Pablo Neruda e Insetti


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Tra Michoacán e Punitaqui (1939-1947)

Tra Michoacán e Punitaqui
(1939-1947)
Michoacán significa il poeta-console in Messico, Punitaqui il poeta-senatore dei minatori del nord del Cile. Fu un periodo di missioni e funzioni ufficiali che incorniciarono l'attività letteraria. Del viaggio in Europa per la missione Winnipeg (1939) ne derivarono i testi dedicati a Sara de Ibáñez, (all'andata) ed ad Uriel García (al ritorno). Senza le vicissitudini consolari in Messico non avremmo magari i bellissimi viaggi alla memoria personale ed al cuore di Quevedo, né i sonetti punitivi a Laureano Gómez. Dalle battaglie del senatore sorsero testi maggiori come "Alturas de Macchu Picchu" e "Las flores de Punitaqui" (Canto general) ma anche altre manifestazioni minori di prodigiosa vitalità umana e letteraria.

I
SCOPRENDO L'AMERICA I (I939-I940)

[Prologo a poemi di Sara de Ibáñez]

Montevideo, per ricevere all'Atlantico, vicino ai suoi immensi moli, nelle cui pareti i bambini scrivono la parola
Poesia, ha alzato statue ai suoi grandi poeti, i più gravi, i più notturni e ciclonici della poesia universale.
Colpite dal mare e vicine fino a darsi le mani di pietra oscura, emergono le quattro sculture ardenti: Lautréamont, Laforgue, Herrera y Reissig, Agustini.
Gabbiani ed altri uccelli del Rio de la Plata si accumulano per riposare e dormire sulle doloranti statue cieche, così è che all’alba, quando coi miei camerata Jesualdo, Saralegui, Podestá, Capurro, Ibáñez arrivavamo fino a quel recinto marino, tra la delicata nebbia ascoltavamo un rumore di uccelli selvaggi, un battito di ala innumerabile che alzandosi delle sue spalle e delle sue lire lasciava scoprire, all'improvviso, le presenze silenziose.
In questa atmosfera di aria alata e di venerazione elementare è cresciuto, segretamente, Sara de Ibáñez, grande, eccezionale e crudele poeta. Vicino a quelle ombre di pietra stellare, sotto le gigantesche architravi infernali, tra queste dita di fuoco ed ombra feriti dalla luce abbandonata del litorale, aveva allora un cuore di palpitante ramo, un corallo vivo che cresceva nello splendore sommerso. Struttura e mistero, come due linee irraggiungibili e gemelle, tessevano di nuove la vecchia, temibile e sanguinante rosa della poesia. Ed alcune poderose mani di donna uruguaiana l'alzano oggi, brillando ancora di sostanze originali, in questa chiaroscura ora crepuscolare del mondo.
Magnificata mano, sale misterioso! Essa si forma, nel suo fondo senza tempo, indurendo lì il radice cereale ed l’abbagliante aspetto. Essa aspetta il suo destino, sorpassa le epoche del vapore e del fumo, e caglia il suo sacro minerale in acute frecce che attraversano il sangue.
Chi conosca questi prodotti umani vedrà che questa donna raccoglie da Suor Juana Inés de, la Cruz un deposito fino ad ora perduto: quello dell’estasi sommessa al rigore; quello della commozione convertita in duratura schiuma.
Vederla, vedere la sua dolorosa e straordinaria bellezza, in cui la cute di cera persa circonda gli occhi immensi e bloccati da cui germoglia una luce verde, guardare tutto il suo essere maturo e bruno è comprendere la nostra maiuscola America: ha nella sua bellezza taciturna qualcosa di Gabriela Mistral: è forse un'aria misteriosa e grandiosa, un incatenamento vulcanico che non ci è dato decifrare. È, tuttavia, molto più fine della geologica araucana: tutto il suo viso, ma non il suo cuore, sono stati addolciti: la radice continua ad essere amazzonica e abbondante.
Scrivo queste righe in una barca, vicino alle coste dell'Africa. Comincia già il mare a sostenere cannoni, e l'aria a entrare nella velenosa e moribonda ora della guerra. La forza ha sterminato molta luce in Spagna. Ed anche Austria, Cecoslovacchia, Albania mostrano le loro strazianti pozzanghere di sangue umano. Le tenebre invadono l'autunno bianco dell'Europa.
Ed in questi giorni di oceano, i versi mille volte letti di Sara de Ibáñez sono stati americana acqua dolce nella mia gola, ma arrivati dei ghiacciai della Spagna, delle cime rigate già dalle nevi eterne. Sì, l'indistruttibile neve classica conforma queste nuove età delle nostre praterie, portando un materiale definitivo, un scheletro preciso al quale Sara de Ibáñez attacca il suo alveo incendiario.
Ben ricevuta sia: è della più alta aurora. E per questa accolta furia poetica, come per María Luisa Bombal, meravigliose creature, uscite alla luce non come indecisi fantasmi bensì come medaglie chiare, ardenti e definitive, che restituiscono nel loro metallo duro e duraturo una luce rivolta alla morte, luce di questi agonici e crudeli stati della terra: per lei, per esse, riverisce ed adorazione. Qui agonizza un confine e si determina un nuovo universo raggiante.

S.S. Campana, aprile 1939

Prologo a Sara de Ibáñez, Canto,
Buenos Aires, Losada, 1940.


Saluto ad Uriel García

Signor senatore: Vi saluto con emozione ed angoscia, emozione che significa l'onore di conoscere gli onori che meritatamente vi segnalano ed angoscia perché attorno a quelli che come Uriel García si alzano con tanta dignità e tanta tranquilla forza, attorno ad essi si caricano e si infiammano le disperate animo del nostro destino di americani liberi. Parliamo soli gli americani in un mondo duramente deserto, crediamo e dubitiamo nella solitudine di un territorio misterioso, senza più testimoni che le anziane pietre sacre. E da questa solitudine dobbiamo tirare fuori resistenza e speranza, perché domani qualcuno chiederà di noi, di ognuno di noi, battendo le porte della storia.
Qui stiamo nel Perù, nel remoto cuore dell'America. Ci circonda il vento di tutte le regioni. Il peruviano vive sopra le sue età sepolte, sopra i suoi gioielli sanguinanti, e ha terra poderosa ed ardente per il futuro. Dal silenzio usciranno molte cose ardenti.
Del silenzio e della terra. Conobbi per molti anni ad un peruviano maturo, anche frutto maggiore della nostra patria. Era tutto silenzio e si chiamava César Vallejo. Era mio fratello in poesia e speranza. Ma a quell'uomo lo soffocò l'assenza. Morì non per mancanza di aria, bensì per mancanza di terra.
Sì, questi territori li isolano le grandi assenze. Ritorniamo alla nostra terra, alla nostra grande America. Riempiamola di dicerie, di voci, di silenzio, di fiamme vive. Viviamo un'ora solenne tra tutte e la nostra voce comincia a vivere.

Alla fine del 1939, a Lima di passaggio, Neruda pronunciò
queste parole di omaggio all’appena l'eletto senatore per la
Coalizione Operaio Peruviana, raccolte in Qué Ubo, num. 30,
Santiago, 2.1.1940.


Amicizie ed inimicizie letterarie

NON SOLO DI STELLE...

Forse a nessuno per queste terre gli è toccato in fortuna scatenare tante invidie come alla mia persona letteraria. C'è gente che vive di questa professione, di invidiarmi, di darmi pubblicità strana, per mezzo di opuscoli guarci o tenaci e pittoresche riviste. Ho perduto nei miei viaggi questa collezione singolare. I piccoli libelli mi sono rimasti in stanze lontane, in altri climi. In Cile torno a riempire la mia valigia con questa lebbra endemica e fosforescente, accantono di nuovo gli aggettivi viziosi che vogliono assassinarmi. In altre parti non mi interessano queste cose. E tuttavia, ritorno. È che mi piace ciecamente la mia terra e tutto il sapore verde ed amaro del suo cielo e del suo fango. E l'amore che mi tocca mi piace più qui, e questo odio stravagante e mistico che mi circonda mette nella mia proprietà un fecondo e necessario escremento. Non solo di stelle vive l'uomo.
Spagna, quando pestai il suo suolo, mi diede tutte le mani dei suoi poeti, dei suoi leali poeti, e con essi condivisi il pane ed il vino, nell'amicizia categorica del centro della mia vita. Ho il ricordo vivo di quelle prime ore o anni della Spagna, e molte volte mi manca l'affetto dei miei camerati.

VICENTE ALEIXANDRE

In un quartiere tutto pieno di fiori, tra Cuatro Caminos e la nascente Città Universitaria, per strada Wellingtonia, vive Vicente Aleixandre.
È grande, biondo e rosato. È malato da anni. Non esce mai di casa. Vive quasi immobile.
La sua profonda e meravigliosa poesia è la rivelazione di un mondo dominato per forze misteriose. È il poeta più segreto della Spagna, lo splendore sommerso dei suoi versi l'avvicina forse al nostro Rosamel del Valle.
Tutte le settimane mi aspetta, in un giorno determinato, che per lui, nella sua solitudine, è una festa. Non parliamo altro che di poesia. Aleixandre non può andare al cinema. Non sa niente di politica.
Da tutti i miei amici lo separo, per la qualità infinitamente pura della sua amicizia. Nel recinto isolato dalla sua casa la poesia e la vita acquisiscono una trasparenza sacra.
Io gli porto la vita di Madrid, i vecchi poeti che scopro nelle interminabili librerie di Atocha, i miei viaggi per i mercati di dove estraggo immensi rami di sedano o pezzi di formaggio de La Mancha unto di olio levantino. Si appassiona con le mie lunghe camminate, nelle quali egli non può accompagnarmi, per la strada di Cava Baja, una strada di bottai e cordai stretta e fresca, tutta dorata per il legno e lo spago.
O leggiamo lungamente Pedro de Espinosa, Soto de Rojas, Villamediana. Cercavamo in essi gli elementi magici e materiali che fanno della poesia spagnola, in un'epoca cortigiana, una corrente persistente e vitale di chiarezza e di mistero.

MIGUEL HERNÁNDEZ

Dove starà Miguel Hernández? Adesso curati e carabinieri "sistemano" la cultura in Spagna. Eugenio Montes e Pemán sono grandi figure, e stanno bene di fianco al fuorilegge Millán Astray, che non è un altro che presiedere le nuove società letterarie in Spagna. Nel frattempo, Miguel Hernández, il grande e giovane poeta contadino, starà se non fucilato e sepolto, in prigione o vagando per i monti.
Io avevo letto prima che Miguel arrivasse da Madrid i suoi atti sacramentali, di inaudita costruzione verbale. Miguel era in Orihuela pastore di capre ed il curato gli prestava libri cattolici che egli leggeva ed assimilava poderosamente.
Così come è il più grande dei nuovi costruttori della poesia politica, è il più grande poeta nuovo del cattolicesimo spagnolo. Nella sua seconda visita a Madrid, stava per ritornare quando, nella mia casa, lo convinsi a rimanere. Rimase allora, molto campagnolo a Madrid, molto forestiero, col suo viso di patata e brillanti occhi.
Il mio gran amico, Miguel, quanto ti voglio e quanto rispetto e amo la tua giovane e forte poesia. Dove stia in questo momento, nella prigione, nelle strade, nella morte, è lo stesso: né i carcerieri, né i carabinieri, né gli assassini potranno cancellare la tua voce già ascoltata, la tua voce che era la voce del tuo paese.

RAFAEL ALBERTI

Prima di arrivare in Spagna conobbi Rafael Alberti. A Ceylon ricevei la sua prima lettera, più di dieci anni fa. Voleva pubblicare il mio libro
Residencia en la tierra, lo portò di viaggio in viaggio da Mosca alla Liguria e, soprattutto, lo portò a spasso per tutta Madrid. Dall'originale di Rafael, Gerardo Diego fece tre copie. Rafael fu instancabile. Tutti i poeti di Madrid sentirono i miei versi, letti da lui, nella sua terrazza della via Urquijo.
Tutti, Bergamín, Serrrano Plaja, Petere, tanti altri, mi conoscevano prima di arrivare. Avevo, grazie a Rafael Alberti, amici inseparabili, prima di conoscerli.
Dopo, con Rafael siamo stati semplicemente fratelli. La vita ha intricato molto le nostre vite, rimescolando la nostra poesia ed il nostro destino.
Questo giovane maestro della letteratura spagnola contemporanea, questo rivoluzionario incancellabile della poesia e della politica dovrebbe venire in Cile, portare alla nostra terra la sua forza, la sua allegria e la sua generosità. Dovrebbe venire affinché cantassimo. C'è molto da cantare qui. Con Rafael e Roces faremmo alcuni cori formidabili. Alberti canta meglio che nessuno il "
tamborileiro", il Passo dell'Ebro, ed altre canzoni di allegria e di guerra.
È Rafael Alberti il poeta più appassionato della poesia che mi è toccato conoscere. Come Paul Éluard, non si separa da lei. Può dire a memoria la "Primera soledad" di Góngora ed inoltre lunghi frammenti di Garcilaso e Rubén Darío ed Apollinaire e Mayakovski.
Forse Rafael Alberti scriverà, tra le altre, le pagine della sua vita che ci ha toccato convivere. Si vedrà in esse, come in tutto quello che egli fa, il suo splendido cuore fraterno ed il suo spirito tanto spagnolo di gerarchia, giusti e centrali dentro la costruzione diamantina ed assoluta della sua espressione, già classica.

INVIO: AD ARTURO SERRANO PLAJA E VICENTE SALAS VIÚ

Voi siete gli unici amici della mia vita letteraria in Spagna che siete arrivati dalla mia patria. Avrei voluto portarli a tutti, e non ho desistito da ciò. Tenterò di portarli, dal Messico, da Buenos Aires, da Santo Dominigo, dalla Spagna.
Non solo la guerra ci ha uniti, bensì la poesia. Vi aveva portati a Madrid il mio buon cuore americano ed un ramo di rime che avete conservato con voi.
Voi, quanti! tutti, avete chiarito tanto il mio pensiero, mi avete dato tanta singolare e tanta trasparente amicizia. Molti di voi ho aiutato in problemi reconditi, prima, durante e dopo la guerra.
Voi mi avete aiutato di più.
Mi avete mostrato un'amicizia allegra e curata, ed il vostro decoro intellettuale mi sorprese all'inizio: io arrivavo dell'invidia cruda del mio paese, dal tormento. Da quando mi accoglieste come vostro, deste tale sicurezza alla mia ragione di essere, ed alla mia poesia che potei passare tranquillo a lottare nelle file del popolo. La vostra amicizia e la vostra nobiltà mi aiutarono più che i trattati. E fino ad ora, questo semplice cammino che scopro è l'unico per tutti gli intellettuali. Che non passino a lottare col paese gli invidiosi, i risentiti quegli avvelenati, i maligno, i megalomani.
Quelli, all'altro lato.
Con noi, amici e fratelli spagnoli, solamente i puri, i fraterni, gli onesti, i nostri.

Qué Ubo, num. 44, Santiago, 20.4.1940


Pedro de Oña e Seguel

Dei boschi di Angol ai pietrosi fiumi di Boroa e Ranquilco, la terra e gli uomini sono uniti da un forte contesto di radici ed ombre, da una rete imperiale di arroganti vegetali.
Gerardo Seguel e Don Pedro de Oña nacquero ed appartengono a quella regione, e tra il cuore antecedente di Angol e la combattente fronte di Seguel c’è qualcosa più che sangue: una propaganda di monti sonori ed una terra accumulata di foglie remote e silenzio.
Per quel motivo Gerardo, il nostro generoso e combattivo compagno, nel suo compito ricostruttore del tesoro segreto del Cile, comincia col forte e fiorito Pedro de Oña, questo fiume cileno di diamanti coperti dalle ombre australi.
Seguel vive la vita illuminando l'opera e la vita degli altri, pulendo e facendo folgorare la flora collettiva, infiammando le anime antiche col suo coraggioso cuore patriota e comunista.
Egli ci aiuta a recuperare il nostro con senza eguale tenacia, ritornando alla vita quello che fu nel suo tempo fertile e palpitante, perché ai poeti del passato non può tornare con occhi secchi a rimuoverli e classificarli di nuovo nelle loro gelate nicchie, bensì con un ramo rosso che faccia saltare la polvere e l'acqua del tempo.
Seguel affonda la mano in questa lira incatenata dall’oblio e tocca i suoi archi d’oro acuto, di infinito e metallico rumore, perchè persistano, e continuino a brillare, e continuino il suo oro.

Santiago, giugno 1940

Prologo a Gerardo Seguel,
Pedro de Oña,
Santiago, Ercilla, 1940.



II
Viaggio I (1939-1943)

Quevedo dentro
(1939)

In questo punto litoraneo e germinale dell'America, in questa bocca di fiume dalle cui acque germogliano imprecise stelle, è buono ricordare le ombre che ci hanno condotti fino a questa data, e soprattutto estendiamo questa ombra e riposiamo sotto di lei, per l'ombra di questo studente sfortunato, di questo lunatico spagnolo chiamato Don Francisco de Quevedo: è ombra sifficiente affinché in lei riposi un nido ed una razza.
È l'ombra dell'albero della razza, l'ombra dura, compatta e gigantesca del padre delle nostre parole e del nostro silenzio, è l'ispanico strumento di patimento e di conquista il cui tremore scuote l'aria dalle radici fino alle stelle, ed è, per i quali immaginiamo la poesia come esploratore dell'essere, la più audace lezione di crescita e di ritorno.
Leggiamo sotto a questo dolce titolo: "Amore costante ma là della morte":

Chiudere potrà i miei occhi l'ultima
ombra che mi porti il bianco giorno,
e potrà slegare questa anima mia
ora al suo affanno ansiosa adulatrice;

ma no, da quest’altra parte, nella riva,
lascerà la memoria, dove ardeva:
nuotare sa la mia fiamma l'acqua fredda,
e perdere il rispetto a legge severa.

Anima a chi tutto un dio prigione è stata,
vene che umore a tanto fuoco hanno dato,
midolla che hanno gloriosamente arso,

il suo corpo lascerà, non la sua attenzione;
saranno cenere, ma avrà senso;
polvere saranno, ma polvere innamorata.

Sotto questa alzata architettura, chi non riconoscerà con emozione e panico la nostra propria sillaba di sangue, la risposta di tutto un passato di passione, e davanti alla negativa circostante, davanti agli occhi ciechi e agli uditi che non ascoltano, non vedete come questo traboccato cuore spagnolo si repliega su sé stesso e sfida tutta la notte ventura, tutta l'inumana sostanza del destino?

Chiudere potrà i miei occhi l'ultima
ombra che mi porti il bianco giorno.

Contemplate l'eroe: vicino a Cuenca, in Castiglia, nel limite panoramico di un mondo tutto pietra e stella, tutto fatalità, concedendo, tuttavia, la sua parte alla morte:

Chiudere potra i miei occhi l'ultima
ombra che mi porti il bianco giorno,
e potrà slegare questa anima mia
ora al suo affanno ansiosa adulatrice;

Un passo in più in quella consegna smisurata, una concessione in più alla sconfitta, ma

ma no, da quest’altra parte, nella riva,
lascerà la memoria, dove ardeva:

così sorge la tempestuosa vitalità da questo capitano del sangue. No, non lascerà nella riva altro che la circostanza dolorante della morte, non lascerà in lei altro che alcuni fiori fisici, ma la luce immacolata, oltre le parole e la lingua, il suo destino spagnolo di indipendenza, di separazione e di protesta, non lascerà, no, la memoria dove ardeva, questa fede imperitura che alza al popolo spagnolo invaso da un'orda di villana oltre i limiti dell'eroismo dentro questo circolo chiuso di codardi che rinchiude il mondo come schifoso anello:

Anima a chi tutto un dio prigione è stata,
vene che umore a tanto fuoco hanno dato,
midolla che hanno gloriosamente arso,

Sì, anima e paese che hai albergato tutta questa divina aspirazione degli uomini attraverso il ferro e l'incendio ed attraverso il martirio, vene che avete riempito tutta la terra con la vostra magnanima ed infinita sostanza, midolla che hanno arso affinché la libertà sorgesse dalla notte, che grande corpo fisico, oltrepassato da dardi, corpo quevedesco, invincibile della Spagna popolare e tenera, perchè grande è la tua corona di spine e la tua resistenza di celestiale presenza dura:

il suo corpo lascerà, non la sua attenzione;
saranno cenere, ma avrà sentito;
polvere saranno, ma polvere innamorata.

Ascoltate la voce dell'eroe spagnolo, la voce della speranza sulle rovine, la voce dell'essere assoluto, la voce che viene invocando dalla nascita del paese, e che dovrà essere ascoltata, perché si erge come minacciante campana oltre la lotta finale, oltre la sconfitta ed il deserto fumante distrutto dalla mitraglia, oltre i campi di concentramento, dove gli spagnoli espulsi della loro patria da forestieri sanguinari, saranno

saranno cenere, ma avrà senso;

saranno cenere, saranno materia sparsa dala crudeltà e dalla vigliaccheria del mondo, ma avrà senso, ma avrà significato, avrà combattimento, avrà ritorno,

polvere saranno, ma polvere innamorata.

Si Quevedo, saranno disfatti i tuoi familiari sintomi dell'amore e della morte spagnoli, saranno sterminati quanto diede al mondo più generosità con un pugno di uomini che tutto il resto della storia,

polvere saranno, ma polvere innamorata,

polvere innamorata che da dove giace mostra una rosa profonda, una fede immortale che non si dissangua né può morire.
Spagnolo Quevedo, spagnolo della stessa stirpe che Cervantes e la Pasionaria, perché nella tua razza si confondono il paese e la cultura, abbiamo letto questo sonetto alzandolo sulle nostre deboli teste perché le sue brevi sillabe danno ombra e vento di bandiere, e rompono sorgendo lì dove non esiste altro che pietra implacabile.

Montevideo, marzo 1939

In Emilio Oribe,] uan Marinello e Pablo Neruda,
Neruda entre nosotros, Montevideo, Edizioni
AIAPE, 1939, ed in
Aurora de Chile, num. 19,
Santiago, 4.5.1940.


Viaggio al cuore di Quevedo
[1942]
VIAJES I. VIAJE AL CORAZÓN DE QUEVEDO. (Pagine 451-469.) Il governo messicano aveva approvato il progetto solidale di costruire una scuola nella città di Chilla, Cile, distrutta dallo spaventoso terremoto del 24 gennaio 1939. La scuola avrebbe portato murali degli artisti messicani David Alfaro Siqueiros e Xavier Guerrero. Il nuovo console Pablo Neruda estese i visti a Siqueiros e sua moglie, Angélica Arenal, senza pensarci due volte. Ma senza la protocollare autorizzazione del Ministero di Relazioni Esterne che punì il console per il suo "atto di indisciplina" con la sospensione delle sue funzioni per un mese. Senza godere di stipendio, naturalmente. All'indisciplina di Neruda deve Chillan una Scuola Messico con il murale Morte all'invasore. Ed i lettori del poeta devono alla stessa indisciplina le conferenze che il console castigato approfittò per scrivere e leggere in Guatemala ed a Cuba. Una di esse fu questo "Viaje al corazón de Quevedo", sviluppo dell'embrionale "Quevedo adentro" del 1939. L'altra fu il " Viaje por las costas del mundo". Neruda li riunì nei volume Viajes (Santiago, Ediciones de la Sociedad des Escritores de Chile, autunno 1947, 73 pp. In una posteriore edizione di Viajes (Santiago, Nascimento, 1955, 2I5 pp.) incorporerà altri tre testi: " Viaje al Norte", "Viaje de vuelta" e "El esplendor de la tierra". Inserendo Viajes nella quarta edizione OC * (Buenos Aires, 1973), Neruda operò ancora una nuova riduzione escludendo "Viaggio de vuelta" e "El esplendor de la tierra". È chiaro che non ebbe mai di Viajes un'idea unitaria e strutturata, non potè pensarlo mai davvero come uno dei suoi libri. Inoltre i cinque testi - ed in particolare i due primi che sono semplicemente splendidi - si leggono e si godono meglio a parte, per cui li ho disposti in questo volume sotto il lemma comuni VIAJES e secondo la sequenza cronologica in cui furono scritti. Sperando che il lettore approvi alla fine dei viaggi.

Nel fondo del pozzo della storia, come in acqua più sonora e brillante, brillano gli occhi dei poeti morti. Terra, popolo e poesia sono una stessa entità incatenata da sotterranei misteriosi. Quando la terra fiorisce, il popolo respira la libertà, i poeti cantano e mostrano la strada. Quando la tirannia oscura la terra e punisce le spalle del popolo, per primo si cerca la voce più alta, e cade la testa di un poeta nel fondo del pozzo della storia. La tirannia taglia la testa che canta, ma la voce nel fondo del pozzo ritorna alle sorgenti segrete della terra e dall’oscurità sale alla bocca del popolo.
Questo è un viaggio al fondo del pozzo della storia. Ci dirigiamo a un territorio oscurato, a una strada in cui le foglie degli alberi rimangono bruciate da secoli, e in cui le interrogazioni si riferiscono ad un inferno terrestre, raso al suolo dall’angoscia umana.
Vado a parlarvi di un poeta e del suo prolungamento in altri, vado a parlarvi di un uomo e delle sue domande, dei suoi martiri e della sua lotta, e vedrete come appaiono nel tempo, altri dolori, altre lotte, altra poesia e altre affermazioni. Gli uomini di cui parlerò passarono la vita invocando la terra, abbassando lo sguardo alle profondità dell’uomo e della vita, cercando disperatamente un cielo più possibile, bruciandosi gli occhi nella contemplazione umana, nella disperazione celestiale.
Questo è un viaggio al fondo nascosto che domani si desterà vivente. Questo è un viaggio alla polvere. Alla polvere innamorata che domani ritornerà a vivere.
E vi porto con me in questo viaggio a un uomo turbolento e temibile come don Francisco de Quevedo y Villegas, che anche considero come il più grande dei poeti spirituali di tutti i tempi. È evidente in lui, come in tanti altri grandi uomini, questo fatto mai troppo evidenziato. Quevedo è fustigato dalla fase critica del suo tempo: è fustigato e percosso come una canna, ma la canna non si rompe. È una canna che canta. La mantiene alta come una freccia e china come una zappa tutta la vita materiale del suo tempo. Ci sono in Quevedo, come in una cantina immensa, come nel deposito di un immenso spogliatoio di teatro, tutti i costumi abbandonati di un’epoca. È lì il costume del nobile duca e del buffone miserabile, il costume del re patetico, del ricco abusatore e il volto innumerevole della folla affamata che più tardi si chiamerà “il popolo”. Le casacche bordate dei principi giacciono vicino ai vestiti sgualciti delle meretrici, le scarpe del ficcanaso, dell’avaro, del pretenzioso, del picaro, si confondono con le reliquie dei più ingenui contadini.
Ma, da una finestra entra il colore azzurro della conoscenza ed è qui che tutta questa moltitudine maleducata e lussuosa, palpitante e bestiale, riceve il raggio che sta germogliando ancora dal cuore del cavaliere.
Tutto rimane vivo quindi in questo secco recinto, tutto, tutte le idee materiali della sia epoca. La critica esplode da tutte le parti come un metallo bollente. Il cavaliere della conoscenza, il terribile signore della poesia, con la sua mano sinistra ha creato il polveroso museo dei costumi dimenticati e con la sua mano destra sostiene tuttavia il trapano vivente della creazione e della distruzione.

Non devo tacere, se non con il dito
ora toccando la bocca, ora la fronte,
silenzio chiami, o minacci paura.

Non devo tacere, se non con il dito
ora toccando la bocca, ora la fronte,
silenzio chiami, o minacci paura.

Non deve parlare una spirito valoroso?
Sempre si deve sentire quello che dice?
Mai si deve dire quello che si sente?

Oggi, senza paura, libero, scandalizza,
può parlare l’ingegno, assicurato
da quel maggior potere che lo spaventa.

In altri secoli poté essere peccato
severo studio e la verità nuda
e rompere il silenzio il corretto parlare.

Quindi sappia chi lo nega, e chi ha dubbi,
che è linguaggio la verità di Dio severo
e il linguaggio di Dio mai fu muto.

Niente dimenticò di vedere nel suo secolo don Francisco de Quevedo. Mai dimenticò di vedere né la notte né il giorno, né in inverno né in estate, e non accecò i suoi occhi di trapano pigro il poderoso, né lo ingannarono il mercenario e il ciarlatano di mestiere.
Martí ci ha lasciato detto di Quevedo: “Approfondì tanto quello che capitò, che oggi lo viviamo e con la sua lingua parliamo”.
Con la sua lingua parliamo … A cosa si riferisce Martí? A questa sua qualità di padre dell’idioma che, come nel caso di Rubén Darío, che passeremo la metà della vita negando per comprendere poi che senza di lui non parleremmo la nostra propria lingua, cioè, che senza di lui parleremmo ancora un linguaggio indurito, incartapecorito e insipido? Ma non mi sembra essere questo il caso. L’innovazione formale è più grande in un Góngora, la grazia è più infinita in un Juan de la Cruz, la dolcezza è acqua e frutta in Garcilaso. E continuando, l’amarezza è più grande in Baudelaire, la veggenza è più soprannaturale in Rimbaud, ma più che in tutti questi, in Quevedo la grandezza è più grande.
Parlo di una grandezza umana, non della grandezza del sortilegio, né della magia, né del male, né della parola: parlo di una poesia che, nutrita da tutte le sostanze dell’essere, si alza come albero grandioso che la tempesta del tempo non piega e che, al contrario, gli fa spargere intorno il tesoro delle sue sementi ribelli.

La vita mi fece percorrere i più lontani siti del mondo prima di arrivare a quello che dovette essere il mio punto di partenza: la Spagna. E nella vita della mia poesia, nella mia piccola storia di poeta, mi toccò conoscere quasi tutto prima di arrivare a Quevedo.
Così anche, quando calpestai la Spagna, quando posi i piedi sulle pietre polverose dei suoi popoli dispersi, quando mi cadde sulla fronte e sull’anima il sangue delle sue ferite, mi dette conto di una parte originale della mia esistenza, di una base rupestre da cui sta tremando ancora la culla del sangue.
Le nostra praterie, i nostri vulcani, la nostra fronte oppressa da tanto splendore vulcanico e fluviale, poterono molto tempo fa costruire in questa desertica fortezza l’arma da fuoco capace di perforare la notte. Fino a oggi, dei geni poetici nati nella nostra terra verginale, due sono francesi e due sono francesizzati. Parlo degli uruguaiani Julio Laforgue e Isidoro Ducasse, e di Rubén Darío e Julio Herrera y Reissig. I nostri due primi compatrioti, Isidoro Ducasse e Julio Laforgue, abbandonano l’America nella tenera età loro e dell’America. Lasciano abbandonato il vasto territorio vitale che invece di procrearli con vortici di carta e con illusioni canine, li solleva e li riempie del soffio mascolino e terribile che produce il nostro continente, con la stessa irrazionalità e lo stesso disequilibrio, il muso sanguinante del puma, il caimano divoratore e distruttore e la pampa piena di frumento perché l’umanità intera non dimentichi, attraverso noi, il suo inizio, la sua origine.
L’America riempie, attraverso Laforgue e Ducasse, le strade rarefatte dell’Europa con una flora ardente e gelata, con dei fantasmi che da allora la popoleranno per sempre. Il pagliaccio lunatico di Laforgue non ha ricevuto la luna immensa delle pampas invano: il suo bagliore lunare è più grande della vecchia luna di tutti i secoli: la luna apostrofata, virulenta e gialla dell’Europa. Per togliere alla luce della notte una luce tanto lunare, era necessario averla ricevuta in una terra risplendente di astri recentemente creati, di pianeta in formazione, con steppe piene ancora di rugiada selvaggia. Isidoro Ducasse, conte di Lautréamont, è americano, uruguaiano, cileno, colombiano, nostro. Parente dei gauchos, dei cacciatori di teste del Caribe remoto, è un eroe sanguinario della tenebrosa profondità della nostra America. Corrono nella sua desertica letteratura i cavallerizzi maschi, i coloni dell’Uruguay, della Patagonia, della Colombia. C’è in lui un ambiente geografico di esplorazione gigantesca e una fosforescenza marittima che non la da la Senna, ma la flora torrenziale del Rio delle Amazzoni e l’astratto nitrato, il rame longitudinale, l’oro aggressivo e le correnti attive e caotiche che hanno la terra e il mare del nostro pianeta americano.
Ma all’americano non disturba lo spagnolo, perché alla terra non disturba la pietra né la vegetazione. Dalla pietra spagnola, dai dintorni logorati dalle impronte di un mondo tanto nostro come il nostro, tanto puro come la nostra purezza, tanto originale come la nostra origine, doveva uscire il ricco cammino della scoperta e della conquista. Ma, se la Spagna ha dimenticato con eleganza immemorabile la sua epopea di conquista, l’America dimenticò o le insegnarono a dimenticare la sua conquista della Spagna, la conquista della sua eredità culturale. Passarono le settimane, e gli anni indurirono il ghiaccio e chiusero le porte del cammino duro che ci univa alla nostra madre.
E io venivo da una atmosfera carica di aroma, inondata dai nostri spietati fiumi. Fino a allora vissi soggetto al tenebroso potere delle grandi selve: il legno nuovo, di recente tagliato, aveva trapassato il mio vestito: ero abituato alle rive immensamente popolate di uccelli e vapore in cui, alla fine, tra le conflagrazioni di acqua e fango, si udivano sguazzare piccole imbarcazioni selvatiche. Passai per stazioni in cui il legno giovane arrivava dai boschi, precipitato dalle rive dei fiumi rapidi e torrenziali, e nelle province tropicali dell’America, vicino alle banane ammonticchiate ed al loro odore decadente, vidi attraversare la notte le colonne di farfalle, le divisioni di lucciole e il passo trascurato degli uomini.

