popolo. Niente prima si ordinò e si pubblicò in forma viva di questa portata come lo fa Diego dalle foglie di El Siglo nella sua "Lira" e nessun paese della nostra lingua può vantarsi di tanto depurato e vivente tesoro.
Ed ora Diego Muñoz ci consegna la sua più poderosa impresa, il suo romanzo Carbon. Sono lunghe le vicissitudini di questo libro. Non è fresco l'inchiostro delle sue pagine. Lo sorprese la repressione nel periodo di quello clown sanguinario chiamato González Videla, Gabriel, come continuano a chiamarlo alcuni smemorati. Il libro fuggì come molti altri manoscritti. Gli artigli sporchi di quello governo continuavano a mettersi sulle nostre carte. Anche quel tirannello lanciò i suoi calci di ballerino di conga alla cultura, col desiderio di ferirla.
Ma la cultura albeggia dopo la notte persecutoria con viso di buona salute e nuove opere dello spirito nella mano. Una di esse è questo romanzo, purificato e fecondato da una di quelle assenze fertili dell'autore.
Questa è la storia con date e con nomi di uno dei settori più eroici del paese nella lotta di tutti i popoli per raggiungere la dignità che gli spetta. La storia che mostra per la prima volta nel nostro romanzo le lotte organizzate della classe operaia. In effetti qui non troverete il facile tema dell'uomo stanco per le fatalità della vita, né la disperazione suicida dell'eroe unico che si dibatte tra successive e malefiche trasformazioni. Questo è stato il tema dei migliori scrittori americani della borghesia che guardarono al paese con gli occhi della loro propria crisi e disorientamento politico. Piace alla classe dominante che, nelle epopee del paese che devono iscriversi forzosamente, il sentimento di impotenza davanti al male sia predominante. Così si nasconde o si posticipa nella letteratura l'uscita vittoriosa che incoronerà le lotte umane.
Questo libro ha un'altra concezione. È nato sfiorandosi coi minatori, nel fronte del lavoro, nelle case scalcinate frustate dall'inverno australe. È cresciuto con lo sciopero, coi movimenti della sua sorprendente resistenza. Ha la bellezza uguale di quelli passi sicuri, delle vittorie guadagnate corpo a corpo, con sacrificio inesauribile, con indurite organizzazioni del proletariato, con lo spirito indomabile del suo ferreo e generoso partito.
Per me risultava difficile scrivere su Diego Muñoz. Lo voglio troppo. Le nostre vite sono cresciute vicine in un'amicizia alla quale non ha mancato mai né il combattimento né la tenerezza.
Ma queste non sono solo parole del cuore bensì di una gioia comune: appaiono finalmente i frutti del realismo che necessitavamo come il pane. La storia della speranza, la verità nascosta ed i fatti dei nostri infiniti eroi non rimarranno nell'ombra.
Diego Muñoz ed altri scrittori, in tutto il mondo, hanno compreso ed intrapreso i doveri veri della creazione.

Isla Negra, novembre 1953

Prologo a Diego Muñoz, Carbón, Santiago,
Editrice Austral, 1953.


[Tutte le bandiere erano uscite alla strada]

Tutte le bandiere erano uscite nella strada. Le strade erano fiorite di rosso. A tutti gli alberi erano accorsi, i verdi germogli della primavera. Sembrava che tutta la popolazione dell'immensa città si fosse riunita lì, fiorendo anche, coi suoi sorrisi e rallegri movimenti.
Era un 1° di maggio a Mosca.
Allora si produsse un sussurro molto grande, un silenzio molto grande ed un'ovazione come immensa esplosione: era Stalin che saliva alla tribuna.
Io lo vidi solo quella volta. Era quell'uomo semplice che contemplava la sfilata del suo popolo.
Solo quella volta lo vidi.
Ma è passato il tempo e continuo a vedere quella mattina della primavera russa.
Alzarono un bambino alla tribuna. Un piccolo bambino con un ramo grande di fiori. E Stalin alzò nelle sue braccia al bambino ed i fiori.
Forse questo era accaduto molte volte, con molti uomini, con molti bambini e con molti fiori. Ma per me quello era differente.
Lì, nella sua urna, dormiva Lenin, il costruttore di paesi. Dietro, le belle antiche cupole del Cremlino erano i testimone del passato. Milioni di uomini, sicuri e sorridenti, come onde successive, avanzavano con rami, con bandiere, con stendardi e colombe.
Più in là la solenne terra russa si estendeva fino all'Asia. Migliaia di nuove coltivazioni, di nuove scuole, di nuove officine, la popolavano. Un vasto vento di fraternità veniva dalla steppa.
Io venivo da Occidente ed ogni giorno leggevo come leggiamo fino ad ora questa torva minaccia della guerra. Allora, come questa mattina nel giornale, cablogrammi da New York parlavano di "rappresaglie" atomiche sopra Mosca. In quei giorni uscivano piani da Mosca nei quotidiani, segnando il posto esatto dove devono lasciare cadere la distruzione atomica. Allora, come oggi, la voce minacciante della guerra pretendeva di spegnere tutte le voci.
Perciò, nella solennità della primavera, con tutta la grandezza della sua storia personale, di fronte allo stesso popolo che sopportò tanti dolori e compì tante pure imprese, mi sembrò che Stalin con quel semplice gesto, fermasse la guerra.
Mi sembrò che quel bambino che saliva al suo petto fosse la nuova umanità felice e che i fiori che confondevano la sua serena testa e quella dal bambino, erano la pace futura.
Forse per tutti quello non aveva più significato che il cerimoniale, e la sfilata non era più che il passo riunito di una patria felice.
Per me tutto era la solennità dei fatti più memorabili: mi sembrava che lì, in quello scenario di maestà imponderabile, si siglava un patto di pace tra l'intelligenza, la saggezza, il lavoro, la gioventù e la primavera. E questo accadeva nella nazione più grande e poderosa della terra.
Da allora pensai che la mia poesia doveva portare quel patto in tutte le parti, doveva propagare la pace con la mia propria lingua, con le mie parole di poeta.
Pensai che questa doveva avere un contenuto più chiaro che doveva avere il colore delle bandiere ed assicurare nei cuori la speranza.
Pensai che la mia poesia dovesse costruire ed attraverso la mia opera compiere un compito di paese: camminare costruendo, costruire cantando.
Perciò, ricevendo questo gran onore che uomini di molti Paese mi conferiscono, penso al nome che ha questa ricompensa, penso alla parola Stalin.
Io vidi nell'Unione Sovietica molte volte le piccole medaglie d'oro del premio Stalin nazionale sul petto di ingegneri e musicisti, di saggi e poeti. Ma niente mi emozionò tanto quanto vederli sul petto degli eroi del lavoro, dei minatori, dei ferrovieri, delle campagnoli koljosianas.
Condividevo il pane, il latte, la carne, il vino, la fecondità della terra sovietica, con quei campioni della pace e del lavoro.
E solo volevo che quello che io scrivo fosse tanto abbondante, tanto generoso e tanto fragrante come il pane che mi dettero. Vorrei che il mio lavoro, come quello di quegli uomini e donne portasse l'allegria a molti esseri.
Ho avuto la fortuna che solo questa epoca può procurare ai poeti, che le mie parole potessero arrivare alle più remote lingue e regioni, e ho coscienza che tra tutti i messaggi umani, quelli che possono raggiungere più profondamente l'umanità, sono i messaggi della poesia e della pace.
Non credo che sia facile scrivere sui sentimenti di tutti o sulla verità più visibile. Ma più che insegnare ai paesi, i poeti dobbiamo imparare la semplicità dei popoli.
Io mi trovai con l'orribile viso della guerra nel più inaspettato posto. Mi avevano invitato a visitare i boschi ed i laghi masuri, nel nord della Polonia. Le immense pinete ci circondavano. Sotto il soffice tappeto della selva profonda.
All'improvviso vidi le forze dello Stato Maggiore tedesco costruite lì per l'attacco all'Unione Sovietica. I cubi di cemento mi sembrarono più sinistri in mezzo alla pace silvestre.
Tutto quanto ho visto il ho trasformato in poesia per tutti voi. E un giorno appare il mio libro Las uvas y el viento. Come nelle mie opere anteriori, ho voluto che tutto il mondo passeggiasse per il Cile e conoscesse i cileni che i bulgari ed i cinesi conoscessero i nomi di O'Higgins e Recabarren, di Lautaro e Lafertte che i rumeni conoscessero, come me, come è la notte nella pampa o l'inverno in Coronel e Lota, come parlai con altri versi degli alberi e degli uccelli, delle strade e dei cammini, degli uomini, dele donne e dei bambini della mia patria, fino a che l'amassero, fino a che gli uomini più distanti sentissero la parola il Cile come una raffica marina che gli rinfrescasse il cuore, così con questo nuovo libro voglio che i cileni, che gli americani di tutto il continente, amino i paesi e le terre che percorsi nei miei viaggi e che vogliono solo essere conosciute ed amate.

Intervento nel Teatro Caupolicán, Santiago,
17.1.1954, ringraziando per l'omaggio per il premio
Stalin della Pace. Edita in El Siglo, 18.1.1954.

I nemici del Guatemala
LOS ENNEMIGOS DE GUATEMALA. (Pagine 901-913.) La preoccupazione di Neruda per la minaccia che incombeva sul governo di Arbenz si manifestò in diversi testi, di modo particolare nella "Oda a Guatemala" di Odas elementales (OCGC, vol. II, pp. 111-117).
INFANCIA Y POESÍA. (Pagine 914-928.) Allí había un retrato de mi madre (C'era lì un ritratto di mia madre): quello si perse, ma pochi anni prima della sua morte Neruda ebbe un altro ritratto di sua madre, forse un altro esemplare della stessa fotografia. Glielo inviò una signora, figlia o nipote di un'amica di Rosa Basoalto che l'aveva conservato. È il ritratto che appare in diverse pubblicazioni recenti, in Adios, poeta... (1990) di Jorge Edwards. - un penetrante aroma de lilas conventuales (un penetrante aroma di lilla conventuali): cfr. il poema "Sensación de olor" del 1920 con la sua fragranza di lilla (in questo stesso volume, p. 177). - A veces me llamaban mis tíos para el gran rito del cordero asado (A volte mi chiamavano i miei zii per il gran rito dell'agnello arrosto): questo passaggio riprende come aneddoto l'esperienza drammaticamente evocata in "La copa de sangre" del 1938, in questo stesso volume, pp. 417-418, e la mia nota al testo. - El verano es abrasador en Cautín. (L'estate è bruciante in Cautín) Attenzione all'episodio delle prugne mangiate con sale su un albero: il simbolismo positivo del sale in Residencia proviene senza dubbio da questo sapore di infanzia.

In un paese dell'America Latina, vicino agli Stati Uniti, poteva ammirarsi nel secolo scorso uno straordinario monumento. Era nel cimitero generale ed era un monumento ad una gamba.
La gamba appartenne, prima di stare nel monumento, ad un generale avventuroso che si fece padrone di tutto. Si faceva chiamare la Sua Altezza Serenissima. Fu un despota megalomane. Aveva una guardia personale con le uniformi copiate della guardia svizzera del Papa.
Questo dittatore visse circondato della lusinga e dei patimenti del suo popolo. In una certa occasione dovettero amputargli una gamba. Non c'era un altro rimedio. I medici procederono all'operazione. Tuttavia non volle il tiranno l'anestesia e si apprestavano i chirurghi a gettare la gamba amputata nella spazzatura, quando intervenne uno degli adulatori di palazzo, quello che espresse un'idea che nessuno osò contraddire: "Non poteva gettarsi in un immondezzaio una parte di Sua Altezza Serenissima". Non è questo corpo pieno di saggezza? Non si era questo corpo guadagnate innumerabili battaglie? Non era la gamba un importante frammento di quel corpo glorioso? L'idea si diffuse rapidamente. Bisognava dargli un funerale meritorio. Un monumento! suggerì l'adulatore. Un monumento! assentirono gli adulatori. Un monumento per la gamba illustre! pubblicarono i giornali del tiranno.
Poco dopo, verso il cimitero, su un affusto, andava la gamba seguita dal gabinetto, tutti in finanziera: seguivano gli ambasciatori stranieri e tre o quattro reggimenti alle cui bande toccavano gli inni funebri. Dopo il discorso dell'ambasciatore inglese e del direttore di informazioni della Repubblica, alla decima cannonata delle salve ufficiali discese nella terra la gamba dal generale. Lì rimase rinchiusa nel bel monumento di marmo.

ESPLODE LA RIVOLUZIONE E FUGGE IL DITTATORE

Alcuni anni dopo esplose la rivoluzione. Il paese era stato dissanguato per la dittatura. Il paese, stanco della sua oppressione, si alzò iracondo. Ma fece un errore. Gli abitanti si recarono in massa al cimitero e spianarono il monumento della gamba immortale.
Nel frattempo il dittatore, molto rapido di pensiero, e con la gamba che gli rimaneva era fuggito per sempre. Dove era fuggito? Chi l'aveva protetto?
L'ambasciata degli Stati Uniti dell'America del Nord. Lì fu ben albergato. In quel paese visse fino al fine della sua seconda gamba.

LA DITTATURA DI MACHADO A CUBA ED ALTRE

Non molto tempo fa, solo alcuni anni fa, governava Cuba una bestia sanguinaria. Si chiamava Machado. Comandò di assassinare in Messico, dove si era rifugiato, al giovane leader del paese cubano José Antonio Mella. Sparivano i leader dalla resistenza o i nemici personali di Machado. Molte volte erano messe in sacchi e dopo gettati vivi in mare. Negli stomachi degli squali che si pescavano nella baia si trovavano dopo gli orologi o gli anelli dei morti.
Un'insurrezione popolare abbattè a Machado. E sapete voi dove si nascose questo cannibale? Io me lo dico.
Nell'ambasciata nordamericana, e, tranquilito, visse fino alla fine dei suoi giorni nel migliore hotel di Miami.
In San Salvador governò fino a pochi anni fa un tiranno terribile. Si chiamava Martínez. C'era agitazione tra i contadini. La fame li martirizzava. Il dittatore proclamò lo stato di assedio. Disse che i comunisti volevano impadronirsi del governo. Lanciò il suo esercito contro i villaggi indifesi. Fu il maggiore massacro dell'America Centrale. Ammazzarono trentamila contadini, uomini, donne e bambini. I villaggi rimasero pieni di morti insepolti. Non si poteva passare per le strade. L'odore dei cadaveri arrivava a chilometri di distanza.
Più tardi, quando Martínez fu abbattuto da una rivoluzione popolare, fu ricevuto immediatamente ed occultato nella democratica ambasciata nordamericana. Non so se il signor Beaulac, ambasciatore nordamericano in Cile che già allora era diplomatico, lo riceverebbe offrendogli caffè e sigari. Forse farebbe altro. Gli ambasciatori nordamericani sono straordinariamente cortesi con questa classe di ospiti. Il tiranno Martínez, di El Salvador, finì i suoi giorni a Miami, in una buon palazzina.