Quevedo fu per me la roccia tumultuosamente tagliata, la superficie sporgente e tagliente sopra un fondo di color di sabbia, sopra un passaggio storico che recentemente mi incominciava a nutrire. Gli stessi oscuri dolori che volli vanamente formulare, e che talvolta si fecero in me estensione e geografia, confusione d’origine, palpitazione vitale per nascere, li trovai dietro la Spagna, argentata dai secoli, nell’intimo della struttura di Quevedo. Fu quindi mio padre maggiore e mio visitatore di Spagna. Vidi attraverso il suo spettro il grande scheletro, la morte fisica, tanto attecchita in Spagna. Questo grande contemplatore di ossari mi mostrava il sepolcrale, aprendosi il passo tra la materia morta, con un disprezzo imperituro per il falso, perfino nella morte. Lo ostacolava l’apparato del mortale: andava nella morte diretto al nostro compimento, quello che chiamò con parole uniche “l’agricoltura della morte”. Ma quanto lo circondava, la necrologia adorativa, lo sfarzo e il becchino furono i suoi ripugnanti nemici. Tolse indumenti ai vivi, la sua opera fu di ritirare maschere agli alti mascherati, per preparare l’uomo alla morte nuda, dove le apparenze umane saranno più inutili del guscio del frutto caduto. Soltanto il seme ritorna alla terra con il diritto della sua nudità originale.
Per questo per Quevedo la metafisica è immensamente fisica, il più materiale del suo insegnamento. C’è una sola infermità che uccide, e questa è la vita. C’è un solo passo, ed è il cammino verso la morte. C’è una sola maniera di consumo e di sudario, è il passo trascinatore del tempo che ci guida. Ci guida dove? Se alla nascita iniziamo a morire, se ciascun giorno ci avviciniamo a un limite determinato, se la vita stessa è una tappa patetica della morte, se lo stesso minuto che germoglia avanza verso il logoramento ci cui l’ora finale è soltanto il vertice di questo trascorrere, non integriamo la morte nella nostra quotidiana esistenza, non siamo parte perpetua della morte, non siamo il più audace, quello che uscì dalla morte? Non è il più mortale, il più vivente, il suo stesso mistero?
Per questo, in tanta regione incerta, Quevedo mi dette un insegnamento chiaro e biologico. Non è il trascorrere invano, non è l’Ecclesiastico né il Kempis, ornamenti della necrologia, ma la chiave anticipata delle vite. Se già siamo morti, se veniamo dalla profonda crisi, perderemo il timore della morte. Se il passo più grande della morte è il nascere, il passo minore della vita è morire.
Per questo la vita si accresce nella dottrina quevedica come io lo ho sperimentato, perché Quevedo è stato per me non una lettura, ma una esperienza viva, con tutta la rumorosa materia della vita. Così hanno in lui le loro giustificazioni l’ape, la costruzione della talpa, i reconditi misteri floreali. Tutti hanno superato la tappa oscura della morte, tutti si stanno consumando fino alla fine, fino alla distruzione pura della materia. Ha la sua spiegazione l’uomo e la sua burrasca, la lotta del suo pensiero, l’errante stanza degli esseri.

La burrascosa vita di Quevedo, non è un esempio di comprensione della vita e dei suoi doveri di lotta? Non c’è avvenimento della sua epoca che non porti qualcosa del suo fuoco attivo. Lo conoscono tutte le rivendicazioni e lui conosce tutte le miserie. Lo conoscono tutte le prigioni, e lui conosce tutto lo splendore. Non c’è niente che sfugga alla sua eresia in movimento: né le scoperte geografiche né la ricerca della verità. Ma dove attacca con lancia e lanterna è nella grande altezza. Quevedo è il nemico vivente del lignaggio governativo. Quevedo è il più popolare di tutti gli scrittori della Spagna, più popolare di Cervantes, più indiscreto di Mateo Alemán. Cervantes estrae dal limitato umano tutta la sua prospettiva grandiosa, Quevedo proviene dalla interrogazione profetica, dal decifrare i più oscuri stati, e il suo linguaggio popolare è impregnato del suo sapere politico e della sua sapienza dottrinaria. Lontano da me pretendere queste rivalità nell’alveo appagato delle ore. Ma quando attraverso il mio viaggio, da poco illuminato dalla oscura fosforescenza dell’oceano, arrivai a Quevedo, sbarcai in Quevedo, percorsi queste coste sostanziali della Spagna fino a conoscere la sua astrazione e il suo terreno desertico, il suo grappolo e la sua altezza, e scegliere il coraggio che mi aspettava.
Mi fu dato di conoscere attraverso le gallerie sotterranee di morti le nuove germinazioni, lo spontaneo dell’avena, il sotterrato delle nuove uve e le nuove cristalline campane. Cristalline campane di Spagna, che mi chiamavano dall’oltremare, per domare in me l’insaziabile, per spolpare i limiti territoriali dello spirito, per mostrarmi la base segreta e dura della conoscenza.. Campane di Quevedo lievemente tenute per funerali e carnevali da antico tempo, interrogazione essenziale, strade popolari con bovari e mendicanti, con principi assolutisti e con la verità stracciona vicino al mercato. Campane di Spagna vecchia e Quevedo immortale, dove potei riunire la mia scuola di pianto, i miei addii attraverso i fiumi a delle pagine di pietra in cui era già determinato il mio pensiero.
I martiri di Quevedo, le sue prigioni e i suoi duelli non inaugurano, ma bensì continuano la persecuzione all’intelligenza umana a cui l’uomo si è addestrato da secoli e che è culminata nei nostri ultimi laceranti anni. Ma in Quevedo il carcere aumenta lo spazio materiale della sua poesia, elevandola verso l’ambito più immenso, senza spezzare la corrente fluviale del suo pensiero. Il suo potere soprannaturale di resistenza lo fa elevare sopra i suo dolori, e i suoi stessi lamenti sembrano maledizioni, e attuali maledizioni:
Dice in una delle sue ultime lettere, dalla prigione:

Se i miei nemici hanno rancore, io ho pazienza. L’animo, che sta fuori dalla giurisdizione delle serrature e lucchetti, si
distacca dalla terra al cielo e va e viene riposando in giornate immense.

Ma l’orrore della sua vita a volte lo dissangua:

Un anno e dieci mesi fa si eseguì la mia prigionia al 7 dicembre, vigilia della Concezione della Nostra Signora, alle dieci e mezzo di sera. Fui portato nel rigore dell’inverno, e senza una camicia, a sessantun anni, a questo Convento Reale di San Marco di León, dove sono stato tutto questo tempo in rigorosissima prigionia, infermo con tre ferite, che con i freddi e la vicinanza di un fiume che ho al capezzale, mi sono incancrenito, e per la mancanza di un chirurgo, non senza pietà mi hanno visto cauterizzare con le mie proprie mani, tanto povero, che di elemosina mi hanno coperto e trattenuto in vita. L’orrore delle mie fatiche ha spaventato tutti …

“L’orrore delle mie fatiche …” Il poeta, grande tra i grandi, scontava così la sua poesia, la sua immersione nella vita degli uomini, nella politica del tempo. Egli alzò frustate sopra la corruzione dei tirannucoli, cortigiani e principi, e nell’inaffondabile scienza della sua parola metafisica, non dimentica mai i suoi doveri essenziali e contemporanei. Afferra con braccio poderoso le sostanze stellari della notte e del tempo, e con l’altro braccio segna la fronte altezzosa della cattiveria. Per questo l’abbraccio di Quevedo con la terra ci commuove ancora, con le possibilità della sua grandiosa eredità di stelle e spighe torrenziali.

Coloro che più tardi raccolsero le granate azzurre di curiosità, di magnificenza e di castigo che Quevedo aprì per i secoli, toccarono anche, al conquistare il suo lignaggio, le ferite della persecuzione e della morte. Lo splendore degli anelli vitali nelle mani del poeta, il fulgore dei lampi sulla sua testa fece tremare i tiranni e decretare la sofferenza.
Non vediamo in un grande poeta e scrittore quevedesco, in Federico Garcia Lorca, sulla cui grazia del sud marittimo e arabico cadono le gocce mortali dell’anima di Quevedo, non lo vediamo patire e morire per aver raccolto i semi della luce?
Quando scoppia l’insurrezione fascista, Federico vive a Granata, prima di morire, una visione terribile, quevediana, dell’inferno. Suo cognato, il signor Montesinos, era sindaco di Granata. La stessa mattina della sollevazione fu fucilato vicino al municipio, il suo cadavere fu legato per i piedi al posteriore di un’automobile e fu trascinato così per le strade di Granata. Probabilmente, Federico, abbracciato a sua sorella e a sua madre, vide dai balconi della sua casa arrivare il mulinello che trascinava in verità il cadavere della Spagna.
Da allora non sappiamo niente tranne la propria morte, il crimine per cui Granata passa alla storia con una bandiera nera che si scorge da tutti i punti del pianeta.

L’altro quevediano, il pensieroso, il concentrato cantore di Castiglia, incantato nella sua malinconia, nella visione del paesaggio roccioso di Castiglia, il grande don Antonio Machado, ottiene di aprire gli occhi prima di essere sterminato, e al di là delle colline bruciate e l’estensione terrena ottiene di vedere per l’unica volta, ma in maniera profonda, i volti ardenti e i fucili del suo popolo. E prima di morire si converte al sacro di questa epoca, al grande e venerabile albero della poesia spagnola, alla cui ombra canta e combatte e si dissangua la libertà umana.
Ma, come Quevedo, paga col sangue la sua elevazione verso il popolo. Non avevate pensato qualche volta agli ultimi giorni di Machado? Talvolta soltanto nella Bibbia incontriamo tanto dolore accumulato e tanta serenità maestosa. Machado si unisce al suo popolo che abbandona la Spagna sconfitta e fa il terribile cammino verso i Pirenei tra i centomila civili fuggitivi, nel più grande esodo della storia, con freddo e fame, e mitragliati dall’aria dai “difensori della civiltà occidentale”. Sostenendo la sua vecchia madre e i suoi due fratelli, viaggiando a piedi o su camion stretti fino all’asfissia per la quantità di esseri che dovevano accogliere, arriva Machado, senza piegare il suo spirito, fino alla frontiera francese. È sempre il primo a far tacere le voci che protestano, l’ultimo a lamentarsi. Ma, così appena arrivato a un piccolo villaggio, non si alzavano più dal letto né sua madre né lui. Muore prima don Antonio, e nella sua agonia chiede di non comunicare la sua morte a sua madre. Sua madre dura pochi giorni ancora.
La metà della Spagna aveva bisogno della loro anima. La Spagna, l’antica, la dinastica, la sanguinosa, la inquisitoria, copriva con una mano di sangue il territorio. La Spagna splendente scompariva e si apriva di nuovo il carcere di Quevedo.

Guardai il muri della patria mia
[…]

Ma ancora restava un quevedesco, un gran poeta dentro la Spagna incatenata. Vediamo adesso la sua vita, il suo martirio e la sua morte.
In una forte estate secca di Madrid, della Madrid anteriore alla guerra, mi incontrai per la prima volta con Miguel Hernández. Lo vidi immediatamente come parte dura e permanente della nostra grande poesia. Sempre pensai che a lui spettava, qualche volta, dire vicino alle mie ossa alcune delle sue violente e profonde parole.
In quei giorni secchi di Madrid arrivava fino alla mia casa ogni giorno, a conversare con me dei suoi ricordi e del suo futuro, arrivava a mostrami il fuoco costante della sua poesia che lo stava bruciando da dentro fino a far maturare i suoi frutti più segreti, fino a fargli spargere stelle e scintille.
Aveva da poco cessato di essere pastore di capre di Orihuela, e veniva tutto profumato dalle zagare, dalla terra e dallo sterco. Gli si spargeva la poesia come dalle mammelle troppo piene cade a gocce il latte. Mi raccontava che nei lunghi riposi della sua pastorizia metteva l’orecchio sopra il ventre delle capre puerpere e mi diceva come poteva ascoltarsi il rumore del latte che arrivava alle mammelle, e andando, con me per le notti di Madrid, con una agilità incredibile, saliva sugli alberi, passando con rapidità dai tronchi ai rami, per fischiare dalle foglie più alte, imitando per me il canto dell’usignolo. Il canto degli usignoli levantini, le sue torri di suono alzate tra l’oscurità e le zagare, erano ricordo ossessivo, premuto sulle sue orecchie, e erano parte del materiale del suo sangue, della sua anima di fango e di suono, della sua poesia terrena e silvestre, in cui si uniscono tutti gli eccessi del colore, del profumo e del suono del Levante spagnolo, con la sua abbondanza e la sua fragranza di una poderosa mascolina gioventù.
Il suo volto era il volto della Spagna. Tagliato dalla luce, corrugato come una semina, con qualcosa rotondo di pane e di terra. I suoi occhi ardenti erano, dentro questa superficie bruciata e indurita dal vento, come due raggi di forza e di tenerezza.
Non può sfuggire dalla radici del cuore il suo ricordo, che sta attaccato con la stessa fermezza con cui le radici si attaccano ai terreni della nobile terra della profondità. Gli elementi stessi della mia poesia e della mia vita vidi uscire di nuovo nelle sue parole, ma cambiati da una nuova grandezza, da uno splendore selvaggio, dal miracolo del sangue vecchio trasformato in un figlio. Nei miei anni di poeta, e di poeta errante, posso dire che la vita non mi ha dato di contemplare un fenomeno uguale di vocazione e di elettrica saggezza verbale.

Vicino alla cristallina, ferma e aerea struttura di Rafael Alberti, ritengo questi tre poeti assassinati, Antonio Machado, Federico Garcia Lorca e Miguel Hernández, come le tre colonne sopra le quali si appoggiavano la volta materiale e aerea della poesia spagnola peninsulare: Machado, la quercia classica e spaziosa che conservava nella sua atmosfera e nella sua maestosa severità la continuazione e la tradizione del nostro linguaggio nelle sue essenze più intime, Federico era il torrente di acque e colombe che si alza dal linguaggio per portare i semi dello sconosciuto a tutte le frontiere umane, Miguel Hernández, poeta dall’abbondanza incredibile, di forza celestiale e genitale, era il cuore erede di questi due fiumi di ferro: la tradizione e la rivoluzione. Per quegli anni recenti, e tanto lontani, avevo un carattere di bambino, di figlio dei campi. Ricordo che, portato dalla mia esigenza perché non tornasse a Orihuela, feci intervenire appoggi per ottenergli una collocazione a Madrid. Incalzato dalle nostre petizioni, il visconte di Mamblas, Capo delle Relazioni Culturali nel
Ministerio de Estado, poté dirci che sì, che avrebbe dato una collocazione a Miguel Hernández, ma che lui dicesse che cosa desiderava fare. Mai dimenticherò quando arrivò alla mia casa quel giorno e io rallegrato gli comunicai la buona notizia. “Deciditi - gli dissi -, e dimmi subito ciò che vuoi, chiedi perché ti danno la nomina”. Allora, Miguel, molto turbato, mi rispose: “Non mi potrebbero dare un gregge di capre vicino a Madrid?”.
Nel 1939 ritornai al Ministero degli Esteri del mio paese, a Santiago del Cile. Ci arrivavano in America i rumori incredibili di una rivolta militare e della resa di Madrid. Ottenni dal Ministero degli Esteri che fosse offerto asilo nella nostra Ambasciata di Madrid agli intellettuali spagnoli. Così potemmo salvare alcune vite.
Miguel Hernández non volle accettare asilo. Credette di poter seguitare a combattere. Entravano già i fascisti nella capitale spagnola quando egli andava a piedi verso Alicante. Arrivava tardi. Era accerchiato. Ritornò come poteva a Madrid, disperato e straziato.
E l’Ambasciata non volle accoglierlo. La Falange Spagnola vigilava alle porte perché non entrasse nessun spagnolo, perché non si salvasse nessun repubblicano nel luogo che ospitò durante tutta la guerra più di 4000 franchisti.
Miguel Hernández fu arrestato e poco dopo condannato a morte. Io ero di nuovo al mio posto a Parigi, organizzando la prima spedizione di spagnoli in Cile. Riuscì a arrivarmi il suo grido si oppressione. In un pranzo al Pen Club di Francia ebbi la fortuna di incontrarmi con la scrittrice Maria Anna Comnene. Essa ascoltò la storia lacerante di Miguel Hernández che portava come un nodo nel cuore. Facemmo un piano e pensammo di fare appello al vecchio cardinale francese monsignor Baudrillart.
Il cardinale Baudrillart aveva già più di 80 anni ed era completamente cieco. Ma gli facemmo leggere dei frammenti dell’epoca cattolica del poeta che stava per essere fucilato.
Questa lettura ebbe effetti impressionanti sul vecchio cardinale, che scrisse a Franco alcune commuoventi righe.
Si produsse il miracolo e Miguel Hernández fu posto in libertà.
Così ricevetti la sua ultima lettera. Me la scrisse dall’Ambasciata del mio paese per ringraziarmi. “Vado in Cile - mi diceva -. Vado a prendere mia moglie a Orihuela”. Lì lo arrestarono di nuovo e questa volta non lo liberarono. Non potemmo intervenire per lui.
Lì morì dopo pochi mesi, lì rimase spento il nuovo raggio della poesia spagnola. Ma non cessa di spargere dolcezza la sua raggiante poesia, e la sua morte non lascia seccare gli occhi di quelli che lo conobbero.

Attraverso i secoli si mette la luna e la morte sulle terre di Spagna. Una piccola fossa vicino ad un’altra si premono sotto la terra e la induriscono. Il tempo ha levigato le colline fino a trasformarle in soppalchi di ossa, e la luna porta a spasso sopra le alte pietre antiche il suo sguardo giallo.

Allora si allontanano porte segrete, e dove una luce di stella è caduta, in mezzo al più infinito rumore dell’ortica, dei cardi caduti, come se si sgretolasse un’ala di colombo torraiolo, si apre il recinto dei poeti sotterrati nelle infinite tombe di Spagna.
Stanno tutti nel medesimo luogo, perché attraverso la terra sono caduti al più fondo, al precipizio interno da dove esce la fertilità, al profondo burrone dove rotolò tutto il sangue.
Quevedo è lì l’immenso gufo, quello che conosce le ultime notizie del disastro, quello che ode le profonde campane peninsulari, quello che toccò attraverso le radici i cuori più minerali, il cuori induriti dalla sofferenza. Sempre fu Quevedo il saggio sotterraneo, l’esploratore di tanto labirinto che si impregnò di luce fino a darla per sempre alle tenebre. Vicino a lui, al padre profondo, Machado e Federico sono come figli essenziali ciononostante rivestiti di silenzio. Miguel recentemente è arrivato alla profondità dai suoi combattimenti.
Sono svegli perché la loro parola non muoia. Aprono la porta terrestre verso le intemperie. Nessuno può vederli nella oscura notte spagnola, nel luogo più remoto della zagara che cantarono, lontani dall’usignolo che hanno adorato, fuori dai fiumi e dalle sue rive che guardano ancora l’orma delle ninfe. Essi soltanto ascoltano la tenebra, essi soltanto avanzano sopra le rovine, essi guardano le più nascoste lacrime d’Europa.
Essi agitano non soltanto il cardo e l’ortica che li circondano, essi preservano non soltanto la pietra che li opprime, ma un materiale purissimo, le ali fantasmatiche di quello che deve rivivere. Essi annotano nel loro libro irresistibile quanto di malefico e maledetto si va compiendo, come si stiracchiano le lunghe ore della disgrazia, come si avvicina la campana che deve infrangere il cielo.
Essi vengono attraverso il silenzio e essi continuano la vita. Ancora i più crudeli e scatenati, quelli che versarono il sangue per arrivare al luogo del potere, saranno fantasmi, saranno morti abominevoli oscurati dall’orrore. Ma i poeti sono in tal modo materiali, più dell’alluminio e dell’uva, più della propria terra, che attraversano gli anni della paura e sono per il loro popolo fonte nascosta di speranza e tenerezza. Vivono più in basso di tutte le pagine, più in alto delle biblioteche, meno ermetici attraverso la morte, soltanto ogni volta più essenziali radici nella profondità, radici che stanno salendo verso la superficie e ascendendo attraverso gli uomini per sostenere le lotte e la continuità dell’essere.
Così, quindi, materia, sostanza materiale della Spagna, dell’eternità della Spagna, è Francisco de Quevedo.
Voglio che vediate, con il rispetto che io ho per la sua insigne ombra, il duello interminabile, il suo combattimento d’amore e di passione con la vita e la sua resistenza verso la seduzione della morte. A volte la sua passione lo affonda nella terra, lo fa più poderoso della morte stessa e a volte la morte di tutte le cose invade il suo pazzo territorio di passioni carnali. Soltanto un poeta tanto carnale può arrivare a tale visione spettrale della fine della vita. Non c’è nella storia del nostro idioma un dibattito lirico di tanta esasperata grandezza tra la terra e il cielo.

Se figlia del mio amore la mia morte fosse,
che parto tanto felice che sarebbe
quello del mio amore contro la vita mia!
Che gloria, che il morir da amar nascesse!

Porterei io nell’anima dove fosse
il fuoco in cui mi brucio, e guarderei
la sua fiamma fedele con la cenere fredda
nello stesso sepolcro in cui dormissi.

Dall’altra parte della morte dura,
vivranno nella mia ombra le mie attenzioni.

“Dall’altra parte della morte dura/ […]”
Ma è possibile? Chi può in verità tentare una simile impresa? A chi può la morte concedere dopo la partenza tutta la potenza dell’amore? Soltanto a Quevedo. E questo sonetto è l’unica freccia, l’unico trapano che fino ad oggi ha onorato la morte, lanciando una spirale di fuoco alle tenebre:

Chiudere potrà i miei occhi l’ultima
ombra, che mi porta il bianco giorno;
e potrà sciogliere questa anima mia
ora al suo impegno ansioso lusingherà:

ma non, dall’altra parte, sulla riva
lascerà la memoria, nella quale bruciava:
nuotare sa la mia anima l’acqua fredda,
e perdere il rispetto a legge severa.

Anima a cui tutto un Dio prigione è stato:
vene che umore a tanto fuoco hanno dato;
midolli che hanno gloriosamente bruciato;

dal suo corpo si separeranno, non dalla sua attenzione:
saranno cenere, ma avrà sentito:
polvere saranno, ma polvere innamorata.

“Polvere saranno, ma polvere innamorata.”
Mai il grido dell’uomo raggiunse più altezzosa insurrezione: mai nel nostro idioma riuscì la parola a accumulare polvere tanto straripante.
“Polvere saranno, ma polvere innamorata.“ È in questo verso l’eterno ritorno, la perpetua resurrezione dell’amore.

Polvere saranno, ma polvere innamorata … Non sono Lucifero né Prometeo, né gli arcangeli dalle ali sterminate. È la materia umana che, basandosi sulla sua propria composizione mortale, si sovrappone per la prima volta alla distruzione finale dell’essere e delle cose.
Questo è il Quevedo terrificante delle forze naturali. Ma c’è anche il Quevedo della contrizione, della amarezza e della stanchezza.
Questa è l’amara fotografia non soltanto dello stato di un uomo, ma dello stato di una nazione sventurata.
È morto il fuoco dei camini, i contadini dormono per le strade, perseguitati dal freddo e dalla fame. Le chiese si riempiono di armi, i chierici accompagnano i guerrieri, le ossa della guerra biancheggiano sopra la terra bruna.

Guardai i muri della patria mia,
si un tempo forti, ora crollati
[…]

Ma dalla sua debolezza esce un’altra volta la sua forza di vedente e questa Spagna abbattuta e distrutta del suo tempo, torna ad essere il ritratto di una Spagna di adesso. La terra si imbianca di nuovo con ossa di soldati e di poeti, i muri carcerari marciscono ancora per il pianto dell’uomo.
Il grande testimone continua a guardare, più in là dei muri, più in là dei tempi. E così è il testimone irriducibile che queste grandi presenze, questi grandi testimoni lasciano, come organismi, con tanto ferro e tanto fuoco, che possono resistere alla trepidazione ed al silenzio delle età.

Poco prima di morire Federico García Lorca, mi raccontava che in una delle sue peregrinazioni, in cui il grande poeta guidava un piccolo teatro di studenti attraverso gli sperduti villaggi della Spagna, arrivò a un piccolo borgo e davanti alla chiesa fermò il gran carro de “La Barraca” e cominciò a montare lo scenario.
Poiché non c’era niente da vedere nel villaggio, Federico diresse i suoi passi verso la chiesa e entrò nella navata oscura. Cominciava a imbrunire …
Alcune vecchie tombe vicino alle pareti antiche, mostravano ancora sopra le pietre le lettere scalpellate di spagnoli morti da molto tempo.
Federico si avvicinò a una di queste e cominciò con difficoltà a sillabare un nome: “Qui giace – diceva la lapide – don Francisco – Federico, non con emozione, ma anche con un poco di terrore, continuò a leggere - … de Quevedo y Villegas, Cavaliere dell’Ordine di Santiago, Patrono della Città di Sant’Antonio Abate …”.
Non aveva dubbi, il più grande dei poeti, il raggio terribile, scatenato, con tutta la sua passione e la sua intelligenza e la sua tragica concezione gloriosa della vita e della morte, giaceva dimenticato per sempre, in una dimenticata chiesa di un dimenticato villaggio. Il ribelle riposava e l’oblio e la notte di Spagna lo nascondevano. Era entrato in quello che lui chiamava l’agricoltura della morte. Lo sdegno e il disprezzo con cui lui trattò la sua epoca si vendicavano di lui, lasciando un nome raggiante e turbolento sepolto sotto una povera pietra consumata. Fu tale la sua emozione, mi raccontava Federico, che, turbato, disorientato, confuso e rattristato, tornò dai ragazzi de “La Barraca” e ordinò di smontare il tavolato e continuare il viaggio in Castiglia. Lì rimaneva …

quella anima a cui tutto un Dio prigione è stato,
quelle vene che umore a tanto fuoco dettero,
quei midolli che gloriosamente bruciarono …

Ma io vi ripeto, alla fine di questo viaggio al cuore di Quevedo, perché fertile è la vita, imperitura la poesia, inevitabile la giustizia e perché la terra di Spagna non è soltanto terra ma popolo, io vi dico attraverso quelle bocche che continuano a cantare:

dal suo corpo si separeranno, non dalla sua attenzione:
saranno cenere, ma avrà sentito:
polvere saranno, ma polvere innamorata.

Cursos y conferencias, rivista del Collegio Libre de
Estudios, num. 199-200, Buenos Aires, ottobre -
novembre di 1943, ed in
Viajes, 1947 e 1955.


III
SCOPRENDO L'AMERICA 2
(1940-1943)

Il cielo e le stelle del Cile per il padre Alonso de Ovalle

Del formidabile materiale che ecceda la storia del leggendario paese cileno lasciarono gli scrittori coloniali, trascriviamo oggi una pagina - chiara e stellare - del meraviglioso Alonso de Ovalle sul cielo cileno. Ovalle è considerato come un classico nella storia americana. Gesuita, nato in Cile, come Diego dei Rosales,Ignacio Molina ed il padre Lacunza, si caratterizza, come tutti loro, per il suo esteso e quasi stravagante patriottismo. Gli elogi delle frutta, dei pesci, dei minerali, dei fiumi della sua sconosciuta patria, portano un indicibile accento esaltato di amore.

Araucanía, num. 1, Messico, 15.1.1941
Nota di introduzione ad un testo.


Versi di Sara de Ibáñez

Quando il diamante annida e si raggruppa nel corpo dell'uomo, ed invece della sua sfumatura minerale mette i suoi fili nel sangue, quando il suo zucchero stellato rompe la pelle umana e stabilisce lì la sua simmetria, è difficile tirare fuori alla luce fuoco e fulgore, perché questa sostanza fredda ed ardente brucia la sua strada, e lascia al suo passo un'orma fosforica, come di sangue o lucciola.
Questo è il caso della nostro pura, alta e risplendente compagna in poesia, l'uruguaiana Sara de Ibáñez, inedita fino ad oggi. Se bisogna chiudere gli occhi per accecarsi davanti a tanta luce condotta, se vediamo la rosa raggiante che alzano le sue mani vicino al mare giallo di Montevideo, pensiamo alla dolorosa e delicata forza che fece uscire in onde di quarzo e di agata profonda, questo nuovo e sommerso firmamento per la nostra poesia.
Manca in lei il mobile
juanramonesco con zampe di libro, manca in lei il rancore dell'asino demenziale, è voce e fiore e cielo per tutti i giorni fulgore intagliato nell'evviva luce dell'America, stella dura, diretta e tenera, appena uscita e tremante nel litorale del sud.

Taller, num. XII, Messico, gennaio-febbraio 1941.


Discorso nell'anfiteatro Bolivar

La parola esce come una freccia da una grotta oscura, e sarà sempre inutile il suo volo ed il suo suono se non ritorna alla terra con una goccia di verità tremando nella sua sonora punta. Due parole devo dirvi questo pomeriggio, ma in esse andrà la freccia di ritorno e la goccia appena cagliata.
Una nuova mitologia di oratori ci conduce a facili lusinghe. Crediamo lusingarci mutuamente sottolineando le somiglianze che esistono tra i nostri paesi. Io, da parte mia, vi assicuro non esistere due nazioni sorelle tanto differenti come Messico e Cile. Tocchiamo le sue strutture, andiamo a chiamare le loro profondità.
E naturalmente la bellezza del mondo sta nelle differenze. È un metallo, nel seno della terra, differente che giace addormentato vicino al suo materiale, è distinta ogni famiglia di foglie ed ogni coppa di albero. Tutto quello che c'è sulla terra vuole differenziarsi.
Basta guardare una mappa per comprendere. Il vostro territorio è un corno di abbondanza che rovescia verso il sud e verso il nord tutta la vostra prodigiosa ricchezza, molte volte, come disse il vostro poeta maggiore, sotto dettatura del diavolo. Tutto è germe, colorito e prodotto della vostra estesa patria.
Il nostro territorio è una spada di pietra e neve abbandonata nella costa più lontana del pianeta. Noi cileni abbiamo sentito, non il suono dell'aria nelle palme, né abbiamo sentito cadere le frutte pesanti e mature nella siesta del tropico; abbiamo vissuto conquistando la nostra propria estensione, pulendo la costa indurita che ci toccò abitare, ed alzando nelle nostre mani il fulgore della nostra dura patria.
Tra Acapulco, azzurra, e Punta Arenas, polare, sta tutta la terra, coi suoi climi e le sue razze e le sue regioni differenti. Lì finiscono gli alberi, gli uomini e la terra. Comincia presto il mare antartico e la gran solitudine dei ghiacci.
Mentre grandi razze di sacerdoti e guerrieri, tra voi, sceglievano il turchese, la giada e l'oro per alzarli all'altezza del fiore, e le strutture di templi e piramidi di un impero gigantesco riempivano il vostro territorio, era tra noi l'ombra della preistoria. E quando per affrontare il più grande impero incarica la Spagna, ed il mondo, il suo più titanico capitano, Hernán Cortés, una nuova Spagna grandiosa di tempii e di umanesimo si alza in questo lato dall'America, mentre noi sentivamo il tamburo guerriero di Arauco che dominava appena il silenzio delle città bruciate.
La nostra riserva ed i nostri silenziosi lavori civili cominciano a segnarsi come risultato di condizioni storiche e fisiche, il nostro sviluppo lento ed organico ci modella differenti in tutto dagli orgogliosi argentini e dai segreti peruviani. Messico, nel nord, si differenzia da tutti, per la sua vita scossa e drammatica, per il suo grandioso scenario in cui la libertà ed il sangue, come grandi statue allegoriche, indicano le strade del mondo.
Ma se discendiamo dal bicchiere e dal fiore, se rifiutiamo tutta la superficiale apparenza, se sconfiggiamo ogni benevolente sentimentalismo, se passiamo dalla foglia al tronco e dal tronco all'origine: lì ci incontriamo.
Messicani e cileni ci incontriamo nelle radici e lì dobbiamo cercarci: nella fame e nell'insoddisfazione delle radici, nella ricerca del pane e della verità, nelle stesse necessità, nelle stesse angosce, sì, nella terra, nell'origine e nella lotta terrestre ci confondiamo coi tutti i nostri fratelli, con tutti gli schiavi del pane, con tutti i poveri del mondo.
Verso la nostra America avanzano in questa ora sanguinante, la guerra ed i protettori; tra il sangue e l'oro vogliono incatenarci. Non so, né sapete, quale sarà il nostro destino in questo temporale terribile. I vecchi ed i nuovi pirati si spartiscono il bottino del mondo e le vecchie mani dell’Europa che cesellarono e dipinsero e scrissero tutto quello che imparammo, si alzano ora sotto una luna sanguinaria affinché anche la nostra America impari da lei l'arte completa di annichilire la vita.
Noi americani, vogliamo la pace, ma se questa è stata impossibile, speriamo che dalle ceneri della contesa, nella quale non vogliamo altri vincitori che i paesi di ogni paese in lotta, esca una nuova umanità che non accumuli le ricchezze in alcune mani, ma che ripartendole faccia impossibile lo sterminio e l'odio. Che il bottino non cambi mani, che la pace venga con la giustizia.
Perciò in questa ora la mia voce va verso i paesi oppressi, e li saluta con la mia libera coscienza di cileno e di americano, e saluto da questa casa di studenti, gli oppressi paesi della Cecoslovacchia e dell'India, i cinesi che lottano contro il loro terribile nemico, gli spagnoli che ancora, tra le boscaglie delle Asturie, resistono con quella forza di leoni che li fece unici eroi del triste mondo attuale.
Il mio pensiero va anche dai soldati delle Brigate Internazionali, ai rifugiati politici spagnoli, tedeschi, cechi, italiani, che si accumulano in campi di concentramento in Francia, senza che il mondo dia uno sguardo a coloro che dettero il loro sangue al paese spagnolo nella loro grandiosa lotta. Il mostruoso egoismo dell'umanità li lascia dimenticati e perseguiti come criminali, lascia che gli eroi marciscano nella sporcizia e nella fame, quando portati e ripartiti nella nostra vasta America essi sarebbero le uniche basi, le vere, le basi morali, le basi umane senza le quali la lotta contro il fascismo è in anticipo una sconfitta.
Giovani camerati: perdonate che vi abbia portato tanto lontano per mostrarvi una goccia di quello che credo la verità. Spero che il vostro fortunato viaggio stabilisca tra la mia patria e la vostra una nuova corrente di vita: una corrente di gioventù ed in realtà, una corrente di radici.

Tierra Nueva, num. 9-10, México D.F. maggio-agosto 1941.


Miguel Prieto
MIGUEL PRIETO. (Pagina 474.) Pittore spagnolo di nascita (Almodóvar del Campo, 1907) e messicano di adozione dal 1939. Fece paesaggi e ritratti, ma anche murali come quello dell'Osservatorio Astrofisico di Tonantzintla (1955). In Messico emerse nella grafica giornalistica: fu tipografo e direttore della rivista Romance, direttore artistico e tipografico del México en la cultura, il famoso supplemento letterario delle giornaliere Novedades, della Revista de la Universidad e delle pubblicazioni dell'Istituto Nacional de Bellas Artes. Neruda gli confidò la programmazione e tutto il curato grafico della gran edizione messicana di Canto general (1950). Da ciò Enrique Robertson dedusse ragionevolmente in conferenza inedita (Università del Cile, inverno 2000) che Miguel Prieto sarebbe stato il designer del LOGO nerudiano, apparso per la prima volta in quell'edizione di Canto general. Essendo il responsabile grafico di tutto ciò, Prieto non sentì la necessità di puntualizzare la sua paternità rispetto al magnifico design del pesce tra circoli armillari che era per lui solo un elemento dell'insieme. Non immaginò magari che Pablo Neruda - senza rivelare o meglio senza ricordare la sua origine, come succedè anche col suo nome di poeta – lo avrebbe adottato come emblema della sua opera e come bandiera del suo regno in Isola Nera. Miguel Prieto morì a Città del Messico nel 1956.

Prieto, piccolo albero dagli occhi azzurri, nutre le sue radici nel terreno pietroso e polveroso della solitudine castigliana, ed all'improvviso è tutto rami e fiore, primavera incandescente e petulante, perchè tra gli azzurri passa il crepuscolo freddo, il fuoco dei villaggi, i solitari fianchi del mare. Giovane pittore purificato e divoratore, albero di molto miele, è nel suo essere l'armonia e la furia: le due sale del mondo.

El Nacional, México D.F., 19.10.1941.


Alla gioventù di Morelia

Io avevo voglia di conoscere la vostra città famosa che Alberti ti descrivessi come un gran fiore rosato e che è piuttosto una campana di corallo cenerino alzando il suo accordo puro tra le colline e le praterie verdi. La volli conoscere come si vuole entrare nelle città addormentate della selva, una Morelia addormentata nell'acqua del tempo: una città vuota sotto i cui portoni, sui cui atri leggendari passarono solo le ombre centenarie dei dei e degli eroi. Ma da oggi faccio l'acquisizione della vostra esistenza, giovani fraterni, e so che d'ora in poi, nel mio ricordo non saranno vuoti i boschi né le belle pietre monumentali, bensì popolate per il fuoco, per la gioventù, per la speranza, per quello che siete e sarete, per lo spirito che difendete con la vostra presenza in questa sala intorno ad un uomo che non cerca un altro modo di essere grande che quella di essere umano.
Cominciate a vivere nell'angosciosa era decisiva di due mondi. Due grandi paesi titanici, i più grandi del nostro pianeta si sono impigliati in lotta mortale. Uno di essi lotta per mantenere l'odio di razze e di uomini; l'altro per alzare gli schiavi, per dsre dignità alla vita. Uno di essi fece dei libri un gran falò; l'altro finì una tirannia e delle sue rovine fece milioni di libri. Il capo di uno di essi disse come lemma: "Quando sentiate la parola cultura tirate fuori la rivoltella", e l'altro capo di Stato quello stesso giorno lasciò un alloro rosso nella tomba di Alejandro Pushkin. Perciò, per la vostra patria, per il vostro paese, per il mondo che vi toccherà vivere, avete ben tracciate e differenziate con sangue, le rotte che dovete scegliere.
Che il mio passo tra voi, giovani e fraterni cuori, vi aiuti a camminare dalle nobili pietre di Morelia, per la rotta della conoscenza, dell'intelligenza, della cultura, verso la fraternità finale tra tutti gli uomini.

Parole pronunciate per un'accoglienza nel Salone
Coloniale del Museo di Morelia, Michoacán, secondo
cronaca in
El Nacional, México D.F., 22.10.1941.


Guardo alle porte di Leningrado come guardai alle porte di Madrid

Amici miei: ogni volta che le circostanze impongono la mia presenza e le mie parole in una riunione di amici o nemici, vivo per molte ore prima turbato da un problema antico tra i miei problemi. Ed è quello di parlare o non parlare dei temi sociali e politici, quello di nascondere o no le sue drammatiche ripercussioni, quello di fare giocare l'intelligenza o la coscienza.
Quante volte ho visto la protesta e l'inquietudine di quelli che ascoltarono, e tante volte ho sopportato, non solo la conseguenza fisica di quanto dissi, bensì la semplice pena umana di avere ferito chi non stava con me quando stavano vicino a me. Nessuno cercò più di me il silenzio da conservare, lo cercai nella poesia e nelle pietre segrete della terra, cercai la dimenticanza nella botanica che vestisti di azzurro le pianure dei boschi, mi persi e mi ubriacai nell'oceano e nel cielo.
Ma nel fiore e nella parola, nella pianta e nella pietra, quando entrai in essi con la mano e col sangue, trovai in fondo a tutte le cose il cuore dolorante degli uomini. E persi possibilmente molte entità misteriose, ignorai senza dubbio molti sistemi di saggezza e di splendore, per incatenarmi in maniera definitiva alla ruota terribile dell'angoscia e delle speranze dell'uomo.
Per quello, perdonatemi, se oltre le vostre nobili fronti, oltre questo coro di amicizia poderosa che mi circonda come un anello di oro profondo, vedo, siedo, sento, oltre questa massa e oltre voi, quello che è registrato ogni minuto ed ogni ora nella sostanza del mio cuore: vedo i contadini assiderati e frustati, vedo gli operai del carbone, del caucciù, del salnitro, dell'avorio, sfruttati e feriti, cerco in mezzo alle selve l'origine del Rio delle Amazzoni, della sua forza fluviale e sacra, e vedo dalla sua origine tribù affamate, dolori e miserie, e per la costa dei nostri oceani sento la risata dei grandi ed il pianto immenso dei poveri. Sento i passi e le fruste dei despoti, vedo Luis Carlos Prestes, vedo i carcerati di Puerto Rico, vedo gli spagnoli imprigionati in Spagna, vedo Martín Niemoller, a Thaelmann, a Gabriel Peri. E guardo le porte di Leningrado come guardai le porte di Madrid, lo stagno di sangue di dove può uscire la nuova salvazione terrestre, ed angosciato fino al fondo con tanti dolori dell'umanità ed illuminato per le speranze che nascono dal sangue della gran nazione patriottica ed eroica difesa dei barbari invasori da milioni di cuori rossi. Perdonatemi quelli che non credete, quelli senza fede, che un uomo, affranto e speranzoso, porti ora, e sempre, ad ogni riunione, in ogni posto dove l'ascoltino, la sua testimonianxa, la sua angoscia e la sua speranza.
Cari amici messicani: mi avete aperto le porte della vostra patria violenta, sono entrato in lei prendendo possesso di tutto. Quello che ho voluto di voi sta già con me per sempre; stranieri, potete odiare o adorare questa terra, ma essa vi ha cambiato, la porterete nella vita impregnando perfino la vostra ombra. Io sentii arrivando ardere le stelle nell’oscuro, alzarsi gli immensi alberi sulla mia statura, ed il vento musicale e grandioso da questo clima portarmi inginocchiato ai piedi degli dei che ancora dirigono la vostra grandiosa patria.
Io vi vorrei ricevere in Cile, qualche volta con l'affetto che mi dimostrate questa notte. Lì comincia in questa epoca la primavera, spunta il freddo bocciolo del melo selvaggio mostrando il suo piccolo tremore di arteria di fronte alle grandi cordigliere. Il cielo fa tremare le sue brillanti materie vicino al nostro infinito litoraneo. Le isole si riempiono di fiori, ed il vino e la primavera toccano come in un bicchiere le labbra della mia patria.
Lì ci riuniremo qualche volta, fratelli. Lì o a Madrid, a Mosca, o in Germania o nella Francia riconquistata. Lì dove, come in questo gran paese fratello o come nella mia terra australe, si possa prendere il pane ed il vino dell'amicizia sotto le bandiere della libertà e della giustizia. Lì staremo qualche volta, insieme o separati, ma felici.

El Siglo, Santiago, 23.11.1941.


Sonata delle suppliche
SONATA DE LAS SÚPLICAS. (Pagine 478-479.) Curioso poema inedito che sembra scritto nello stile della "América, no invoco tu nombre en vano", capitolo VI (scritto nel 1942) di Canto general, del quale potrebbe essere un frammento residuo o rifiutato. Dattilografato in carta con intestazione del Senato, porta titolo e correzioni manoscritte con inchiostro verde di pugno e lettera di Neruda, più un'annotazione manoscritta di Homero Arce: inedito in [di?] 1942. - Dalla collezione nerudiana di Nurieldín Hermosilla.

Da lei usciva un roco grido di tempesta, la goccia
della pioggia nella notte, vicino al mare, la piuma
furiosa dell'albatro, bagnata in fuoco verde,
e questo signore, l'uomo, credè toccare senza dubbio
quel grido, quel fuoco, ed il volo del sangue.
Piccolo bicchiere di oro, pieno di un mare temuto,
disse, ed alla sua bocca assetata
avvicinò mare e fuoco, l'eternità
a lui destinata, il filo oscuro
della segreta primavera. "Dammi
la tua mano, dammi la tua voce di bacio, lasciami
ridere nelle scale, ed all'altezza
dell'alto inverno australe, quando ritorna
al suo livello infossato il fiore dell'ulmo e crescono
le acque araucane, la notte discende
ai saloni di velluto sbiadito,
ama questo fiore fluviale, questa pianta di argento,
questo suono solo che cercò il tuo grembo."

Questo è un tango. Che tango è questo?

Perché mi ammazzi, le disse lui, perché affondi
questo pugnale nel mio cuore? Ed ella
gli disse: "Questo è un tango. Che tango è questo?."

Era il tempo in cui l'autunno si divide
e cade in oro ed acqua la sua esistenza confusa,
il freddo marino entra nei parchi
come l'onda selvaggia dell'aria disabitata,
ma lì, corpo a corpo, due verità,
combattevano due esseri.

Egli, che ella amò se non un certo nembo retto
vicino alle sue tempie, qualcosa di determinato
fosse di lei, egli si disse: questa è l'aurora
di forti riccioli corti,
e come prima, e come più tardi e come segue
questo uomo, nella piccola stanza, rinchiuso
da tutte le pareti che crescono senza cessare,
disse: "Toccami l'anima, lì mi ferisci...."

Ed ella gli disse: "Questo è un tango. Che tango è questo?."

Testo inedito. Originale dactiloscrito senza firma,
datato 1942, titolo e correzioni manoscritti da Neruda.


Zweig e Petrov

La morte di Stephan Zweig e la morte di Eugenio Petrov sono francobolli e cifre del nostro tempo. Di un tempo che agonizza e che nasce.
Col suicidio di Stephan Zweig muoiono molti altri uomini, muoiono da lontano suicidio, di evasione, di diserzione, di vigliaccheria. La morte di Zweig è naturale, è la morte di un tempo che non ha che cosa fare. La morte di un uomo che non ha che cosa fare sulla terra nel momento dei grandi compiti. La morte di un scrittore - di un scrittore - quando tutto si è scritto, quando dobbiamo tornare a scriverlo tutto, quando il tempo comincia di nuovo a nascere.
Eugenio Petrov muore combattendo e scrivendo: mitragliato, rotto, sparso nell'uragano della nostra guerra, Éles grande. Solamente egli è grande.
Egli è tutta la grandezza. Corre al cuore della tempesta a combattere, a scrivere, ad estrarre la notizia eroica, ad illuminare il suo paese mostrandolo che non combatte solo. La sua morte fa nascere un'epoca, irriga con un sangue impetuoso il seme del nostro nuovo tempo.
Questa gran guerra dell'umanità lascia seminata l'URSS di mille eroi. Le sue frontiere si aggrovigliano di sangue e di alloro.
Tra essi, per la nostra condizione di scrittori, nessun eroe più puro e più alto di Eugenio Petrov.
La sua morte cancella altre morti vigliacche, come la primavera la nera cicatrice del tempo morto. Il suo sangue sale dalla terra fino agli alti alberi. E sopra agli alti alberi rimane vivendo il suo nome scritto con immenso fuoco.

Repertorio Americano, num. 946,
San José, Costa Rica, 12.9.1942.


La poesia di Juan Rejano

Quando si rifacciano le medaglie distrutte dalla sera pestilente di questi tempi, rotta appena dalle righe valorose della battaglia spagnola e slava, raccoglieremo tra fango e cenere le lacrime di questa poesia, la sua coda di vetri, di tale maniera che saremo orgogliosi pensando come passò il gabbiano lasciando una stele di platino sul cielo oscuro della tempesta terrestre, e esamineremo quella minuziosa moneta, fragranza stretta e splendore, come un documento di antichi eroi, di molta età, di molta angoscia, di molta primavera anche: sonetti, canzoni edificate nella pietra fresca del tempo insanguinato: pure, luminose gioiellerie degne di salire agli alberi per essere tagliate: allori radianti della dignità del cuore.

Questo è Juan Rejano pieno di malinconia e di dicerie, e questo il suo primo albero in cui ogni stella, ogni foglia ed ogni nido conservano le lucentezze rettilinee della coscienza, e gli scintillii insorgenti del sangue, e la luce pesta di questa ora delle vite.

Questa poesia non comincia: c'era un posto in attesa nella nostra lingua per la sua diamantina struttura.

Nota di bandello a Juan Rejano, Fidelidad de sueño e
La muerte burlada, Messico, Ediciones Diálogo, 1943.
Anche in El Nacional, Messico, 18.4.1943.


Su Mayakovski

Quando eravamo molto giovani sentivamo la voce di Mayakovski con incredulità: in mezzo alle ordine dei sistemi poetici che avevano classificato la poesia tra le linee dell'alba e del crepuscolo, si alzava una voce vicino ai martelli delle costruzioni, un poeta affondava la mano nel cuore collettivo ed estraeva di esso le forze e la fede per elevare i suoi nuovi canti. La forza, la tenerezza e la furia fanno di Mayakovski fino ad oggi il più alto esempio della nostra epoca poetica. Whitman l'avrebbe adorato. Whitman avrebbe sentito il suo grido attraversando le steppe, rispondendo attraverso il tempo e per la prima volta le sue imponenti rogative civili. Quello che di spazioso e travolgente ha la costruzione dell'URSS, l'intenso suono di strumenti di acciaio che colpiscono le gravi estensioni, gli ultimi spari della guerra civile, la nuova bandiera che ecceda il rosso del sangue dei lavoratori perseguiti per secoli alzava come nuovi pianeti la falce ed il martello, dando così dignità eterna alle nuove leggi umane, il combattimento, la speranza, la grandezza della nuova nazione e del Partito Bolscevico, tutto quello vive in Mayakovski come se dentro il suo proprio cuore si stessero sviluppando le tappe dalla costruzione, come se sentisse nel suo petto tutta il rumore di attrezzi e di inni della sua poderosa patria.
Dopo questi anni di silenzio la poesia di Mayakovski ritorna a dirci la sua verità ed il suo splendore. Perché gli invasori attaccando l'URSS hanno attaccato la sostanza stessa dei suoi grandi poemi di passione e musica; hanno conficcato i canini nel sangue stesso dei suoi eroici colonizzatori e construttori, hanno voluto asciugare la sorgente profonda che riempiva di freschezza universale questa nuova e coraggiosa poesia.
Egli accompagnava alla sua patria ed il suo paese come li accompagnò nella sua nascita. Grande onore per un poeta, il più grande onore. Perché la fede che ispirarono i suoi canti carica i fucili, magnifica la voce dei grandi aeroplani, alza le spade ed accompagna gli uomini alla vittoria.

Bollettino SAURSS [Societad de Amigos de la URSS]
Messico, 15.7.1943.


Discorso di Michoacán

Pronunciato nell'Università di San Nicolás di Hidalgo, Morelia, Michoacán, il 17 agosto 1943, ricevendo il titolo di Dottore Honoris Causa.


Dal fondo originale del Messico, fiorito ed agguerrito, mi chiamò sempre Michoacán, questa regione intatta del silenzio che alza un bicchiere di smeraldo ed ora un bicchiere di fuoco, verso i lenti cotoni celestiali della sua atmosfera incomparabile. Forse la bellezza di questa terra, la sua versata ombra verde, trova nel più profondo del mio essere un paesaggio simile, il territorio australe del Cile, con laghi e con cieli, con pioggia e con fiori selvaggi, con vulcani e con silenzio: il paesaggio della mia infanzia e della mia adolescenza. Forse tornò a trovare il mio cuore errante la sagoma di luce ed ombra che fugge e perdura, l’idioma delle foglie bagnate, l'alto esempio delle pure campagne coltivate.
Ma altre cose mi fecero amare Michoacán. I vostri eroi antichi che parlano ancora per le strade di un'età sommersa, età che inzuppa le radici della vostra gioventù con un soffio di disubbidienza, di indipendenza e di libertà che le fa brillare da lontano, come se avesse una lampada vicino alla chioma; la vostra città signorile di rosa e di cenere, la vostra antica razza mostra che produsse la più nobile scuola di scultura dell'America, i tessuti ed i pesci, l'Acquedotto e li Abiti, l'acqua dei laghi ed Ocampo, i monti e Lázaro Cardenas.
Tutto quello le grandi campane me lo portavano di Morelia con la loro roca voce che, attraversando le altre terre fraterne, arrivava ai miei uditi dovunque stessi.

Perciò la vostra chiamata fraterna, la alta e solenne accoglienza in questo chiostro, la dignità che mettete nelle mie mani, è raccolta da me con una devozione inestinguibile. Se non fosse per i profondi rami di sangue che vi legano ad una costruzione infinitamente delicata nel passato, se non fosse per quella singolarità essenziale che produce in voi le migliori vibrazioni della patria messicana, non direbbe che oggi date la mano ad un straniero bensì una michoacano australe, di un'altra latitudine lontana. Ma quante volte ho pensato che sebbene conosciamo dove comincia il Messico, molto male sappiamo dove il Messico finisce. La pelle dell'America, la carne turbolenta della nostra America comincia nel Rio Grande, si fa un girovita in America Centrale affinché due mari facciano saltare la loro schiuma sulle ardenti palme, si allargano dopo come una gran anca, si rompe all'improvviso col nostro fiume generale, l’abbondante Amazzoni, padre di tutti i fiumi, si alza in blocchi di diamante e di argento per il Perù solare, si estende come un ventre fecondo nelle nostre pampas argentine, e finisce rompendosi nella mia patria oltre Magellano, oltre le ultime terre fredde del continente e del mondo, tra le onde antartiche.
Sì, la pelle del Messico corre e si diffonde, si taglia e si alza, si accende e si raffredda, ma è la stessa pelle dell'America, la stessa corteccia oscura sotto la quale ardono gli stessi fuochi, corrono le stesse acque e si sgrana il nostro stesso linguaggio.
Perciò le ferite che si svegliano in un posto, le offese che toccano qualunque parte nascosta del nostro continente, si ripartiscono immediatamente per tutto il nostro corpo. Ma anche le grida di libertà ed ansietà dei nostri uomini si diffondono su tutta la nostra materia americana con la stessa comunità devastatrice. Nel 1810 Hidalgo ed O'Higgins parlano quasi contemporaneamente attraverso migliaia di chilometri di estensione inaudita. Passati più di cento anni i movimenti politici antifascisti trovano nella nostra America uguale spontaneità unitaria. Dopo questa gran guerra ho la certezza che i movimenti di liberazione dei paesi troveranno in noi le sue più poderose correnti di sicurezza.
Ma come mi guida un'osservazione positiva al vaticinare, sperare e promettere una maggiore unità storica nel futuro, non condivido un americanismo senza profondità e senza dolore, che ascoltiamo ad ogni passo, e che tende a mostrarci il nostro continente come una terra senza problemi, come un paradiso incontrato o ritornato per incontrare gli uomini dell'Europa.
Questo si deve alla sensazione pacifica che diamo lontano dalle sanguinanti pianure in che l'Europa si disfa. Questo si deve ad un concetto egoista, chimerico ed ingannatore, che vuole allontanarci contemporaneamente dalle nostre amare certezze, e delle cause umane ed universali nelle che l'America sempre partecipò.

In questa pelle unica ed adorata della nostra America, in questa epidermide bruna, di grano e minerali, di mais e di sangue, che vi parlava alcuni minuti fa, in questo contesto sacro di geografia e di responsabilità, ci sono macchie come terribili pustole, ci sono ancora servitù e miseria. Piccoli gruppi crudeli del nostro stesso sangue maneggiano ancora la frusta dei caposquadra, sulla sua stessa specie, che è la nostra. Nazioni che conoscerete progressisti e pulite, avanzate e decorose, per arte e miracolo delle riunioni panamericane sono in realtà triste retrogusto di oligarchie fraudolente, prede di nuovi commissionari. Questi nuovi commissionari disprezzano i loro paesi come in un'altra ora lo fecero in Messico, fino a che la Rivoluzione li svegliò in mezzo alla notte trascorsa. In altri piccoli paesi che sogliamo chiamare fratelli da anni non c'è volontà se non quella di un capo criminale e temibile. In quei paesi non esiste né poesia né libertà. In uno di essi il tiranno cambiò perfino il nome della città capitale, nome vecchio e venerato da tutti gli americani, per il suo proprio nome insignificante se non fosse vile. In altri paesi ancora maggiori che il Messico, difensori della libertà i cui nomi incoraggiano la speranza dei combattenti della Cina e dell'Unione Sovietica, rimangono in prigione per la volontà di piccoli potenti i cui nomi saranno immediatamente dimenticati quando smettano di stringere le dita intorno al collo della patria che li vide nascere. In altri grandi paesi dell'America, generali appena ribellatisi cominciano a bruciare libri, imprigionare migliaia di uomini, ed a condurre i loro paesi al martirio.
Quando pensiamo come americani, quando in questa vecchia città insignita per il pensiero e per la libertà riceviamo, come oggi ricevo, il migliore alloro, quello della fraternità della nostra vita americana, pensiamo all'estensione che le brillanti luci di questa sala e le coscienze pure di questa sala, non riescono ad illuminare. Così come pensiamo alla cosa brillante e fertile della nostra comunità, lasciamo un giuramento nel silenzio grave di quell'altra America più sorella quanto più dolorante. Lasciamo al giuramento di basare il nostro destino di americano in forma totale, facendoci carico della felicità delle nostre pittoriche regioni e del termine di tante agonie.
A quelli che in forma tenace parlano dell'America per elogiare il nostro prodigioso isolamento geografico diciamogli: L'America è figlia della libertà e combattimento dove per la libertà si combatte. La terrificante minaccia dei conquistatori nazi-fascisti non fu per nessuno tanto grave come per noi gli americani. Se altre nazioni andavano a perdere potere e splendore noi andavamo a perdere tutto: eravamo destinati ad essere i più nuovi schiavi, i semiuomini per la nuova e grande Germania. Razzialmente disprezzati, infinitamente bramati come produzione e come carne economica nel nuovo ed immenso mercato dello schiavitú che i nazisti prepararono, eravamo noi le vere vittime sognate per i terribili terroristi dell'età moderna. Perciò in questa ultima epoca la mia poesia ha toccato i temi più palpitanti della guerra, della grande guerra che è la nostra guerra. Ho deluso molti che avrebbero voluto di me un compagno più nella festa dei fiori. Io ho dovuto celebrare altri fiori, altri fiori martirizzati ed altri allori, altri allori gloriosi da cantare.

Fino a qui amici di oggi, di ieri e di sempre, il parlare che ho fatto ringraziando per la distinzione che avete destinato un poeta che non ha avuto altro destino che quello di essere un uomo della sua epoca, e per questo troppo umano. Ai poeti non stette bene nella testa la corona di allori, quella corona fatta di falso alloro e falso bronzo che segnava quello a cui la consegnavano un piccolo istrione nella farsa delle epoche... A noi poeti fummo insigniti meglio con l'esilio o col lungo silenzio delle età. Quando voi, nobili amici, vi siete ricordati di valorizzare con la vostra dignità la mia poesia ed i miei combattimenti, non ho l'impressione di ricevere una falsa corona, bensì una spada per continuare a difendere il cuore dell'America.

In Raúl Arreóla Cortés, Pablo Neruda en Morelia,
Morelia, Michoacán, Ediciones Casa de San Nicolás,
1972. Ed in
Cuadernos de la Fundación Neruda,
num. 39, Santiago, 1999.


[Prologo per Ilyá Ehrenburg]

La cosa più implacabile e più dolce di Ilyá Ehrenburg vive in queste foglie di gran scrittore, in questo libro con forma e polvere da sparo di obici, in questo volume alto e rancoroso, ardente ed amaro come doveva esserlo. Io muoio di colera vedendo il ragazzino azteco, vedendo al ragazzino cubano o argentino propinarci la sua sfilza su Kafka, su Rilke e su Lawrence mentre sulla terra ferita gravemente la testa argentata di Ehrenburg si china, illuminata dall'intelligenza, frustata dall'odio, per trasmetterci queste montagne di patimenti umani e queste strade presenti e futuri.
Giovani di posizione azzurra, invecchiati improvvisamente per un'oscena preoccupazione di "poesia pura", dimenticano in questo momento i loro più elementari doveri umani. La forza, la malvagità, la servitù, l'orrore passeggiano le loro bandiere terribili sulle nostre teste. Vediamo cadere e cancellarsi i passi dell'eroe. Vediamo, come è descritto in questo libro e per sempre, depositarsi la palude su quello che fu splendore.
Chi in questa ora non è un combattente è un codardo.
Non ci corrisponde in questo tempo esplosivo cercare la migliore spiga del passato né sfruttare gli angoli del sonno. La vita e la lotta degli uomini hanno assunto tali proporzioni di grandezza che solo nella nostra epoca e nella nostra lotta vivono le fonti di tutta l’esprimibile.
Questo reportage di Ehrenburg, queste pagine, descrivono un inferno che Alighieri avrebbe registrato con la sua stessa passione, ed il vento dell'odio avrebbe fatto volare la spaziosa schiuma dei suoi terzetti per arrivare a questa prosa crivellata in cui la morte e la speranza salgono come linfe gemelle dalla terra fino alle foglie sanguinanti.
Quelli che leggono questo libro vedranno anche, come da anni molti uomini hanno visto, l'Unione Sovietica, in un'alba di forza e di purezza.
Il miracolo della Gran Resistenza non è un avvenimento soprannaturale, è un miracolo materiale, spirituale e, finalmente, davvero umano.
La divisione dei pani, fatta nella vasta estensione dell'URSS per il gran Partito Comunista, unico partito dell'Uomo, è un miracolo imperituro e terreno, non sfruttato e distrutto dopo per una casta malefica di sacerdoti, bensì esteso nella profondità e nella distanza degli esseri fino ai limiti della natura. La divisione dei pani realizzò più tardi il miracolo della moltiplicazione dei fucili.
In queste pagine di sovranità angosciata, i fucili ed i pani di un nuovo mondo - non il Nuovo Mondo che certi fachiri paradisiaci e messianici ci vuole regalare - brillano come scintille nella notte nera, scintille uscite della luce immortale che viene dalla Russia e del suo combattimento che è il nostro.