IL TIRANNO ESTRADA IN GUATEMALA

In Guatemala governò per più di 20 anni un certo Estrada Cabrera. C'è un gran romanzo che potete trovare da tutte le parti e che descrive la vita di Estrada Cabrera e le terribili sofferenze della Guatemala in quegli anni. È El señor presidente, di Miguel Ángel Asturias.
Quando stetti in Guatemala mi raccontarono due fatti che vado a raccontarvi.
Il paese viveva già molti anni di terrore: i giovani cadetti della Scuola Militare complottarono contro il tiranno. L'insurrezione doveva esplodere durante una visita del presidente alla Scuola Militare. I giovani andavano ad essere in formazione affinché il dittatore passasse loro in rivista. Quando abbassavano la bandiera per salutarlo sarebbe stato il segno per catturarlo.
Qualcosa manco nel piano. Prima di abbassare la bandiera, le truppe circondarono la scuola. Quindi entrarono. La carneficina durò tutto il giorno. Ammazzarono tutti i cadetti, gli assistenti, le infermiere, i medici e gli ufficiali. Cercarono nelle loro case quegli studenti che erano malati o in ferie e lì, nel seno delle sue famiglie, nei punti più distanti della capitale, li uccidevano. Quindi il dittatore fece demolire la Scuola Militare. Il posto vuoto rimase lì per anni e anni, per monito dei guatemaltechi. Solo poco tempo fa si ricostruì questa scuola.
Orbene, anche il dittatore Estrada Cabrera fu abbattuto. Miguel Ángel Asturias era molto piccolo allora. Mi raccontò, tuttavia, come ricordava i fatti. Estrada Cabrera era ragazzetto e sempre foderato nel suo mantello nero. La moltitudine infuriata l'aveva perseguitato. Gli incendi segnavano l'orizzonte. Un rumore di furia usciva da tutte le case. In tutte quelle case qualcuno era stato assassinato. Il paese si affollava nel suo collera. Allora, con passetti brevi, uscì verso l'automobile diplomatica, Estrada Cabrera. Il vecchio sciacallo andava al braccio dell'ossequioso ambasciatore nordamericano. Entrarono insieme all'automobile. Ci fu un silenzio di stupore.
Estrada Cabrera passò negli Stati Uniti i suoi ultimi anni, confortato dalla democrazia nordamericana, tanto generosa nel suo asilo!
Io arrivai nel Guatemala quando governava un despota che aveva il complesso napoleonico. Si lasciava un ciuffo come Bonaparte. Si chiamava Jorge Ubico.
Era un despota ombroso. Guatemala, la terra della luce sorridente, era ombrosa sotto gli stivali di Ubico. Lì stavano i miei amici. La poesia era solo un sussurro. Alle mie domande si rispondeva in maniera strana, guardando da tutti lati, all'indietro, verso il tavolo vicino nel ristorante. Le pareti sentono. Finalmente compresi. E per conversare di qualcosa, inventiamo il picnic. Quando eravamo ben lontani della città conversavamo. Ma prima i miei amici guatemaltechi guardavano verso tutti i lati, e benché gli alberi stessero a trenta metri da loro, davano una passata rapida per accertarsi che nessuno ci spiava. Si temeva dell'aria. Perfino gli uccelli della selva potevano ripetere qualcosa.
Potei vedere da molto vicino al dittatore Ubico. Fui col ministro del Cile alla sfilata militare delle festività nazionali. Di fronte alla nostra tribuna scese da un puledro bianco, mentre i cortigiani correvano incontro a lui. Quando passò vicino a noi, il ministro del Cile si avvicinò a salutarlo. L'uomo gli strinse freddamente la mano. Il ministro tornò verso me per presentarmelo. Io gli dissi all'orecchio: "Se lei me lo presenta lo lascerò con la mano allungata." Il ministro, molto agitato, mi rispose in un mormorio: "Questo è molto grave; il nome del Cile sta in mezzo". Gli risposi in voce più alta: "Io rappresento il nome del Cile, e non gli darò la mano." Il giorno dopo, il ministro arrivò radiante al mio camera di hotel. "Il signore Ubico - mi disse - è un uomo geniale: non sa solo di cavalli, ma anche di poesia. Ha deciso di pagare il suo viaggio di ritorno al Messico. Questo è un onore per il Cile."
Io viaggiavo senza denaro. Ero stato sospeso delle mie funzioni di console per avere dato il visto di entrata al Cile del gran pittore messicano David Alfaro Siqueiros. Il ministro che aveva preso questa misura contro me fu Juan Bautista Rossetti.
Dissi al ministro che non accettavo il viaggio. Allora i miei amici propiziarono un recital delle mie poesie. Questo recital riempì il teatro e con questo pagai il mio ritorno. Ma i miei amici mi raccontarono, molto tempo dopo che mentre io leggevo i miei versi, il teatro era circondato da distaccamenti con mitragliatrici.

PAESE DI BELLEZZA INCOMPARABILE

Mai dimenticherò il Guatemala. Viaggiando dal Messico, rimangono dietro le selve del Chiapas e si entra in una delle regioni di maggiore bellezza nel pianeta. Tutto lo copre la straripante sovranità della selva. Saliamo e si elevano gole incredibili, Vegetazione, fiumi come valanghe rompono la loro schiuma contro le liane, grida spettrali di uccelli, fiori favolosi nell'altezza gigante degli alberi, uccelli di lucentezza accecante, fragranze di mogano. La nostra terra americana diede al piccolo Guatemala tutto il campionario della sua grandezza. Ad una grande altezza i laghi di inquietante profondità guardano al cielo con vecchi occhi di turchese impassibile. E nel bordo di questi laghi ostentano giornalmente i loro vestiti di colore straordinario le più colte ed antiche razze di uomini americani. Sotto la selva ancora dormono i tesori sacri, le steli, gli altari, gli edifici della gran civiltà maya. In Quetzaltenango, in Totonicapán vidi gli indios dentro la cattedrale accendere centinaia di candele nel suolo e conversare coi loro antichi dei che ispirarono i gioielli e le costruzioni, i tessuti e la poesia. Negli altari delle chiese gli dei cristiani sono solo decorativi, e con le loro barbe, sono il ricordo dei crudeli conquistatori.
Io non potrei entrare nella politica senza parlare dell'imponderabile bellezza del Guatemala. Forse per quel motivo mi faccia più male che a nessuno l'unghiata che pretende di lacerarlo le viscere di nuovo. Chi è entrato per il Fiume Dulce della pululante notte del tropico, chi ha visto attraversare i grandi pesci fosforescenti vicino all'imbarcazione, mentre tutti i suoni della selva e dell'acqua si concertano e si alzano, mentre tutti i profumi penetrano nel cuore, mentre tutte le stelle accumulano il loro platino tremulo nell'oscuro cielo; chi si è sentito muto e piccolo circondato dalla bellezza primordiale della nostra America, concentrata in Guatemala, non può dimenticarlo mai.
Ma non trovai solo una gran bellezza in Guatemala, bensì una bontà d'ambienti, una volontà creativa. Ritornai alla piccola repubblica quando l'ultimo dittatore era stato accolto nell'ambasciata nordamericana e quando per la prima volta un governo intelligente ed umano, quello del signor Arévalo, elevava alla dignità e la coscienza la piccola repubblica dimenticata.

UNA NUOVA VITA E FEDE IN LA LIBERTÀ

Sono belle le rovine degli antichi tempii, sono degne di ogni poesia gli alberi ed i fiumi della terra americana, ma non c'è nient'altro più bello che vedere rinascere la libertà nelle regioni dove l'oppressione fu più costante. Io ho visto parlare di nuovo il paese del Guatemala, avere fede in sé stesso, ho visto la speranza sorridere sulle sue labbra.
Ho visto negli stadi costruiti da Arévalo ed Arbenz, le moltitudini senza paura, proclamando la loro fede nella rinascita della loro patria. Ho dato la mano ai contadini che hanno ricevuto terre e che hanno smesso di essere schiavi, sono entrato nei nuovi ospedali e nelle nuove scuole, costruiti contro l'avidità e la collera delle compagnie nordamericane. Nelle terre in cui l'oppressione, il martirio ed il silenzio sembravano endemici, io ho visto di nuovo la libertà creativa, ho confermato lì la mia profonda fede nell'uomo.
Dobbiamo comprendere che i presidenti Arévalo ed Arbenz sono per il Guatemala quello che i padri della patria sono per i cileni. In una terra incatenata sono i costruttori della giustizia, in una nazione saccheggiata da stranieri senza scrupoli sono i capitani dell'indipendenza, in un paese che sembrava abituato al vassallaggio sono i rettori di una nuova morale. Hanno dato alla loro patria quello che gli sottraevano da un secolo: coscienza nazionale, giustizia, volontà ed allegria.

AFFILANO GLI ARTIGLI DI L'INTERVENTO

Per noi gli americani, non ci stupisce che il governo terroristico di Washington affili gli artigli per distruggere la libertà del Guatemala. Tentandolo per mezzo dei governi satelliti della riunione di Caracas, non fa altro che continuare la tradizione impudica, famelica e bestiale dei nordamericani in America Centrale. Nessuno si sbaglia in questa gran commedia. Dai bordelli che dirigevano, il compagnie imperialiste estrassero al sanguinante Trujillo, che da trenta anni schiavizza la nazione dominicana. Con le mani bagnate dal sangue dell'eroe Augusto Sandino il governo degli Stati Uniti installò sul trono del Nicaragua il depravato Tacho Somoza.
Questi sono i governanti che la Casa Bianca nomina come ideali per tuttala nostra America. Quando un paese resiste e vuole riconquistare insieme al suo rame, il suo stagno, il suo caffè, le ricchezze del suo territorio, i suoi diritti e la sua sovranità il governo di Washington tocca il tam-tam e riunisce a Caracas o in un altro posto ai suoi servi delle Americhe per legger loro un racconto di fate in cui egli appare difendensore la libertà. Noi latinoamericani conosciamo la libertà che desiderano per noi i padroni dei monopoli, i fabbricanti di cannoni ed il signor Foster Dulles. Che ricordino quelli che dicono sì a Washington, i nicaraguensi mitragliati dai fucilieri nordamericani nelle spiagge del Nicaragua, gli uomini di Texas e Porto Rico, fino ad oggi obbligati a riverire una bandiera che odiano che ricordino i sudamericani a Caracas come a Valparaíso i pirati della Nordamerica umiliarono la bandiera del Cile, e come a Veracruz distrussero coi loro cannoni i monumenti storici del Messico, massacrando le donne ed i bambini messicani.
Ma se non vogliono ricordare questi capitoli ombrosi, che almeno ricordino il prezzo del rame, dello zucchero, dello stagno, del salnitro, dei prodotti del sottosuolo dell'America che i governanti venali consegnarono al dominio dello Shylock nordamericano. E che ricordino le nostre moltitudini straccione, i nostri bambini senza scuole e senza scarpe.

QUELLO CHE DEVE RICORDARSI A CARACAS

Se i governi dell'America Latina rappresentassero come quello del Guatemala i nostri paesi, questa conferenza di Caracas avrebbe un'opportunità meravigliosa. Sarebbe quella di affrontare a governo degli Stati Uniti e chiedergli che finisca la sua politica di Guerra Fredda e saccheggio. Da anni noi andiamo alle ambasciate nordamericane intervenendo in beneficio dei paesi dell'America. Ci ricevono solo nelle cancellerie le visite di quei diplomatici per far pressione senza misericordia sui governi latinoamericani con maggiori esigenze per le compagnie sfruttatrici, oppure per esigere nuove leggi repressive, nuovi tributi di sangue.
Non possiamo aspettare gran cosa della nostra missione a Caracas. Solo che mantenga la promessa ufficiale di non intervento in Guatemala. Ma vicino alla voce della Guatemala, che fa onore all'America, vicino alla voce di Morazán, sarebbe stato bello ascoltare la voce di O'Higgins. Ma, per lo meno, possiamo dire al Guatemala e tutti i patrioti dei paesi dell'America: la voce del Cile non sta a Caracas, sta in questo consesso, sta nel campo e nelle miniere, sta per strade di Santiago, sta nei patimenti del nord, nei minatori di Chuquicamata, negli operai della costruzione, nei balenieri dell'Antartide, nei nostri operai di fabbriche, nei nostri impiegati agguerriti, nei nostri professionisti, nei nostri scrittori ed artisti. E sta con il Guatemala e con la liberazione dell'America Latina, sta col paese della Guayana inglese oppresso dall'Inghilterra, e col paese di Porto Rico oppresso dal governo nordamericano. Il paese cileno conosce già questa zuppa velenosa dell'anticomunismo. Non se la divora. Che se la servano con piacere gli eleganti delegati che sono andati a Caracas a rappresentare a nome dell'America Latina gli interessi nordamericani.

CADONO LE TENEBRE SUGLI USA

Stiamo attraversando una tappa sventurata della storia. I poderosi monopoli nordamericani hanno installato un regime di terrore dentro gli Stati Uniti. Dal Nordamerica non possono uscire le migliori figure dal pensiero di quello Paese. Einstein è vigilato per la polizia, la Gestapo agisce già dentro l'esercito. Il maggiore genio della cinematografia, l'attore più illustre della storia, creatore del cinema nordamericano, Chaplin, non può ritornare in Nordamerica, e sua moglie, la figlia del famoso drammaturgo O'Neill, ha rinunciato alla sua nazionalità. Centinaia di processati politici arrivano ogni giorno nelle prigioni da quel paese. Gli investigatori scientifici si vedono minacciati. Gli scrittori non possono parlare.
Le tenebre stanno cadendo sugli Stati Uniti dell'America del Nord.
Le colonne costruite per Jefferson e Lincoln sono corrotte e tarlate dai grandi monopolisti, dai criminali della Guerra Fredda.
Pensiamo alle sofferenze del paese nordamericano. Tuttavia, trecentomila giovani morti in Corea non soddisfano i nuovi cannibali.
Sappiamo che nelle case della Nordamerica si agitano la paura ed il dolore. Dedichiamo la nostra più profonda simpatia a quel grande popolo che per la volontà di alcuni estorsori deve convertirsi in boia di altri paesi.
Vogliono trasformare il Guatemala in una nuova Corea. Di punto in bianco inventeranno l'invasione del Nicaragua come inventarono l'invasione della Corea del Sud. Per spegnere la libertà e la luce in Guatemala sono ricorsi già a tutta la loro stampa mercenaria, alla stampa che come El Mercurio di Santiago del Cile riceve mensilmente i dollari necessari per sotterrare l'indipendenza delle nazioni latinoamericane.
Ma non lo permetteremo.
Che il nome del Guatemala sia portato di bocca in bocca, di orecchio in orecchio, di casa in casa, di paese in paese, per le strade dell'America, che questo nome simbolizzi la resistenza di tutte le nostre nazioni.
Che la parola Guatemala significhi David contro Golia, la vittoria dell'uomo sul mostro e sulla coscienza dei diritti e dei destini dei nostri paesi.

SOLIDARIETÀ AMERICANA CON IL GUATEMALA

Che conosca il Guatemala, in questa ora di minaccia, la solidarietà del continente. Che esca qui da un messaggio per il presidente Arbenz.
Che sappiano i contadini come si sono ripartite lì le terre a coloro che le lavorano, e che sappiano gli studenti come un piccolo paese sfidò le poderose compagnie di forca e coltello, quelle che solevano subodirnare e terrorizzare quasi a tutti i governi centroamericani.
Che si conosca in tutti gli ambiti la lotta che per la sua vita e per la sua indipendenza sostiene la nazione guatemalteca. Io mi rivolgo agli operai e contadini del Guatemala, e dico loro:
"Fino ad oggi vi siete battuti valorosamente. Ma più che mai in questa ora avete bisogno dell'unità del paese. La bandiera dell'indipendenza deve stare nelle mani di tutti i patrioti."
Ai grandi artisti e scrittori della Guatemala, a Miguel Ángel Asturias, a Cardoza ed Aragón, a Carlos Mérida, al gruppo Saker Ti, a Raúl Leiva, ed ad altri gli dico: "ammiriamo la dignità delle vostre opere, conosciamo con quale fervore avete abbracciato la causa popolare della vostra patria, e vi salutiamo con emozione ed affetto. Sappiamo che lotterete sommando tutte le forze dello spirito affinché il Guatemala non sia fermato durante il tragitto della sua libertà."

ONORIAMO CON AMORE IL GUATEMALA

Io cominciai da raccontarvi le storie tragiche e grottesche del dispotismo nelle terre del nord. Finirò raccontandovi un'ultima storia.
Quando nel secolo XV i conquistatori spagnoli scaricarono la loro furia e la loro avidità nel nostro continente, uno di essi, forse il più crudele di tutti, invase il Guatemala. Si chiamava Alvarado ed era il luogotenente di Hernán Cortés.
I pacifici principi indigeni uscirono in strada a riceverli e cantarono i giovani nel suo onore. Con ghirlande li incoronarono.
Dopo il banchetto imperiale, Alvarado chiese per quella notte ragazze della nobiltà per i suoi capitani. Molto si turbarono i principi indigeni, ma gliele concedettero.
Alla mattina seguente Alvarado imprigionò i figli dei principi e richiamando questi disse loro: "Se questo pomeriggio non m riempite d'oro questa stanza, i vostri figli saranno bruciati vivi."
Da quello giorno i conquistatori spagnoli rasero al suolo quanto esisteva ed insanguinarono la dolce terra che li ricevè con tanti doni.
Passano i secoli e nuovi conquistatori invadono l'America centrale. Si instabillano le compagnie della frutta. Sono ricevuti con danze e con brindisi dai governi. Chiedono le ferrovie. Gliele danno. Esigono le dogane. Gliele consegnano.
Allora installano i loro governi, i loro burattini sanguinari.
E per riempire di oro le banche di New York ed affinché ci sia più lusso nella Quinta Strada sono dissanguate senza povertà le terre centroamericane. Sappiamo che il Guatemala, il suo popolo ed il suo governo, significano in questa ora la resistenza contro gli ostinati despoti sfruttatrici di quelle terre meravigliose. Il Guatemala ha detto che si ferma ora questo stato di cose e qui ci riuniamo per celebrare il significato e l'insegnamento che il Guatemala ci trasmette.
Ma sappiamo anche che i nemici del Guatemala sono gli stessi che minacciano la pace nel mondo. Sono quelli che installano una cintura di bombe atomiche col proposito di abbattere le costruzioni del mondo socialista. Sono quelli che rinnovano il militarismo tedesco e lo spirito di rivincita delle antichi formazioni hitleriane. Sono gli stessi che sostengono Franco seduto su un milione di morti spagnoli. Sono gli stessi che aiutano gli ipocriti imperialista francesi a soggiogare agli eroici paesi dell'Indocina. Sono gli stessi che sostengono a Formosa un pugno di corrotti briganti sloggiati della Cina dalla volontà del popolo. Sono gli stessi che nell'Iran, nell'Egitto ed in Arabia si impadroniscono del petrolio e di altre materie prime attraverso l'intrigo, la violenza e la corruzione.
Ha, dunque, l'onore il Guatemala di avere contro le poderose ed ooscure forze regressive della nostra epoca. Ha l'onore il Guatemala, piccola, bella e luminosa nazione della nostra America di far precipitare l'odio di coloro che maneggiano l'odio, di sopportare la guerra di coloro che preparano la guerra.
Onoriamo la piccola ed eroica nazione sorella con l'amore di coloro che credono nell'amore, con l'onore di coloro che difenderanno l'onore della loro PATRIA con l'adesione di tutti quelli che sanno che la sua indipendenza e la sua libertà sono questione di amore e di onore per tutti i paesi dell'America.

Discorso letto nel Teatro Caupolicán, Santiago, febbraio 1954. Edito in El Siglo, Santiago, 1.3.1954.

Prologo per Nicanor Parra

Tra tutti i poeti del sud dell'America, poeti eccessivamente terrestri, la poesia versatile di Nicanor Parra si distacca per il suo fogliame singolare e le sue forti radici. Questo gran trovatore può di un solo volo attraversare i più ombrosi misteri o arrotondare come una stoviglia il canto con le sottili linee della grazia.
La vocazione poetica in Nicanor Parra è tanto poderosa come lo fu in Miguel Hernández.
La sua maturità lo porta alle esplorazioni più difficili, mantenendolo tra il fiore e la terra, tra la notte ed il suono, ma ritorna di tutto con piedi sicuri. In tutto lo spessore della poesia rimarranno marcate le sue orme australi.
Questa poesia è una delizia di oro mattutino o un frutto consumato nelle tenebre. In ogni caso il poeta Nicanor ci lascerà intrisi di freschezza o di stelle.

Isola Nera, giugno 1954

Nota-prologo a Nicanor Parra, Poemas y antipoemas,
Santiago, Nascimento, 1954.


IV

TESTI DEL 50.° COMPLEANNO
(Gennaio-Luglio 1954)

Infanzia e poesia

Per sapere e raccontare e raccontare per sapere... devo incominciare così questa storia di acque, piante, boschi, uccelli, paesi, perché è questa la poesia, per lo meno la mia poesia. Ma innanzitutto, se qualcuno si sente scomodo, quello sono io. Non solo perché devo parlare di me stesso, bensì perché devo parlare mentre voi potete pensare a quello che vi piace, che è quello che mi piacerebbe fare a me.
Il cuore dei poeti è, come tutti i cuori, un interminabile carciofo, ma in esso non ci sono solamente foglie per donne in carne ed ossa, per amori veri o sogni persistenti, bensì per tutte le tentazioni della vita, anche per la vanità. Non c'è vero poeta senza qualche vanità, come non ci sono neanche grandi poeti inediti. Allora continuerò a tirare fuori le foglie dalla vanità per consumarle tra noi, poiché così me lo hanno chiesto. Spero che sia una delle ultime volte e che tutto il resto, le altre foglie che tiro fuori dal cuore, siano puro prodotto, alimenti vegetali, celesti e terrestri, poesia...
I miei trisnonni arrivarono ai campi di Parral e piantarono vigne. Ebbero alcune terre scarse e quantità di figli. Nel decorso del tempo questa famiglia si accrebbe con figli che nascevano dentro e fuori della casa. Produssero sempre vino, un vino intenso ed acido, vino povero, senza raffinare. Si impoverirono a poco a poco, uscirono dalla terra, emigrarono, tornando per morire alle terre polverose del centro del Cile.
Mio padre morì in Temuco, perché era un uomo di altri climi. Lì è sepolto in uno dei cimiteri più piovosi del mondo. Fu cattivo agricoltore, mediocre operaio della diga di Talcahuano, ma buon ferroviere. Mio padre fu ferroviere di cuore. Mia madre poteva distinguere nella notte, tra gli altri treni, il treno di mio padre che arrivava o usciva dalla stazione di Temuco.

Pochi sanno quello che è un treno da ghiaia. Nella regione australe, di grandi uragani, le acque si porterebbero le rotaie, se non gettassero loro piccole pietre tra le traversine, senza trascurarle in nessun momento. Bisogna tirare fuori con sporte la zavorra dalle cave e rovesciare la pietra minuta nei carri piani. Quaranta anni fa l'equipaggio di un treno di questo tipo doveva essere formidabile. Doveva rimanere nei posti isolati sminuzzando pietre. I salari dell'impresa erano miserabili. Non si chiedevano i precedenti di quelli che volevano lavorare nei treni da ghiaia. La squadra era formata da giganteschi e muscolosi uomini. Venivano dai campi, dei sobborghi, delle prigioni, mio padre era il conducente del treno. Si era abituato a comandare ed ad ubbidire. A volte mi portava via dalla scuola ed io andavo nel treno da ghiaia. Sminuzzavamo pietre a Boroa, cuore silvestre della frontiera, scenario dei terribili combattimenti tra spagnoli ed araucani.
La natura mi dava lì una specie di ubriachezza. Io avevo circa dieci anni, ma ero già poeta. Non scrivevo versi, ma mi attraevano gli uccelli, gli scarabei, le uova di pernice. Era miracoloso trovarli nelle gole, colorati, oscuri e rilucenti, con un colore simile a quello della canna di un fucile. Mi meravigliava la perfezione degli insetti. Raccoglievo le madri della culebra. Con questo nome stravagante si designa il maggiore coleottero, nero, brunito e forte, il titano degli insetti del Cile. Fa tremare vederlo all'improvviso sui tronchi dei maquis e dei meli silvestri, dei coigües, ma io sapevo che era tanto forte che poteva fermarmi coi miei due piedi sopra di lui e non si romperebbe. Con la sua gran durezza difensiva non aveva bisogno di veleno.
Questi mie esplorazioni riempivano di curiosità ai lavoratori. Presto cominciarono ad interessarsi alle mie scoperte. Appena mio padre si distraeva si allontanavano per la selva vergine e con più destrezza, più intelligenza e più forza di me trovavano per me tesori incredibili. C'era uno che si chiamava Monge. Secondo mio padre, il più pericoloso col coltello... Aveva due grandi linee nel suo viso bruno. Una era la cicatrice verticale di una coltellata e l'altra il suo sorriso bianco, orizzontale, piena di simpatia e di furbizia. Questo Monge mi portava copihues bianchi, ragni pelosi, piccoli di colombo torcaza, ed una volta scoprì per me la cosa più abbagliante, il coleottero del coigüe e della luna. Non so se voi lo avete mai visto qualche volta. Io lo vidi solo in quell'occasione, perché era un lampo vestito di arcobaleno. Il rosso ed il viola ed il verde ed il giallo abbagliavani sul suo guscio e come un lampo mi scappò delle mani e ritornò alla selva. Non c'era Monge affinché me lo cacciasse. Ma non mi sono ripreso mai da quell'apparizione abbagliante. Neanche ho dimenticato quell'amico... Mio padre mi raccontò la sua morte. Cadde dal treno e rotolò per un precipizio. Si fermò il convoglio, ma mi diceva mio padre, era solo un sacco di ossa. Piansi una settimana.

È difficile dare un'idea di una casa come quella mia, casa tipica della frontiera, quaranta anni fa.
In primo luogo, le case familiari intercomunicavano. Per il fondo dei pati i Reya e gli Ortega, i Candia ed i Mason, si scambiavano attrezzi o libri, torte di compleanno, unguenti per frizioni, ombrello, tavoli e sedie.
Queste case pioniere coprivano tutte le attività di un paese.
Don Carlos Mason, nordamericano di bianca chioma, somiglianza ad Emerson, era il patriarca di questa famiglia.
Il suo figli Mason erano profondamente creolo.
Don Carlos Mason aveva codice e bibbia. Non era un imperialista, bensì un fondatore originale.
In questa famiglia, senza che nessuno avesse denaro crescevano stampe, hotel, macellerie. Alcuni figli erano direttori di giornali ed altri erano operai nella stessa stamperia.
Tutto questo passava col tempo e tutto il mondo rimaneva tanto povero come prima. Solo i tedeschi mantenevano quell'irriducibile conservazione dei loroi beni che li caratterizzava nella frontiera.
I nostre case avevano, dunque, qualcosa di accampamento. O di imprese scopritrici. Entrando si vedevano barilotti, attrezzi e cavalcature ed oggetti indescrivibili.
Rimanevano sempre stanze da finire, scale incompiute. Si parlava tutta la vita di continuare la costruzione. I genitori cominciavano a pensare all'università per i suoi figli.
Nella casa di Don Carlos Mason si celebravano i grandi festeggiamenti.
In ogni pranzo di onomastico avevano tacchini con sedano, agnelli arrostiti allo spiedo e latte montato per dolce. Sono già molti anni che non provo latte montato. Il patriarca di capelli bianchi si sedeva alla testa del tavolo interminabile, con sua moglie, signora Micaela Candia. Dietro lui c'era un'immensa bandiera cilena, alla quale era stata inchiodata con uno spillo una minuscola bandiera nordamericana. Quell'era anche la proporzione del sangue. Prevaleva la stella solitaria del Cile.
In questa casa di Mason c'era anche un salone nel quale non dovevano entrare i bambini se non in contate occasioni. Non seppi mai il vero colore dei mobili, perché furono coperti con federe bianche fino a che li portò via un incendio. C'era lì un album con fotografie della famiglia. Queste foto erano più fini e più delicate dei terribili ingrandimenti che dopo invasero la frontiera.
C'era lì un ritratto di mia madre, morta in Parral, poco dopo che io nacqui. Era una signora vestita di nero, magra e pensosa. Mi hanno detto che scriveva versi, ma non ho mai visto niente di lei, se non quel bel ritratto.

Mio padre si era sposato in seconda nozze con la signora Trinidad Candia, mia matrigna. Mi sembra incredibile dover dare questo nome all'angelo della mia infanzia. Era diligente e dolce, aveva senso di umore campagnolo, una bontà attiva ed infaticabile.
Appena arrivava mio padre, ella si trasformava soltanto in un'ombra soave come tutte le donne di allora e di là.
In quel salone vidi ballare mazurke e quadriglie.
C'era nella mia casa anche un baule con oggetti affascinanti. In fondo riluceva un calendario con un meraviglioso pappagallo. Un giorno che mia madre rimescolava quella cassapanca sacra io vi caddi a capofitto dentro per raggiungere il pappagallo. Ma quando fui cresciuto lo aprivo in segreto. C'erano alcuni ventagli preziosi ed impalpabili.
Conservo un altro ricordo di quel baule. Il primo romanzo d'amore che mi appassionò. Erano centinaia di cartoline postali, tutte dirette da qualcuno che li firmava che non so se era un Enrique o un Alberto, e scritte tutte a María Thielman. Questi biglietti erano meravigliosi. Erano ritratti delle grandi attrici dell'epoca con vetrini incastonati ed a volte capelli incollati. C'erano anche castelli, città e paesaggi lontani. Per anni mi compiacqui solo nelle figure. Ma, man mano che crescevo, leggevo quelli messaggi d'amore scritti con una perfetta calligrafia. Mi immaginai sempre che il pretendente era uomo colla bombetta, bastone e brillante nella cravatta. Ma quelle righe erano di travolgente passione. Erano inviate da tutti i punti del globo dal viaggiatore. Erano piene di frasi abbaglianti, di audacia innamorata. Io cominciai ad innamorarmi di María Thielman. Me la immaginavo come una sdegnosa attrice, incoronata di perle. Ma come erano arrivati nel baule di mia madre queste lettere? Come aveva abbandonato il suo tesoro la dea sconosciuta? Non potei saperlo mai.

I ragazzi nel Liceo non conoscevano né rispettavano la mia condizione di poeta. La frontiera aveva quel francobollo meraviglioso di Far West senza pregiudizi. I miei compagni si chiamavano Schnakes, Schelers, Hausers, Smiths, Taitos, Seranis. Eravamo uguali tra gli Aracenas ed i Ramírez ed i Reyes... Non c'erano cognome baschi. C'era sefarditi: Albalas, Francos; c'era irlandesi McGuintys; polacchi, Yanichewskys. Brillavano con luce oscura i cognomi araucani, odorosi di legno e di acqua, Melivilus, Catrileos.
Combattevamo nel gran capannone chiuso con ghiande di quercia. Nessuno che non l'abbia ricevuta sa quanto duole una ghianda. Prima di arrivare dal Liceo che stava vicino al fiume, ci riempivamo le tasche di armamenti. Io avevo scarsa capacità, nessuna forza e poca astuzia. Portavo sempre la peggiore parte. Mentre mi intrattenevo osservando la meravigliosa ghianda, verde e levigata, col suo cappuccio rugoso e grigio, mentre tentava goffamente di fabbricarmi con essa una di quelle pipe che mi commuovevano, già mi ero caduto nella testa un diluvio di ghiande. Quando stavo nel secondo anno mi fu successo portare un cappello impermeabile di colore verde vivo. Questo cappello apparteneva a mio padre, come la sua coperta di Castiglia, i suoi lampioni dei segnali verdi e rossi, che erano carichi di fascino per me ed appena potevo li tirava fuori alla scuola per pavoneggiarmi con essi... Qualche volta pioveva implacabilmente e nient'altro era formidabile come il cappello di tela cerata verde che sembrava un pappagallo. Appena arrivai al capannone in cui correvano come pazzi trecento fuorilegge, il mio cappello volò come un pappagallo. Io lo inseguivo e quando lo andava a calzare di nuovo volava tra gli ululati più assordanti che mai ascoltai... Mai lo tornai a vedere.