Prologo ad Ilyá Ehrenburg, Muerte al invasor,
Messico, Fondo di Cultura Popolare, 1943.


Messaggio all'Università Nazionale
(Bogotà)

Ringraziando con emozione e con raccoglimento le vostre fraterne parole, mi sembra vederle alzare dalla vostra patria meravigliosa e sento passare attraverso il mio corpo le sue frasi generose verso l'aria. Le sento arrivare ai miei compagni assenti, a quelli che in questo mondo doloroso che ci è toccato alzarono prima di me le bandiere della libertà su una maggioranza degli esseri umani. Loro, gli intellettuali che lottarono vicino ai loro paesi, voglio ricordare cominciando questa notte; voglio che la mia parola rimanga interrogando lo spazio, l'immenso spazio della battaglia e della solitudine, ripetendo: essi sono la luce, il sale ed il seme del mondo. Dove stanno? Dove stanno Romain Rolland, Aragona, Malraux? Dove stanno Antonio Machado, Federico García Lorca e Miguel Hernández, dove stanno? Questi tre ultimi stanno da tempo sotto la terra, pagarono con la vita il ramo di luce che sgranarono con la loro poesia sulla vita umana. Gli altri, i francesi, i tedeschi, gli italiani, i norvegesi, i poeti della Cecoslovacchia, di Praga e della Romania, pagano nella prigione sanguinante o nel lungo esilio l’avere parlato, avere nominato, avere sfidato i tiranni.
Perciò parlare in questi giorni significa interpretare il silenzio di molte nobili voci scomparso, di molte voci che non si sentono, che si confondono già con l'essenza stessa della distruzione di questo tempo, ma che ancora vogliono comunicare, comunicare un'altra volta, forse questa notte, forse a voi, attraverso la mia piccola voce di poeta, un messaggio angosciato ed ardente che non ci parla di oblio ma di vittoria.
Non dimenticherò mai quando al ritorno del nostro Congresso memorabile celebrato a Madrid durante la guerra della Spagna, ed al quale assisterono tanto celebri scrittori antifascisti del mondo intero, le parole del francese Vaillant Coutourier: "Quali saranno i risultati di questo concorso? Libri, libri, molti libri." Sì, il mio caro e morto Vaillant Coutourier. Mancavano libri per illuminare l'avvicinamento della catastrofe. Il fascismo riempiva di armi le sue cantine segrete, si sentivano già i passi dei soldati che andavano a riempire di oppressione tutte le strade della terra, e davanti all'immensa mareggiata di angosce dolorose che venivano sull'umanità, avevamo solo il libro: libri, libri e più libri. Subito ricordo le parole appassionate con cui Thomas Mann o il conte Sforza, intellettuali esiliati degli stessi paesi in cui si preparava la malvagità, annunciavano, prevenivano ed alzavano una voce inutile. Se in questo momento solenne della storia raccogliessimo le attestazioni, come dovranno ritirarsi, dell'epoca prossima passata, incominciando con la discussione della Spagna e la sua sottomissione ai dittatori della Germania e dell'Italia, ci meraviglieremmo di vedere come questi drammi si ripercossero nella vita e nell'ora degli intellettuali della nostra epoca, e come per la prima volta il movimento immenso degli uomini di penna, di pensiero e di fede, accompagnò in maniera quasi unanime il senso e la politica popolare del nostro tempo. Gli scrittori della Francia, con Aragon alla testa; i norvegesi, con Anderson Nexo; gli spagnoli, con Alberti; i cubani, con Marinello; l'Unione Sovietica, con tutti i suoi poeti e pensatori; gli scrittori dell'umanità intera sfidarono le nuove tirannie, aiutarono il vacillante, annunciarono i crimini futuri e diedero dignità ad un'epoca di invasioni e di tradimenti.
Così, poichè parlando come americani, come cileni, come argentini, come peruviani o come colombiani, non facciamo altro che, da un lato, raccogliere nel nuovo continente, che è corno un bicchiere aperto, la fragranza fresca che ci viene dal largo mondo, e, d'altra parte, continuare la tradizione di America che nasce non da essere stata scoperta in una mattina di nebbia, bensì della lotta del sangue versato nella conquista della sua libertà.
Ed una cosa è evidente ed è che il nostro spirito di americani portò di tutte parti i semi che fecero possibile una America indipendente. E le fecero possibile perché la nostra coscienza di giovani abitanti di questo continente planetario ci segnala che qui possono riprodursisi le piante più lontane, i semi più difficili, con tutto il loro naturale splendore.
Non ci spaventano dunque con la vecchia cantilena delle idee esotiche. Esotici siamo noi stessi, discendenti di razze estranee a queste nude terre, esotica fu la nostra servitù ed esotica la nostra liberazione. Nel secolo scorso tutte le idee libertarie della Francia riempirono di splendore la prostrazione in cui vivevamo, ed una canzone della Francia arrivò ad essere simbolo americano della libertà e dei nostri diritti al combattimento. Le idee esotiche degli intellettuali della Rivoluzione francese entrarono nella mia patria e nella vostra mascherate di breviari e di messali; le idee esotiche si diffusero, attecchirono, crebbero e fiorirono, e quelle idee venute in lingue altrui, concepite per uomini lontani, incarnarono quello che fu forse fino ad oggi il nostro ideale vivente. Oggi l'umanità davanti alla minaccia del terrore, della prigione e delle tenebre, c'invia da paesi lontani nuovi pensieri che un'altra volta si cagliano nei nostri spaziosi cuori americani. Benvenute le piante, i frutti, gli uomini e le idee esotiche nelle nostre fertili praterie. Grande e generosa è la nostra magione tutelare, e siamo cresciuti non per chiudere le porte e le finestre alla luce, bensì per buttare giù i muri e lasciare un giardino palpitante dove stia la costruzione ombrosa. Che nessuno voglia chiudere gli occhi, chiudere le orecchie e la bocca dell'America. La nostra gioventù ci fa arbitri e contenitori nella sanguinante vacillazione di questi anni; arbitri per stabilire col nostro giudizio la rotta del paese e delle libertà umane, e contenitori per lottare con esse con tutta l'energia della nostra incorruttibile gioventù. Che la nostra fresca e giovane America, torrenziale e fragrante, sia anche pulita e profonda. Pulita di crimini contro l'uomo, spoglia di povertà orrenda, divise le terre alzate verso la primavera. Che tutti gli americani sentano contemporaneamente, come una punta di lancia, quando si mozza in qualche angolo la libertà dell'uomo americano. Che i carcerati politici in questo momento, nelle piccole prigioni tenebrose, sappiano che li circonda oggi un'atmosfera di implacabile solidarietà e domani un'aria estesa di liberazione. Guardate la mappa, giovani americani, ogni giorno: la mappa del mondo e quella della nostra patria grande: segnate di nero a lutto il posto delle tirannie, segnate di fuoco il posto dove si combatte per distruggerle, e segnate di aria vuota i posti dove l'uomo non pensa né vuole scacciare le catene. E se questi posti stanno vicino a noi, se costituiscono macchie nella purezza stellare del nostro continente planetario, pensate al giorno che voi, giovani di questo istante, arriverete alle responsabilità americane, e parlate allora il linguaggio della gioventù. Dico il linguaggio e non il silenzio, perché davanti all'ignominia politica il silenzio fino ad oggi espresso è un crimine contro le essenze dell'America.
Anni fa volevo arrivare alla vostra patria e respirare l'aria antica della libertà colombiana, aria che si sparge come un alto profumo imparentandosi con l'aria della mia patria. Ora vengo dal Messico, il grande e generoso paese, sentinella e baluardo della nostra razza.
Arrivare dalle altezze dall'America Centrale e messicana, da quelle irsute e dure geografie, cadere dall’alto sulle porte della Colombia, pestare un tappeto tessuto di fragranza accesa e di amicizia immeritata, era uno dei sogni della mia adolescenza, sogno che oggi riscatto dalle profondità in cui giacciono morti tanti viaggi a che c'incita il cuore. La Valle del Cauca riempì di canzoni le chitarre della mia patria, le vecchie chitarre di principi del secolo, mettendo nella roca voce degli spedizionieri, dei soldati e delle innamorate una nota di gelsomino adolorato, un'invincibile mano di fascino e di lontananza. Così, dunque, questa terra desiderata, cantata e canterina, stava dietro ai miei viaggi per il tempo e la terra, perché finalmente il fondo di quanto passa per le nostre più remote rappresentazioni è sempre un pezzo, grande o piccolo, della nostra terra dell'America, e questa geografia e questa città, e le valli in che Jorge Isaacs pianta per sempre nel nostro cuore il suo fogliame di lacrime e José Asunción Silva scatena anche per sempre il suo lunatico splendore, erano per me simbolo e segreto dell'America, punto di partenza di una conoscenza più profonda dei posti in cui il nostro emisfero nasconde la sua palpitante delizia. Ora sto con voi, ed in questo posto la vostra gioventù nella sua accoglienza è per me come il legno puro dei vostri grandi boschi; voi farete domani della vostra propria stirpe il castello alto, duraturo e sacro della libertà nel mondo.

Testo letto nell'Aula Massima della Facoltà di
Diritto dell'Università Nazionale, Bogotà, il
23.9.1943. Riproposto in
El Café Literario,
num. 1, Bogotà, gennaio-febbraio 1978.


Nella superbia la spina
Tre sonetti punitivi per Laureano Gómez
EN LA SOBERBIA LA ESPINA. TRES SONETOS PUNITIVOS PARA LAUREANO GÓMEZ. (Pagine 492-494.) Quando in ottobre del 1943 Neruda passò per la Colombia di ritorno al Cile, dal Messico, si vide obbligato a scendere all'arena per affrontare Laureano Gómez, politico conservatore veemente e ricco (quanto modesto come poeta), ed alcuni dei suoi scudieri. Le armi elette per tanto feroce duello furono i sonetti. Quelli di Neruda si pubblicarono sul diario El Tiempo, gli antinerudiani nel diario El Siglo di Bogotà, fondato e diretto dallo stesso Gómez. A titolo documentale, qui riportiamo anche i sonetti antinerudiani come furono riprodotti da Zig-Zag, num. 2014, Santiago, 29.10.1943. Al meno l'ultimo sembra scritto dall'ineffabile Laureano.

IN IL TUMORE L'AGO
I 14 primi

Burino estemporaneo di poeta,
pirata di rasoio e di fucile,
americano di rimbalzo
e di martello,

macellatore di euritmia con coltello.


Visiti un paese e nella tua cantilena
- che mai al buon gusto si sottomette-
oltraggi a distanza, piccolo botolo,
con l'aspra saliva del tuo grugno.

Se l'insulto a Laureano ti è uscito
è titolo migliore che non l'ammiri:
che il tuo lemma, Neruda, emerge

dell'orrendo mucchio delle tue dcerie:

"Odiare, odiare di morte quello che vale
ed avvelenare l'aria in cui respiri."

I secondi 14

È buono che ti esibisca scudiero
- repulsivo pagliaccio del vocabolo-
distanziato da ogni cavaliere
in falso atteggiamento con la tua lancia.

È buono che ti esibisca come furbo
calunniando i grandi, povero Pablo,
originale Pegaso di custode dei puledri
di chi ogni poema è una stalla.

Non avrai mai la tempera di Laureano,
nobile sentire e procedere tanto sano...
neppure il suo talento e la sua prestanza.

Ortolano mediocre e gran villano,
ti ingrassiamo con fiori, oh maiale,
e ci dai solo grasso, ma rancidisci!

E gli 14 ultimi

Ti divinizzarono i barbari del verso,
cinghiale letterario che ti ispiri
in ogni postribolo e nella cosa perversa,
perché solo nel fango tu respiri.

Cantando a Stalingrado non mi stupisci
che è l'opportunità l'universo
dove sempre, anfibio, tu ti distendi
occultando la cicatrice del tuo dritto.

Non continuare, no, a credere che sei vate,
il tuo stile è una salsa di pomodoro
fabbricata in atroce inquilinato.

In te, già niente serve da conclusione:

non ritornare per qua, sporca stuoia,
perché sei lurido ed inoltre ingrato!

Ángel María Criales Díaz

Scarabeo lirico

a Nefta Reyes (alias Neruda)

Poetastro mendicante e vagabondo
che al suono della tua grancassa di gitano
continui ad infestare il mondo americano
col tuo ululato di satiro iracondo.

La tua bisaccia di buffone inverecondo
gonfia con temi di seconda mano
che il tanfo esalano ed il fetore malsano
di vile trattoria e postribolo immondo.

E tu che solo uno pseudonome hai,
la tua bava fino ad una cima a lanciare vieni?
Mentecatto! Tu ti trovi molto sotto

e la cima è molto alta: segue il destino
che segna il tuo coprofago destino
maneggiandoti quale vile scarabeo!

Zoologo

1

Addio, Laureano mai premiato.
Satrapo triste, re arrivista.
Addio, imperatore di quarto piano
prima di tempo e senza cessare pagato.

Amministri le tombe del passato,
e, affascinato, approfitti dello stregato
nel bacato paradiso
dove arriva il superbo sconfitto.

Lì sei dio senza luce né primavera.
Lì sei capitano di lombricaio,
e nella terribile notte dell'arcano

lo scettro di violenza che ti aspetta
cadrà marcio come polvere e cera
sotto la gerarchia del verme.

2

Cavaliere dalla frusta meschina,
scomunicato dall'essere umano,
iracondo rudere della strada,
oh piccolo anticristo anticristiano.

Come te, con la frusta nella mano,
trema in España Franco, l'assassino,
ed in Germania il tuo sanguinante fratello
legge sulla neve il suo destino.

È tardi per te, triste Laureano.
Rimarrai come coda di tiranno
nel museo di quello che non esiste,

nel tuo piccolo parco di veleno
con la tua pistola che spara fango.
Vai via prima di essere. Tardi venisti!

3

Dove stiano la canzone ed il pensiero,
dove ballino o cantino i poeti,
dove la lira dica il suo lamento
non intrometterti, Laureano, non intrometterti.

Le critiche che ululi nel vento,
la stricnina che riempie le tue valigie,
te li restituiranno con monito:
non intrometterti, Laureano, non intrometterti.

Non toccare coi tuoi piedi la geografia
della verità o della poesia,
non sta nella verità il tuo terreno.

Ritorna alla frusta, ritorna all'amarezza,
ritorna alla tua rancorosa sepoltura.
Che non c'abbandoni il tuo veleno!

El Tiempo, Bogotà, ottobre 1943, e
Zig-Zag, num. 2.014, Santiago, 29.10.1943.


Pedro Nel Gómez

Credo che l'opera coraggiosa e preziosa di Pedro Nel Gómez sia un passo in più, un passo grande verso l'interpretazione della nostra America. Se vicino ai muralisti messicani avessimo in ognuno dei nostri paesi un Pedro Nel Gómez, la mappa spirituale e materiale dell'America avrebbe espresso la sua struttura, sarebbe arrivata ad un'esistenza nel tempo. Quasi tutta la nostra pittura, riflesso fiorito dell'Europa, pallida ombra di una cultura lontana, continua a sparire davanti ai nuovi scopritori dall'America che, come Pedro Nel Gómez, sono, finalmente, americani.

Muoia la mitologia greca: più terribilmente bella di una colonna corinzia è un'anaconda di quindici metri che esce dal fango della selva. Pedro Nel Gómez e quelli che verranno c'aiuteranno a trovare la nostra anima, con la sua visione dolce e magica della nostra vita.


Medellín, ottobre 1943


Revista Municipal, Medellín, ottobre 1943.


America, non spegnere le tue lampade

Sempre per me esistette la vostra patria, ma non come tutti i territori in cui l'uomo vive, sogna, soffre, trionfa e canta. Per me, il Perù fu madre dell'America, recinto circondato da alte e misteriose pietre, da morsi di schiuma singolare, da fiumi e metalli di alveo profondissimo. Gli inca lasciarono non unisca piccola corona di fuoco e martirio nelle mani attonite della storia, bensì un'ampia, estesa atmosfera scolpita dalle dita più fini, dalle mani capaci di condurre i suoni verso la malinconia e la riverenza e di alzare le pietre colossali di fronte al tempo infinito.
Ma lasciarono anche, con forza equinoziale, impresso nel volto dell'America una tenerezza pensosa, un gesto esile e commovente che dalle stoviglie, i gioielli, le statue, i tessuti ed il silenzio coltivato, illuminò sempre il cammino della profondità americana. Quando la mia terra ricevette le onde di fertili conquistatori incaici che portarono alle ombre arroccate di Arauco il contatto tessile della liturgia e del vestito; quando le palpitazioni spirituali dei boschi tutelari ed austral toccarono il turchese sacro e la stoviglia traboccante di contenuto spirituale, non sappiamo fino a che punto le acque essenziali del Perù invadevano il risveglio della mia patria, sommergendola in una maturità tellurica della quale è semplice espressione la mia propria poesia.
Più tardi, il vecchio conquistatore fa la sua tana di fulmini dove stette il maggiore splendore della nostra vita leggendaria. Nel Perù si sostituiscono come cappe geologice la terra, l'oro e l'acciaio; la terra trasformata in forme tanto diafane e vitali come gli stessi semi essenziali il cui crescita riempirà le anfore che calmeranno la sete dell'uomo; l'oro il cui potere dal posto segreto della sua statua sepolta recherà, attraverso il tempo e dell'oceano, agli uomini di altri pianeti e di altri linguaggi; e l'acciaio nel cui splendore sostanziale si formerà lentamente il lamento e la razza.
C'è qualcosa di cosmico nella vostra terra peruviana, qualcosa di tanto poderoso e tanto pieno di fulgore, che nessuna moda né nessun stile hanno potuto coprire, come se sotto il vostro territorio un'immensa statua giacente, minerale e fosforica, monolitica ed organica fosse ancora coperta da tessuti e santuari, da epoche e sabbie, e spuntasse la sua vigorosa struttura nell'altezza delle pietre abbandonate, nel suolo disabitato che abbiamo il dovere di scoprire. L'America è il vostro Perù, il vostro Perù settecentesco e primitivo, la vostra patria misteriosa, arrogante ed antica, ed in nessuno degli Stati dell'America troveremmo le concrezioni americane che, come l'oro, ed il mais, si spargono nel vostro bicchiere per darci dell'America una prospettiva insondabile.
Americani del Perù, se ho toccato con le mie mani australi la vostra corteccia e ho aperto il frutto sacro della vostra fraternità, non pensiate che vi lascio senza che anche il mio cuore si avvicini al vostro stato e la vostra grandezza attuali. Perdonatemi allora che, come americano essenziale, metta la mano nel vostro silenzio.
Da anni, da tutta la l'America silenziosa vi contemplano due paesi che sono le torri di vedetta ed i lieviti della libertà in America. Questi due paesi si chiamano Cile e Messico.
La geografia li collocò negli estremi duri del continente. Al Messico toccò essere il baluardo del nostro sangue quando la vita dell'America gli richiese gagliardamente di imporre le materie fondamentali del nostra America, di fronte al gran paese materialista del nord. Ed anche al Messico toccò alzare le prime bandiere quando la libertà minacciata in tutto il nostro pianeta si vedeva difesa dall’alta stirpe degli americani del nord.
Il Cile ha conosciuto la libertà, come gli predisse Simón Bolívar. Nel sacrificio delle terre più dure, nella conoscenza degli ostacoli più impenetrabili, la mia patria, con le stesse mani ardenti e delicate che resisterono ai lavori manuali ed ai climi più crudeli delle nostre latitudini, potè toccare il cuore dell'uomo, alzarlo come un bicchiere raggiante verso la libertà. La storia del mio paese camminò pesante e duramente verso l'aurora ed a quello sono consacrati i cileni di oggi, nel dissipare ogni giorno le tenebre che ci toccarono.
Da questi due punti, antartico l'uno, musicale ed esplosivo l'altro, guardiamo verso il Perù nella speranza che i suoi passi si incamminino verso la responsabilità che ci dà il titolo di americani. Se nelle vostre mani il difficile destino storico dell'America infiamma una luce di libertà che il vento di domani possa lasciare seppellito per sempre, sta nel vostro dovere non solo verso la vostra terra, bensì verso il resto della grandezza americana conservare, fortificare e mantenere questa luce essenziale. Se guardiamo nelle mattine la carta geografica dell'America coi suoi bei fiumi ed i suoi splendidi altari vulcanici noterete che esistono zone in cui le lacrime mettono un cerchio di ghiaccio alle tirannie, noterete che nei più prosperi, nel più ricco, nel più poderoso dei nostri Stati dell'America, sono appena nati nuovi tiranni. E questi nuovi tiranni sono esattamente uguali a quelli che patimmo col cuore angosciato: hanno spalline ed usano la frusta e la sciabola. Vediamo come le minori vestigia della libertà sono spiate dalle tigri ed i caimani della nostra spaventosa fauna cosmogonica. Allora, peruviani, cileni, colombiani, tutti quelli che respirate l'aria della libertà che ci lasciano i mostri della nostra preistoria, fate attenzione, abbiate molta cura. Facciamo attenzione all'antica fauna apoplettica che già sembrava classificata nei musei con le sue immense ossa difensive, le sue onorificenze ed i suoi membri sanguinanti. È viva ancora nel mondo la sete di dominio e la volontà del tormento ed i nostri boia ci spiano dalla mattina alla notte. Ma fate anche attenzione ai nostri falsi liberatori, di quelli che, non comprendendo lo spirito di questa epoca, pretendono di fare della violenza un mazzo di fiori per consegnarlo nell'altare delle libertà dell'uomo.
Il figlio della libertà dell'America, come Sucre, come Bolívar, come O'Higgins, come Morelos, come Artigas, come San Martin, come Mariátegui, è odiato contemporaneamente dalla reazione cavernicola e dalla demagogia sterile. La libertà in America sarà figlia dei nostri fatti e dei nostri pensieri.

Discorso letto nel ristorante La Cabaña di Lima durante
una cena di omaggio. In
La Noche, Lima, 22.10.1943,
ed in
Hora del Hombre, num. 3, Lima, ottobre 1943.




IV
VIAGGI 2
(1942-1943)

Viaggi per le coste del mondo
VIAJES 2. VIAJE POR LAS COSTAS DEL MUNDO. (Pagine 498-522.) "Nel marzo del 1942 Pablo Neruda visitò per la prima volta L'Avana, invitato da José María Chacón e Calvo, direttore allora della Direzione di Cultura del Ministero di Educazione. Nel locale di quella che fu l'Accademia Nazionale di Arti e Lettere, in Acosta y Compostela, offrì varie conferenze, due di esse su Quevedo; quella che qui si riproduce figurò in quell'interessante ciclo. "[...] Il testo della conferenza mi fu consegnato dallo stesso Pablo finendo la sua lettura e non ho idea che si sia pubblicato prima di ora". (Ángel Augier, presentazione di "Una conferenza inedita di Pablo Neruda", in Gaceta de Cuba, num. 180, L'Avana, Luglio del 1979.) - Si tratta di "Viaje por las costas del mundo" nella prima versione e senza il titolo che più tardi gli mise Neruda. La fortunata circostanza che Augier non conoscesse le anteriori pubblicazioni del testo ci permette l'accesso a quella prima versione che, tra le altre varianti minori, non portava il frammento da "En estos últimos años vagué por México (In questi ultimi anni vagai per il Messico)" fino a "y voló frente a mis ojos hasta perderse en el cielo (e volò di fronte ai miei occhi fino a perdersi nel cielo)", pp. 513-516, - scritto nel 1943 per la lettura in Colombia (ottobre del 1943) o più tardi in Cile -, e che alla chiusura portava naturalmente il poema dedicato al capitano Alberto Sánchez, eroe cubano della guerra civile spagnola che si estendeva fino ai versi "[...] sonriendo un poco junto a la tumba / de nuestros hermanos caídos (sorridendo un po' vicino alla tomba / dei nostri fratelli caduti)". che nella versione Augier diceva: "[...] sonriendo un poco junto a la tumba / de nuestros valientes hermanos (sorridendo un po' vicino alla tomba / dei nostri coraggiosi fratelli)". Neanche il testo letto a Cuba portava il poema che più tardi Neruda introdusse così: "Mi avvicinai allora alla Colombia e dissi ai colombiani", e che lesse a Bogotà nell'ottobre del 1943, ma finiva invece con la seguente versione embrionale del poema "El fin del viaje":

Qui finisce oggi questo viaggio in cui mi avete accompagnato la notte ed il giorno ed il mare e l'uomo. quanto vi ho detto ma molto più è la vita. ci ha fatto scegliere tra il combattimento ed il riposo, il pane e la statua?tutto, il visibile ed il segreto, il piccolo ed il grandioso, ci appartiene quanto raccolga la verità o la bellezza o sconquassate perché dalle rovine e dai frammenti di nuovo la vita, dalla sconfitta ricostruisce con lacrime e con spade la speranza.
saluto, alla vostra isolariempie di profumo e di dolcezze la terra.
È recente ancora l'ecovostre battaglie per la libertà, ancora mi sembra sentirevostro Martí parlare con la voce dell'America interatutti gli uditi dell'America raggrupparsi vicino alla sua voce.'altra volta le campane della tirannia portano attraverso il mareloro suono di ombra e la nostra Americariempie di un silenzio angosciato.oggi siamo più stretti ed insieme, più fortificati,ù uniti per dire ai nuovi barbari: NON PASSERANNO,passeranno ad occupare il cuore sacro della nostra America libera.

Questa prima versione fu rielaborata e aumentata per la lettura culminante della conferenza che fece Neruda ritornando in Cile (dicembre 1943). Probabilmente fu ritoccata ancora per la sua pubblicazione in (1947) e - come poema indipendente e con titolo proprio - nel quotidiano Siglo, Santiago, 18.9.1947. Di lì la prese Matilde Urrutia per includerla tra i testi dispersi di Neruda che redasse proprio sotto il titolo fin del viaje(FDV) nel 1982, ma senza indicare la sua connessione col nostro "Viaje por las costas del mundo". - [...] de 1914 comencé a escribir allí [en el Sur] mispoesías(prima del 1914 cominciai a scrivere lì [nel Sud] le mie prime poesie). Neruda normalmente insisteva nei suoi versi anteriori al 1915, ma non conosco documentazione al riguardo. - é a Calcuta en el mes de diciembre de 1928(Arrivai da Calcutta nel mese di dicembre di 1928). Tutte le pubblicazioni del testo, includendo la versione Augier e quella di OC 1973, portano "dicembre del 1919", ma il Congresso di Calcutta ebbe luogo nel dicembre del 1928. E Neruda, come si sa, stava lì col suo amico Álvaro Hinojosa. Nel dicembre del 1929 ebbe un altro Congresso panindio, più importante ancora, ma nella città di Lahore, oggi appartenente al Pakistan, a 2.000 km da Calcutta. Inoltre, la corrispondenza con Eandi, con Laura e soprattutto con Albertina (di cui nervosamente sperava, giusto in quello periodo, la sua accettazione a viaggiare dall'Europa per riunirsi) mi dicono o suggeriscono che nel dicembre di 1929 Neruda non si mosse della Ceylon. Non conosco nessun indizio di un viaggio da Colombo a Calcutta in quello periodo né alcuno ragione per farlo (Álvaro Hinojosa era andato via da tempo), anche i mezzi, per cui preferisco pensare che si tratta di una nuova distrazione cronologica del poeta. Aggiungo, per maggiore precisione, che non arrivò Neruda in dicembre a Calcutta bensì nel novembre del 1928, secondo l'attestazione molto più fresca della lettera ad Eandi scritta sulla imbarcazione e datata "Bengala Bay, 16 gennaio, 1928", Aguirre * *, p. 42, dove la distrazione cronologica del poeta, niente infrequente, successe alla rovescia, la traversa Calcutta-Colombo fu all'inizio del 1929, non del 1928. In quella lettera leggiamo: "Ora, tra tre ore arriverà la barca da Colombo. Vengo da Calcutta, mesi di vita" Ciò ci retrodata a novembre del 1928, quando Neruda scrisse "Tango del viudo" e "Ars poética" di

Ho cominciato a vivere in tanti luoghi e in tante ore differenti della nostra epoca, che non so da dove iniziare: se dal grande o dal piccolo, dal dentro o dal fuori, se dalla giacca o dal cuore. Tutto è fuso dentro di noi, fuori da noi, le vite e le nascite, facendo un cerchio di foglie, di lacrime. di fuoco, di conoscenza, di ricordi. E la vita di un uomo è come l'esistenza di un giorno: la polvere trema al passaggio della luce centrale, la vegetazione accumula il suo misterioso alimento fatto di atmosfera e di profondità, passano canti di ragazzi, di ubriachi, di becchini, suonano le cucine del mondo, trasportano i feriti sul mare, con interminabili treni, le macchine da scrivere, le presse, i motori si stanno udendo nel crepuscolo da dove il giorno sta scomparendo, come un piccolo ciclista in una lunga strada, e non mi fermo fino alla notte permanente, alle stelle infinite, alla solitudine immensa.
Per lungo tempo mi accompagnarono solitari nomi di regioni sconosciute e lontane, dove trovai una casa, dei libri, talvolta una donna. Questi nomi mai interessarono a nessuno, la loro ortografia stessa era sconosciuta e difficile, e per me erano punti segreti del mio pensiero, di quelli che a nessuno posso parlare, di quelli che a nessuno posso far tacere, con una parola o silenzio che li avessi abbracciati. Che avesse significato per nessuno un mese, mille giorni, molte mie settimane, molte stagioni, nel golfo di Martabán, vagando per le rive del fiume Irrawadhy, nella cui bocca sta Rangoon, guardando la crescita, sudicia e turbolenta, del fiume Salween, o un pomeriggio, un giorno, una notte nel remoto Sandokan, o un giorno di pioggia in treno, in terza classe, attraverso la Tailandia, nella selva, o una mattina di freddo nello Stretto di Magellano, tremando, infermo e senza lavoro, guardando al bordo dell'acqua il muso di un impreciso bue marino con grandi baffi di brina?
Tutto questo è stato privatamente mio, senza nostalgia, senza disgrazia, senza felicità: è stato la mia porzione, la mia riserva, la mia proprietà solitaria. Oggi per molte di queste ragioni marcia la guerra inseguita da corvi e sciacalli, da formiche e granchi: la selva divora con artigli e con fiori, tutto torna al silenzio, a una luce dura e verde, ma già tutti questi nomi, queste latitudini entrano nel pane di ogni giorno, nel pianoforte di ogni giorno, nel sangue di ogni mattina, perché la vita ci abitua in questa ora ad alzare ogni mattina la coppa di sangue di ogni giorno e non soltanto la tigre e non soltanto il lupo sono gli animali sanguinosi, invasosi della selva o della steppa.
Poco tempo fa, raspando per le spiagge del golfo della California, cercando nell'acqua, nella sabbia e il fango talvolta l'argonauta, o le innumerevoli “” o il “bicolor”, chiamato cinese, chiocciola doppia, nel suo guscio di gesso o di spine, nel suo interno, rosa come un palato, ritirai sorpreso da dentro la schiuma una gigantesca stella di mare, sì, sì, la “occidentalis” o forse la “armata”. Era una massa di cinabro fosforescente e le sue cinque grandi punte si alzavano verso il centro, come un astro incendiato.
Raccolsi e guardai da tutti gli angoli la piccola montagna viva sottomarina, tanto feroce e combattiva, vorace e sanguinaria. Tutto l'oceano interiore arrivava alle mie mani, la vita violenta e bianca delle scogliere, l'esplorazione notturna del capitano Nemo, la visione e l'avventura del nordamericano contemporaneo William Beebe. Sopra il divano di fango sottile e delicato, le spugne posano i loro volumi remotamente vivi. La silice si sviluppa in grandi abeti traslucidi, gli armati ricci di azzurro ardente viaggiano con gran pigrizia nello splendore di cristallo. Granchi dalle sottili e larghissime mani, crostacei ciechi, pesci come lampade cristalline, , brachipodi, oloturie, crinoidi, costruiscono nel fondo la statua fosforescente del vecchio oceano: le sue lunghe barbe distrutte dalla marea che arriva con l'alga immensa dei mari del Cile e con gli occhi pieni di gorgonie, di alcionarie, di piume del mare che si accendono di verde e di violetto, illuminano il cammino dei mostri che difendono la casa sommersa del Dio del Mare.
Il fondo delle acque cambia con la vita del tempo. Fu oscuro nelle epoche del terrore preistorico e le grandi masse brune dei cetacei uscirono da esso con lentezza verso una superficie di cuoio e di silenzio. Nell'età dell'oro il poeta andaluso Pedro de Espinosa illumina con un raggio di amaranto la latitudine bagnata e brilla il suo splendore con tutte le pietre preziose da poco uscite dall'America:


Vedo entrando nel Genil un vergine coro
di belle ninfe dai nudi petti,
sopra cristallo setacciando grandi d'oro
con verdi cribri di smeraldi fatti;
vedo, ricchi di lucentezza e di tesoro,
fogliame di ghiacciolo sui tetti,
che stavano per le punte adornati
di grappoli di perle di fiume gelate.

E continua la favola fluviale del Genil, forse il più perfetto poema della nostra lingua:


Benché sono argento liscio le soglie;
chiari diamanti le lucenti porte;
ricche di chiodi di corali
e di piccole madreperle coperte;
bene che raggi di luce immortale
danno, e che stanno spalancati,
e i quirales d’oro molto robusti,
che mostrano il potere di chi li fece.

Colonne più belle che utili
sostengono il gran tetto cristallino;
le pareti sono pietre trasparenti,
il cui valore dall’Occidente venne;
spuntano dalle fondamenta chiare fontane,
e con pelle bianca, in liquido cammino,
corrono coprendo con la loro chiara linfa
le carni bianche delle belle ninfe.

La divisione del mare è, quindi, sempre differente. Le mie lunghe camminate, presso le scogliere, le mie navigazioni verso gli angoli gelati, dove meritai di portare appeso al collo l'albatros morto dell'antico marinaio, mi fecero cercare più sotto delle onde, impregnarmi della sua zoologia fantasmatica, tremare nello stesso luogo del naufragio. E già dopo molti anni, ritornai alla mia vita verso il mare solitario della mia infanzia, verso un pezzo di mare della frontiera che è la regione del Cile da cui vengo, e verso questo deserto mare che sempre colpisce il mio sogno e apre per me le porte del tempo, scrissi alcune volte “Sud dell'Oceano”.

Di consumato sale e gola in pericolo
son fatte le rose dell'oceano solo,'acqua rotta tuttavia
[…]


Quasi all'epoca di Pedro de Espinosa, il poeta Andaluso che pose più smalto, più zaffiro e più pietre preziose sotto l'acqua che nessuno fino a questa data, visse alla Corte casigliana un gran signore della poesia e della vita, un gran poeta assassinato, il Corriere Maggiore di Sua Maestà, don Juan de Tarsis, conte di Villamediana.

Non possiamo dimenticare i fantasmi. E quando questi, come Juan de Tarsis, incrociarono come un lampo di ametista un minuto della storia poetica, lasciando un fulgore di fosforo che attraversa e rompe le pagine dei libri e le diffonde in un piccolo vento oscuro, dobbiamo ricordare il fantasma.
È l'innamorato della Regina. Va tutto vestito di broccato di color argento cenerino. Una rosa azzurra circonda il posto della sua spada. Per rendere più evidente la sua patetica passione, si è riempito le spalle di monete dei reali: “I miei amori sono reali”. La bella Regina guarda. Né un tremore delle sue labbra la tradisce. Se il Re non guarda, ha molti occhi che fotografano con gli stessi sguardi che tessero gli antichi intrighi dei vecchi libri. Un giorno, di sua propria mano, il conte incendia i tendaggi dello scenario in cui si inaugura la piccola “operetta” in cui la Regina è stella e tra il fumo e le grida, corre Villamediana con la Regina fra le sue braccia. Ma Madrid osserva.

Il resto lo racconta don Luis de Góngora nella lettera del 23 agosto 1622.

La mia disgrazia è arrivata al massimo con la sfortunata morte del nostro conte di Villamediana, di cui do a Vostra Grazia le condoglianze per l'amico che era di Vostra Grazia e le volte che interrogava per il cavallo del Palio.

Successe la domenica scorsa sul far della notte, 21 del mese, venendo al palazzo con la sua carrozza con il signor don Luis de Haro, figlio maggiore del Marchese del Carpio; e nella strada Mayor uscì dagli androni che stanno sul marciapiede di San Ginés un uomo che si avvicinò al lato sinistro, dove stava il Conte, e con arma terribile di coltello, secondo la ferita, lo passò dal costato sinistro al muscolo del braccio destro, lasciando tal squarcio, che anche in un toro darebbe orrore. Il Conte rapidamente, senza aprire il predellino, si lanciò verso la testa dell'uomo e pose mano alla spada, ma vedendo che non poteva governarla, disse: «Questo è fatto! Confessione, signori!» e cadde. Arrivò a questo punto un chierico che gli dette l'assoluzione, perché dette segni due o tre volte di contrizione, stringendo la mano al chierico che gli chiedeva questi segni; e portandolo alla sua casa prima che spirasse, ebbe il tempo di dargli l'unzione e di assolverlo un'altra volta, per i segni che dette di abbassare la testa due volte. L'uccisore […] seguito dai lacchè e dal cavallerizzo don Luis, che andava su un cavallo, perché favorito da alcuni uomini che uscivano dagli stessi androni, ostacolarono cavallo e lacchè all'inseguimento, si misero al riparo senza essersi resi conto di cosa accadesse. Parlo con riservatezza della causa, e la giustizia sta procedendo con esteriorità: però tenga Dio nel cielo il disgraziato, che dubito procedano a più indagini. Sono ugualmente rammaricato e disilluso di quello che è sfarzo e vanità nella vita, posto che abbia dissipato tanto questo cavaliere, lo sotterrarono quella notte in una bara da impiccati che portarono da San Ginés per la fretta che dette il Duca del Infantado, senza permettere che gli dessero una cassa.


Così, quindi, cadde assassinato alcuni secoli fa il litigioso, baro, collezionista di gioielli, di cavalli, di quadri, conte di Villamediana. La tristezza di Góngora non lo ha salvato dall'oblio. Spero che prima di voi lo salverà questo drammatico, questo meraviglioso sonetto cortigiano:



Chi sarà felice sarà amato,
e io in amore non voglio essere felice,
avendo la mia dedizione generosa,
una felicità essere per voi tanto sfortunato.

Soltanto è servire, servire senza essere premiato;
vicino sta al maleducato il felice;
rincorrere il bene di tutti è inevitabile.
Io solo rincorro il bene senza essere forzato.

Non c'è bisogno di felicità per amarci;
amo di voi ciò che di voi capisco;
non quello che spero, perché niente spero.

Portami il conoscerci a amarci;
servire più per servire soltanto pretendo
da voi non voglio più di quello che vi chiedo.

In quello stesso tempo uno dei più grandi drammi della libertà umana si sviluppava nel mondo: la lotta dell'Araucania contro l'Impero spagnolo nella regione remota, crudele, inclemente che i conquistatori chiamarono il regno del Cile. Cile, come sembra, vuol dire paese freddo in una delle lingue incaiche, e il primo europeo che arrivò nella mia patria, arrivò a questa per la sua parte più gelata e fu don Hernando de Magallanes. Soltanto a questo grande titano, a questo formidabile capitano terrestre, poteva riservargli il destino quella regione. Dopo alcuni anni, di ritorno dall'India, dove mi portò la mia adolescenza, incrociai con raccoglimento quelle regioni lunari in cui la desolazione planetaria distrugge ogni possibilità che non sia l'angoscia. A lato delle acque strette e profonde, spuntano pezzi scuri e pelati della crosta terrestre, pezzi di guscio di un vecchio e abbandonato pianeta. Al nostro lato gli animali marini di altre epoche si affacciamo ancora sopra l'acqua ridendo con dentatura tetra, i pini antartici diritti come chiodi rimarranno per sempre piegati dalla tempesta, l'arcobaleno si alza sopra il firmamento tempestoso come l'unico immenso fiore, come la delirante bandiera che unisce i desolati ghiacciai.
Arauco non era quella di Araucanaprima dell'arrivo spagnolo. Arauco era moltitudine di tribù disperse che non si conoscevano tra loro, senza uno Stato, senza una religione, senza una struttura artistica. Ma la sua lotta formidabile, il miracolo di trecento anni di battaglia, si fa più trasparente in questi ultimi anni di chiassoso sangue. Mentre le oligarchie azteche e incaiche davano la mano all'invasore, dopo una breve lotta, mentre i conquistatori rimpiazzavano i vaghi sentimenti di poesia e di terrore che scuotevano la nostra America, dominata da sacerdoti e aristocratici e, calando la croce, facevano dell'oro un nuovo circolo mistico e mitologico, fondendo nel metallo drammatico tutte le idee di un'epoca palpitante e temibile, la nostra patria scrisse una lezione disordinata allora, ma vivente oggi più che mai. Arance si fece unità davanti all'invasore: i barbari individualisti addormentati sotto l'ombra della cannella silvestre, guidati dal tamburo o dal fuoco, dimenticarono i loro progetti da dei, uccisero i primi traditori, terminarono tutte le loro stupide dispute per una donna o per una freccia e, riuniti in un primo fronte nazionale davanti a un invasore, sostennero vittoriosi una campagna di sangue che durò trecento anni e che è stata portata nella storia e nella poesia dal meraviglioso cavaliere, dal grandioso poeta, dal nobile don Alonso de Ercilla.
Alla fine del secolo passato la Araucania non era ancora stata conquistata. Gli orgogliosi eroi antichi rifiutarono il nostro sangue spagnolo e il gran fiume, il padre dei fiumi del Cile, il Bío Bío, continuò a indicare la frontiera, cioè, il luogo che il cileno, come prima lo spagnolo, non poteva attraversare.
L'agonia dei guerrieri, la fine di una razza che sembrava immortale, rese possibile che i miei antenati, dopo un patto in cui il Governo del Cile riconobbe gli araucani come cittadini liberi della Repubblica del Cile, con tutti i suoi diritti e prerogative, potessero arrivare con i loro primi “” su una vecchia carrozza a noleggio, attraverso varie leghe di territorio sconosciuto fino ad allora, verso la nuova capitale della frontiera popolata dai cileni. Questa si chiamò Temuco e essa è la storia della mia famiglia e della mia poesia. I miei padri videro la prima locomotiva, i primi granai, i primi legumi in quella regione verginale di freddo e tempesta.

Io nacqui nell'anno 1904 e prima del 1914 cominciai a scrivere lì le mie prime poesie. I lunghi inverni del sud entrarono fino al midollo della mia anima, e mi hanno accompagnato per la terra. Per scrivere avevo bisogno del volo della pioggia sopra i tetti, le ali d'uragano che vengono dalla costa e colpiscono i paesi e le montagne, e questo rinascere di ogni mattina, quando l'uomo e i suoi animali, la sua casa e i suoi sogni, sono stati sottomessi durante la notte a una potenza estranea, fischiatrice e terribile. Per scrivere ancora ebbi bisogno nel mondo delle infiltrazioni. Le infiltrazioni sono il pianoforte della mia infanzia. Mi padre sempre diceva di comprare un pianoforte che, oltre a consentire a mia zia di suonare il mio adorato valzer le onde,potrebbe per la nostra famiglia essere titolo chiaramente esprimibile dalla frase “hanno un pianoforte”. Mio padre, nei momenti in cui lo lasciava libero la sua vita di mobilità perpetua, perché era conduttore di treni, arrivava fino a misurare le porte da dove doveva passare quel pianoforte che mai arrivò. Ma il gran pianoforte delle infiltrazioni durava tutto l'inverno. Alla prima pioggia si scoprivano nuove infiltrazioni dalla voce dolce che si accompagnavano alle vecchie infiltrazioni, Mia madre divideva i suoi vasi di terracotta, lavamani, brocche del latte e altre cose. Ognuno dava un suono diverso, a ciascuno arrivava dal cielo tempestoso un messaggio differente ed io distinguevo il suono chiaro di un lavamani di ferro smaltato, da quello opaco a amaro di un secchio ammaccato. Questa è quasi tutta la musica, il pianoforte della mia infanzia, e le sue note, diciamo le sue infiltrazioni, mi hanno accompagnato dove mi è toccato vivere, cadendo sopra il mio cuore e sopra la mia poesia.
Così, dunque, sono un poeta naturale della guerra e delle città, delle macchine e delle abitazioni, dell'amore, del vino, della morte e della libertà. Ma sono anche un poeta naturale di quei boschi ombrosi, che ricordo adesso con impregnata forza. Ho cominciato a scrivere per un impulso vegetale ed il mio primo contatto con la grandiosità dell'esistenza sono stati il mio sonni con il muschio, le mie lunghe insonnie sopra l'humus.
Una grande coltre di humus di più di un metro di spessore copre tutti i boschi del mio territorio nativo. In quella regione fredde e piovosa, le foglie dei vecchi alberi sono andate cadendo in un immemorabile autunno. Gli alberi, allora, i vecchi tronchi del ín, della , del cipresso, del “Winterey”, i giganti dell'altura cadono sopra l'umidità della vecchia terra silenziosa da cui nasce l'unica voce vegetale della selva, l'orazione dei rampicanti immensi e bagnati, i tentacoli della felce boreale. La di un vecchio cavaliere geografico, il signor Amado Pissis, ci descrive così questa regione:

Gli alberi che formano le selve del Cile, appartengono a un numero abbastanza grande di famiglie differenti, comprendendo 69 specie che si sostituiscono l'una all'altra secondo le diverse latitudini. Verso l'estremità australe il antartica, il betuloides, il wintereii, alcune proteacee e conifere formano l'essenza dei boschi: il numero delle specie aumenta sempre più man mano che si avanza verso il nord, essendo nelle provincie di Valdivia e di Llanquihue dove i boschi arrivano a un maggiore splendore e i vegetali al loro maggiore sviluppo, favoriti da una temperatura dolce e dalle continue piogge; gli alberi, stretti lì, gli uni con gli altri, si elevano verticalmente e estendono i loro rami a una grande altezza, fin dove possono ricevere la luce necessaria per il loro sviluppo. Sotto a questo vasto tetto di foglie, dove mai penetrano i raggi del sole, regna una temperatura uguale ed una umidità costante; lì è anche dove crescono le piante più delicate, piante che non potrebbero resistere all'azion e diretta del sole. In questo suolo, interamente formato da depositi vegetali, si estendono i muschi, i licopodi, le epatiche, e il repensallaccia con i suoi steli carnosi gli alberi caduti di vecchiaia sopra i quali ostenta i suoi brillanti i fiori scarlatti. Nel mezzo di questi stessi alberi abbattuti, escono ancora le felci più belle, la pruinata, specie arborescente le cui foglie arrivano a volte a tre metri di lunghezza. Alcune piante più desiderose di luce, allacciano i loro steli sciolti al tronco dei grandi alberi e si estendono per i loro rami dai quali fanno cadere i loro bei fiori di colore di porpora: tale è il copihue o la lapageria.
Infine, ai bordi delle spaziose radure dei boschi, una bambusacea rampicante occupa tutto lo spazio libero e forma una boscaglia impenetrabile come se fosse destinata a preservare il bosco dagli attacchi dei venti e degli animali.

Questa citazione giallastra dalla ía fisica de la República de Chile, del Cavaliere della Legion d'Onore, membro dell'Università e Capo della Commissioni Topografica, estratta da quella che credo la sua unica edizione, quella del 1875, non è vero che ha qualcosa di tenerezza, qualcosa più divinatorio del nostro paesaggio australe che molte descrizioni letterarie? Sembra a momenti un frammento del grande poeta Juvencio Valle, che ha dato alla nostra geografia vegetale una nuova dimensione mitologica e raggiante. Ma il signor Pissis non indovina soltanto lì, vediamo come nel capitolo di geologia ci dice: “Da questa epoca appare il suolo del Cile come uno di questi antichi sfiatatoi che pongono in relazione l'interno del globo con la sua superficie”. Non c'è anche una equivalenza misteriosa di qualità e difetti nostri in questa osservazione scientifica? Lungo le lunghe coste del nostro territorio, apparizioni, fantasmi, spiriti e chimere si depositano in antichi pozzi, in grandi sfiatatoi che vengono dalle profondità. Maghi e spiritisti, tanto abbondanti tra noi, solamente colgono questa palpitazione tellurica, riconoscono questi eventi indeterminati e li riportano alla misura della dimensione umana, in forma di vaticini o incensamenti. Ma nelle nostre imprese marittime, intellettuali e musicali, anche nella nostra storia, sembra avvertirsi la corrente continua di trepidazione di quelli che chiama Pissis sfiatatoi. C'è qualcosa di vulcanico, raschiato e geologico, nella poesia della nostra Gabriela Mistral, c'è una esplosione siderale in Ángel Cruchaga, scosse, ascensione, ambizioni cotiche, risultato di questo continuo tremore vulcanico.

Passando ad altre cose, nell'anno 1930, alle undici del mattino, un giovane con faccia di spedizioniere entrava con gesto stanco in una camera di un hotel nella città di Giava. Giovane ancora, il suo volto denotava lunghi tragitti passati alle intemperie. Il suo cappello bianco non sembrava comprato di recente. Già aveva conoscenza questa copertura di altri climi e di altre latitudini.
Comincio così questa narrazione, nel linguaggio del 1900, ma, come mi annoio, vi racconterò il terribile segreto e l'enigma: questo viaggiatore ero io, e siamo a Giacarta, nell'isola di Giava.
Tremando per la febbre, mi stesi sul letto, sotto la zanzariera. Avevo già consumato tutti i miei fazzoletti a causa di una emorragia nasale e mi sentivo morire di stanchezza e di febbre, disorientato e solo.
Volevo scrivere un telegramma al mio paese, un telegramma urgente e suonai il campanello per chiedere l'inchiostro. Venne rapidamente un sorridente javanese. Non conosceva l'inglese. Io non conoscevo l'olandese e il malese. Feci tutti i gesti necessari poi in un momento tornò con un lapis. Feci altri gesti, accompagnati dalla parola ,che neppure comprese. Tornò allora con altri malesi sorridenti, tutti con il loro turbante e con il loro vestito immacolato e tutti questi facevano congetture, talvolta sulla medicina di cui avevo bisogno. Ma io chiesi inchiostro per scrivere il mio telegramma e al massimo dell'eccitazione mi alzai dal letto come potei e, correndo verso il balcone dove un signore leggeva il suo giornale vicino a un calamaio e a una penna, li presi e li mostrai al coro di servitori oceanici e, indicandogli il calamaio, gli ripetei con furia: , this
Allora essi, con un sorriso angelico e guardandosi l'uno con l'altro, esclamarono: “Ah!… ”. Da allora appresi che a Giava e nell'idioma malese, la “” (inchiostro) si chiama “” (inchiostro).

In quegli stessi anni mi toccò vivere a Ceilán, vicino a Colombo. Vissi per lungo tempo solo in una costa spopolata, vicino alla foce di un fiume, in cui ogni giorno venivano a bagnarsi dalla mattina alla sera i belli elefanti dell'isola. A volte solo la punta estrema della proboscide usciva dall'acqua come il periscopio di una strano sottomarino animale. Altre volte, semisdraiati e brandendo la proboscide, si versavano con diletto grandi quantità di acqua. Col mio cane passavamo lunghe ore per la costa, ma lo spettacolo degli elefanti sommersi mai lasciò tranquillo il mio cane, che protestò sonoramente ogni volta che li incontrò. Il mio cane si chiamava , che è il nome di ogni cane che ho avuto, perché in una di queste città in cui mi toccò venire a vivere, a me, da poco arrivato e straniero, in una casa grande, improvvisamente disabitata per malattia della padrona di casa. E avevo in quella casa cinque orribili cani di Pomerania, orgoglio della loro proprietaria. Io non sapevo come né dove mangiare io stesso, ero uno straniero e sperduto in quelle regioni e povero solitario, e gli infami cagnolini rifiutavano di mangiare le banane, l'unica cosa che io gli portavo, e poco a poco la loro magrezza e il loro appetito si facevano più formidabili e temibili. Io notai che, per molti giorni e settimane, a un'ora determinata, sempre la stessa, si apriva come per incanto una porta nel fondo della casa e un gigantesco indù della casta dei paria, con un gran turbante bianco e un gran sorriso bianco, alzando le due mani alla fronte e inchinandosi con decisa riverenza mi diceva una sola parola: “sahib”. Io mi inchinavo leggermente e chiudevo la porta, perché in quella terra di tante strane cose e mitologie non mi stupiva che un servitore misterioso venisse ogni giorno a fare davanti a me un atto rituale. Solamente molto tempo dopo venni a sapere che “sahib” voleva dire nella lingua indù semplicemente: “Le porto il mangiare dei cani, signore?”.
Da allora, tutti i miei cani devono chiamarsi , in omaggio a quelle vittime della mia ignoranza, ma sempre era felice quel quando alla riva del mare non vedeva una proboscide di elefante, finché, bruscamente, senza che avessi una foce, in piena costa e avendo come saltato per miracolo la cintura di scogliere che circonda l'isola, un grande veliero arrivò all'alba quasi conficcato alla mia porta di casa. Quasi tutto il giorno guardavamo incantati la forma fine dell'imbarcazione misteriosa. Navigando diritto dalla mia casa solitaria della costa, un gruppo di migliaia di isole ignorate che incontrerete nelle mappe vicino al bel nome di Isole Maldive, si comunicava una sola volta con il mondo con questa barca che arrivava tanto vicino alla mia vita, gonfiando le sue vele bianche attraverso quello strano mare e riportando tuttavia al re che non esisteva, un montone, rami di corallo e un immenso pesce tricolore. Il viaggiatore Pyrar de Laval nel 1608 lasciò scritto di queste isole:

Tutto quello che si incontra sulla riva del mare appartiene al re, affinché nessuno possa appropriarselo: tutti sono obbligati a raccoglierlo e portarlo al re, provenga da dove provenga; chi mette da parte qualche cosa, gli si tagli la mano. Ordinariamente si raccolgono le spoglie di ogni naufragio marino o ambra grigia, che chiamano o , , quando è preparato, materia più abbondante in quelle spiagge che in nessuna altra parte delle Indie Orientali. Si raccoglie anche una noce che espelle il mare qualche volta, grande come la testa di un uomo, simile a due grandi meloni uniti. La chiamano ée dicono che provenga da degli alberi che stanno sotto il mare. I portoghesi lo chiamano cocco delle Maldive; è una sostanza medica di gran pregio. Accade molte volte che gli ufficiali del re e altri agenti, maltrattino la povera gente, quando sospettano che si sono appropriati di qualche éo ambra grigia, o li accusano di aver commesso sottrazione di queste cose per farli indagare e prendere. Se qualcuno diventa ricco in poco tempo, si dice, generalmente, che ha trovato e si è appropriato di éo ambra grigia, come se fosse un tesoro. Si pesca anche corallo nero in gran quantità, che è ugualmente proprietà del re, e gli uomini che lo raccolgono sono pagati per questo…

Poco dopo mezzogiorno ballavano i misteriosi equipaggi e tra musica e profumo bruciato, avanzavano per le strade di Colombo verso la casa del governatore inglese a depositare ancora la loro antica offerta di sottomissione.
Isole Maldive, veliero bianco giunto alla mia dimora, quante volte chiesi di andare verso un altro luogo sconosciuto, verso la fine dello sconosciuto, come se mi sentissi legato, attratto e disprezzato da questi messaggeri delle isole e come, quando chiudo gli occhi, di notte, negli alberghi, nei treni, penso che quando viene la mattina arriverà sempre da dove la sto aspettando, con le vele piene di vento, la nave bianca che dall'oceano remoto porta al mio cuore una offerta di carne, un pesce palpitante e un ramo di corallo!
Tornando a quella casa vuota, la casa dei cani affamati, mi toccò vedere o leggere un dramma lungo, un dramma di nascondigli, di gente nascosta e sola. Nel disordine di quella casa, grande e oscura, con decine di letti e che solo io ed i cani abitavamo, incontrai disseminati in ogni parte piccoli pacchetti di carte chiusi con nastrini. La curiosità mi vinse e aprii uno ad uno i pacchetti. Era qualcosa di grottesco e terribile.
La donna della casa era una vecchietta insignificante, di circa settanta anni, curva, rugosa e di un colore prodotto dall'incrocio di quelle razze d'Oriente. Quelle carte erano risposte di uomini, di soldati, di piantatori inglesi. Essa pubblicava permanentemente sui quotidiani un annuncio di più o meno questo tenore: “Giovanetta recentemente arrivata dalla Scozia, delusa dalla vita, vorrebbe iniziare corrispondenza con piantatore o gentiluomo solo”. Essa conservava copia delle sue lettere, in cui si dipingeva, mai lo dimenticherò, come una giovane “amante degli uccelli e della musica”, “ferita da profonde delusioni”, “di bellezza singolare”. La corrispondenza dei piantatori era primitiva, goffa e ardente. Nella solitudine del whisky e delle piantagioni di Assam, le lettere della giovane sconosciuta recavano un romanzo indescrivibile e il cuore di questi esseri induriti viveva per la prima volta la primavera in questi anni torbidi di solitudine e di sudore.
Gli idilli duravano finché i piantatori arricchiti arrivavano in città, alla stazione dei treni delle ferrovie in cui dovevano incontrare la sconosciuta e delusa bellezza. E lì si interrompevano le carte perché, come penserete, i ricchi piantatori sbarcati con le loro valigie, cercavano nel chiasso della stazione suburbana con gli occhi angosciati la bionda sconosciuta e passavano, senza guardarla, vicino a una vecchietta curva, immensamente piccola, che nessuno aspettava. Tornata nuovamente alla sua casa, una nuova corrispondenza cominciava, dalla stessa fine del triste idillio terminato.

Arrivai a Calcutta nel mese di dicembre del 1929. Si celebrava lì il Congresso di tutta l'India. Una immensa quantità di delegati, più di ventimila, si riunivano vicino a Gandhi e al Nehru in un sobborgo di Calcutta. Tutto il pomeriggio e la metà della notte, il popolo indù portava lì le sue dedizioni, le sue umiliazioni, la sua povertà e la sua speranza. Già si differenziavano le correnti politiche che stanno cambiando il volto martirizzato del mondo. Si poneva all'orizzonte Gandhi, come un magro e vecchio dio cristiano, e spuntava come una nuova stella di speranza il cuore e la coscienza umana del nuovo leader, Jawaharlal Nehru. Talvolta Gandhi, stanco, dormiva lì, alle intemperie, come se dicessimo nella strada, posando il vecchio capo sopra un piccolo guanciale. Qualcuno sosteneva un ombrello sopra il suo sonno leggero, qualcuno con un ventaglio rinfrescava il suo riposo, e da questo sonno corto, di alcuni minuti, tornava a uscire questa immensa energia mistica che ha affrontato il grande Impero. Nehru, del nord dell'India, era in quel tempo molto giovane e molto garbato e molto ben vestito, con queste vesti ampie di color del frumento che usa la gente in Kashmir. E nei suoi occhi profondi, nella tenacità e nella coscienza della sua nuova politica, si vedeva già il novo sangue che andava a riempire il letto millenario.
Io vidi la lotta vinta da Gandhi in un momento drammatico. La corrente di Nehru lottava per la libertà assoluta dell'India. Gandhi voleva soltanto il Status, come passo progressivo per arrivare alla liberazione. Tutto il Congresso era per l'indipendenza. E, all'approssimarsi della votazione un mormorio percorre il Congresso: Gandhi vuole rompere il suo silenzio che dura da tre giorni, che pratica come un digiuno, e vuole dire qualcosa.
Si alza, il corpo leggero, la veste bianca, gli occhiali, la narice appuntita. Vuole soltanto dire che, se si approva la mozione contraria, lui, Gandhi, il Gandhiji, smetterà di mangiare fino a morire. E non c'è più discussione. Viene approvata la sua tesi, la sua tesi timida e vegetariana, e l'India pregherà per il santo, e la sua voce, il suo silenzio si libererà nelle strade, nelle città, nelle selve, nei canneti, ai paria, al bazar: “il Gandhi vuole la nostra salvezza, egli ci guida”.
Quel Congresso, come aspetti dell'India, mi lasciavano un retrogusto salmastro, miscela di disgusto e di incertezza. Mi produce lo stesso rigetto il santo e il vizioso, e tremo per il futuro che si appoggia sopra una sola testa umana.