La mia poesia mi difese poco a poco.
Nel Liceo faceva un freddo polare. Quaranta anni fa io tremavo come devono tremare ora i ragazzi nel nuovo Liceo di Temuco. Hanno fatto un gran edificio, moderno, con grandi finestre ma senza riscaldamento. Così sono le cose lì nella frontiera... Al mio tempo bisognava farsi uomini. Le occasioni non ci mancavano. Le case del sud erano scalcinate, affrettatamente fatte di legni appena tagliati e soffitti di zinco. Le grandi piogge eterne erano la musica nel soffitto. A volte, nella mattina, la casa del fronte si risvegliava senza soffitto. Il vento l'aveva portato a duecento metri di distanza. Le strade erano grandi fiumi di fango. Le carrette si impantanavano. Per i sentieri, passando da una pietra ad un'altra, con freddo e pioggia, camminavamo verso la scuola. L'ombrello ce li portava via il vento. Gli impermeabili erano cari, i guanti non mi piacevano, le scarpe si inzuppavano. Ricorderò sempre i calzini bagnati vicino al braciere e molte scarpe che facevano vapore, come piccole locomotive. Quindi venivano le inondazioni che si portavano via le popolazioni dove viveva la gente più povera, vicino al fiume. Anche la terra si scuoteva, tremori. Altre volte nella cordigliera spuntava un pennacchio di luce terribile: il vulcano Llaima si svegliava.
Ma la cosa peggiore erano gli incendi. Nell'anno 1906 o 1907, non ricordo bene, fu il gran incendio di Temuco. Le case ardevano come scatoline di fiammiferi. Si bruciarono ventidue meli. Non rimase niente, ma se i meridionali sanno fare in fretta qualcosa, sono le case. Non le fanno bene, ma le fanno. Ogni meridionale ha tre o quattro incendi totali nella sua vita. Forse il ricordo più remoto della mia persona è vedermi seduto su alcune coperte di fronte alla nostra casa che ardeva per seconda o terza volta.

Ma le segherie cantavano. Si accumulava il legno nelle stazioni e di nuovo si odorava di legno fresco nei paesi. Lì rimangono ancora miei versi scritti sulle pareti. Mi tentavano perché le tavole erano lisce come la carta, con vene misteriose. Da allora il legno è stato per me, non una ossessione, perché non conosco le ossessioni, bensì un elemento naturale della mia vita.

[...]
Ahi, di quanto conosco
e riconosco
tra tutte le cose
è il legno
il mio migliore amico,
io porto per il mondo
nel mio corpo, nei miei vestiti
aroma
di segheria,
odore di tavola rossa,
il mio petto, i miei sensi
si impregnarono
nella mia infanzia
di alberi che cadevano,
di grandi boschi pieni
di costruzione futura,
io sentii quando frusta
il gigantesco larice,
l'alloro alto quaranta metri...

Queste genti delle case di tavola hanno un'altra maniera di pensare e sentire che quelle del centro del Cile. In una certa forma somigliano alla gente del nord grande, degli abbandonati arenili. Ma non è la stessa cosa essere nato in una casa di mattoni crudi o in una casa di legno appena uscito del bosco. In queste case non era nato prima nessuno. I cimiteri erano freschi.
Non c'era per quel motivo qui poesia scritta, né religione. Mia madre mi teneva la mano affinché la accompagnassi alla chiesa. La chiesa del Cuore di María aveva alcuni lillà piantati nel patio e per la novena tutto era intriso di quell'aroma profondo.
La chiesa era sempre vuota di uomini. Io avevo quasi dodici anni ed era l'unico uomo nel tempio. Mia madre mi insegnò a fare quello che volevo dentro alla chiesa. Siccome io non ero religioso, non seguivo il rito e stavo quasi sempre in piedi quando si cantava e si inginocchiava la gente. Non imparai mai a farmi il segno della croce, non richiamò mai l'attenzione nella chiesa di Temuco che un ragazzo irriverente stesse in piedi in mezzo ai fedeli. Forse è stato questo che mi ha fatto entrare sempre con rispetto in tutte le chiese. In quella piccola parrocchia cominciarono i miei primi amori. Mi sembra ricordare che si chiamava María, non sono sicuro. Ma sì ricordo che tutto quel confuso primo amore o cosa similare fu folgorante, doloroso, pieno di commozioni e tomenti ed impregnato in tutti gli spiragli da un penetrante aroma di lillà conventuali.
La gente era molto miscredente in quella città. Mio padre, i miei zii, gli innumerabili cognati e compari, del tavolo grande nella sala da pranzo, neppure si segnavano. Si raccontavano racconti di come il meticcio Ríos, quello che passò il ponte di Malleco a cavallo, avesse legato uno a san José.
C'erano molti martelli, seghe e gente che lavorava il legno e falciava i primi frumenti. Come sembra, i pionieri non sentono molto la mancanza di Dio. Blanca Hauser che è di Temuco, la sua casa stava nella piazza del Manzano sui cui banchi io scrissi fiumi di povera poesia, mi raccontava che una volta in un terremoto uscirono correndo un vecchio ed una vecchia. La signora si batteva il petto gridando: misericordia! Il vecchio la raggiunse, domandandole: come si dice signora, come si dice? "Misericordia, ignorante", gli disse la vecchia. Ed il vecchio, trovandolo molto difficile, continuò a trottare e battendosi il petto, ripetendo: "quella è la cosa, quella è la cosa."

A volte mi chiamavano i miei zii per il gran rito dell'agnello arrosto. Questi Mason, l'ho detto già, avevano sangue nordamericano, ma erano grandi creoli. La forte terra vergine inzuppava con le loro emanazioni il sangue nordico o mediterraneo, trasformandola in sostanza araucana. Correva molto vino sotto i salici e le chitarre suonavano a volte una settimana. L'insalata di fagioli verdi si faceva nei recipienti per lavare. Di mattina si sentiva il terribile lamento dei maiali sacrificati. Per me la cosa più spaventosa era la preparazione del ñachi. Tagliavano il collo dell'agnello ed il sangue cadeva in una bacinella che conteneva forti condimenti. I miei zii mi chiedevano che bevessi il sangue.
Io andavo vestito da poeta, di rigoroso lutto, lutto per nessuno, per la pioggia, per il dolore universale. E lì i barbari alzavano il bicchiere di sangue.
Io mi sforzai e bevvi con loro. Bisogna imparare ad essere uomini.
I centauri avevano la loro festa, la vera festa dei centauri: i combattimenti. Quando due puledri diventavano famosi, come quando due uomini erano noti per le loro forze, si cominciava prima a conversare ed a poco a poco cominciava a profilarsi il torneo. Fu famoso l'incontro di El Trueno ed El Condor, uno nero e l'altro grigio, due puledri colossali. Fino a che arrivarono alla sfida.
Ma erano discesi gli uomini, i fantini cavalcavano da ogni parta, da Chonchol e Curacautín, da Pitrufquén e Gorbea, da Loncoche e Lautaro, da Quepe, da Quitratúe, da Labranza, da Boroa e da Carahue. E lì i centauri, forza contro forza, tentavano di sopraffarsi o di passare per primi per la bacchetta. I puledri tremavano dagli zoccoli fino ai musi pieni di schiuma. Erano mortali quelli minuti in che non si muovevano. Poi era El Trueno o El Condor il vittorioso e vedevamo passare l'eroe coi suoi grandi speroni luccicanti sul puledro bagnato. La gran festa seguiva con centinaia di commensali. Così è scritta per i saggi meridionali:

Di oliva una,
di vino una laguna
e stare attaccato
fino a rimanere schiacciato.

Tra questa gente violenta apparve un uomo romantico che ebbe molta influenza su me: Orlando Mason. Fu il primo lottatore sociale che conobbi. Fondò un giornale. Lì si pubblicarono i miei primi versi e lì appresi l'odore di stampa, conobbi i compositori, mi macchiai le mani con l'inchiostro.
Questo uomo faceva violente campagne contro gli abusi dei potenti. Con la crescita veniva lo sfruttamento. Con pretesto di sterminare i banditi si privava delle loro terre ai colonizzatori, agli indios erano ammazzati come se fossero conigli. Io non credo che gli araucani siano stati né ombrosi, né timidi, né deviati. Così si fecero a forza delle esperienze terribili. Dopo l'indipendenza, dopo il 1810, i cileni si dedicarono ad ammazzare indios collo stesso entusiasmo che gli invasori spagnoli. Temuco fu l'ultimo cuore dell'Araucanía.
Orlando Massone protestava per tutto. Era bello vedere quello giornale tra gente tanto barbara e violenta che difendeva i giusti contro i crudeli, i deboli contro i prepotenti.

L'ultimo incendio che vidi in Temuco fu quello del giornale di Orlando Mason. Lo incendiarono di notte. L'incendio nella frontiera era un'arma notturna.
Orlando Mason scriveva e pubblicò il primo libro di poesia stampato tra il fiume Bío Bío e lo stretto di Magellano. Il volume si intitolava Flores de Arauco. Lessi quei versi con grande emozione. Orlando Mason recitava i suoi monologhi o monologhi cantati nel teatro. "El artista" e "El mendigo" erano quelli di maggior successo. Per " El mendigo ", nella mia casa, mia madre e le mie zie, si strappavano i vestiti.
Era un uomo allegro, pieno di battaglie.

L'estate è bruciante in Cautín. Brucia il cielo ed il grano. La terra vuole rimettersi del suo letargo. Le case non sono preparate per l'estate, come non lo furono per l'inverno. Io me ne vado per il campo alla ricerca della mia poesia. Cammino e cammino. Mi perdo nella collina Ñielol. Sono solo, ho la tasca piena di scarabei. In una scatola porto un ragno peloso, appena cacciato. Sopra non si vede il cielo. La selva è sempre umida, scivolo, improvvisamente protesta pubblico un uccello, è il grido spettrale del chucao. Cresce dai miei piedi come un'avvertenza terrificante. Appena si distinguono come gocce di sangue i copihue. Passo minuscolo, sotto le felci giganti. Vicino alla mia bocca passa un colombo torcaza con un rumore secco di ali. Più su altri uccelli ridono di me con risata roca. Ritrovo difficilmente la mia strada. È già tardi.
Mio padre non è arrivato. Arriverà alle tre o le quattro della mattina. Vado di sopra, nella mia stanza. Leggo Salgari. Si scarica la pioggia come una cascata. In un minuto la notte e la pioggia coprono il mondo. Lì sono solo e sul mio quaderno di aritmetica scrivo versi. Alla mattina seguente mi alzo molto presto. Le prugne sono verdi. Salto gli steccati. Porto un pacchettino con sale. Salgo ad un albero, sto molto comodo, colgo con cura una prugna, la mordo e ne sputo un pezzetto, poi la intingo nel sale. Me la mangio. Così fino a cento prugne. Lo so già che è troppo.
Come è incendiata la nostra casa, questo è un mistero. Salto lo steccato e guardo i vicini. Non c'è nessuno. Alzo alcuni pali. Nient'altro che alcuni miserabili ragni piccoli. In fondo c'è la latrina. Gli alberi vicino a quella hanno bruchi. I mandorli mostrano la loro frutta foderata di felpa bianca. So come cacciare i calabroni senza far loro danno, con un fazzoletto. Li mantengo prigionieri un momento e li alzo alle mie orecchie. Che prezioso ronzio!
Che solitudine quella di un piccolo bambino poeta vestito di nero, nella frontiera spaziosa e terribile. La vita ed i libri a poco a poco mi stanno lasciando intravedere misteri opprimenti.
Non posso dimenticarmi di quello che lessi ieri sera: il frutto del pane salvò Sandokán ed i suoi compagni in una lontana Malesia.
Non mi piacere Bufalo Bill, perché ammazza gli indiani, ma, che buon corridore a cavallo! Che belle le praterie ed le tende coniche dei pellerossa! Ora comincio a leggere voracemente, saltando da Jules Verne a Vargae Vila, a Strindberg, a Gorki, a Felipe Trigo, a Diderot. Mi ammalo di sofferenza e di pietà con I miserabili e piango d'amore con Bernardino de Saint-Pierre.
Il sacco della saggezza umana si era rotto e si sgranava nella notte di Temuco. Non dormivo né mangiavo leggendo. Non dico mai a nessuno che leggevo senza metodo. Chi legge con metodo? Solo le statue.
Per tutti gli angoli della terra si entra nella conoscenza. Per alcuni è un manuale di geometria la rivelazione, per altri le righe di un poema. Per me i libri furono come la stessa selva in cui mi perdevo in cui continuava a perdermi. Erano altri fiori sorprendenti, altri alti fogliami ombrosi, misteriosi silenzi, suoni celestiali, ma anche, la vita degli uomini oltre le colline, più là delle felci, oltre la pioggia.

In quel tempo arrivò da Temuco una signora alta, con vestiti molto lunghi e scarpe dal tacco basso. Andava vestita di colore della sabbia. Era la direttrice del Liceo. Veniva dalla nostra città australe, delle nevi di Magellano. Si chiamava Gabriela Mistral.
La vidi molte poche volte, perché io temevo il contatto degli estranei col mio mondo. Inoltre, non parlava. Ero intristito, affilato e muto.
Gabriella aveva un sorriso largo e bianco nel suo viso bruno per il sangue e le intemperie. Riconobbi il suo viso. Era la stessa dell'operaio Monge, gli mancavano solo le cicatrici Era lo stesso sorriso tra burlesco e fraterno e gli occhi che si corrugavano, punti per la neve o la luce della pampa.
Non mi stupivo quando dai i suoi vestiti sacerdotali tirava fuori libri che mi consegnava e che divoravo. Ella mi fece leggere i primi grandi nomi della letteratura russa che tanta influenza ebbe su me.
Quindi andò al nord. Non ne sentii la mancanza perché avevo già migliaia di compagni, le vite tormentate dei libri. Sapevo già dove cercarli.

Indugiai forse troppo negli inizi di questi ricordi. Voglio finire presto, ho fretta. Non riesco oramai a prendere il treno notturno a Santiago per imbarcarmi più largamente nella vita.
Retrocedo alcuni anni per raccontarvi qualche storia di uccelli. Nel lago Budi perseguitavo i cigni con ferocia. Ad essi si avvicinavano segretamente nelle scialuppe e dopo rapido, rapida remavano. I cigni, come l'albatro, intraprendono difficilmente il volo, devono correre pattinando sull'acqua. Alzano con difficoltà le grandi ali all'inizio del volo. Ma li raggiungevamo ed a bastonate li uccidevamano.
Mi portarono un cigno mezzo morto. Era uno di quelli meravigliosi uccelli che non sono riuscito a vedere più nel mondo, il cigno dal collo nero. Un uccello di neve ed il collo come messo in una stretta calza di seta nera. Il becco arancione e gli occhi rossi.
Questo fu vicino al mare, a Porto Saavedra, Imperiale del Sud.
Me lo consegnarono quasi morto. Io lavai le sue ferite e spinsi pezzetti di pane e di pesce nella sua gola. Tutto vomitava. Tuttavia, andò riprendendosi dalle sue ferite, cominciò a comprendere che io ero il suo amico. Ed io cominciai a comprendere che la nostalgia lo uccideva. Allora caricai il pesante uccello nelle mie braccia per le strade lo portai al fiume. Lui nuotava un po', vicino a me. Io volevo che pescasse e gli indicavo le pietruzze del fondo, le sabbie dove stavano gli argentati pesci del sud. Ma egli guardava con occhi tristi la distanza.
Così ogni giorno, per più di venti giorni, lo portai al fiume e lo riportai a casa mia. Il cigno era tanto grande quasi come me. Un pomeriggio stavo più assorto, nuotò anche vicino a me, non si distrasse coi toporagni con cui io volevo insegnargli di nuovo a pescare. Si fece molto quieto e lo presi di nuovo in braccio per portarmelo a casa. Allora, quando lo tenevo all'altezza del mio petto, sentii che si srotolava un nastro, qualcosa come un braccio nero mi sfioravo il viso. Era il suo lungo ed ondeggiato collo che cadeva.
Così seppi che non cantano i cigni morendo, quando muoiono di tristezza.

Non ho parlato gran che della mia poesia. In realtà capisco ben poco di questa materia. Perciò sto camminando con le presenze della mia infanzia. Forse, da tutte questi piante, solitudini, vita violenta, escono i veri, i segreti, i profondi trattati di poesia che nessuno può leggere perché nessuno li ha scritti. Si impara il poesia passo a passo tra le cose e gli esseri, senza separarli bensì aggregandoli a tutti in una cieca estensione dell'amore.
Una volta cercando i piccoli oggetti ed i minuscoli esseri del mio mondo della mia casa in Temuco, trovai un buco in una tavola del recinto. Guardai attraverso il vuoto e vidi un terreno uguale a quello della mia casa, incolto e silvestre. Mi ritirai alcuni passi, perché vagamente seppi che andava a succedere qualcosa. All'improvviso apparve una mano. Era la mano piccolina da un bambino della mia stessa età. Quando accorsi non c'era la mano perché al posto suo c'era una meravigliosa pecora bianca.
Era una pecora di lana sbiadita. Le persone erano fuggite. Tutto la faceva più vera. Io non avevo visto mai una pecora tanto carina. Guardai nel buco, ma il bambino era sparito. Andai a casa mia e ritornai con un tesoro che gli lasciai nello stesso posto; una pigna di pino, socchiusa, odorosa e balsamica che io adoravo. La lasciai nello stesso posto ed andai via con la pecora.
Non vidi mai più né la mano né il bambino. Non sono riuscito neanche a vedere mai una pecorella come quella. La persi in un incendio. Ed ancora ora in questo 1954, molto vicino ai cinquanta anni quando passo per un negozio di giocattoli, guardo ancora furtivamente alle finestre. Ma è inutile. Mai più si fece un pecora come quella.
Io sono stato un uomo fortunato. Conoscere la fraternità dei nostri fratelli è una meravigliosa azione della vita. Conoscere l'amore di quelli che amiamo è il fuoco che alimenta la vita. Ma sentire l'affetto di quelli che non conosciamo, degli sconosciuti che stanno vegliando il nostro sonno e la nostra solitudine, i nostri pericoli o i nostri mancamenti, è una sensazione ancora più grande e più bella perché estende il nostro essere e abbraccia tutte le vite.
Quell'offerta portava per la prima volta alla mia vita un tesoro che mi accompagnò più tardi: la solidarietà umana. La vita andava a metterla più tardi sulla mia strada, sottolineandola contro l'avversità e la persecuzione.
Non sorprenderà allora che io abbia tentato di pagare con qualcosa di balsamico, odoroso e terrestre la fraternità umana. Come lasciai lì quella pigna di pino, ho lasciato alla porta di molti sconosciuti, di molti prigionieri, di molti solitari, di molti perseguiti, le mie parole.
Questa è la gran lezione che raccolsi nel patio di una casa solitaria, nella mia infanzia. Forse fu solo un gioco di due bambini che non si conoscevano e che vollero comunicarsi i doni della vita. Ma questo piccolo scambio misterioso rimase forse depositato come un sedimento indistruttibile nel mio cuore e ad infiammare il mio animo.

Prima conferenza del ciclo la Mi Poesia, letta nel Salone
di Onore dell'Università del Cile il 20.1.1954. Testo edito
in Capricornio, num. 6, Buenos Aires, giugno-luglio 1954.
Riprodotto in OC, !^ e 2^ edizioni, Buenos Aires 1957 e
1962, e parzialmente in CHV.


Qualcosa sulla mia poesia e la mia vita
ALGO SOBRE MI POESÍA Y MI VIDA. (Pagine 929-945.) Allí [en Macchu Picchu] comenzó a germinar mi idea de un canto general americano. (Lì [a Macchu Picchu] cominciò a germinare la mia idea di un canto generale americano). Neruda salì a Machu Picchu nel 1943 ed il poema risultante fu scritto nel 1945-1946. Il canto generale americano era cominciato prima anni, in Messico, Guatemala e Cuba tra il 1940 ed il 1943 (il capitolo "América, no invoco tu nombre en vano", di CGN, è del 1942). - La idea de un largo poema rimado, en sextinas reales, me pareció imposible para los temas americanos. (L'idea di un lungo poema rimato, in sestine reali, mi sembrò impossibile per i temi americani). Neruda pensava sicuramente agli ottavi reali (e non sestine) di La Araucana di Alonso de Ercilla e Zúñiga. - Yo me firmé Neruda por primera vez a los catorce años. (Io mi firmai per la prima volta Neruda a quattordici anni). In realtà fu a sedici (ottobre del 1920). - Una vez leí un cuento de ]an Neruda. (Una volta lessi un racconto di Jan Neruda): sulla veracità di questo ricordo, ed in generale sull'origine del nome Pablo Neruda, rimetto all'indispensabile prova di Robertson. - A propósito de estas líneas interminables... Hay gente que pone en parangón las "Alturas de Macchu Picchu" con otros fragmentos panfletarios de mi obra. (A proposito di queste linee interminabili... C'è gente che mette in paragone le "Alturas de Macchu Picchu" con altri frammenti brevi, satirici e polemici della mia opera) Che lo stesso Neruda alluda a fragmentos panfletarios della sua opera è rivelatore dell'alto grado di coscienza che aveva dell'arte poetica (e dei rischi concomitanti) che governava la sua scrittura in quel periodo. Poche linee più sotto: No quise empequeñecer mi poesía sino entregarla con la vida. (Non volli rimpicciolire la mia poesia bensì consegnarla alla vita). Così nella pubblicazione originale della rivista Aurora (1954), ma tendo a pensare di "consegnarla" come errore, invece di "integrarla" che mi sembra più congeniale.

Quasi tutti voi conoscte la Vega Central.
Anch'io la conoscevo. Era andato come molte altre genti dalla città a comprare pomodori o stuoie o piani.
Lì continuano a vendersi quelli bei piani di foglie di palma e le crete di Pomaire e di Quinchamalí. Più addentro si vedono montagne di cavoli cappucci, fiumi di galosce, cordigliere di patate.
Io adoro i mercati. La prima cosa che feci a Shanghai fu andare al mercato. La stessa cosa feci nella Martinica, in Colombo ed in Batavia. I mercati tropicali ci sconfiggono esternamente come le farfalle ed i poeti del tropico.
Tutto ha colore violento ed aroma che turba.
Ma i nostri mercati, le nostre fiere, sprovvisti dello splendore equatoriale, hanno solidi e saporiti tesori, gloriosi frutti di terra e mare australi.
Riconosco che, come facevo prima, come normalmente facciamo, guardai molto i frutti ed i legumi illustri della nostra Vega Central. Senza vedere uomini né donne. Non avevo mai fatto attenzione alla moltitudine di gente che trasporta che sale e scende coi sacchi che pullula e si sparge vicino alla cattedrale della verdura.
Fino a che un giorno nel 1938 ebbi una rivelazione, di quelle che qui devo confessare.
Giravo della Spagna. Mi invitavano in posti molto diversi per fare una chiacchierata, per ascoltarmi. C'era curiosità, quella santa ed inestinguibile curiosità dei cileni per conoscere e sapere.
Un giorno di inverno era arrivato a casa mia deciso a mettermi in letto, stanco e infreddolito, quando mi resi conto che a quella stessa ora stavano aspettandomi per ascoltarmi da qualche parte.
Rapidamente presi il mio cappello ed il mio cappotto, il mio libro che ebbi più vicino. Dett la carta in cui era annotata il direzione ad un amico che mi portò velocemente al posto in cui mi aspettavano.
Era la Vega Central. Quando entrai nel locale del Sindicato ebbi un momento tremendo di vacillazione. Mi resi conto che stava tra gli scaricatori della Vega e che io non ero preparato per parlar loro.
Ebbi la stessa sensazione che aveva turbato a Madrid, quando invitarono nell'università Federico García Lorca e me a leggere i nostri ultimi versi agli alunni di letteratura. Federico aveva preparato accuratamente il suo discorso in cui mi presentava. Quando saliamo alla tribuna ci rendemmo conto che eravamo circondati, non da un pubblico letterario, bensì per centinaia di collegiali di scuole preparatorie che facevano un rumore infernale.
Federico si alzò per parlare e rapidamente mi disse all'orecchio "Pablito che grande assurdità."
Qui di fronte agli scaricatori della Vega, io non avevo nessuno a cui sussurrare.
Mi sedetti di fronte a loro. Avevo solo il mio libro España en el corazón con me. Di fronte a me vedevo i tratti duri dei loro visi, le loro tremende mani sullo schienale delle panche. Quasi tutti avevano sistemati sacchi da imballo come di grembiuli. Sotto le panche scorsi quantità di sandali.
Non mi venne in mente che cosa dir loro. Cominciai a legger loro dal libro che portavo con me. Lessi loro quelli versi della guerra della Spagna in cui tanta passione e tanti dolori si erano depositati. Passai di un verso ad un altro. Lessi quasi tutto il libro.
Io non ho pensato mai che España en el corazón fosse un libro facile. Lì c'è l'interesse verso il mondo dell'uomo, verso la verità insanguinata dal martirio. Ma il nodo dell'oscurità sta incominciando a tagliarsi da solo.
In quel posto compresi che dovevo tagliare in definitiva con molti pregiudizi.
Tuttavia, continuavo a leggere. Sentii all'improvviso una terribile impressione di vuoto. I caricatori mi ascoltavano in un silenzio rigoroso.
Quelli che non sono stati in contatto col nostro popolo non sanno quello che è il silenzio del cileno. È il silenzio totale, tu non sai se è quello della riverenza o quello della riprovazione assoluta. Nessun viso ti dice niente. Se vuoi pescare un indizio galleggiante sei perduto. È il silenzio più pesante del mondo. È un silenzio di maomettani che meditano nel deserto.
Finii la lettura dei miei versi. Allora si produsse il fatto più importante della mia carriera letteraria. Alcuni applaudivano. Altri abbassavano la testa. Quindi tutti guardarono un uomo, forse il dirigente sindacale. Questo uomo si alzò uguale agli altri col suo sacco alla vita, con le sue grandi mani sulla panca, guardandomi mi disse: "Compagno Pablo, noi siamo gente molto dimenticata, noi, posso dirglielo, non avevamo mai sentito un'emozione tanto grande. Noi vogliamo dirle...."
E scoppiò a piangere, con singhiozzi che lo scuotevano. Anche molti di quelli che stavano vicino a lui piangevano. Io sentii la gola annodata da un sentimento incontenibile.
Si parla molto di se la poesia deve essere questa o quello, se deve essere politica o non politica, pura o impura.
Io non so leggere queste discussioni. Non posso prendere parte ad esse.
La retorica e poetica del nostro tempo non esce dei libri.
Esce da queste riunioni strazianti in cui il poeta si confronta per la prima volta col popolo. Non si tratta che qualcuno esiga da lui niente. Quando io leggo le osservazioni sulla mia poesia devo mettere nella bilancia molti fatti. Sarebbe lungo contarli.
Quale pagina può pesare in questa bilancia di più che quell'impressionante riunione umana?
Cominciai allora a pensare non solo alla poesia sociale. Sentii che stavo in debito col mio paese, col mio popolo.

La mia prima idea del Canto general fu solo un canto cileno, un poema dedicato al Cile.
Volli estendermi nella geografia, nell'umanità del mio Paese, definire i suoi uomini ed i suoi prodotti, la natura vivente.
Molto presto mi sentii complicato, perché le radici di tutti i cileni si estendevano sotto alla terra ed uscivano in altri territori. O'Higgins aveva radici in Miranda. Lautaro si imparentava con Cuauhtémoc. La terracotta di Oaxaca tu nía lo stesso fulgore nero delle crete di Chillán.
Il 1810 era una data magica. Fu una data comune a tutti, un anno generale delle insurrezioni, un anno come un poncho rosso di ribellione che ondulava in tutte le terre dell'America.
Quando passai per l'Alto Perù andai al Cuzco, ascesi a Macchu Picchu.
Era da tempo che io ero ritornato dall'India, della Cina, ma Macchu Picchu è ancora più grandioso.
Tutte le civiltà dei manuali di storia ci parlavano di Assiria, degli ariani e dei persiani e delle loro colossali costruzioni.
Dopo avere visto le rovine di Macchu Picchu, le culture favolose dell'Antichità mi sembrarono di cartone pietra, di papier maché.
L'India stessa mi sembrò minuscola, imbrattata, banale, fiera popolare di dei, di fronte alla solennità arrogante delle abbandonate torre incaiche.
Oramai non potevo separarmi da quelle costruzioni. Comprendevo che se pestavamo la stessa terra ereditaria, avevamo qualcosa a vedere con quegli alti sforzi della comunità americana, che non potevamo ignorarli, che la nostra ignoranza o silenzio non solo era un crimine, bensì la continuazione di una sconfitta.
Il cosmopolitismo aristocratico c'aveva portato a riverire il passato dei paesi più lontani e ci aveva messo una benda sugli occhi per non scoprire i nostri tesori.
Pensai molte cose dopo la mia visita al Cuzco. Pensai all'antico uomo americano. Vidi le sue antiche lotte allacciate con le lotte attuali.
Lì cominciò a germinare la mia idea di un canto generale americano. Prima era persistita in me l'idea di un canto generale del Cile, come di cronaca. Quella visita cambiò la prospettiva. Ora vedevo lìAmerica intera dalle altezze di Macchu Picchu. Questo fu il titolo del primo poema con la mia nuova concezione.
Precisai quello che ci era necessario. Doveva essere un poema straordinariamente locale, parziale. Doveva avere una coordinazione interrotta, come la nostra geografia. La terra doveva essere invariabilmente presente.
Scrissi molto tempo più tardi questo poema di Macchu Picchu. Com'è la preparazione di una nuova tappa del mio stile e di una nuova preoccupazione nei miei propositi, questo poema uscì troppo intriso di me stesso. Il principio è una serie di ricordi autobiografici. Volli anche toccare lì per ultima volta il tema della morte. Nella solitudine delle rovine la morte non può allontanarsi dai pensieri.
Scrissi "Macchu Picchu" a Isla Negra, di fronte al mare.