In questi ultimi anni vagai per il Messico, percorsi tutte le sue coste, le sue alte coste scoscese, incendiate dal perpetuo lampo fosforico. Da Topolomambo in Sinaloa, scesi per questi nomi emisferici, aspri nomi che gli dei lasciarono in eredità al Messico quando in esso si misero a comandare gli uomini, meno crudeli degli dei. Andavo per tutte queste sillabe di mistero e di splendore, per questi suoni dell'aurora. Sonora e Yucatán, Anahuac che si alza come un braciere freddo da dove arrivano tutti i confusi aromi da Nayarit fino a Michoacán, da dove si percepisce il fumo della piccola isola di Janitzio, e l'odore di mais e ubriachezza che sale da Jalisco, lo zolfo del nuovo vulcano di Pararicutín unendosi all'umidità fragrante della pesca del lago di Pátzcuaro. Il Messico è l'ultimo dei paesi magici, magico di antichità e di storia, magico di musica e di geografia. Facendo il mio cammino di vagabondo per queste pietre sferzate dalla pioggia perenne, intrecciate da un antico filo di sangue e di muschio, mi sentii immenso e antico, degno di andare fra tante creazioni immemorabili. Valli scoscese, tagliate da immense pareti di roccia, di quando in quando colline elevate raccordate al piano come da un coltello, immense selve tropicali, ferventi di legno, di serpenti, di uccelli e di leggende, in quel vasto paese abitato fino ai suoi ultimi confini per la lotta dell'uomo nel tempo, nei suoi grandi spazi giudicai che eravamo i paesi antipodi dell'America. Niente è d'accordo con la convenzionale frase diplomatica che fa che l'ambasciatore del Giappone si ritrovi nelle ciliegie del Cile, come gli inglesi nella nostra nebbia della costa, come un tedesco nella nostra neve circondante, che siamo simili, molto simili, dopo tanti discorsi a tutti i paesi. Mi piace la diversità terrena, la frutta terreste differenziata a tutte le latitudini. Non sottraggo niente al Messico, il paese amato, mettendolo nel posto più lontano rispetto al nostro paese oceanico e cereale, persino se elevo le sue differenze, perché la nostra America possiede tutte le sue cappe, le sue alture e le sue profondità. E non c'è in America, né forse nel pianeta, un paese di maggior profondità umana del Messico e dei suoi uomini. Attraverso i suoi deserti luminosi, come attraverso i suoi sbagli giganteschi, si vede la medesima catena di grandiosa generosità, di vitalità profonda, di inesauribile storia, di germinazione interminabile.
Per i popoli pescatori dove la rete si fa tanto diafana che sembra una grande farfalla che torna alle acque per acquisire le squame di argento che le mancano, per i suoi centri minerari in cui, appena uscito, il metallo diventa duro lingotto dalla geometria splendente, per i percorsi da cui appaiono i conventi cattolici robusti e spinosi come cactus colossali, per i mercati dove il legume è presentato come un fiore e dove la ricchezza dei colori e sapori arriva al parossismo, noi deviamo un giorno finché, attraversando il Messico, arriviamo a Yucatán, terra sommersa della più vecchia razza del mondo, l'idolatra Maya. Lì la terra è scossa dalla storia e l'origine e vicino alla fibre del agave crescono ancora le rovine piene di intelligenza e di sacrifici.
Quando si incrociano le ultime strade ed arriviamo all'immenso territorio da cui quegli antichi messicani lasciarono la loro ricamata storia sepolta dalla selva, incontriamo una nuova specie di acqua, la più misteriosa delle acque terrestri. Non è il mare, non è il ruscello né il fiume, né nessuna delle acque conosciute. Nello Yucatán non c'è acqua, persino sotto la terra, e questa si screpola improvvisamente, producendo dei pozzi enormi e scoscesi, i cui pendii pieni di vegetazione tropicale lasciano vedere nel fondo un'acqua profondissima verde e zenitale. I maya trovarono queste aperture terrestri chiamate cenoti e le divinizzarono con i loro strani riti. Come in tutte le religioni, in principio consacrarono la necessità e la fecondità e in quella terra l'aridità fu vinta da queste acque nascoste, dalle quali la terra si staccava.
Allora, sopra i cenoti sacri, per migliaia di anni le religioni primitive e invasive aumentarono il mistero dell'acqua misteriosa. Sulle rive del cenote, centinaia di vergini decorate di fiori e d'oro, dopo le cerimonie nuziali, furono caricate di gioielli e gettate dall'altura nelle acque correnti e profonde. Dalla grande profondità salivano verso la superficie i fiori e le corone delle vergini, ma esse rimanevano nel fango del suolo remoto, sottomesse dalle loro catene d'oro.
Le gioie sono state messe in salvo in minima parte dopo più di mille anni e sono sotto le vetrine dei musei del Messico e del Nordamerica. Ma io, entrando in queste solitudini, non cercai l'oro ma il grido delle ragazze annegate. Mi sembrava udire negli strani gridi degli uccelli la rauca agonia delle vergini, e nel veloce volo con cui incrociavano la tenebrosa grandezza dell'acqua antichissima, mi sembrava di vedere le mani gialle delle giovani morte.
Improvvisamente, sopra la statua che allungava la sua mano di pietra chiara sopra l'acqua e l'aria eterna, vidi una volta posarsi una colomba. Non so quale aquila la perseguitasse, niente c'era da vedere in quel recinto in cui gli unici uccelli, l'dalla voce balbuziente, il dal piumaggio favoloso, il colibrì di turchese e gli uccelli rapaci possedevano la selva per la loro macelleria e il loro splendore. La colomba di posò sulla mano della statua, bianca come un fiocco di neve sopra le pietre tropicali. La guardai perché veniva da un altro mondo, da un mondo misurato e armonico, da una colonna pitagorica e da un numero mediterraneo. Si fermò al margine delle tenebre, mi guardò negli occhi dal momento che io stesso appartenevo a questo mondo originale, americano, sanguinoso e antico, e volò davanti ai miei occhi fino a perdersi nel cielo.

La solidarietà degli uomini soltanto la appresi all'improvviso. Nell'impresa eroica, nella vita eroica, nella resistenza, nella vittoria e nella sconfitta di un popolo.
Vado a raccontarvi la storia di due uomini, ma non di due uomini solitari. Dietro di essi c'è notte e cielo e terra, ma soprattutto un cuore grande di popoli e di storia.
Questa è la storia del generale Herrera, aviatore della Repubblica Spagnola, che alcuni anni fa ci fece visita in una ambasciata straordinaria. Pochi giorni dopo che suo figlio Juan era stato abbattuto ed ucciso dall'aviazione nemica, l'esercito nemico divise il territorio della Repubblica ed arrivava al Mar Mediterraneo.
Il generale Herrera fu incaricato di mantenere un collegamento tra le due zone fedeli, volando ogni notte sopra il territorio nemico. Volava il generale spagnolo con il suo pilota, in un aereo rigorosamente oscurato, nell'oscurità delle noti più oscure. Né la recente morte di suo figlio, né la catastrofe che di avvicinava, preoccuparono il generale Herrera nella sua missione tra le pallottole e il fuoco notturno. Niente più finché - mi raccontava -, annoiato da tanta traversie, in cui avremmo visto colare a picco il cuore più forte, il generale Herrera apprese la scrittura dei ciechi e in questi lunghi, oscuri, tempestosi tragitti sopra le file del nemico mortale, potè l'austero, il nobile generale Herrera, nell'oscurità dell'aereo spento, leggersi nella scrittura in rilievo tutti “tre moschettieri”. Sembrava come se in realtà D'Artagnan stesse accompagnando attraverso la notte quel cavaliere valoroso.
E ora vi parlerò di uno dei nostri, di un sudamericano, di un cubano che giace nel cimitero di Brunete. Alle porte di Castiglia, nel polveroso cimitero di Brunete.

Lì giace per sempre un nome che tra tutti evidenzio come un fiore insanguinato, come un fiore dai violenti petali brucianti.
Questo è Alberto Sánchez, taciturno, forte e piccolo di statura,
capitano di 20 anni dell’Esercito miliziano,
Teruel, Garabitas, Sur del Tajo, Guadalajara,
videro passare il suo chiaro cuore silenzioso.

Ferito a Brunete, dissanguandosi, fugge dalla barella e corre di nuovo
al fonte dalla sua brigata. Il fumo e il sangue lo hanno accecato.
Da tutto il suo corpo esce a fiotti il nostro sangue, e sul suolo di Brunete il suo corpo cade come una bandiera.
Fatta di tutte le nostre libere bandiere.
E lì cade e lì sua moglie, la comandante Luna.
difende al tramonto con la sua mitragliatrice il luogo dove riposa il suo amato.

Era tutta piena di crepuscolo e di sangue la terra
ed essa nel luogo del suo amore difese il suo popolo
finché anche il suo cuore rotolò distrutto e allora la notte arrivò in modo poderoso.
Oggi, qui, tra noi, dopo
averci portato attraverso il mare e la terra,
attraverso uomini e notti solitarie, attraverso la guerra e il tempo,
lasciami, lasciami con questi preferiti dalla mia anima e da voi tutti,
in questo pomeriggio inumidito da rampicante e nuvola, da petrolio e fiamma,
in questo nuovo pomeriggio terrestre, dissanguato dalla ruota del martirio umano,
dissanguandosi tutta la terra, con la libertà dissanguandosi,

ricordiamo chi dorme in Brunete, in Spagna,
dorme perché noi siamo dispersi, perché la terra non albeggi addormentata,
e perché sopra il suo povero cuore dissanguato,
un giorno si oda il vostro passo, il vostro canto, il mio canto,
che canteremo piangendo un poco, sorridendo un poco vicino alla tomba
dei nostri fratelli caduti.

Mi avvicinai allora alla Colombia e dissi ai colombiani:

La vita dei nostri popoli si fa a volte
secca e sterile e dolorosa come un’estensione senza acqua:
la libertà si estingue in qualche luogo, e con essa
agonizza e si estingue la luce delle lampade vitali.
Vediamo nella mappa dell’America
il cielo oscurato, un’ombra che copre anche le stesse ali della sventura,
un paese, una regione, un luogo
per anni e per anni.
Oggi è l’Argentina. Ieri il Perù o domani, sarà possibile?
Dalle frontiere di questi luoghi esce solo il silenzio,
un silenzio mescolato di lacrime sotterrate e oscure,
un silenzio che dorme con una frusta
roteata per le selve.
Tu, Columbia, da mare a mare, da terra a terra,
ospiti il sonoro cuore americano,
bagni l’albero alto dei libri d’America
con il tuo profondo fiume
e vicino all’aquila del Messico e alla nostra stella del Sud,
come una vena di argento e di gelsomino, attraversi
il cuore castigato del nostro continente.

[LA FINE DEL VIAGGIO]

Qui terminano oggi questi viaggi in cui mi avete accompagnato
attraverso la notte e il giorno e il mare e l’uomo.
Tutto quanto vi ho detto, ma molto più è la vita.
A chi di noi è dato di scegliere tra il combattimento e il riposo, tra il pane e la statua?
Chi mi mandò per le strade a raccogliere l’invisibile?
Raccogliamo tutto il visibile e il segreto, il piccolo e il grandioso,
e ci appartiene quanto fu l’esistenza, quanto della bellezza
o della verità potemmo cantare e difendere.

Sì, della bellezza e della verità
intere o rotte perché dalle rovine e dai frammenti
esce nuovamente la vita, come dalla sconfitta
si ricostruisce con lacrime e con spade, la speranza.
Dal vecchio fondo, dal fondo del vecchio mare mai consumato
vi ho mostrato lo smeraldo ed il vortice insanguinato,
e il profondo tappeto che i poeti tessono
attraverso i secoli e l’acqua, nel fondo, più basso delle navigazioni.

Dai vecchi idoli sacri vi porto la colomba,
dalla mano del conte assassinato vi raccolgo la rosa,
e dalla selva del Sud nacqui pieno i pioggia
per mostrarvi vite oscure cadute sulle coste del mondo
e vite che davano un lampo verso una nuova aurora.

Così, dal petto dell’eroina e del suo amato
e da tante lotte amare dell’uomo e di questo tempo
esce come un fiore amaro e orgoglioso irrigato dal sangue
una nuova aurora di petali e profumo, un fiore come il sole o come il pane.
Io ho scelto, io ho preso parte a questa lotta, a questa vittoria, a questa nascita,
ho posto i piedi e il cuore nei nuovi territori straripanti
sorti dalle grandi onde della sofferenza umana.

Lasciai molte volte a lato la clamide che come un rampicante
mi riempì di fulgore innumerevole, ruppi i cristalli ella mia poesia
per prendere parte nel mondo che ci hanno trasmesso,
abbandonai le coste dove si infrange la schiuma
e mi addentrai nei deserti e nelle cordigliere
fino a vedere le valli verdi dove la semenza socchiusa sorride.

E alla fine di questo viaggio impregnato di splendore e miseria,
amici di questo minuto, compatrioti della mia patria e delle altre patrie,
vi invito a combattere con noi stessi e con il nemico.
Con noi fino a terminare con il pregiudizio degli occhi di ragno
la cui tela trattiene i migliori frutti e li fa marcire nel vuoto.
Riuniamoci, lottiamo contro la solitudine condivisa,
e stringiamo con le stesse mani lo stesso stendardo.

Se ho detto molto, non esca dalla tua casa, dal tuo orto, né dalla tua poesia.
È falso, la tempesta non si cura dei piccoli limiti dell’uomo,
finché li distrugge, ma anche distrugge l’uomo.
Mai fummo tanto minacciati, la terra e la famiglia,
il cristallo e il miele, la rondine e il neonato,
e le case immense si abbattono come una coppa di polvere.

Si preparò da molto tempo, con calore di tradimenti,
la caldaia del veleno e delle vaste amarezze
finché per la terra a milioni
gli scorpioni nazisti si trascinarono e adesso, nel naufragio
dal mare escono i capi immondi, appaiono alla nostra frontiera,
e si muovono verso la nostra terra, volendola segnare con linee di bava sanguinosa.
Bella è la nostra terra, che bella è in questo tempo!
Vaporosa, gialla, miscela di autunno e piuma,
miscela di neve e oro.

Patria dolce, ancora ti incontro, dolce patria,
ancora il tuo inverno, il preferito
mi tocca le guance con le stesse dita di brina
che toccarono le foglie fino a lasciare gli alberi nudi.
Già la neve ascese al suo piedistallo scuro,
già si fecero zucchero gli ultimi grappoli.
Già si scopre il legno
dei pinoli e delle castagne:
sono la nostra frutta: come la noce guardata
dentro il suo piccolo baule: il Cile è una mandorla
dentro la sua delicata nave di neve e territorio.

Viva la mia patria, viva il Cile dalla lunga chioma,
ho visto come pettinano nell’estate antartica
i suoi fili cereali di gelsomino e di orzo,
ho udito commentare la cipolla e l’uovo,
ho visto il detrimento di miele della mela,
ma sotto la nostra terra
non solamente le radici preparano la dolcezza,
ma anche il ferro, anche il rame, anche gli acciai
studiano la disciplina della terra e della pietra.

Fratelli, alziamo questa pianta,
difendiamo la pietra, curiamo le radici,
vicini sotto la terra stiamo tutti vicini,
vicini al mais, vicini al fagiolo nasciamo,
vicini al salnitro, vicini al rovere e alla vite rampicante stendiamo
la stessa mano giovane che il nitrato rovescia,
la stessa vecchia mano che il metallo fissa.

Benedetto sia quando fosti creato
nell’aria magnifica del Cile:
qui la pietra si trasforma in dea
e la dea ha sparso la sua semenza
di scrittori, minatori, avvocati e musicisti,
meccanici, maestri, marinai, presidenti, poeti.

Chi è contro la patria? Chi osa

toccare questa effigie di ricordo e di bosco?
Chi disse che il cileno è sudicio e debole?
Che la sua lingua sia tagliata.
Sono andato per il mondo senza climi come l’aspro
vento di Magellano, come i deserti del rame e della sabbia,
e non c’è patria come la nostra,
non c’è dolce patria come la nostra patria,
non c’è terra né zolle come questa fertile forza,
non ci sono uomini né donne come quelli che abbiamo.
Il brandello non è attaccato alla pelle del popolo.
La fame non può essere abitante della nostra bella terra.
Con le nostre proprie mani puliremo l’effigie del popolo,
perché brandello e fame cadano nel passato,
tornino alle tenebre e la statua di bronzo
del popolo brilli nel mezzo del nostro territorio.

Stiamo uniti oggi per sempre, cileni.
Come mi piace il bacio di questo nome sulla mia bocca:
cileni: questo nome degno, dolce e sicuro,
è arrivato alla mia bocca, come il pane impastato
dalle mani cilene arriva fino al forno,
terra e fuoco finale della nostra propria stirpe.

Lodata e difesa sia la patria.
Riuniamoci, fratelli, dalla profonda origine
del frumento fino al nostro pane di ogni giorno.
Uniamo le nostre mani con le mani del mondo

perché così si veda il nostro sangue nell’aurora.


Testo elaborato per strati: in Messico e Cuba (1942)
la versione di base, in Colombia (1943) ed in Cile
(1943 - 1947) i ritocchi ed integrazioni. Raccolto in
Viajes, 1947 e 1955. Propongo la versione
OC II, pp. 556-579 con lievi correzioni.


V
RITORNO E DECISIONE
(1944-1945)

Sangue in El Salvador!


Ci sono Americhe. C'è il Messico. C'è la radiante America del Costa Rica, la piccola e dolce e silvestre repubblica che conosce la libertà. C'è l'America colombiana in cui le eredità lampeggiano e dando uno schiocco non si sa se di finale o di principio si imprigiona il nuovo Gómez, il Laureano, chiudendo le porte di smeraldo alla tirannia.
Esiste l'Uruguay come un acceso raggio marinaio separato per le sue immense acque fluviali dell'inquinamento terribile.
Esiste il Cile, la fresca e libera fronte della patria, ed esistiamo per difendere le sue libertà e la sua libertà.

Ma per quelli che in Costa Rica, in Colombia, in Uruguay, in Messico, ed in Cile non abbiano conosciuto altro che i minerali della statua, bensì l'aria dei liberi, bensì la coscienza, è molto difficile oltrepassare questa America oscura, miscuglio di sterco e leopardo che si alza come una tenebra maggiore, come un Polo sinistro nel nostro nord.
E nell'immensa fatalità dell'America Centrale governata dai nemici di Morazán, incatenata dagli oscuri istinti di un'altra epoca, assoggettata dal più sanguinario ed amaro del nostro continente, oggi voglio dare una voce, alcune parole, alcune lacrime al castigato popolo di El Salvador.
Già da molti anni soffre una piccola, ipocrita, dispotica, crudele e fatidica dittatura. Il tiranno Martínez che fa leggere
Il libro egiziano dei morti e molto della dotrina teosofica ai suoi ministri, fece assassinare solo a sangue freddo in una repressione uguagliata dai nazisti in Polonia e Russia 19.000 (diciannovemila) dei suoi compatrioti.
Questo solo dieci anni fa. Non ci furono cimiteri per le vittime. La peste e la piaga si alzò dal marciume. I villaggi furono bruciati nella loro totalità per evitare più cadaveri.
Da quel forte odore di fumo e sangue bruciati rimase solo un ricordo pallido perché gli uomini dimenticano con la morte i nomi del boia. Sulle ossa crescono le piante tropicali e su esse il servile ed il velenoso servitore del despota.
Ma oggi come se al bicchiere delle torture dell'America fossero necessarie alcune gocce più di aloe orrendo, vediamo che il sangue si alza un'altra volta in El Salvador. Gli uomini liberi che si sollevarono contro il dominio spaventoso, i coraggiosi che invocarono la nuova era delle libertà americane, sono massacrati a sangue freddo in queste stesse ore, sono perseguiti nei cortili di quartiere e nella selva, cacciati come bestie.
Onore agli eroi morti! Onore a quanti in terre di endemica tirannia lottano la nostra lotta, muoiono perché l'America sia intero un continente pulito.
Ma chiamiamo anche, prima che sia inutile, affinché il primo accordo del Giorno Americano fermi l'ascia del boia inmolatore delle libertà di El Salvador. Ricordiamo ai suoi rappresentanti che ancora è tempo di fermare il sangue, il nostro sangue.

Isla Negra, aprile 1944

El Siglo, Santiago, 15.4.1944


Argentina: ascolta quello che la mia patria ti dice

I

Altre volte sono venuto a parlare con voi
di qualche associazione, di qualche posto, di qualche paese dell'America.

In questo 4 di giugno (anniversario popolare del Cile) non vi parlo a nome di nessuna parte, di nessun angolo,

vi parlo in nome di tutta l'America, a nome della libertà della nostra America.

II

Per fare questo, per nominare questo nome, affinché questo si chiamasse l'America,

non bastava un nome, bensì un cognome, e questo cognome è Libertà. L'America si chiama l'América Libertà.

Primo fu la scoperta delle sue selve inesauribili, dei suoi fiumi misteriosi:

l'America era un favo il cui miele traboccava,
fino a che degli oceani arrivarono gli uomini e gli apprendistati del mondo.

III

Ma fino ad allora la tana del bufalo vicino all’Alaska
ed i templi sepolti sotto i rampicanti dei nostri fratelli del Messico,

ed il tronco di Caupolicán, partabandiera della nostra geografia,
erano il velo misterioso della nuova fidanzata del mondo.

IV

Arrivarono i mercanti, arrivarono gli sfruttatori da tutte le regioni dell'Europa,

attratti per l'aroma di rame e zucchero che esalava
la fidanzata piena d’oro, la nuova fidanzata del mondo.

Fino a che si fece matura la nostra terra,
fino a che si sposò con Washington ed O'Higgins,
con San Martin, con Morelos, con Sucre e con Bolivar,
fino a che si chiamò Signora Libertà.

V

Così la conosciamo noi cileni.
L'America è, per noi, libera.

In questa mattina libera della nostra patria pestiamo i gradini
di questo teatro che si chiama Caupolicán,

per nostro padre araucano padre della libertà
del Cile. Ma non solo questo teatro e questo posto,
né questo giorno,

bensì tutti i posti sono liberi per il cileno, tutti i giorni,
e tutta l'aria e tutta la terra del mondo.

Nascemmo per essere liberi e quando vi parlo a nome del cognome dell'America,
i cileni vogliamo che tutta la la grande e confusa America, che tutto il continente

viva l'aria sacra che respiriamo nascendo: non vogliamo schiavi in questa patria né in nessuna.

VI

Costò sangue di uomini, militari e civili,
affinché ondulasse la nostra bandiera in La Moneda e nell'Università,
in Sangra, in Rancagua, nel Nord, nel Sud.
Si chiamavano Carrera, si chiamavano Freire e Mackenna, Camilo Henríquez si chiamavano.
E si chiamavano, popolo senza nome e senza cognome, quelli che lottavano

affinché la stella sacra brillasse sull'azzurro sacro
sopra alla frangia di sangue sacro che ci copre.

VII

Non ricordate? Fratelli, Manuel Rodríguez giurò che al fascista franchista Marcó del Pont
gli avrebbe dato l'opportunità di conoscerlo. Si mascherò da mendicante e gli aprì,
la porta della carrozza: dal fondo di essa,
il povero tiranno gli tirò alcuni centesimi,

ma il mendicante gli rispose con occhi
in cui brillava lo sguardo del puma del Cile.

VIII

Ci sono oggi lacchè che ricevono quei centesimi.
Fino a ci sono oggi schiavi che credono in Marcó del Pont e Franco.

Ma il popolo del Cile apre la carrozza per riconoscere il nemico
ed il pretendente a tiranno non trova in fondo il viso di un schiavo
bensì gli occhi freddi ed abbaglianti di Manuel Rodríguez.

IX

América Rodríguez: America della libertà e del sangue, oggi ti saluto,
perché vedo minacciato il patrimonio che ci trasmettesti
come madre impeccabile.

Perché crediamo arrivato il giorno amaro di riconquistare
quello che alcuni dei tuoi figli rivelatori dimenticarono.

Che cosa hanno fatto i tuoi figli in America Centrale? Hanno fuso la catena affinché il despota sanguinante ti martirizzasse.

Che cosa hanno fatto i tuoi figli in Guayaquil? Oggi, ieri svegliarono
America Sucre, America Bolívar, quelli che erano addormentati,

ed in El Salvador da poco risuonano le catene rotte.

X

Che cosa fanno i tuoi figli quando la libertà del mondo
come nei vecchi tempi è rinchiusa?

Stanno tutti uniti per difendere il tuo cognome?

XI

So solo che la mia patria, so solo che Cile, l'Antartide
di remote nazioni rispettata per libero
né a straniero dominio sottomessa per libero
sta vigilando di giorno e di notte, per dovere e per libero.

XII

Per questo oggi l'Argentina, nostra sorella abbondante, ci riunisce.

Parliamo lentamente, ascoltiamo.
Che succede? Non si sente niente, fratelli.

Non sentiamo, non ascoltiamo, non si sente!
Che cosa vi è successo? Perché tacete? Vi hanno rubato le vostre bandiere?

Ma le vostre bandiere, fratelli argentini, sono le nostre,
rispondete.

O è che le lacrime non vi lasciano parlare? Che succede?

Abbiate fiducia! raccontateci tutto!
Qualche usurpatore, qualche traditore sta rubando la patria

e vi sta mentendo?

Rosas si è alzato della sua tomba sinistra?

Parlate, tutta questa lunga patria vi sta guardando.

XIII

Quando arriva la notte ci addormentiamo sotto lo stesso lenzuolo di neve,
per questo noi esigiamo libertà: per questo non dormiamo, sorella,
fino a che possiamo alzarci allo stesso sole dei libero.

XIV

Sorella l'Argentina, qui speriamo e lottiamo per la tua vita
e sappiamo quello che lotta il tuo paese per risollevarsi.

Non credano i falsi consiglieri che si prendono il nome del Cile
per indurire le tue catene, sorella.
Non credere che un certo minuscolo personaggio rappresenti la terra
perchè Sarmiento accettò come palazzo per il suo pensiero.

Il Cile aspetta la libertà del giorno di domani, e non si sbaglia il Cile
né Franco né Bolivia né tiranno alcuno
hanno ingannato questo popolo che conosce la libertà.

XV

Argentina Sarmiento, Argentina, Argentina,
non si sente niente. Senti, ci ascolti?
Non vogliamo comprarti niente, non vogliamo
venderti niente: Senti, sorella?
Argentina, Argentina,
Argentina:

ascolta quello che ti diciamo all'orecchio:

XVI

Rosas è un verme che non vale la tua polvere.

Franco Marcó del Pont è morto tempo fa,
Hitler ha rovesciato tutto il sangue invano.
Le tirannie le porta via la pioggia
verso i cimiteri, e se la buona pioggia
non arriva,
il tuo popolo scoperà con le sue bandiere
l'altare abbagliante della patria.

XVII

Argentina: all'orecchio ti diciamo: Alzati.
Sorella, guarda la nuova neve

che cade, non ti seppellire, non morire, alzati

perché mano nella mano lottiamo e vinciamo.

Perché il Cile non vive con una sorella morta.

Ed oggi ti tende la mano che ieri tu gli tendesti

quando dell'altro lato arrivarono i tuoi giganti
a rovesciare il sangue che ci diede la tua nascita.

XVIII

Chiamaci Argentina: i tuoi fratelli crebbero,
e possono restituirti il sangue versato
affinché stiamo insieme sulla neve libera!

El Siglo, Santiago, 11.6.1944.


Sonetto per Angelo Cruchaga Santa María,
inviandogli una farfalla di Muzo

La farfalla il tuo sguardo spera
Il gabbiano le tue acque illumina:
Sono le due unità della sfera:
Il fuoco azzurro e la metà marina.

L'aria delle ali ti venera
Ed il sotterraneo del sale più fine
Insignisce le tue tempie profetiche
Con alta neve e professione di miniera.

Al tuo chiaro stendardo di legno,
Di puro sonno, di matura cera
Aggrega queste due ali mattutine

Che sperano, Angelo, vederti nei marciapiedi
Delle città e le primavere
Circondato di bandiere albertine.

Santiago, casa Michoacán, 6 Luglio di 1944


Parole per Alejandro Lipschütz

L'Alianza de Intelectuales mi incarica dire le ultime parole di questa notte, ultime in suono ed in udito, perché subito ritorneremo ai circostanziali compiti delle nostre vite, e perché tanto alte e tanto profonde parole come difficilmente quelle che qui si sono dette troverebbero continuazione in me.
Quello che devo dire, si è detto, ma i fatti e le cose non sono solo scarna sostanza bensì portate e correnti che nella sua propria velocità si stanno trovando in aumento. Ed in questa ora continuano a trovare aumento i nostri fatti e le nostre forze - le forze della dignità e la cultura - per il solo fatto di essere e per il transitorio fatto di essere negate. Il fatto di essere ed essere combattuto, il fatto di esistere e lottare, l'avvenimento innumerabile di circolare nella vena più profonda del pianeta, della vita di questa mela terrea, di portare ed aumentare il sangue più profondo e più scosso, la corrente della conoscenza, della creazione e della rivoluzione, cioè, dell'avvenimento mai immutabile, della crescita storica, fare parte per diritto e per battaglia di questo divenire universale, ci mantiene orgogliosi difendendo le posizioni che veneriamo per essere l’unico fertile e l’unico vivo dell'esistenza.
Questo è il caso dell'eminente amico, dell'eminente fratello maggiore che oggi celebriamo.
Il professore Lipschütz è condottiero venerato di quello che siamo e saremo perché vogliamo esserlo. Non raggiungeremo forse la permanente magione a cui i suoi frutti sono destinati, perché in tutti gli ordini, anche in quello della gioventù, ci sorpassò di tale maniera che la sua forza e la sua sicurezza, i suoi risultati e la sua grandezza si estesero già per tutte le terre, dalle gelate aree del Baltico dove nacque e che oggi sono liberate da soldati coperti di neve e di gloria, fino a queste terre, gli ultimi austral che gli hanno dato un poco di tranquillità, dove possa continuare ad ardere la sua lampada che investiga la verità dell'uomo nel suo interiore segreto e nel suo interiore amaro.
Nel burrascoso e nel rassicurato di questi giorni, abbiamo visto Alejandro Lipschütz vincere ostacoli innumerabili per avvicinarsi e sillabare le frasi della verità, e comporre la pagina ammirabile, la formula terminante che ci va tirando fuori delle tenebre e che costituisce un'altra volta le eredità del Cile, perché egli, per noi, come Sarmiento e come Hansen, come Lenz, come Gay, come Bello, come Filkenstein, come Rubén Darío, come Hostos, portò da terre lontane la materia che ci ha fatto costruire la patria, lasciandoci l'eredità sacra che difenderemo.
Non c’è niente di strano che improvvisamente nella nostra propria terra, qualche pietra si lanci contro l'edificio che ci appassiona. È condizione dell'uomo produrre il gigante ed il nano, il signore dallo sguardo abbagliante e scrutatore, e la talpa delle regioni oscure alimentata con l'oscurità del passato, orgogliosa dei suoi piccoli tunnel meschini. Non è necessario discriminare in questa casa aperta ai combattimenti del mondo da quale lato stiamo, il fatto di unirci oggi vicino a Lipschütz, come ieri ci unimmo vicino ad altri uomini rivelatori dello spazio culturale della conoscenza umana, rivela che in Cile, siamo attenti, intelligenti per fortificare, soddisfare e definire quello che ci spetta e ci appartiene.
Il nuovo libro del professore Lipschütz è uno delle più significative e serie attestazioni della nostra realtà americana. È un libro di profondità e di dettaglio in cui il nostro continente, coi suoi problemi razziali, i suoi drammi e le sue ipocrisie, è elevato per virtù della verità ad essere parte pertinente del mondo senza zone razziali oscurate dallo stupido disprezzo o dall'ignoranza servile di chi si crede ombra di conquistatori.
Qui finirono i conquistatori. Tutti siamo esseri umani, equivalenti nella vitalità americana, neri, mulatti, americani e meticcii, nuovi ed antichi abitanti di queste praterie che chiamiamo America, nei quelle che da poco tempo con le prime case costruiamo il primo rispetto per la saggezza e l'intelligenza. Per questo anche speriamo di rompere quello che le piccole talpe uscendo dalle loro tane tramano per incatenarci perché l'America è più che ogni aria, e soprattutto aria libera, aria libera sulla terra libera. Abbiamo una bandiera di aria, una bandiera di aria libera, di aria azzurra che protegge il mais ed il grano dalle Americhe, la spada di Bolivar ed i lavori di Alejandro Lipschütz.
Non vogliamo minacciare nessuno. Vogliamo che nelle nostre terre nessuno prepari il coltello dell'odio razziale, vogliamo che in questa fortezza dei liberi viva e decida quello che più sappia e quello che più canti, quello che più lavori e quello che più voli, e neghiamo diritto a chi oggi, nascosto da una tribuna che non merita, voglia avvelenare i fiumi torrenziali e verginali dell'America india e ispanica, e negra, aizzandoci contro l'indio o il bianco o il nero o l'ebreo. Qui vivremo in pace, come lo statuirono quelli che rovesciarono la vita per questo pianeta libero: qui non tollereremo l'odio né il veleno che i falsi intelligenti ed i decrepiti negrieri volessero spargere affinché non cresca in questo fresco spessore la tigre razzista la stessa che adesso sgozza nei pantani della Polonia e vicino alle cattedrali gialle della Francia la Dolce.
Non vogliamo minacciare, ma che lo sappiano: come oggi parliamo soavemente in questa riunione fraterna, decisiva e solenne per l'altezza e la bontà che ci conferisce l'investitura eminente del nostro amato e venerato maestro Alejandro Lipschütz, siamo disposti domani, affinché lavori tranquillo a montare la guardia con un fucile nelle porte della sua casa. Non mancherà un minatore né un contadino né un soldato che c'accompagni.
Ma speriamo che mai tale estremo sia necessario. La nostra vita legale, la nostra tradizione immacolata garantisce che non può essere altro che così. Il nostro eminente compatriota lavorerà tranquillo, investigherà come fece durante tutta la sua feconda vita i misteri dagli esseri e le sue relazioni speciali. Le talpe continueranno sotto la terra nelle loro piccole caverne ed i grandi alberi dorati per il largo sole dell'America si alzeranno ogni giorno fino al maggiore splendore, fino a spargere per il mondo intero i frutti che sapemmo difendere.