Il mio contatto con le lotte popolari continuava ad essere sempre di più stretto. Compresi la necessità di una nuova poesia epica che non si restringesse all'antico concetto formale. L'idea di un lungo poema rimato, in sestine reali, mi sembrò impossibile per i temi americani. Il verso doveva comprendere tutti i contorni della terra aggrovigliata, rompersi in arcipelago, alzarsi e cadere nelle pianure.
Stavo cercando sempre il tempo per scrivere il libro. Ogni giorno aveva meno possibilità di farlo. In quei giorni arrivò dal Cile una di quelle onde persecutorie che caratterizzano la nostra povera America. Questa volta mi raggiunse e dovetti andare di luogo in luogo affinché non mi trovassero.
Nel nostro continente la libertà è un articolo superfluo, è come un pezzetto di bandiera che i nostri paesi potessono toccare appena, ogni tanto, e che è prontamente lo porta via il vento.
Per sfuggire alla persecuzione non potevo uscire da una stanza e dovevo cambiare molto spesso posto. La prigione ha qualcosa di definitivo in sé, una routine ed un termine. La vita clandestina è più senza tranquillità e non si sa quando finisce. Dal primo momento compresi che era arrivata l'ora di scrivere il mio libro. Studiai i temi, disposi i capitoli e non smisi di scrivere neppure per cambiare rifugio.
In un anno e due mesi di questa vita strana fu finito il libro. Era un problema tirare fuori gli originale dal paese. Gli feci una bella facciata in cui non c'era il mio nome. Gli misi come falso titolo Risas y lágrimas di Benigno Espinoza. In realtà non gli stava male questo titolo.
Molte cose curiose stavano in questo libro. Fu anche nuovo per me arrivare a scrivere poesia sei, sette otto ore di seguito. A metà strada mi mancarono libri. Man mano che approfondivo la storia americana mi erano necessarie fonti informative. È curioso come apparvero sempre come per miracolo quelle di cui io avevo bisogno. In una casa ospitale ed un po' contadina in cui stetti, trovai dentro un vecchio armadio una Enciclopedia Ispano-americana. Ho detestato sempre questi libri che si vendono a rate. Non mi piace vedere quelli tomi, rilegati per studi. Questa volta il ritrovamento fu un tesoro. Quanti cose che non sapevo, nomi di città, fatti storici, piante, vulcani, fiumi!
In una casa di gente di mare in cui dovetti rimanere circa due mesi, domandai se avevano qualche libro. Ne avevano uno solo e questo era il Compendio de la historia de América, di Barros Arana. Proprio quello che mi necessitava.
I capitoli che scrivevo erano portati immediatamente e copiati a macchina. C'era il pericolo che se mi scoprissero si perdessero gli originali. Così si potè preservare questo libro. Ma io, negli ultimi capitoli, non avevo nessuno dei precedenti, e così non mi resi conto esattamente di quanto avevo fatto fino a pochi giorni prima di uscire dal Cile. Mi fecero anche una copia speciale che potei portarmi nel mio viaggio. Così attraversai la cordigliera, a cavallo, senza più vestiti che il ricambio, col mio buon grosso libro e due bottiglie di vino nelle bisacce.
Benché molti di voi non lo sappiano, il libro si stampò anche in Cile. È forse il fatto più straordinario successo ad un libro di poesia. Sono frequenti le stampe illegali, non molte quelle di versi, ma stampare un libro di cinquecento pagine, con illustrazioni, clandestinamente, è qualcosa di memorabile.
Si presero molte precauzioni e tra le altre quelle di tirare fuori delle stampe i fascicoli stampati e conservarli in altri posti. Poi fu un lungo lavoro riunirli per l'a rilegatura. Questo durò più due anni. È curioso che, dopo me, sia stato il mio libro quello che continuò a vivere gli stessi episodi della vita clandestina che io vissi. Come è difficile nascondermi, poiché sono riconosciuto tanto facilmente, fu difficile occultare quel grosso volume, tirarlo fuori di notte all'improvviso quando il pericolo si avvicinava, depositare le enormi quantità di carta in un posto più sicuro, fare che si unisse colle sue copertine, cucirlo e distribuirlo uno alla volta.
Passando la cordigliera in quelli giorni, aiutato, come il mio libro, dall'insuperabile fraternità, pensai in che nonostante tutto il mio amore per le piante e gli alberi che mi circondavano, non avevo aiuto di esse. L'uomo è la cosa centrale. È l'uomo l'avvenimento. Più tardi scrissi il primo capitolo di Las uvas y el viento ricordando tutto quello.

Il Canto general è stato tradotto integramente da una persona, Alice Ahrweiler, in francese, da Dario Puccini in italiano, da Erich Arendt in tedesco. Questa è una bella edizione. Lo dico perché mi è appena arrivato in questi giorni il primo esemplare e sono felice di vedere tanto bene il mio libro vestito, pubblicato dall'Editoriale Paese e Mondo della Repubblica Democratica Tedesca. Nell'Unione Sovietica esce in questi giorni l'edizione russa. Lì si fece la traduzione in forma collettiva. Ci sono undici traduttori, tra essi, Ehrenburg, Tíjonov, maestri della letteratura russa. Ci sono ispanisti come Kelin nel gruppo e poeti famosi come Kirsánov, discepolo ed amico di Mayakovski.
L'Unione Sovietica è il paese che compensa meglio il lavoro intellettuale nel mondo contemporaneo. E così la traduzione del Canto general, nell'aspetto economico, risulterà per voi astronomica. Me la calcolo come cosa curiosa. Sono tredicimila versi, mi sembra. Ad ogni traduttore è pagato credo 10 rubli per riga, salvo ai premi Stalin che devono ricevere doppia quantità. Questi sono sette del gruppo di undici traduttori. Tredici mille per dieci sono centotrentamila, più settantacinquemila, sono duecentocinquemila rubli solamente nella traduzione, senza contare le spese di stampa, né i diritti d'autore. Questa somma equivale a cinquantunomila dollari, cioè, più di dodici milioni della nostra moneta.
Anche in Polonia il Canto general è stato tradotto da una squadra di traduttori. Il sistema è così. Ci sono uno o due traduttori letterali. Questi predispongono una brutta copia che l'Unione di Scrittori distribuisce nella squadra di poeti. Il caporedattore è il gran poeta Jaroslav Iwaskiewicz.
Con questo stesso sistema di brutta copia letterale preventiva traduce il libro a Praga il più grande poeta ceco Vitevold Nezval. Il gran Nezval è un poeta molto occupato, e così credo che mai leggeranno interamente i cechi il Canto general. Tuttavia lì ho molti lettori e c'è una strada Neruda. Ma non si tratta di me bensì dello scrittore Jan Neruda. Questo Jan Neruda scrisse molta sopra l'umile gente dei quartieri poveri di Praga. Col cambiamento di regime, le democrazie popolari hanno fatto un culto da quelli scrittori ed artisti che rifletterono la vita del popolo. Jan Neruda è, dunque, un eroe centrale nella nuova vita della Cecoslovacchia. Ed io per i cechi sono un po' suo nipote.
Quando io fui eletto senatore mi scrissero i cechi di Chicago: "Siamo orgogliosi col governatore Czermak (che credo che fosse qualche gangster). Con lei abbiamo due cechi nella vita pubblica delle Americhe."
Neruda è un cognome abbastanza corrente in Praga. Io mi firmai per la prima volta Neruda a quattordici anni. Aveva bisogno di un nome affinché mio padre non vedesse i miei poemi nei giornali. Egli gettava la colpa ai miei versi delle mie cattive note in matematica. Una volta lessi un racconto di Jan Neruda che mi impressionò moltissimo. Quando ebbi bisogno di uno pseudonimo ricordai quello scrittore sconosciuto da tutti e come un omaggio, e per proteggermi dalle ire di mio padre, firmai Pablo Neruda. Poi questo nome proseguì con me.
La traduzione vera e completa che prende l'impeto poetico e che non perde un dettaglio, è quasi impossibile. Io lo vedo nelle traduzioni dei miei versi. Ci sono a volte errori gravi. In una che tradussero "disparo" per "disparu" che significa scomparso. E questo fu un traduttore francese di grande categoria letteraria.
A volte mi arrivano interminabili liste di parole il cui senso mi domanda il traduttore bulgaro, o cinese, o italiano. Che cosa vuole dire copihue? Che cosa vuole dire loica? Che cosa vuol dire Poblete?
Raconto a voi tutti questi dettagli delle traduzioni perché sono parte dell'intimità e dell'ambito espansivo di un libro di questa epoca.
Prima i libri cadevano come pietre in un pozzo. Ora hanno nuove e larghe strade.

A proposito di queste linee interminabili che mi arrivano dei traduttori, voglio trattare un altro problema del Canto general. Molta gente mi rimprovera di avere messo in esso incidenze e personaggi minimi della vita del Cile e del continente. C'è gente che mette in paragone le "Alturas de Macchu Picchu" con altri frammenti parziali della mia opera.
Vediamo come stanno le cose.
In primo luogo, la vita di un'epoca non la fanno solo le cose alte ed i nobili personaggi. La corrente di un paese nel suo sviluppo è formata da infiniti grani differenti, da azioni sconosciute, da ostacoli che sembrarono a volte piccoli e vili, ma che sono parte del grande tutto. Pensai molte volte scrivendo su Martí ed O'Higgins se avrei scritto i nomi di Ubico, di Machado, di Melgarejo, dei tirannelli americani e la loro coorte cortigiano.
Credei che dovessi farlo in quello libro.
Non potevo fare un libro solo su cose sublimi, su alte montagne ed alti eroi. Dovevo cambiare il tono, come cambia la vita e la terra del continente. Dovevo fermarmi nel minuscol e per questo scelsi un tono di cronaca, un stile deliberatamente prosaico, che contrastasse con le splendenti visioni. Scrissi passo a passo, come chi cammina per strade storte, contando le pietre e gli incidenti stradali. Non volli rimpicciolire la mia poesia bensì integrarla con la vita.
Non sono queste difese del mio libro. Un libro vasto come Canto general piacerà in parte ad alcuni, in un'altra parte ad altri. A molti non piacerà loro niente. La mia ambizione è riuscita lasciandolo come un vasto paesaggio.
In qualche posto c'è acqua che corre, in un altre pietre e pozzanghere. Ognuno cerchi in esso la sua strada, in accordo col suo amore per la realtà o i sogni.
Prima di lasciare dietro il Canto general non voglio dimenticare un altro libro di consultazione, uno dei che più mi servirono: è il libro Les aves de Chile, dei signori J.D. Goodall, A.W. Johnson, Dr. R.A. Philippi B., pubblicato solo nell'anno 1951. Conosco pochi libri tanto belli su un paese come questo. Da allora mi accompagna dappertutto. È uno dei miei libri di testata ed un'opera che, a parte il suo sedimento scientifico, è una feconda, prolissa ed attiva azione di amore.

I miei amici più costanti in Francia furono Aragon e Paul Èluard. È curioso che questi due surrealisti sfrenati arrivassero per diverse strade ad un'uguale comprensione dei fatti e la vita.
Furono molto differenti sempre.
Aragon ha un'intelligenza tagliente ed una destrezza polemica travolgente. Non è solo un gran poeta, un gran saggista ed un romanziere straordinario del nuovo realismo, bensì un organizzatore scrupoloso. Non so come può fare contemporaneamente tante cose. In realtà, mezza Francia intellettuale sta aspettando qualche nuovo progetto da Aragon, con quello che questi portano di irritazione, di illuminazione e di vita. Ha appena scritto ora un lungo studio sostenendo che la poesia rimata è la poesia nazionale della Francia. Questo articolo è caduto come una bomba tra i giovani poeti. Si è prodotto l'impatto. Ora a lavorare con questa nuova agitazione in marcia.
È tremenda la passione intellettuale dei francesi. Perciò, nella pittura, per esempio, i nostri giovani pittori americani si attaccano come mosche alle teorie. Girano parlando molto e dipingendo poco.
La cosa grave per noi è che i pittori ben dotati della nostra America che prima hanno dipinto paesi, alberi e cieli americani, tornano da Parigi dipingendo circoli e linee. Il cosmopolitismo li ha schiacciati. Gli ha tagliato la radice. La cosa bella è sostenere lì le cordigliere e la nostra visione estesa della vita reale. Sta bene che la gente delle città di nove milioni di abitanti che vedono appena cavalli, non li dipingano. Ma noi dobbiamo vedere dipinto quello che conosciamo ed amiamo. Inoltre, si dipinsero già abbastanza le cattedrali e mai le araucarie, si dipinse già abbastanza Neuilly-sur-Seine e mai Lota e Coronel, etc.
È terribile pensare ai dolori della nostra America, ma è meraviglioso pensare a tutto quello che dobbiamo fare in lei. Abbiamo responsabilità e partecipazione in tutto quello che si fa.
Differente ad Aragon era Paul Éluard.
È solo un anno che è morto. Ancora la Francia è commossa per la sua perdita. Aveva una maturità visibile e dolce che saliva fino ai suoi grandi occhi chiari, come una frutta azzurra. Quasi giornalmente ci visitavamo ed io lo convinsi affinché venisse in Messico al Congresso della Pace.
Siccome fui malato in Messico, tutti i miei desideri di mostrargli quel paese grandioso e sorprendente fallirono. Si lamentava tutti i giorni nella mia stanza "... non faccio che andare dall'hotel al Congresso... tutti i giorni la stessa cosa... questo è come Parigi... è tanto brutto come il mio quartiere...."
Un anno prima era rimasto vedovo e si sentiva terribilmente solo. Ma in Messico un giorno arrivò cambiato. Aveva conosciuto a Dominique. Si sposarono poco dopo in Francia.
Morì scrivendo versi d'amore.
Amava straordinariamente il suo paese. Il ricordo del surrealismo passò una volta tra noi. Stavamo nel balcone della mia casa, nel Quai d'Orléans, dietro Notre Dame. Cadeva lentamente il pomeriggio d'inverno. Quanto ho amato quello punto di Parigi. Le grandi barche passavano sulla Senna, quiete e lente. Una nebbia stava avvolgendo l'abside della gran cattedrale. La guglia gotica risaltava contro il cielo come un insetto d'argento.
- Che bellezza! - mi disse Paul, guardando la cattedrale.
- Tuttavia, durante il surrealismo tu proponesti che si distruggesse Notre Dame - gli dissi ridendo.
Un largo sorriso lo riempì il viso:
- Niente di cose piccole - mi disse. "Niente di meno che la Cathédrale" - e rideva a crepapelle come un ragazzino.
Stavo scrivendo a Los Guindos, un anno fa, quando mi arrivò un telegramma. L'aprii. Paul Éluard era morto.
Sto abituando a questi messaggi. L'albero dell'amicizia si va sfogliando, continuano a cadere i più alti frutti, l'inverno e la morte continuano a lasciare i rami nudi. Anch'io, è naturale, qualche giorno.
Ma Paul... La metà della Francia è finita per me. Girare a Parigi era per me ritornare alla nobile amicizia di Paul Éluard, alla sua intransigente intimità, alla sua fede nella vita.

Ehrenburg lo conosco da molti anni. È un uomo che sempre risveglia interesse. È un maestro mondiale della polemica. Mi ricorda un po' Swift per il suo stile demolitore sempre inatteso. Quasi tutti i giorni lo vedo nella sua casa, a Mosca. Ha quantità di cani. I suoi amici dall'Inghilterra gli scrivono su gravi temi e sui cani. All'improvviso riceve una lettera di un famoso scienziato o di una lord laburista. Si tratta quasi sempre di cani.
Mangiamo questa notte con gli Ehrenburg. Le pareti sono coperte da litografie di Picasso. Sembrano vetrate nere, visi bizantini che stanno meglio che mai lì, nel cuore di Mosca.
Nel tavolo russo si mette tutto sopra di lei. Io tanto mi sono seduto in questa che conosco tutto quello che c'è. I russi mangiano molto ed Ehrenburg è molto esigente, inoltre. I suoi amici dei posti più lontani gli portano golosità. Io gli porto qualche bottiglia dal Cile. Ride molto di me, perché è francofilo nel vino fino all'esagerazione. Gli parlo di nostri Santa Ritas, Tocornales, ma invano. Alza il bicchiere di vino cileno: "Passabile", mi dice. Io gli dico che non vuole convincersi. Questa discussione continua in vari continenti quando viaggiamo insieme. Dovremo invitarlo qualche volta a provare con più ampiezza e più intimità il nostro orgoglio nazionale.
Sul tavolo ci sono tutte le cose che mi piacciono e molte che ignoro. Ci sono bottiglie piccole con vodka trasparente. Ci sono cetriolini freschi, adorabili, come solo li produce la terra russa. C'è un gran fiasco di caviale in mezzo al tavolo e molto burro. Ci sono alcune sardine di cattivo aspetto che sono meravigliose, che si chiamano Sprats. Ehrenburg dice sempre: "Come puoi mangiare questa porcheria." Si vede che sono stanchi degli Sprats. Mi piacciono alla follia. "Lascialo tranquillo che gli piacciono", dice Luba, sua moglie. Ehrenburg mi sta sempre rimproverando. Dice che sono un americano male educato. Ha ragione. Sul tavolo c'è inoltre, prosciutto ineguagliabile, salmone affumicato in pezzi magri, colore di melone, ci sono alcune tortore grasse, fredde, che si chiamano Gelinottes, grandi come polli. Ci sono infinite cose nei piatti piccoli sul tavolo. Porteranno anche della cucina un gran pesce del Volga, avavvolto in vapore dorato. I vini sono del Caucaso e della Georgia. La gente gli manda vini dei kolchoz.
Arrivano gli amici. Arriva Sávich. È l'uomo che più conosce la mia poesia nell'Unione Sovietica. È intelligente e fine. Arriva Símonov col suo viso di abitante di Chillan, bruno e dai brevi baffi, con la sua bella moglie, qui famosa. Arrivano altri.
Ehrenburg è il gran conversatore classico, quello che sta sparendo dal mondo. Comincia a parlarci di un domatore di animali. Questo uomo adorava le fiere ed aveva comunicazione perfino coi più piccoli animali. Era una grande personalità nel mondo dello zarismo e passò con tutta la sua ménagerie attraverso la rivoluzione e la guerra. Faceva che i cani facessero cose incredibili che arrotolassero e srotolassero tappeti che formassero nomi con lettere separate. Aveva studiato questo uomo le scoperte di Pávlov sui riflessi condizionati. Questo gli dava una conoscenza profonda della vita animale. Durante la rivoluzione stava in un hotel vicino agli Ehrenburg. Luba Ehrenburg che è molto elegante, portava un carino cappello. All'improvviso una scimmia si sedette nella sua testa. Immobilizzata dal terrore e dal rispetto non potè dire niente quando la scimmia lasciò il suo ricordo. Secondo il domatore i suoi animali non avevano mai la colpa. Più tardi era necessario ottenere una magione per i suoi animali. Ce n'era una di alcuni nobili che emigrarono. Il domatore aveva dato un'occhiata a questa bellissima casa.

Nel tavolo russo non si parla se non di cose gradevoli ed allegre. Quello paese terrorizzato, quello paese di tenebre, esiste solo nei cablogrammi dell'United Press. Stanno facendo sempre scherzi e raccontando storie.
Símonov ha la sua casa in Georgia e lì scrive teatro e poesia. Ci dice che in Georgia i brindisi sono storici. Mi racconta molti bei e poetici brindisi georgiani. Al tavolo georgiano bisogna portare sempre un nuovo brindisi sentimentale o picaresco. Ricordo uno che ci raccontò quella notte. È il brindisi per la vera amicizia:
Iván non è arrivato a casa quella notte. Inquieta, Tatiana manda dodici telegrammi a dodici dei suoi migliori amici: "Sono molto inquieta. Iván non arrivò ieri sera a casa. Dimmi se l'hai visto." Alla mattina seguente ricevè dodici telegrammi dei dodici differenti amici e tutti dicevano la stessa cosa: "Rimaniti tranquilla, cara Tatiana. Iván dormì molto bene nella mia casa tutta la notte." Il brindisi è allora: "Beviamo per la vera amicizia."
Niente di quello che racconto loro ha gran importanza. Potrei parlar loro della più grande università del mondo che ho visto lì, o del mare o delle selve artificiali che hanno creato i sovietici. Gli racconto queste cose minuscole perché lì la gente è tanto semplice come da tutte le parti. Si ride delle stesse cose. Per dir loro che i russi, dopo tante guerre ed incredibili patimenti, sono, ancge i più eminenti, gente piena di allegria, di bontà e di semplicità.
Anche Ehrenburg sta sempre cercando piante. Un giorno nella sua casa mi disse, mostrandomi un vaso da fiori: "Che cosa è questo?"-"È è un gelsomino", gli risposi. "A vedere, annusalo", mi disse. "Che annuso?" me l'avvicinai al naso ed immediatamente gli dissi: "Odora di fragole." "Sei sicuro?"
Il fiore esalava un forte odore, un penetrante aroma di fragola. "Decisamente" odora di fragola, gli dissi.
"Che buono! Lo portai ieri dalla Siberia. Come sarebbe contento di sentirti il vecchio Lysenko. Da dieci anni sostiene che i gelsomini hanno odore di fragola!"
Sono i miracoli della scienza sovietica. Le nuove coltivazioni sono le più grandi ambizioni dell'uomo.

Tra i miei nuovi amici di là lontano voglio parlarvi del poeta turco Nazim Hikmet. Non vedranno mai voi questo nome nelle strane riviste culturali che qui leggiamo. Tuttavia, è il primo poeta, il poeta nazionale della sua patria, la Turchia. Io lo considero come uno dei più grandi poeti viventi.
Il popolo turco sa a memoria i suoi versi, ma il suo nome non può pubblicarsi in Turchia.
Parlo loro di lui perché dei miei nuovi amici è come se ci avessimo allevati insieme. Tutti voi lo vorreste. Mi piacerebbe vederlo qui, in questa tribuna, con la sua alta statura ed i suoi occhi chiari (non sembra turco) recitando i suoi versi in quella lingua strana. I poeti orientali dicono i loro versi come se cantassero.
Come darvi idea della bontà, l'interezza e la simpatia di Nazim Hikmet?
Il gran patriota turco, molestato dalla tempesta politica della sua patria, vive esiliato a Mosca. Quando io sono passato per di lì, abbiamo dovuto accettare insieme inviti di studenti ed operai per leggere i nostri versi e conversare con loro.
Ride di me perché dice che io incomincio sempre allo stesso modo:
- Cile, il mio paese, sta lontano e è il paese più bello del mondo. È lungo, magro come un filo di spada, tra la cordigliera più alta e l'oceano più largo...
- Già con quello ti conquisti alla gente - mi dice -. Che cosa posso io dire della Turchia, allora?
Ma dice molte cose...
Circa da quindici anni l'ebbero imprigionato, per alcuni versi scritti nella sua gioventù. Solo uno sciopero della fame di molti giorni ed i richiami del mondo intero gli diedero la libertà.
Mi racconta che ancora ora dopo due anni che vive nel mondo libero non acquisisce ancora le nozioni della chiave e della luce elettrica.
Si dimentica le chiavi perché per quindici anni altri aprirono e chiusero la sua cella.
Si dimentica di spegnere la luce nella notte, coricandosi, perché per quindici anni dormì sotto un'ampollina accesa.
È il più allegro degli uomini. Sta sempre chiedendo del Cile. Gli racconto le grandi lotte del paese nel nord, nel salnitro, gli faccio la descrizione dai miei amici, gli dico che belle sono le cilene, e gli racconto come una volta per strada, essendo molto giovane, mi guardò una ragazza tanto bella che mi rialzarono perché la sua bellezza mi aveva fatto cadere.
- Sei un esagerato - mi dice -, dovrò andare a vedere tutto quello.

Incominciai parlandovi del Canto general e finii raccontando le storie dei miei amici di altri mondi viventi.
È uguale. Questa è stata la continuità della mia vita e da questa nasce la mia poesia tanto direttamente come una pianta dalla terra. Voglio dirvi che nessuna cosa di fuori cancellò mai il mio senso essenziale. Portai in le tutte parti il nostro, affermai in tutti i posti la mia coscienza americana, la mia condizione di poeta cileno. Forse per questo mi vollero molto e mi lessero in posti lontani. Se ho portato questi ricordi per finire questa chiacchierata è perché la mia poesia si estese per quelle regioni e lì lasciò numerosi, freschi e fermi amici per la mia patria.
Non solo essi ricordo.
Se avesse più tempo...
Vi racconterei come sono andato col cantore nordamericano Paul Robeson parlando per pomeriggi interi, come raccantò per me solo in un temporale di neve e come egli mi promise che ascolteremo qualche volta in Cile la sua voce sovrana.
Che cosa dovete vedere voi nel motivo di queste conversazioni? Che cosa dovete vedere voi con la mia poesia?
La mia nuova poesia vuole unire gli uomini più distanti. Vuole finire con l'incomunicabilità diretta.
Vorrei che il mio paese compiesse solo quella missione nel mondo. Intromettersi davanti alle grandi potenze e far loro una ferma chiamata di conoscenza, di intelligenza e di amicizia.
Che si ascoltino nella nostra patria tutte le voci del pianeta. Che un piccolo paese riconquisti in sé stesso la convivenza perduta.
E se non si può farlo immediatamente e dai suoi ministeri, permettete che un poeta, con ricordi di pioggia e battesimo di lotte, si decida a compiere colla sua poesia questi doveri di fraternità e lo faccia da questa università anche se piccola non minore università. Ho proposto come compito alla mia poesia che lavori con tutta sua la forza e la sua tenerezza perché gli uomini più distanti e le nazioni più differenti vivano in pace, scambino la loro saggezza, si rispettino e si amino.
Io so che se la mia poesia riesce ad avanzare un poco in questa strada, avrò compiuto i doveri più puri di un poeta ed i mandati più profondi della mia patria.

Seconda conferenza del ciclo la Mi Poesia, letta nel Salone
di Onore dell'Università del Cile il 21.1.1954. Testo
edito in Aurora, núm. 1, Santiago, Luglio 1954.


[Il Rettore ha avuto parole magnifiche]

Il Rettore ha avuto parole magnifiche. Tra esse sottolineo quelle che nel suo discorso si riferirono al poeta ed al suo paese.
Io sono, una volta ancora, quel poeta.
Dico una volta ancora, perché fu dovere di tutti, attraverso la storia, adempiere a questa relazione. Adempierla con devozione, con sofferenza e con allegria.
La prima età di un poeta deve raccogliere con attenzione appassionata le essenze della sua patria, e dopo deve restituirle. Deve restituirle, deve donarle. Il suo canto e la sua azione devono contribuire alla maturità e la crescita del suo popolo.
Il poeta non può essere sradicato, neanche con la forza. Anche in quelle circostanze le sue radici devono attraversare il fondo del mare, i suoi semi seguire il volo del vento, per incarnarsi, un'altra volta, nella sua terra. Deve essere deliberatamente nazionale, assennatamente nazionale, maturamente patriota.
Il poeta non è una pietra persa. Ha due obblighi sacri: partire e ritornare.
Il poeta che parte e non ritorna è un cosmopolita. Un cosmopolita è appena un uomo, è appena un riflesso della luce moribonda. Soprattutto in queste patrie solitarie, isolate tra le rughe del pianeta, testimoni integrali dei primi segni dei nostri paesi, tutti, tutte dai più umili fino ai più orgogliosi, abbiamo quella di continuare a creare la nostra patria, di essere un po' tutti essa.
Io raccolsi in questi libri della cultura universale, queste conchiglie di tutti gli oceani, e questa schiuma dei sette mari la consegno all'università per dovere di coscienza e per pagare, in parte minima, quello che ho ricevuto del mio popolo. Questa università non nacque per decreto, bensì dalle lotte degli uomini, e la sua tradizione progressista, rinnovata oggi dal rettore Gómez Millas, viene dalle scosse della nostra storia e è la stella della nostra bandiera. Non si arresterà nel suo cammino. Sarà qualche giorno l'università futura più larga e popolare, conseguenza delle trasformazioni profonde che aspettiamo. Raccolsi questi libri da tutte le parti. Hanno viaggiato tanto quanto me, ma molti hanno quattro o cinque secoli più che i miei attuali cinquanta anni. Alcuni me li regalarono in Cina, altri li comprai in Messico. A Parigi ne trovai centinaia. Dell'Unione Sovietica porto alcuni dei più preziosi. Tutti fanno parte della mia vita, della mia geografia personale. Ebbi lunga pazienza per cercarli, piacere indescrivibile scoprendoli e mi servirono con la loro saggezza e bellezza. D'ora in poi serviranno più esattamente, continuando la generosa vita dei libri.
Quando qualcuno attraverso il tempo percorra questi titoli saprà che cosa pensare di quello che li riunisse, né si spiegherà perché molti di essi si riunirono.
C'è qui un piccolo almanacco Gotha dell'anno 1838. Questi almanacchi Gotha portavano al giorno i titoli di caduche aristocrazie, i nomi delle famiglie regnanti. Erano il catalogo della fiera della vanità.
Lo tengo perché c'è una riga persa nella sua minuscola grafia che dice la cosa seguente: "Giorno 12 febbraio, muore in conseguenza di un duello il poeta russo Alexandr Puskin."
Questa riga è per me una pugnalata. Sanguina ancora la poesia universale per questa ferita.
Qui c'è il Romancero gitano dedicato per un altro poeta assassinato. Federico scrisse davanti a me quella magnanima dedica e Paul Éluard, anche lui se ne è andato, anche nella prima pagina del suo libro mi lasciò la sua firma.
Mi sembravano eterni. Mi sembrano eterni. Ma già andarono via.
Una notte a Parigi mi festeggiavano i miei amici. Arrivò il gran poeta dalla Francia al festeggiamento portandomi un pugno di tesori. Era un'edizione clandestina di Víctor Hugo, perseguitato nel suo tempo da un piccolo tiranno. Mi portò un'altra cosa, forse il più apprezzato di tutto quello che ho. Sono le due lettere in cui Isabelle Rimbaud, dall'ospedale di Marsiglia, racconta a sua madre l'agonia di suo fratello.
Sono l'attestazione più straziante che si conosca. Mi diceva Paul regalandomi queste lettere: "Fissati come si interrompe alla fine, arriva a dire: "Quello che Arthur vuole... " ed il frammento che segue non si è trovato mai. E quello fu Rimbaud. Nessuno saprà mai quello che voleva."
Qui stanno le due lettere.
Qui c'è anche il mio primo Garcilaso che comprai per cinque pesetas con un'emozione che ricordo ancora. È dell'anno 1549. Qui c'è la magnifica edizione di Góngora dell'edirore flamenco Foppens, stampata nel secolo XVII quando i libri dei poeti avevano un'ineguagliata maestà. Benché costasse solo cento pesetas nella Libreria di García Rico, a Madrid, io riuscii a pagarlo a rate mensili. Pagavo dieci pesetas mensili. Ricordo ancora il viso di stupore di García Rico, quello prodigioso libraio che sembrava un commerciante della Castiglia, quando gli chiesi che me lo vendesse a rate.
Anche due dei miei poeti favoriti del Siglo de Oro sono qui nelle sue edizioni originali. Sono El desengaño de amor en rimas di Pedro Soto de Rojas e le notturne poesie di Francisco de la Torre:

[...]
Chiari fuochi del cielo, ed occhi chiari
dello spaventoso volto della notte,
corona chiara e chiara Cassiopea,
Andromeda y Perseo...
[...]