El Siglo, Santiago, 19.8.1944.


Versi alla maniera di López Velarde
per il pittore Waldo Vila

Nella tua pittura australe bagno le mani
come sotto la pioggia o in un piano.

Waldo Vila, il tuo viso è un prugno
con due piccoli petali di cielo.

Nella tua pittura la bandiera sale
dalla primavera fino alla nuvola.

Waldo Vila, la tua anima è di legno
come una buona casa nella frontiera.

Nella tua pittura la chitarra prega
sulle trecce della natura.

Waldo Vila, il tuo cuore
dà grappoli di zucchero e pace come una vigna.

Nella tua pittura colonizzatrice
la patria è rosata ed azzurro come nell'aurora.

Dipingimi, Waldo Vila, da oggi tutto il futuro
con la festa che vola dalle tue dita pure.

Prestaci il tuo legno di ciliegio fecondo
per nascere di nuovo e vedere come te il mondo.

El Siglo, Santiago, 16.9.1944.


Su "Teheran" di Browder
SOBRE "TEHERAN" DE BROWDER. (Pagine 537-540.) Questo lodevole commento del volume Teheran, di Earl Browder, è uno dei pochi testi che forse Neruda vorrebbe non avere pubblicato, a parte i suoi poemi adolescenti, come si sa. Il titolo del libro di Browder alludeva alla conferenza dei Tre Grandi, Churchill, Roosevelt e Stalin, nella città di Teheran alla fine di novembre del 1943. "Quando il risultato del conflitto bellico era già visibile ed era naturale e conveniente pensare al dopoguerra, il Segretario Generale del Partito Comunista degli Stati Uniti, Earl Browder, cominciò a far circolare per il mondo e specialmente in America Latina una concezione idealistica del futuro. Secondo lui, ci sarebbe un punto di fusione tra gli interessi del capitalismo e dei paesi dipendenti. [...] Il "browderismo" ebbe influenza sui partiti comunisti del continente, alcuni dei quali perfino cambiarono il loro nome e persero di vista la sua carta di avanguardia. Il Partito Comunista del Cile fu uno dei meno colpiti da questa deviazione, benché non smettesse di pensarci". (Luis Corvalán, De lo vivido y lo peleado. Memorias, Santiago, LOM Ediciones, 1997, p. 46.)

Leggere Browder è venire a sapere con chiarezza certa delle cose. È capire quello che ci sono in esse e dietro esse. Pochi o nessun scrittore politico possiedono come Browder la scienza di scrutinare nei fatti ed ordinarli in grande sintesi. Quello che per molti è attualità caotica, fenomeno incomprensibile, perfino magia del destino, si trasforma in Browder in eloquente geometria, in architettura convincente, in quello che tutti devono capire.
Dopo il suo
Victory and After, eloquente trattato dell'angoscia del mondo in guerra, analisi chirurgica di verità amare e trascendenti orgenze del paese nordamericano, è qui che Browder ci consegna, alla sua Teheran, Our Path in War and Peace, l'esatta misura di quello che succede: la misura della speranza che albeggia per il mondo in crisi ed anche il tracciato lineare della pace che sarà fatta per sicurezza e beneficio di tutti gli uomini.
Da quello discorso giustamente celebre, "Teheran and America", lanciato nel gennaio 1944 alla faccia delle due Americhe come una fotografia anticipata del mondo nella sua aurora di fiamme, Earl Browder, presidente oggi dell'Associazione Politica Comunista Nordamericana, ex capo e per tanti anni conduttore indimenticabile del Partito Comunista degli USA e delle avanguardie democratiche del Nordamerica, non aveva consegnato un documento di tanta importanza politica e morale come questa altra chiamata austera alla coscienza del mondo e specialmente del nostro emisfero.
Perché Browder ci illumina con la sua propria luce dialettica, col suo poderoso riflettore di penetrante marxismo, tutto il vasto campo universale a che diede accesso Teheran, l'accordo dei tre grandi per finire la guerra in comune e forgiare tra tutti il ferro collettivo della pace che viene. Qui, in queste pagine tenaci, di dura analisi e categorico stile, rimane in chiaro come Teheran è l'uscita di luce dopo il tunnel nero di Monaco e come non c'è guerra senza politica e come i paesi avevano bisogno di una garanzia per continuare a lottare e questa stessa garanzia per sapere che non lo facevano invano.
Tutta quell'immensa proiezione, quella di una guerra totale liberata finalmente con un criterio integrale ed unico per i guerrieri della democrazia e di una pace che si elabora come metallo fuso dentro il forno della propria guerra, è quello che Browder lascia magistralmente in evidenza. Tutto ciò, e la certezza che a questa conflagrazione non potrà seguire il caos, né la lotta intestina, né l'avidità imperialista, né la guerra di mercati, né la sottomisione dei paesi ritardati al giogo ignominioso di economie generatrici di nuovi fratricidi, è quello che emerge, come una predica irresistibile di grandi fatti universali allineati come basi su una mappa, di questo libro che è più che una tesi e più che una visione o una predizione.
Il contenuto e limiti dell'alleanza dell'URSS con l'USA e la Gran Bretagna, la ricostruzione mattone per mattone dell'Europa lacerata, la liberazione dell'Asia miracolosa dagli artigli economici che l'incatenavano e la consegnavano al fascismo, il risveglio dell'Africa nera e la stabilizzazione del turbolento Vicino Oriente ed infine il nostro destino, il destino dell'America Latina minacciata dal fascismo del dopoguerra, tutti ed ognuno degli angoli del mondo guardati dal prisma di questa guerra che costruisce per sé stessa la solenne struttura del dopoguerra, tutti essi stanno concepiti matematicamente, con una severa sicurezza, in questo nuovo libro di Earl Browder.
Il destino immediato del nostro continente, il suo sbocco a quello che viene per l'umanità, rimane fisso per tutto un periodo storico nelle parole di Browder:

Deve dichiararsi con ogni franchezza che la responsabilità di cambiare oggi le relazioni esistenti ricade, per equità, sugli Stati Uniti. Questa è la necessaria conseguenza del principio che la responsabilità si accompagna al potere. E non solo sono gli Stati Uniti il più poderoso fattore, come entità separata, nell'emisfero occidentale: è anche l'UNICO che può stabilire un PROGRAMMA COMUNE di scala e portata sufficiente a sommergere nella sua immensità tutti gli interessi creati speciali.
Quello che evidentemente esige la situazione è che gli Stati Uniti diano il primo passo, proponendo un programma comune di sviluppo economico dei paesi latinoamericani. Questo dovrebbe essere pianificato ora e posto in movimento immediatamente dopo la guerra: nell'amplísima scala proporzionata alle immense riserve latinoamericane di terre, materie prime e manodopera, ed alla capacità angloamericana di apportare capitali e creare mercati per i prodotti dell'industria pesante.
Affinché simile programma sia davvero realizzato in comune, bisognerà riconciliare gli interessi di ogni vertice del triangolo. Per i paesi dell'America Latina dovrà garantire la più scrupolosa salvaguardia della loro indipendenza nazionale, insieme ad elevare rapidamente il loro livello di sviluppo e benessere economico e tenda a stabilire un'economia equilibrata dentro ogni paese, evitando i mali del vecchio sistema coloniale della monocoltura, di eccessiva specializzazione. Al capitale angloamericano gli offrirà un enorme e sicuro mercato, dove si assicuri l'utilità ragionevole e l'ammortamento entro il periodo prefissato. Gli inglesi e gli americani daranno per finita la loro rivalità senza freno, assegnandosi ad ognuno la sua parte dentro il progetto comune, dentro un accordo proporzionato alle loro passate attese e le loro capacità presenti (pagine 82 e 83 di Teheran).


E dopo, desideroso come patriota nordamericano di fissare i contorni del suo proprio paese in questa opprimente responsabilità del mondo immediato, con la sua responsabile scrupolosità di sempre, Earl Browder ci consegna il segreto della situazione vera in Nordamerica: le caratteristiche dell'economia smisurata, le possibilità di una nipote economica comune, la carta delle
unions nella composizione dell'unità interna degli USA, e soprattutto, più in là di tutto lo specificamente americano, la tradizione jeffersoniana che assicura non solo il diritto delle maggioranze a governare il paese a beneficio non solo di esse bensì in rispetto delle minoranze, polverizzando una volta per tutte la discriminazione razziale, l'anticatolicismo e le mille forme in cui Hitler volle combattere l'Unione Sovietica dentro il proprio USA.
Ancora qualcosa più: la trasformazione del Partito Comunista degli USA in un'associazione politica per la diffusione di una dottrina scientifica, invece di una collettività dedicata alla cosa parziale, alla cosa elettorale, all'esclusivamente politico. Questo ultimo, la dottrina studiata e propagata con fervore di catecumeno e la libertà di ogni comunista per affiliarsi al partito che migliore gli quadri e scegliere o essere scelto nella lista o combinazione che meglio rappresenti lo spirito della nazione nordamericana partorendo il futuro del mondo, questo ultimo, è quello che non capiscono alcuni tardi, quello che non possono capire i "di sinistra" o i trotskisti deplorevoli, i demagoghi ed avventurosi della parola e la falsa azione di masse, questo ultima circonda questo libro di Browder come una bandiera di colori su una grande montagna.
Teheran, entrata alla luce; Europa, Asia, Africa, le Americhe, in ricostruzione o edificazione; gli Stati Uniti cristallizzando questo forzato laboratorio del mondo; il Partito Comunista nordamericano integrandosi al corpo politico della Nordamerica e fortificandosi come magistero dello spirito ed indice della volontà. Questa è
Teheran. Il nostro sentiero nella guerra e nella pace, libro di un direttore per suoi diretti, di un maestro per i suoi alunni, di un politico, interprete del tempo, per i pochi che, in Cile come nel mondo, fanno la politica senza capire il mondo in cui vivono.
Per tutti insegnamento, ammonizione, avvertenza, canone da seguire, strada dove è segnalato il mondo che albeggia, è
Teheran.

Principios, organo del Partito Comunista del Cile,
num. 43, Santiago, gennaio 1945.


Saluto al Nord

Nord, arrivo finalmente al tuo selvaggio
silenzio minerale di ieri e di oggi,
vengo a cercare la tua voce ed a conoscere il mio,
e non ti porto un cuore vuoto:
ti porto tutto quello che sono.

Perché la Patria porta nella cintura
forse un ramo di copihue in fiore
ma nello splendore della sua figura
porta brillando nella sua testa oscura
una corona di sudore.

Nord, fino nelle lontane allegrie
delle umide terre coltivabili
brillano le gocce che gli desti:
tutta la Patria è insignita
col sudore della tua giornata:
perché tu lavori la Patria esiste.

Graffiando il metallo delle tue radici
l'uomo ti riempì di cicatrici
e caddero in un alveo di schiuma
i silenziosi sali di salnitri
arrivando alle tue città marine
dalla pampa di colore di puma.

Affinché arrivi fino al tavolo il grano
nella più dura viscera sta la tua mano.

Sta sempre in lotta il tuo metallo umano
con tutti i metalli nemici.

Voglio lottare con te, fratello.

Voglio nel tuo territorio riarso
passare il mio cuore come un aratro
così seppellendo il seme ardente.

Voglio cantare tra la tua forte gente.

Voglio anche sentire la voce rassegnata,
la canzone della pampa rimossa
come il cuore del pampino,
vecchia canzone che stringe la gola
con un nodo di lacrime che canta
le amarezze del destino.

Vecchia canzone di dolore e disubbidienza
uscita del sangue e l'agonia
come una lacrima che esplode,
e che porta nelle sue sillabe sanguinanti
i semi del vento ed il temporale
nate sotto la mitraglia.

Voglio che stia la mia voce negli angoli
della pampa, toccando le zolle,
e si elabori con il nitrato il canto,
ed un'altra volta si sollevi trapanando il risentimento,
e voglio che il sangue mi spruzzi
quando sulla pampa piove pianto.

Quando rodi al fondo, fratello duro,
bruciato, infossato, abbattuto, ferito,
ed in una cassa le tue ossa torneranno al posto oscuro
dove il tuo cuore battè il primo battito
come il tuo primo colpo di pala sul muro.

Io voglio stare con te nel giorno giallo
di Sierra Overa e di María Polvillo,
quando mette la polvere cenerina
di notte, di pomeriggio e di giorno
coprendo col suo manto lento
il sonno, il pane e l'allegria.

Come una campana di argento
la mia voce più alta e più sicura
che il tuono di Chuquicamata,
per la pampa, terra dura,
per la mano del minatore,
per gli occhi spianati,
per i polmoni rotti,
per i bambini compassionevoli.

E per gli avvallamenti di mistero
come sgretolati monasteri,
i soffitti rotti, le vuote porte,
rimangono come domande demolite,
vicino ad un mucchio di tombe sparse,
i solitari uffici morti.

Voglio che stia il mio canto dove anticamente
col suo sguardo grigio ed i suoi capelli di stagno,
Recabarren, il padre, cominciò la sua giornata,
da bordo a bordo del deserto,
con la stessa bandiera che porto alzata.
Perché Recabarren non è morto.

La Pampa egli è. Il suo viso è la piana,
il suo viso è la rugosa superficie
della Pampa, come egli aspra e fine,
la sua voce ci parla ancora per la bocca del vento,
il suo vecchio abito sta nell'accampamento:
il suo cuore sta nella miniera.

E qui viene Lafertte. Lafertte viene ora
passo a passo, lottando, decifrando l'aurora
sulla pampa tutelare
che sudore, sangue e lacrime nella notte silenziosa
accumulò aspettando l'alba
che ci vedrà trionfare.

Arde una stella nell'ombra pampinea
come una lancia azzurra, come una spina
sotto la notte capitale.
Arde nelle solitudini nemiche
come una rosa azzurra, come una spiga
sul nitrato ed il metallo.

Sull'infortunato nella sua agonia,
sull'alba e l'allegria
che come il mare ti lavi.
Nord, lascia che canti sul tuo petto amico.
Io voglio che la Patria stia con te.
Voglio che il Cile ti accompagni.

Autorizza la mia voce nei tuoi deserti
tra la tua valorosa gente, tra i tuoi morti,
vicino alle rocce del tuo litorale
affinché si sparga nelle tue ginocchia
come un fiume di spighe gialle
il nostro canto di pampa e di campo di grano.

Il nostro canto di terra e di promessa,
il nostro canto di pane sul tavolo,
il nostro canto di nuovo minerale,
la nostra canzone di imbarcazioni e di fabbriche,
il nostro canto di solchi e di miniere,
la nostra parola di UNIONE NAZIONALE.

Io voglio vicino al mare dei tuoi metalli
celebrare le tue città litoranee
che germogliano della sabbia desolata,
Iquique azzurro, Tocopilla fiorito,
Antofagasta di luce costruita,
Taltal, colomba abbandonata.

Arica, fiore di zucchero e bianchezza,
della nostra dolce Patria fronte pura,
rosa di sabbia, fiore distante,
tocca il Perù il tuo testa pampinea
e come una lucciola marina
anticipi la Patria al figlio errante.

Cile, quando si fece la tua figura,
cagliata tra l'oceano e l'altezza
rimanesti come torcia illuminata.
Il Sud forma la tua verde impugnatura.
Il Nord costruì la tua forma dura.
E sei, Tarapacá, la fiammata.

Patria, la libertà è la tua bellezza.
E per difendere il tuo fuoco puro
qui stiamo i tuoi figli attorniati,
quello che uscì dalla caverna oscura
e quello che è per i mari rovesciato,
il costruttore sulla sua architettura
fino all'agricoltore dal suo aratro:
insieme attorno alla tua figura
perché la Libertà ci ha chiamati.

El Siglo, Santiago, 27.2.1945.


Sonetti punitivi a "S"
SONETOS PUNITIVOS A "S." (Pagine 545-547.) Probabilmente scritti durante il furore della battaglia elettorale di Tarapacá ed Antofagasta, questi sonetti potrebbero alludere a qualche oscuro giornalista che si distingueva per il particolare fervore anticomunista dei suoi scritti editi in qualche quotidiano del nord, influenzato dalle compagnie del rame e del salnitro. Potrebbe trattarsi di Rene Silva Espejo, più tardi vicedirettore di El Mercurio. La menzione di un certo Osvaldo potrebbe corrispondere ad Osvaldo de Castro, magnate del salnitro e del rame, proprietario del quotidiano El Tarapacá di Iquique le cui astuzie e manovre di arrogante impresario gli valsero il motto di La volpe del deserto, parodiando quello che fu applicato - con molto altri meriti - a Rommel.

I
9 A. M

All'editorialista di un
quotidiano mercenario


Serpente, hai preparato il tuo veleno?

Ofidio editrore, ti sei preparato
per mordere la mano del cileno,
del cileno nella pampa seppellito?

Bagna la piuma in marciume e fango,
rimescolala in quello che hai escrementato,
sommergila nel tuo fetido duodeno:
tutto il tuo sterco ti sarà pagato!

Tutto il tuo accanimento, il tuo veleno oscuro,
trasformalo in righe di impostura,
in tonnellate di calunnia fredda.

Tutto il tuo pus, il tuo reuma, la tua amarezza,
la tua carta, il tuo rancore, il tuo morso,
tutto lo pagherà la Compagnia!

II
12. M.

Ad un editorialista
mercenario


Bestiolina, se il fegato ti duole,
bestiolina, se il colon ti deprime,
se la milza ti fustiga e ti demolisce
e la vescicola ti si comprime;

se il tuo addome in acido ardente
ed il tuo intestino in bile si converte,
e nelle tue viscere vedi, minacciante,
il giallo volto della morte,

non ti lamentare delle tue afflizioni:
la tua ispirazione sta nelle tue secrezioni,
le tue ulcere ti danno più che un terreno!

Non soffrire! Non decadere! Non ti affliggere!
perché tu solo tra le bestioline
hai industrializzato il tuo veleno!


III
5 P. M.

All'anima "pulita" di un
editorialista mercenario


Bestiolina, una casa di approvvigionamento,
una grotta di topi ed informatori,
un bacio per Osvaldo nel posteriore:
quella è l'anima pulita che comporti.

L'anima che sporcasti per denaro
e vendesti con tutti i tuoi angoli,
anima di sagrestano e di montone,
miscuglio di marciume e discorsi.

Anima che si offrì agli interessi
di negrieri, di yankee, di scozzesi
di chi ti paghi più per il veleno

che la tua sinistra bocca di serpente
lascia cadere dai suoi neri denti
sulla pampa dell'onore cileno.

Tres hojas volantes, Santiago, s.p. de i., 1945.


Il giro di Sarmiento

Chi batte la porta, chi tocca le soglie?
Che severo passo si sente, che ombra si avecina?
Di chi è il severo sguardo che si avvicina?
Chi viene solitario sulla neve andina?
È il vecchio Sarmiento che ritorna.
La notte un'altra volta cade sull'Argentina.

Aprite senza ostacoli le porte della Patria
Affinché la sua testa stanca riposi
nell'aria e la luce di Cile che egli amava,
sulla terra libera che conosce.

La frusta di Rosas si alza di nuovo:
le tigri di Facundo corrono per le steppe
dove maturava la vita del suo paese.
Sarmiento non poteva riposare nella sua terra.

Dalla Germania il seme malvagio
volò per crescere nel campo argentino.
E la notte di Rosas, la notte carceraria
riempì di oscurità e dolore le strade.
Per questo alzò l'orgogliosa testa
come un antico dio del suolo americano,
come un albero ombroso di arroganza e tristezza,
e contemplò la notte di una volta, la notte del tiranno.

Ed un'altra volta intraprese la marcia alla frontiera
dove potesse stare il suo pensiero,
ed un'altra volta le nostre porte di altezza e cordigliera
videro passare l'ombra severa di Sarmiento.

Il suo cuore palpita un'altra volta nella casa
che amò, nell'asilo contro gli oppressori,
il suo vecchio cuore è come un seme
che venne a germinare tra le nostre zolle,
per questo lo aspettavamo ora come prima,
fino a che esca il sole oltre i monti.

Gran rifugiato, sei la tua patria esiliata,
riposa e lotta: è questo il tuo solo comandamento.
Siediti e mangia il nostro pane di nuovo,
ritorna a noi un'altra volta il tuo pensiero.
E non restituiremo la tua ombra peregrina
fino a che da tutta l'estensione argentina
venga la Libertà a trovarti, Sarmiento.

El Siglo, Santiago, 25.5-1945.


Discorso (con interruzioni) ringraziando
un omaggio per il premio Nazionale
di Letteratura 1945
DISCURSO (CON INTERRUPCIONES) AGRADECIENDO UN HOMENAJE POR EL PREMIO NACIONAL DE LITERATURA 1945. (Pagine 549-555.) Il testo fu pubblicato così, con le interruzioni ostili di una o più persone che il quotidiano non identifica.

Un'altra volta mi vedo obbligato a ringraziare per la vostra generosa amicizia che edifica un circolo tanto alto e fraterno attorno alle mie parole, come una riunione di grandi alberi oltre i quali la tempesta si trattenne.
State circondando con sollecitudine esagerata, come per preservarla della grandezza notturna, la mia espressione, la mia poesia, che si alimenta e palpita in questa notte centrale come un piccolo braciere americano che la vita ed i suoi doveri mi ordinarono di accendere. Volete che non finiscano questi carboni oscuri che accumulai nel fondo di me stesso e che arsero con le tappe della primavera incendiata di questo tempo. Ed avete avuto, con singolarità che reclamano orgogliosamente i figli della nostra bandiera australe, uomini di diversa formazione e radice, di diversa opinione e di ideale diverso, l'idea di riunirvi vicino ad un poeta al quale conoscete non solo per la sua opera ma anche per i suoi combattimenti.
Devo dire che la lotta di questi anni strazianti è stata tanto profonda in me come la mia propria ed organica poesia. Ho cantato con l'anima ed il corpo, in maniera confusa e chiara, scoscesa o stellata, e posso dire che il più profondo posto del mio canto, da dove anticamente germogliavano i roseti, apparve irrigato per me ogni giorno di questo tempo con una goccia inesauribile del martirio umano.
La mia creazione fu per quel motivo forse persa per molti, e per essi fu meglio quando camminai per i litorali dell'anima che quando entrai alla tempesta del mondo. Valutando quanto volete preferire nella mia poesia, mi fate conoscere mio propria varietà, e quando venite ad accompagnarmi non vi chiedo di abbandonare niente del vostro poiché avete rispettato ed incoraggiato il mio condizione combattente.

UNA VOCE:
Sì, ma Lei tradì la poesia, i poeti, un sistema di pensiero umanista e disinteressato, Lei abbandonò le sue scoperte segrete, non ci parla Lei della magia, né di André Bretone, è Lei un pompiere, un propagandista, Lei è troppo comprensibile, troppo chiaro dove sta il mito, dove sta la magia?, io ho letto Kafka, Apollinaire, il marchese di Sade, e Picasso e Paul Éluard mi sembrano sublimi.

A me sembra sublime ogni contribuzione profonda devota alla cultura umana, venero il misterioso segreto musicale della tribù totemica, dalle nascite abbaglianti delle grandi lingue poetiche con Chaucer, con Villon, con Berceo, con Alighieri, passando per il piano galante di Ronsard, per la furia e la pietra preziosa di Shakespeare, per la forza forestale di Bach o di Tolstói, fino a Stravinsky e Shostakóvich, fino anche a Picasso e Paul Éluard. La magia e la costruzione sono le due ali del volo permanente della cultura, ma credo traditore della poesia quello che si allontana dal falò in cui la cultura si sta bruciando, invece di riscattarla, benché stia bruciandosi le mani. Credo di essere stato fedele difensore del più segreto e misterioso e della più popolare dell'eredità culturale quando ho alzato la mia voce per difendere quella continuità, e non ho chinato la testa per sognare sonni vuoti in mezzo all'artiglieria o delle rovine, e credo di difendere il futuro integrale dell'umanesimo quando la mia azione tende a che la cultura si estenda fino ai più vasti settori che domani consumeranno quello che produrranno i nuovi creatori. In quanto ad Apollinaire ed a Kafka, mi sembra che siano più i miei amici che suoi, e molte volte ascolto nel silenzio imponderabile qualcosa di profondo e vivo di essi che si comunica con me. A volte, il mondo prende quel silenzio di cattedrale o di riva oceanica, prima o dopo grandi avvenimenti, ed in quel momento ascolto le sue parole silenziose e mi dico: prepariamo il mondo affinché domani tutti possano ascoltare le grandi voci morte nel silenzio che soltanto può concedere la dignità uguale di tutti gli uomini.

UNA VOCE:
Lei è un demagogo. Inoltre, Lei è un poeta oscuro che nessuno capisce. Io ho appena letto questo nel mio quotidiano favorito. Lei scrive in geroglifici. Nel nostro quotidiano abbiamo un gran scrittore con barba che ride di Lei tutti i giorni. I comunisti del nord lo scelsero senatore.
Lei ci portò i rossi spagnoli. Lei sta contro la patria, la famiglia e la casa. Lei obbedisce alle consegne di Mosca. Lei è nemico dell'ordine. Lei ha due case. Le avrà rubate, perché questo è un paese di ladri. Rubano ad uno nel tram, per strada, da tutte le parti. Per il resto, io leggo il quotidiano più rispettabile, e lì non lo nominano. Quando lo nominano lo chiamano Neftalí Reyes... Quello mi piace. Ed inoltre, che cosa gli ha dato per parlare dei nazisti? I film, quelle che stanno dando dei campi di concentramento sono propaganda. Che gran paese Germania. Bisogna trattarla con considerazione. È il paese di Beethoven. Niente odio. Una pace giusta, questo è quello che dico. Ed attenzione con l'imperialismo...

Lei, cavaliere verde, parla come molti uomini di questo tempo, conservatori di quello che non crearono, distruttori in nome del più permanente, patrioti che rodono e spezzano la patria ciascuno giorno, stretti e sterili egoisti della gran internazionale umana che ancora sussiste: quella della cieca brama e quella dello sterile egoismo.
Ho due case pagate, una dalla mia poesia, direttamente dalla casa editrice al proprietario, ed un'altra dalla nostra Cassa di Impiegati Pubblici. Sono due belle case che sono arrivato ad avere con orgoglio e che mi ricordano ogni giorno i miei doveri ed i miei diritti. Non ho tolto niente a nessuno. Ho dato quanto ho potuto.
Per il resto il Cile non è un paese di ladri. È un piccolo paese, ma pieno di onestà e di coscienza. Il suo popolo è dei migliori popoli, se ci sono migliori o peggiori popoli. Per me non ce nè uno meglio di questo, perché è il mio e perché arriverà ad essere come lo vogliamo noi che lottiamo affinché ogni giorno esista con maggiore dignità. Quando diciamo patria diciamo anche popolo. Quando diciamo carbone per l'inverno, c'è popolo dietro il carbone, che lo tira fuori da miniere infernali nel freddo del Sud. Quando diciamo pane, c'è grano sulle alture dorate dell'estate, ma ci sono mani del popolo che lo seminarono e lo portarono di posto in posto fino alla tua bocca. Quando diciamo salnitro io ricordo un pale che vidi nel nord. Sono delle pale per rimescolare il salnitro nelle sporte: queste pale vengono dagli Stati Uniti, dal legno più duro affinché resistano il caldo terribile della sporta. Tuttavia non durano più di un mese. E guardando le pale, usate per un mese, vidi che in ognuna le orme delle mani erano entrate, profondamente, e le dita erano marcate fino ad un centimetro nel legno duro. E pensai che il Cile sta tutto segnato, ancora nella sua maggiore durezza, da queste mani oscure del popolo che hanno lasciato la vita nella sua impugnatura.
Popolo, famiglia, patria, casa, Cile, patria marina, patria di pietra e neve, patria dolce e desolata, implacabile nel temporale di sabbia del deserto, implacabile nella tormenta di neve antartica, dolce fino alla delizia nelle tue frutta e nel tuo vino, nella qualità delle tue donne e dei tuoi uomini: chi mi dica o mi pensi antipatriota, che gli cada la lingua, marcia di vergogna. Di notte e di giorno, assente nelle più lontane solitudini, presente, dormendo o pensando alla tua aria meravigliosa, ti ho percorso mille volte col mio pensiero come ad un corpo sacro ed adorato. La tua fronte misteriosa di rame ed arenili, le tue valli strette di delizia, le tue montagne bagnate che mi insegnarono a sognare, la tua costa di argento selvaggio, il tuo fine oceanico, quando i tuoi piedi nudi si immergono nelle ultime solitudini del mare del mondo. E per me fino ai piccoli angoli di mattone celeste con la sua insegna che dice "Magazzino Il Ramo", o il grandioso macchinario di Chuquicamata, o i crisantemi di questo autunno o un rimorchiatore entrando in Valparaíso, sono quello che io più voglio, quello che più difendo, quello che questa notte e giorno mi dicono di cantare. Però voglio vederlo tutto popolato da gente felice, non alcuni, bensì tutti, da genti senza stracci, da cileni che portino con orgoglio questo nome orgoglioso.
Questo non si chiama odio, lo chiamiamo amore, amore, dovere di amore.
Io voglio un ordine di amore per il mio popolo e per tutti i popoli. Perciò accompagnai gli spagnoli, affinché qui potessero costruire il loro amore, quando furono espulsi dall’odio. Perciò troviamo che nell'orizzonte del mondo c’è una gran nazione che superi le basi morali del vero cristianesimo ed appoggiata nella scienza costruisca un gran sogno di amore sulla terra. E questo sogno della vecchia umanità è definito da un gran potere, da una scienza, da una storia, da una rivelazione senza termine. Non ci sono più consegne che quelle della ragione. Ogni volta è più chiaro il panorama del mondo, il piano di cooperazione universale per una pace di giustizia, ma di punizione, per una pace permanente e feconda. Io sono anche un soldato di quella pace, di quella giustizia e di quello futuro. Io ho lottato in questo tempo per quelle realizzazioni. Non sono pentito. Vicino a me sono stati i migliori della mia patria, molti dei quali siete presenti, ed i migliori del mondo. Domani, ci sarà tutto il mondo.

UNA VOCE:
Lei non è un poeta, è un cattivo poeta. Io sono grande. Io sono grandioso. Io vengo da Maometto e da Confucio, e dagli inni runici, passando per l'Ecclesiaste. Lei è l'autore di un poema chiamato "Farewell." Ha, ha, ha.
Mi metto in viaggio per sparlare di Lei e di tutti, e la terra intera trema con le mie creazioni. Io si che sono rivoluzionario. Lei è un subpoeta, Lei non esiste. Nessuno esiste. Io esisto.