Tanti libri! Tante cose! Qui il tempo proseguirà vivo. Ricordo quando, a Parigi, vivevamo vicino alla Senna con Rafael Alberti. Sostenevamo con Rafael che la nostra epoca è quella del realismo, quella dei poeti grassi.
- Basta con i poeti magri! - mi diceva Rafael, con la sua allegra voce di Cadice -. Già abbastanza magri si ebbero nel Romanticismo!
Volevamo essere grassi come Balzac e non magri come Bécquer. Nel pianterreno della nostra casa c'era una libreria e lì, incollate alla vetrina, stavano tutte le opere di Víctor Hugo. Uscendo ci trattenevamo alla vetrina e misuravamo:
- Fino a dove misuri in larghezza?
- Fino ad Los trabajadores del mar. E tu?
- Io solo fino a Notre Dame de Paris.
Vi domandete anche qualche volta perché ci sono tanti libri su animali e piante. La risposta sta nella mia poesia.
Ma, inoltre, questi libri zoologici e botanici mi appassionarono sempre. Continuavano la mia infanzia. Mi portavano il mondo infinito, il labirinto interminabile della natura. Questi libri di esplorazione terrestre sono stati i miei favoriti e raramente mi addormento senza guardare le effigie di uccelli adorabili o insetti abbaglianti e complicati come orologi.
Infine, è poco quello che do, quello che devolvo, quello che metto nelle mani del Rettore ed attraverso di lui nel patrimonio della patria. Sono, in ultimo termine, frammenti intimi ed universali della conoscenza acchiappati nel viaggio del mondo. Qui stanno. Non appartengo a quelle famiglie che predicarono l'orgoglio di casta ai quattro lati e dopo vendono il loro passato in una liquidazione.
Lo splendore di questi libri, la flora oceanica di queste conchiglie, quanto ottenni durante la vita, nonostante la povertà e nell'esercizio costante del lavoro, lo consegno all'università, cioè, lo do a tutti.
Una parola ancora.
La mia generazione fu antilibresca ed antiliteraria per reazione contro la squisitezza decadente del momento. Eravamo nemiche giurie del vampirismo, dell'oscurità, dell'alcaloide spirituale. Fummo figli naturali della vita.
Tuttavia, l'unità della conoscenza continua la natura, l'intelligenza rivela le relazioni più remote o più semplici tra le cose, ed allora unità e relazione, natura ed uomo si tradursi in libri.
Io non sono un pensatore, e questi libri riuniti sono più reverenziali che investigatori. Qui è riunita la bellezza che mi accecò ed il lavoro sotterraneo della coscienza che mi condusse alla ragione, ma ho amato anche questi libri come oggetti preziosi, schiuma sacra del tempo nel suo cammino, frutti essenziali dell'uomo. Appartengono d'ora in poi ad innumerabili occhi nuovi.
Così compiono il loto destino di dare e ricevere la luce.

Discorso di Neruda nella donazione della sua biblioteca
personale all'Università del Cile il 20.6.1954.
Edito in Discursos del Rettore de la Universitad de Chile, Don Juan Gómez Millas, y de Pablo Neruda...,
Santiago, Stampe dell'Editoriale Universitaria, 1954.


Saluto ai cileni
SALUDO A LOS CHILENOS. (Pagine 949-950.) A estas alturas de mi vida, es posible que el presidente [Ibáñez del Campo] y los ministros me reciban, pero no tengo derecho a votar en las elecciones. (A queste altezze della mia vita, è possibile che il presidente [Ibáñez del Campo] ed i ministri mi ricevano, ma non ho diritto a votare nelle elezioni) In effetti, la Legge di Difesa della Democrazia (che imposta da González Videla nel 1948 mise fuori legge i comunisti) rimarrà vigente fino al 1958.

Toccando i cinquanta anni saluto da El Siglo i cileni.
Come tutti gli uomini non li ho compiuti come volevo farlo, con quanto mi proporsi.
Ho ancora tempo per ciò e mi sento più fertile ogni giorno.
Continuerò a lavorare.
Ebbi l'onore, poche volte raggiunto da un poeta, di essere compreso ed amato dal mio paese.
La mia poesia è passata ad essere suo patrimonio.
Sono contento ed orgoglioso che così sia.
Tra tanti popoli amici ed amici cari vada il mio ricordo di oggi dagli uomini dell'Unione Sovietica.
Nelle loro mani, nelle loro ferme mani sta la forza del futuro di tutti gli uomini. Il suo potere imponente, le sue realizzazioni feconde, il suo senso vasto e bello della costruzione collettiva irritano e spaventano i tenebrosi feudali ed i lupi imperialisti. Goebbels si chiama ora Foster Dulles, ed ulula vittorioso nel piccolo Guatemala.
Ma si rompe i denti davanti alle serene torri del Cremlino.
Io saluto gli uomini e le donne del Cile e tra tutti loro i comunisti cileni.
Cioè i cileni tra i cileni, i patrioti tra i patrioti.
Se il mio lavoro e la mia lotta dettero qualcosa al mio popolo, quel dono lo ricevei dall'insegnamento multiplo e creatore del partito.
A queste altezze della mia vita è possibile che il presidente o i ministri mi ricevano, ma non ho diritto a votare nelle elezioni.
Sono orgoglioso di non potere votare come migliaia di cileni, per essere ben chiaro il nostro pensiero e la nostra condizione di patrioti.
La vergogna di tali fatti ricade sui governanti. Per tali peccati non c'è l'assoluzione del popolo.
Sono contento di questo limite raggiunto. Mi sento allegro e forte. Questa allegria e questa pienezza proseguiranno al servizio del mio paese, del mio partito e della mia poesia.

Luglio 1954

El Siglo, Santiago, 11.7.1954.


[Camminando molti anni fa per il lago Ranco verso l'interno...]

Camminando molti anni fa per il lago Ranco verso l'interno mi sembrò di trovare la fonte della patria o la culla silvestre della poesia, attaccata e difesa da tutta la natura.
Il cielo si ritagliava tra gli arroganti coppe dei cipressi, l'aria rimuoveva le sostanze balsamiche dello spessore, tutto aveva voce ed era silenzio, il sussurro degli uccelli nascosti, i frutti e legni che cadendo sfioravano il fogliame, tutto era raccciuso in un istante di solennità segreta, tutto nella selva sembrava aspettare. Era imminente una nascita e quello che nasceva era un fiume. Non so come si chiama, ma le sue prime acque, vergini ed oscure, erano quasi invisibili, deboli e silenziose, cercando un'uscita tra i grandi tronchi morti e le pietre colossali.
Mille anni di foglie cadute nella sua fonte, tutto il passato voleva fermarlo, ma imbalsamava solo il suo cammino. Il giovane fiume distruggeva le vecchie foglie morte e si impregnava di freschezza nutrice che avrebbe continuato a ripartire nella sua strada.
Io pensai: è così come nasce la poesia. Viene da altezze invisibili, è segreta ed oscura nelle sue origini, solitaria e fragrante, e, come il fiume, dissolverà quanto cade nella sua corrente, cercherà la rotta tra i monti e scuoterà il suo canto cristallino nelle praterie.
Irrigherà i campi e darà pane all'affamato. Camminerà tra le spighe. Sazieranno in lei la sua sete i viandanti e canterà quando lottano o riposano gli uomini.
E allora li unirà e tra essi passerà fondando paesi. Taglierà le valli portando alle radici la moltiplicazione della vita.
Canto e fecondazione è la poesia.
Lascia le sue viscere segrete e corre fecondando e cantando. Infiamma l'energia col suo movimento accresciuto, lavora facendo farina, conciando il cuoio, tagliando il legno, dando luce alle città. È utile ed albeggia con bandiere nei suoi margini. Le feste si celebrano vicino all'acqua che canta.
Io ricordo a Firenze un giorno in cui andai a visitare una fabbrica. Lì io lessi i miei poemi agli operai riuniti, li lessi con tutto il pudore che un uomo del giovane continente può sentire parlando vicino alla sacra ombra che lì sopravvive. Gli operai della fabbrica mi fecero dopo un presente. Lo conservo ancora. È un'edizione di Petrarca dell'anno 1484.
La poesia era passata con le sue acque, aveva cantato in quella fabbrica ed aveva convissuto per secoli coi lavoratori. Quel Petrarca che vidi sempre infagottato sotto un cappuccio di monaco, era uno di quei semplici italiani e quel libro che presi nelle mie mani con adorazione, ebbe un nuovo prestigio per me, era solo un attrezzo divino nelle mani dell'uomo.
Io penso che se molti dei miei compatrioti ed alcuni illustri uomini e donne di altre nazioni sono accorse a queste celebrazioni, non vengono a celebrare la mia persona bensì la responsabilità dei poeti e la crescita universale della poesia.
Se siamo qui riuniti sono contento. Penso con allegria che quanto ho vissuto e scritto è servito per avvicinarci. È il primo a dovere dell'umanista ed il fondamentale compito dell'intelligenza assicurare la conoscenza e la comprensione tra tutti gli uomini. Val bene avere lottato e cantato, val bene avere vissuto se l'amore mi accompagna.

Io so che qui in questa patria isolata dall'immenso mare e dalle nevi immense non state celebrando me, bensì una vittoria dell'uomo. Perché se queste montagne, le più alte, se queste onde del Pacifico, le più accanite, [qualche volta] vollero ostacolare che la mia patria parlasse nel mondo, si opposero alla lotta dei paesi ed all'unità universale della cultura, furono vinte queste montagne e quello gran oceano fu vinto.
In questo remoto paese, il mio paese ed il mio canto lottarono per la comunicazione e l'amicizia.
E questa università che ci riceve compiendo i suoi compiti intellettuali consacra una vittoria della comunità umana e riafferma l'onore della stella del Cile.
Sotto la nostra stella antartica visse Rubén Darío. Veniva dal meraviglioso tropico delle nostre Americhe. Arrivò forse in un inverno bianco e celeste come quello di oggi, a Valparaíso, a fondare di nuovo la poesia ispanofona.
In questo giorno il mio pensiero e la mia riverenza vanno alla sua stellata grandezza, al sortilegio cristallino che continua ad abbagliarci.
Ieri sera, coi primi regali, mi portò Laura Rodig un tesoro che svolsi con l'emozione più intensa. Sono le prime brutte copie scritte con matita e pieni di correzioni dei Soneosi de la muerte, di Gabriela Mistral. Sono scritti nel 1914. Il manoscritto ha ancora le caratteristiche della sua poderosa calligrafia.
Penso che questi sonetti raggiunsero un'altezza di nevi eterne ed una trepidazione sotterranea quevedesca.
Io ricordo Gabriela Mistral e Rubén Darío come poeti cileni e compiendo cinquanta anni da poeta, voglio riconoscere ad essi l'età eterna della vera poesia.
Devo a loro, come a tutti quelli che scrissero prima di me, in tutte le lingue. Enumerarli è troppo lungo, la loro costellazione abbraccia tutto il cielo.

Discorso letto nel Salone di Onore dell'Università di
Cile, il giorno 12.7.1954, atto di omaggio a 50 anni di quel
Poeta. Edito in El Siglo, Santiago, 13.7.1954.


[Quando, tempo fa, uscii dal Cile...]

Amici carissimi:
Quando, tempo fa, uscii dal Cile, potei albergare la mia fatica, rinnovare le mie lotte, in molti, distinti paesi.
Mi ricevè e mi curò la vasta Unione Sovietica, con le sue generose braccia, il suo largo petto, la sua respirazione poderosa. Praga, la bella, mi lasciò dormire le notti, ed il vecchio fiume, tra le statue di pietra sacra, vegliava il mio sonno. Nella Cina antica, rinnovata all'improvviso come un favo, come un alveare dorato ed attivo, potei riposare la mia fronte. Nell'Italia, i poeti, i pittori e gli operai delle fabbriche ascoltarono i miei poemi.
Ma, amando tutti quelli posti, il paese in cui i miei passi erranti avrebbero voluto trattenersi mi negava l'entrata, perché io ebbi, come voi, il dolore e l'onore di essere dei primi esiliati dalla Spagna. (Applausi.)
Non è solamente politica. Se fosse solamente politica, come potrebbe mantenersi, per giorni e per mesi, che sono sembrati secoli, questa ansietà, questo desiderio vivo, questo alto fuoco che arde senza consumarsi nei quattro punti del pianeta? L'amore muove ancora, come un fiume profondo, la causa della Spagna, la causa del paese spagnolo, nella sua lotta, che, bene sanno i popoli, e lo riconoscerà la storia, non si è perso ancora.
Ed in questo voi, erranti spagnoli, dolorosi ed allegri in un mondo di precipitazione, di angosce, di catastrofi, di minacce e di speranze, meritate non solo il rispetto di quelli che portano dentro il sangue ed il canto della Spagna, bensì di tutti gli uomini, perché avete mantenuto con rettitudine, con sacrificio, con tensione profonda, con energia, la difesa dei vostri principi e non vi ha intimoriti niente. E dove stetti, nella Mongolia lontana, in India, in Cina, tra i russi del lago Baikal in Siberia, in Francia, in Cecoslovacchia ed in Italia, da tutte le parti continua ad essere il nome della Spagna repubblicana una causa immortale di tutti gli umani.
Non solo a quella causa ho destinato i miei versi molte volte, il mio costante ricordo ed il profondo affetto del mio cuore, ma anche all'odore della Spagna, ai suoi garofani, ai suoi mercati, alle sue strade, alla sua gente: modesta, pulita, orgogliosa e ferma; alle sue cantine ombrose, ai suoi vecchi castelli, alle sue acque precipitate; alle sue mele, al suo merluzzo, al suo olio, alle sue stelle, alla stella inesauribile di luce che è stata la Spagna per quelli che poterono conoscerla ed amarla, come io potei farlo.
Penso già alla mia lunga vita, quante strade, quanti esseri, quanti porti, e città, e libri e viaggi, ed amori ed amicizie! Ma indelebile è rimasto nel mio petto questo amore. Indelebile è rimasto questo segno nel mio cuore. Ed è che Spagna, per un poeta di questo continente, è una vecchia mano del passato che l'accoglie. Ma se entrando nelle severe porte della madre patria, si trovano anche la fraternità, e lo spirito di rinnovamento, e si trovano il miele ed il vino ed il pane dell'amicizia; e, inoltre, in quella stessa casa e da quella stessa porta esce il vento generoso che illumina dappertutto al pianeta, allora, unite tante essenze, tanti ricordi, tanto passato, tanto futuro, allora quel ricordo non possono cancellarlo né il tempo né nessuna lotta né nessuna passione umana.
È, dunque, una Spagna totale, senza bandiere, quella che io amo; è, dunque, una Spagna grande, con la tragica grandezza della sua storia, coi suoi terribili errori e le sue immense illuminazioni, è una Spagna totale, che incominciava il mondo a conoscere quando la sua fioritura fu schiacciata, quella che ricordiamo ed amiamo.
Mi sia permesso, in questa ora, invocare, per amore, un altro paese che anche, quando incominciava a fiorire, è stato temporaneamente schiacciato ed è la nobile e piccola Repubblica della Guatemala. (Applausi.)
Sento troppa emozione, durante questa settimana in cui ho visto e ho abbracciato tanti amici, per dirvi parole di analisi politica. Ma c'è una riflessione politica che mi reclama: quando incominciò la guerra in Spagna io scrissi un manifesto per spiegare agli americani le cause e gli infortuni della guerra, ed attribuii il sollevamento franchista ad una delle insurrezioni militari spagnole ed americane, ad un pronunciamento. Ma non mancò un uomo, un spagnolo, che si alzasse - non lo dimenticherò mai -; non lo conoscevo: da allora è mio fratello. E si chiama Wenceslao Roces che mi disse: Ti sbagli. Non è questo un pronunciamento. Questo è il fascismo internazionale."
Io voglio che questo esempio, portato di quelli primi giorni di lotta agli spagnoli che ancora in questo momento non l'avrebbero pensato, avvertirli di un pericolo che ora ci riguarda noi spagnoli ed americani, quando non il mondo intero: il pericolo di un imperialismo aggressivo che si è inaugurato con sangue e distruzione e morte nel valoroso Guatemala. Così, dunque, gemellati non solo nelle speranze comuni di un'umanità felice, bensì nel pericolo evidente che quelli che sostegono Franco attacchino la pace del mondo e l'integrità delle repubbliche americane, minaccino tutti, Spagna ed America, io ringrazio per questa riunione di tanto insigni e generosi amici.

Discorso pronunciato il 18.7.1954, durante il pranzo
di omaggio che gli spagnoli repubblicani residenti
in Cile offrirono al poeta per avere compiuto 50 anni
pochi giorni prima. Edito nella periodica Voz de Epaña,
núm. 16, Santiago, 29.7.1954.


Sito Internet di Antonio Giannotti - agg. nr. 43 del 19 Ott 2008 | postmaster@antoniogiannotti.it

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