È lei la voce dell'invidia. Non ho niente da dirgli.
Ho abusato forse questa notte portando a questo tavolo fraterne ombre e problemi che arrivano alla mia strada. Se si trattasse di ombre personali non le avrei invitate. Sono ombre corrosive che spiano nel mondo che sorge.
Ma sarebbe invalida questo veglione al quale sono venuto coi miei spettri se non sottolineassi la fraternità e l'altezza della vostra presenza. Voi avete incoraggiato in un senso isolato, in altri senso opposto, o in alcuna delle sue linee totali il fuoco che il destino mi portò ad accendere. In tutta la mia strada c'è incontrado i vostri sguardi di amicizia positiva o le vostre forze, molte volte sconosciute, per restaurare in esse la mia fatica passeggera. Credo come nessuno nella lealtà e l'amicizia, credo nella bontà e nella verità collettive, perché esse sono i pani che si dividono tra tutti gli uomini. Ed il fatto che personalità tanto decisive nel nostro cultura corno D'Halmar, Àngel Cruchaga ed Alfonso Bulnes che non solo rappresentano le loro istituzioni ma tanto poderosamente definiscono la qualità della nostra letteratura, significano più che un omaggio personale, un esempio di unità creativa. E quelli che come Jan Havlassa, scrittore illustre e ministro della sua nazione eroica e drammatica, l'associato culturale della Francia, e mister Reginald Close del British Council, portano anche un'eco del largo mondo che nasce, di un'unità che nasce dal suolo trapanato dal sangue.
Ed a voi, rifugiati di tutti i paesi che portate l'alito dello spirito salvato della tempesta, salute! Specialmente fratelli rifugiati politici dell'Argentina e Bolivia, siate tranquilli mentre riconquistate la libertà, le stelle che illuminarono la testa argentata di Sarmineto brillano ancora nel cielo libero del Cile. Ed a tutti voi, amici, compagni di sempre o compagni da oggi, voglio dirvi: ci è toccato vivere un'epoca che riempì di crudeltà ed abominio la terra. Ma vicino alle pustole di Buchenwald, attorno all'inferno di Dachau, dietro le prigioni e le esecuzioni che scuotono ancora l'anima severa della Spagna, l'uomo si è alzato da tutte le parti all'altezza dall'eroismo, alla conquista delle dignità sepolte. I poeti ed i combattenti dell'URSS e delle nazioni unite, i morti e quelli che soffrirono l’esilio, hanno creduto che l'odio passeggero sarà sostituito da un progresso appassionato. Io ho quella stessa fede. Ma quella fede me l'avete data anche voi. E questo silenzio di voi è come il silenzio carico di semi della nostra terra, della nostra patria. Seguito dalla vostra fiducia hanno continuato a cadermi al cuore i pesanti semi di pianto o di allegria, di angoscia o di speranza, che formano lettera a lettera le sillabe della mia poesia. Se quelle sillabe caddero nelle vostre mani amiche, nelle mani del mio popolo, per crescere domani nel silenzio della patria sono contento. Nessun poeta potè ambire a maggiore grandezza.
Molte grazie.

El Siglo, Santiago, 24.6.1945. Discorso letto
nell’atto di omaggio offerto al nuovo premio
Nazionale di Letteratura per il PEN Club,
Sociedad di Escritores de Chile ed Alianza
de Intelectuales.


[Pro museo Vicuña Mackenna]

Nessuna figura nella storia del Cile è più profondamente radicata di quella di Vicuña Mackenna. L'ansietà collettiva che si sente respirare nei momenti più critici della nostra cronaca civile riconosce in lui al padre dei suoi sentimenti: vive nel paese il patriota puro che era Vicuña Mackenna, il paladino della libertà e del progresso. Perciò la sua immagine la troviamo tante volte - scolorita dagli anni - nelle povere officine degli artigiani dei paesi come una protezione tutelare.
L'acquisizione della casa che abitava nelle tappe fondamentali della sua vita, per stabilire in essa un museo nazionale dedicato alla sua memoria, è un debito col paese. Credo che il disegno di legge che presento il governo per soddisfare questa aspirazione generale dei cileni, sarà approvato dal Congresso in forma unanime.

El Siglo, Santiago, 17.10.1945.


[Alberti in Temuco]

Come sapete la mia poesia uscì da queste praterie e di questi boschi, delle vecchie case con infiltrazioni del quartiere della Stazione, dove il fischio dei treni nelle notti di pioggia e di freddo mi annunciava il ritorno o la partenza di mio padre nel suo infaticabile treno di zavorra. Nella mia strada per le terre ed i mari trovai amori e dolori, il tesoro sacro della vita, la visita ai fuori porta ed ai confini, alle capitali bordate d'oro, ed alle steppe lontane delle terre perse.
Avrei voluto portarvi quanto trovai nella vasta estensione, perché quanto brillò nella mia strada, lucciola notturna, stella, fiore o libro, la relazionai con la mia terra lontana, la unii nel humus del mio cuore a queste grandi selve australi di dove uscivano ricordi indivisibili. Ed oggi la fortuna mi ha dato il privilegio di portarvi il tesoro vivente di quello che più amai: la fraternità e la grazia, la profondità e la prodezza, in questi due miei fratelli che camminano senza terra e senza patria, parlando lo stesso linguaggio che noi, ed esaltandolo raramente con grandezza raggiunta. Li conobbi nella Spagna felice di prima della guerra scatenata in lei e dopo in altri paesi per l'oggi sconfitto fascismo, sconfitto ahi! da tutte le parti, meno in Spagna. Essi compirono il loro dovere, e la poesia del primo poeta della Spagna, Rafael Alberti, come la testa dorata di sua moglie, María Teresa León, stettero vicino al loro paese fino all'ultimo minuto della resistenza.
Poi arrivò la notte tenebrosa sulla Spagna ed a questa notte che non è finita dobbiamo quelli che arrivano oggi alle porte della frontiera, a comunicarci un po' del loro accumulato fulgore. Essi mi sentirono parlare per strade di Madrid di questa regione originaria del mio canto, ma mai immaginai che la storia li avrebbe condotti un giorno ad essi tanto fraternamente amati, e tanto rispettati dentro la fraternità, fino alle stesse porte delle selve australi, fino ai fiumi e gli uomini dell'Araucanía australe.

MARÍA TERESA, RAFAEL, queste terre non hanno più tradizione che quella del vento selvaggio che batte la cima delle montagne, e non ebbe più frutto che l'aspro grappolo dell'araucaria della cordigliera.
La vecchia razza di Arauco lasciò le sue lance e le sue frecce per le strade, vicino ai suoi morti innumerabili, e ritornò ai suoi telai ed i suoi sonni pastorali. Tu che li hai appena visti, Rafael, sai anche la distanza ed il tempo che sono passati tra le strofe reali di Don Alonso de Ercilla e questi occhi di terra solitaria che ti hanno guardato oggi dalla sua profondità misteriosa. Poi vennero i treni e le macchine ed il grano estendendosi come un'immensa piastra d’oro per tutto il territorio del sud, e le città che crescono come giovani agguerrite cantando vicino al mare. Dopo queste terre comincia già l'immenso arcipelago, le acque magellaniche e la notte bianca dell'Antartide.
Molto conoscete già e molto vi rimarrà da conoscere nella nostra patria comune americana, dal Messico sacro fino all'oceano fluviale che taglia al Brasile come una coltellata gigantesca. Ma state in questo momento nelle terre che più amai, circondati da cuori estesi e semplici, e da una natura che non potrete mai dimenticare.
Ora vi tocca lasciar cadere in questa silenziosa terra il seme che in voi veneriamo, quella dall'alta intelligenza perseguita, quella dell'amore castigato, quella della luce errante.
La profonda notte australe si alza dalle montagne. È ora di ascoltare.
Raccontaci questa notte, Rafael, le strade, le feste e le battaglie della tua poesia, ci siederemo come ad ascoltare un fratello che ritorna da un lungo viaggio. E tardate molto, quanto volete, perché gli esseri di queste latitudini guardano molto, ascoltano largamente, e conservano il ricordo di quello che abbiamo amato per più di un inverno, per tutta la vita.
Ti lascio la parola per questa notte, aspettando la voce di María Teresa, col giorno di Natale tra voi, perché sia per Temuco un doppio regalo che c'invia attraverso i mari, la Spagna repubblicana, la Spagna che amiamo e che riconquisteremo.

El Diario Austral, Temuco, 25.12.1945. Introduzione
ad una conferenza di Rafael Alberti nel Café Central.


Rafael Alberti e María Teresa León

Da questo posto cominciai anni fa a parlare della Spagna per tutti i paesi e profondità dell'America, di quella Spagna ieri spianata e ferita ed oggi di nuovo dimenticata e tradita.
Oggi, sono orgoglioso di presentarvi questo doppio fulgore, questa coppia spagnola sulle cui fronte dorate sono agganciate l'aurora e l'agonia, che la loro patria ci mostrò e che rimasero scritte con fuochi indelebili nella terra del Cile.
Rafael Alberti, primo poeta della Spagna, combattente esemplare, fratello mio:
Mai immaginai, tra i fiori e la polvere da sparo della pace e della guerra a Madrid, tra le verbene e le esplosioni, nell'aria di acciaio della piana castigliana che un giorno ti avrei dato in questo posto le chiavi della nostra capitale accerchiata dalla neve, e ti avrei aperto le porte oceaniche ed andine di questo territorio, che, secoli fa, Don Alonso de Ercilla avrebbe lasciato fecondato e seminato e stellato con la sua violenta ed ultramarina poesia.
María Teresa, non immaginai mai che quando tante volte condividemmo il pane ed il vino nella tua casa generosa, avrei avuto la fortuna di offrirti nella mia patria il pane, il vino e l'amicizia di tutti i cileni.
Perché qui vi aspettavamo tutti, Rafael, María Teresa. Vi distingueva il mio paese, non solo come altezzose e solitarie figure dell'intelligenza, bensì come pellegrini della patria chiusa dal sangue e l'odio.
Nessun paese in America sentì le sventure della Spagna come il nostro paese, e nessuno è rimasto tanto leale come noi alla vostra lotta e la vostra speranza. Non pensiate, María Teresa, Rafael, ai governi che si associano superficialmente ai compromessi universali della vigliaccheria, ma entrando in Cile toccate la porta o il petto di qualunque cileno e vi presenterete a ricevere il cuore di un paese che non ha riconosciuto mai Franco. Questo ve lo diranno gli uomini e le donne, i bambini ed i vecchi della mia patria, e perfino le pietre delle strade in cui la mano del paese scrisse con brutta ortografia, ma con più coscienza che un ministro laburista, la sua maledizione a Franco, ed il suo amore appassionato per la Repubblica popolare, della quale siete figli erranti ed ambasciatori risplendenti.
In questa terra di poesia e di libertà, siamo contenti di ricevervi, giovani creatori della poesia e la libertà che difendeste a fianco del vostro paese. E poiché arrivate alla fine del Pacifico, la più lunga strada del pianeta dato al mondo da altri spagnoli pellegrini, che sia anche questo il punto di ritorno, perché quando in tutta la terra germina la libertà, avete più diritti di ciascuno di reclamarla per gli spagnoli, poiché foste i primi a combattere per lei.
Cari fratelli: vi amavamo da tanto tempo che quasi non necessitavamo ascoltarvi. La vostra poesia e la vostra condizione di valorosi illuminavano da qualunque angolo le numerose terre americane. Avete voluto attraversare le più alte nevi del pianeta affinché guardassimo in questo minuto vertiginoso del mondo i vostri due nobili visi che rappresentano per noi la dignità del pensiero universale. Guardate voi anche il viso innumerabile del paese che vi accoglie, entrate cantando, perché così lo vogliamo, nella nostra primavera marina, toccate tutti gli angoli minerali del largo cuore del Cile: perché lo sapete già, Rafael, María Teresa, ve l'avranno raccontato già le chitarre: quando il paese del Cile dà il cuore, lo dà intero e per sempre ai quali come voi, in modo tanto alto, seppero cantare e combattere.
Qui li avete: per la loro bocca parlerà la Spagna.

1945

Santiago, dicembre. Testo edito
in PNN, pp. 87-89.


VI
VIAGGI 3
(1942-1943)


Viaggio al Nord

VIAJES 3. VIAJE AL NORTE. (Pagine 560-579.) Qui, e nel precedente "Saludo al Norte", Neruda sottolinea come la sua opposta prospettiva di uomo del Sud arricchisce l'elaborazione verbale della sua nuova esperienza. Il testo documenta la passione e la sincerità con cui Neruda fa convivere il senatore ed il poeta nella sua scrittura. Notevole il passaggio che comincia "Entro en la casa de máquinas (Entro nella casa delle macchine)" la cui visione degli strumenti immobili e dei vecchi ferri minacciati dall'ossido poteva essere messa in connessione con l'ottica adolescente di "Maestranzas de noche", in Crepusculario, e con la coetanea di "La helga (Lo sciopero)" in Canto general, XI, XIII (OCGC vol. I, pp. 127-128 e 729-730). Conferenza tenuta a studenti dell'Università del Cile durante il grande sciopero del salnitro nel 1946.

Che non sia rivelata la pampa totale, la sua desolazione e la sua bellezza dagli alti minerali di Huantajaya. Da lì contempliamo l’aspra e opalina immensità. Le pianure si estendono da lì, e lì anche si accalcano in moltitudine, le colline serene. Il sole del pomeriggio fa affluire verso le sue linee tagliate, soavi colori che nascono dalle ocre eterne, le vette di verde pallidissimo, i soavi gialli cereali, gli stacchi del violetto, le punte come diademi di porpora impolverata. Co- me in mille immensi colli di colomba selvaggia il colore dei gessi levigati dal vento e dal cielo, aderiscono a infinite miscele che si ondulano e si alzano: la pelle calcinata della pampa si gonfia e si immobilizza, un teatro di pezzi metallici, di soavi seni e gole turgide, si raggruppa e si stende ricevendo nella sua abbandonata nudità i raggi segreti che il sole lascia cadere sopra le più alte e pure solitudini.
Io che sono aborigeno australe, abituato alle campagne e ai boschi, ai
copihue e alle felci impregnate di grossa rugiada sotto l’ombra maestosa dei larici, lascio in Huantajaya una delle più belle visioni della terra. La terra della pampa, senza vegetazione, né uccelli, né animali, è uno spettacolo che dobbiamo tenere nel recondito o per sempre tutte le gocce di sensualità che avemmo nel contemplare gli altri paesaggi del pianeta. Lì sta la terra nella sua reggia di diamante invisibile, nelle sue pieghe di arenile e estensione. Lì sta la geografia pura, fissata in un paesaggio strano e astratto, aereo e terreno. Da lì iniziano anche i duri e dolorosi cammini dell’uomo.
Davanti alla miniera abbandonata, vicino a una discarica di latte e rottami di ferro, perché il resto, il tempo e il vento lo ha disperso, c’è il vecchio cimitero della miniera. Questi cimiteri della pampa sono tutti uguali: un piccolo monte di croci storte, scompigliate, battute dal vento salnitrico, circondate da una moltitudine polverosa di carte che un giorno furono corone. Non c’è molta differenza tra questi acerbi camposanti e le abitazioni degli uomini. Lì, anticamente vennero i cortei dei duri abitanti della pampa caduti nell’incidente: le ossa triturate e bruciate, le dita contratte nell’ultimo lavoro. I bambini che non ottennero di sopravvivere, e le eroiche e consumate compagne degli uomini. Tutta questa razza ha un putridario aperto al vento e alle stelle che le dettero l’unica bellezza in questo mondo e vicino agli accampamenti miserabili questa patria di croci senza nome e senza steccato, è una tappa in più, un altro movimento compiuto dal lavoro doloroso.
Tempo fa ci fu agitazione nella pampa. Gli abitanti della pampa volevano che le compagnie recintassero i cimiteri. Volevano che la loro morte ed i loro morti fossero rispettati. Vi fu un inizio di sciopero. I cimiteri sono rimasti così. I cadaveri non interessano alle compagnie. I vivi interessano poco. I morti non hanno significato. E lì rimangono per tutta l’immensa pampa questi ossari abbandonati, questi operai morti a cui nessuno, mai, porterà i rossi fiori che amarono, questi cimiteri distrutti, spaccati, triturati dalle intemperie, come le povere vite che lì si fermarono.

Quaranta anni fa, Lafertte lavorò in queste miniere d argento e sua madre fu maestra della piccola scuola. Siamo arrivati con un altro minatore come Lafertte, di Huantajaya, José Luis. I due si addentrano nell’abbandono. Li vedo sparire cercando la scuola. Non rimane una traccia, una parete, una porta, un segno di quella né delle abitazioni. Li guardo da lontano indicare il suolo con un palo, e discutere soavemente sulla vita scomparsa. Delle vecchie lotte e allegrie soltanto rimane questo detrito di vetro e ferraglia, questo spazio nelle alte cime dove passarono la ingordigia ed il lavoro, l’argento e il sangue.
Qui come in altre miniere di metalli preziosi c’erano minatori che riuscivano a nascondere introducendoli dentro il proprio organismo grossi lingotti di argento che poi commerciavano clandestinamente. Si dice che
Monos o Cangalla, come si chiamavano questi pezzi di metallo tanto disperatamente ottenuti, arrivavano a pesare cinque chili. In certe epoche saltava fuori nel villaggio in personaggio forestiero: don Jacinto, o come lo chiamavano a Iquique, don Jacinto de Huantajaya. Passeggiava vestito di una redingote per un corridoio determinato, instancabilmente, tutto il giorno. Ogni tanto spariva per alcuni minuti in una porta in cui anche un minatore spariva furtivamente in un’altra porta della stessa casa. E i lingotti entravano nelle tasche di don Jacinto de Huantajaya. Adesso nell’aria vuota, tra l’immondizia, mi sembra di veder passare senza fretta e senza sosta, su un corridoio fantasma di una casa che non esiste, il vecchio picaro delle miniere. Mentre Lafertte e José Luis continuano a esaminare le ombre di ieri, entro nell’edificio dell’amministrazione che ancora sta in piedi. Case signorili di finestre senza vetri da cui il vento che avanza scuote le carte accumulate al suolo. La carta delle pareti cade in grandi pezzi, e si unisce ai plichi dei contratti. Alzo uno di questi. Antonio Bustamante: 55 anni, lavoratore a giornata, sposato, eccetera.
Dove sarà in questi giorni Antonio Bustamante? Per la pampa o in altri lavori oscuri? O nel piccolo cimitero, sotto le croci secche e contorte?
Entro nell’edificio delle macchine. A guardare l’abbandono sembrano essersi fermate solo ieri. Il ferro resiste più dell’uomo ed a guardare le vecchie macchine ferme, con le loro mole di fina precisione dove l’ossido comincia a imprimere la sua ombra color del tempo, penso che i ferri appartengono a questa solitudine, sono parte aggressiva, agganciata, tritatutto di questo luogo. C’è qualcosa di immensamente crudele nel suo sonno. Si risvegliano i nostri divoratori.
E quando chiudo le porte dell’edificio delle macchine per abbandonare i minerali di Huantajaya e seguire la strada della pampa, la porta, per salutarci con i suoi cardini ammuffiti risuona acutamente, come un gemito di bambino di ferro che rimane per sempre solo nelle solitarie sommità del vento minerale.
Nella storia sotterranea di queste miniere c’è una storia di talpe, di oscure talpe del sistema, del capitale perforatore e disonorevole. Due compagnie, due padroni ebbero questi giacimenti e questi dai loro uffici, seduti sopra i loro numerosi servitori e schiavi, si fecero profonde riverenze, e si dedicavano, da uguale a uguale, le più sottili gentilezze. Ma il gruppo di uno dei proprietari, esaurita la sua vena, segretamente, sotto la terra, entrò nel territorio del vicino, estraendo le pietre d’argento dall’altro lato della linea. Al di sopra della terra si salutavano e di sotto, nell’oscurità umida, i minatori come talpe cieche scavavano nel terreno proibito. Dopo i saluti perduti si perse la gentilezza, e vennero allora gli irrimediabili spari, gli avvocati, gli ingegneri che diminuivano e aumentavano sotto i salati arsenali, la polizia, i litigi. Ma dopo venne l’acqua. Spuntò improvvisamente, sul picco maggiore, l’acqua negata alla superficie, l’acqua perduta in gocce al cielo azzurro ed alle frontiere distanti, l’acqua arrivò come un’implacabile emorragia, come il sangue della terra violata, e arrivò nelle gallerie cancellando di nuovo i limiti sotterranei dell’altrui e del proprio. Vedo qui come una fatalità sistematica, come una paralisi capitalistica, in questi cedimenti rubati nell’oscurità della terra, in queste tragedie grottesche, accresciute dalla cupidigia, condite con il sangue umano e cancellate dalla cieca giustizia stravagante della natura.

Siamo arrivati di notte a Antofagasta sul treno longitudinale, iniziando così la prima tournée della candidatura presidenziale di Elías Lafertte. Tutta la nostra tournée era programmata minuziosamente. Ma a Antofagasta avemmo notizie dello sciopero di Humberstone e Mapocho, e proseguimmo il giorno dopo in aereo verso Tarapacá. Arrivammo a Iquique e salimmo immediatamente alla pampa.
Il movimento si era esteso a quasi tutti i luoghi di lavoro. Salivano in tutta fretta per i polverosi sentieri camion blindati, jeeps, carri di trasporto, carri armati. Una guerra. Una guerra strana. È come se il popolo fosse una nazione sottomessa al quale dovevano mostrarle gli strumenti del potere. Appena di agita il sedimento dell’angoscia nel popolo, si producono miracoli di mobilitazione. Le imbarcazioni che fino ad oggi sono cariche di vino fino al massimo si caricano di soldati, di marineria, di mitragliatrici. Una popolazione forestiera vestita di ferro, galoppante e ruggente, alza la polvere delle piste. Gli operai guardano con serietà i piccoli soldati che arrivano.
Qui a Humberstone, da lontano, vidi la bandiera del Cile alzata sulla strada ad aspettarci. Varie centinaia di operai ci circondavano. Un giovane colonnello, che conobbi a Parigi, mi si avvicinò. Non poteva impedirci di parlare ma ci pregava un po’ vago, qualcosa che fino a ora non capisco. L’ordine, ci diceva.
Il governo aveva già chiuso il sindacato. Fummo condotti dagli operai a un avvallamento vicino alla pista. Questo era il Cile. Nei vecchi tempi della persecuzione e terrore, Racabarren parlava agli operai dalla linea ferrata, o dalla strada. Questo era quello che rimaneva del Cile. Questa linea fittizia di sovranità fu incontrata dagli operai e quasi sempre rispettata. Oggi, dopo tanti anni, Lafertte e io torniamo alla strada, parliamo dal Cile.
Adesso ci puntavano le mitragliatrici, e il colonnello, molto serio, si pose al mio fianco, ascoltando militarmente le nostre parole. Poi mi abituai in tutti gli accampamenti a questi giovani ufficiali, attenti e rigidi, arrivati fin lì per un concetto falso di governo, per mettersi di fronte al proprio popolo, con il più serio di tutta la patria, come se volesse separarsi perfino dal più profondo e purificato, dagli scarsi abitanti del sud e del deserto.
Guardai la moltitudine. Palavamo dall’alto. Cadeva il terribile sole verticale del deserto. Predominavano le camice azzurre, i vestiti di tessuto di fibra mista. Un’emozione come un’onda speciale saliva dalle mie radici fino alle schiume della mia anima.
Questi volti indimenticabili degli operai della pampa. Queste facce bruciate da un uniforme fuoco iodato, da dove risplendono le più bianche dentature del Cile. Questi occhi brillanti e oscuri come una luce fissa e pura, come una fiamma nera inappagabile che soltanto si alimenta dell’aria del deserto. Queste mani che allo stringersi, dopo il breve abbraccio, dolce, lento e timido, hanno grattato le mie, dandomi nelle palme il loro contatto di piccole cordigliere.
Da questo momento cominciamo ad indagare le cause dello sciopero. Noi, gli “agitatori professionisti”, cominciammo quel giorno e continuiamo da accampamento in accampamento, cercando la prima origine, domandando di bocca in bocca e davanti a migliaia di uomini le cause del conflitto.
Non è facile sapere il punto esatto in cui si originano i movimenti operai. Sotto di essi c’è una intensa fermentazione di angoscia, un lievito disperato che sta alzando il suo volume, un trascinamento di umiliazioni e dolori e miserie che un giorno portano un uomo e poi a mille, a dire:
- Ora basta, non ne possiamo più.
Questa volta l’origine furono dei fagioli bianchi. Questo grande sciopero, e l’arresto più grande della nostra storia, e il sangue fiammante della Piazza Bulnes, questo cominciò con dei fagioli bianchi. Ma questi fagioli colmarono una coppa amara, e si rovesciarono i patimenti del popolo.
Questi fagioli bianchi erano rotti e duri e difficili da cuocere. Inoltre, hanno cattiva reputazione, cioè che sono i fagioli che danno al disoccupato o li dettero qualche volta. Sono scarsamente nutritivi, e lo sembravano.
Gli abitanti della pampa vogliono il loro fagiolo
bayo, il loro tradizionale e succulento fagiolo bayo, con cui hanno fatto i combattimenti della pampa. L’intendente Brenner ci disse: “Togliere i bayos agli abitanti della pampa è impossibile”. La compagnia sostenne che i suoi spacci non avrebbero continuato a vendere i bayos perché non esistevano sul mercato. Ma l’intendente ci rivelò che la compagnia aveva comprato una partita a buon mercato di circa duecento tonnellate di fagioli bianchi e “doveva” venderli agli operai. Ci rivelò l’intendente che aveva offerto alla compagnia di distribuirli nel commercio al minuto di Iquique perché facilmente si sarebbero eliminati, ma la compagnia non accettò. Se li “dovevano” mangiare gli operai.
Gli operai tiravano i piatti nelle loro case, litigavano con le loro mogli: “non vogliamo fagioli bianchi”. Le mogli erano disperate e ritornavano disperate dallo spaccio. Non c’erano altri fagioli.
E un giorno smisero di cucinare. Le mogli di Humberstone e Mapocho, migliaia di mogli cessarono questo giorno di cucinare fagioli bianchi. Quel giorno quando tornarono gli operai non avevano da mangiare.
Così cominciò lo sciopero.

Lo sciopero proviene dalle imprese, arriva agli spacci, passa agli stomaci, arriva infine alle braccia. Cominciamo ad interrogare lì ed in altre fabbriche della stessa Compagnia Tarapacá-Antofagasta. Mai adempì questa ai suoi compromessi di alimentazione. Gli articoli pertinenti rimasero stabiliti nel convegno, ma non arrivarono alla gente. Un giorno mancava il tè, il giorno seguente il riso, il giorno seguente la carne, al giorno seguente le tagliatelle. I razionamenti sono miserabili.
Qui parlo delle tagliatelle. Si sono comprate già razionate nella Officina Alianza. Sono 15 grammi a persona, ogni due giorni. Gli abitanti della pampa mi dicono nel darmi il pacchetto di tagliatelle: “Una talpa ha bisogno di più”.
Dall’altra parte, la compagnia sosteneva le sue richiesta contro i sindacati nella Corte di Giustizia. Da una parte provocava un nuovo sciopero e dall’altra faceva pendere una spada sopra un movimento precedente rendendo inutili tutte le conquiste raggiunte.
In fondo il problema dei salari è la base mobile di tutta la tranquillità. In quei giorni un giornale di Iquique conteneva informazioni ufficiali della compagnia con le tabelle dei salari attuali. Lafertte li lesse in Humberstone agli operai. Fu per me una prova decisiva.
A ciascun tipo di mestiere con i soldi attribuiti dalla compagnia esplodevano grandi risate dalle migliaia di operai. Non erano, tuttavia, soldi alti quelli che alterava la compagnia. Erano da 35 a 45 pesos al giorno. Tuttavia, provocavano una ilarità incontenibile, una risata sana, stentorea, come se si trovassero al cinema in un film comico. I soldi reali sono nella maggioranza dei casi di 17 pesos e 50 centesimi. Quando leggemmo l’editoriale del medesimo giornale in cui tra le altre perdite degli scioperanti il giornale diceva che stavano perdendo la loro partecipazione ai guadagni, la ilarità fu ancora più grande. Mai è stata data agli operai questa partecipazione legale. Come tante cose, con avvocati e con sotterfugi la compagnia lo ha rubato impunemente, estraendolo dal portafoglio dei suoi lavoratori.

A Santa Rosa de Huara, i carrillanos, operai che lavorano sui carri di nitrato, chiesero una anno fa un aumento di salario. Un vecchio operaio rugoso e severo si alzò tra i suoi compagni per raccontarci il fatto. Stettero un anno a richiedere. Con la paralisi di Humberstone e Mapocho, tornarono a insistere. Li congedarono: “Andatevene al diavolo”, gli disse il superiore, e rimasero disoccupati. Allora fermarono tutto il resto. Lo dissero a tutti.
Quanto guadagnano? – gli domandai -. Guadagnavano 12, 13 e 15 pesos al giorno, sposati e con famiglia, in questo duro lavoro, i
carrillanos. Gente invecchiata nella pampa, questi spargitori dell’arido suolo, questi che hanno conquistato il nord a colpi di sudore, guadagnano 12 pesos al giorno. Questo è il cancro della patria.
Domandai lì in questa fabbrica alle mogli le loro spese alimentari, e al pomeriggio tornarono con differenti liste. Vado a sceglierne una, la più semplice, di due persone, marito e moglie, di quello che serve giornalmente a questa coppia in questo posto di indescrivibile abbandono e miseria che è la Officina Santa Rosa de Huara.

Carne Pesos 2,50
Pane “ 3,60
Patata “ 1,40
Te “ 1,00
Riso “ 0.60
Spaghettini “ 1,00
Strutto “ 1.00
Fagioli “ 1.00
Pesche seccate “ 1.00
Carbone “ 1,60
Olio “ 1,00
Paraffina “ 0,40
Candele “ 0,80
Sale “ 0,20
Cumino,peperone,color “ 0,40
Legna “ 0,40
Acqua “ 0,20
Fiammiferi “ 0,20
Burro " 1.00
Granturco bollito e salato “ 0.60
Semola “ 0,40

Totale Pesos 20,30

Mancano vino, sigarette, legumi, zucchero, vestiti, scarpe, medicine, giocattoli, giornali, cinema, libri, eccetera.
Sono 20,30 per gente che guadagna fino a 12 pesos al giorno. E avete udito che questa lista non contiene zucchero né legumi, non c’è vino, sigarette, vestiti, scarpe, medicine, giocattoli, giornali, cinema, libri. In generale, a queste cose non hanno diritto gli uomini e le donne né i figli di Tarapacá. Né a carne né a latte. Non parliamo di prosciutto o pesce, che non lo hanno assaggiato mai.
A volte potei vedere appesi alle pareti in qualche abitazione della pampa ritratti scoloriti dei vecchi abitatori della pampa, di zappatori o lavoratori a giornata, caricatori o
carrilanos. Erano stati ritratti in riposo sopra le loro pale, i torsi vigorosi nudi, di impressionante garbo e statura. Questi sono i giganti che caricavano i sacchi da 120 chili, sacchi che dopo in Europa si rifiutarono di scaricare. Io domandavo agli uomini lì riuniti, e alle loro mogli: Chi farà adesso questo lavoro?
Dove sono quei poderosi titani?
Riposano sotto gli arenili della pampa nei piccoli cimiteri di croci martoriate dall’aspro vento.
Uno sguardo alla moltitudine basta per vedere il dramma. La statura degli abitanti della pampa si è andata riducendo artificialmente per l’alimentazione miserabile. È come una guerra dichiarata contro la nostra razza. È una impresa di distruzione condotta in forma totale sulla parte più preziosa della popolazione del Cile. I grandi campi di concentramento che si chiamano stabilimento del salnitro stanno riducendo la forza dei sopravvissuti. Io gli dissi: quando difendete i vostri fagioli
bayos, state difendendo, senza saperlo, il centimetro di statura che vogliono rubare ai vostri figli.

Più in là, a Pan de Azúcar, lo sciopero si alimentava con immenso eroismo. Ancora mi fa tremare il cuore il ricordo della miseria di questo accampamento. La stessa strada è difficile e intransitabile, come per mostrarci dal primo momento che si è voluto isolare dal mondo e dalla civiltà i nostri compatrioti, compatrioti di quel buco miserabile. Abitazioni di calamina riscaldata dal sole e che conservano il calore del forno durante la notte, qui sono stati aggiunte con case costruite con pezzi di corteccia o mattoni crudi salnitrali senza dipingere né pulire. Come in tutti gli accampamenti non c’è pavimento di tavola. I signori del salnitro mai pensarono che le famiglie degli abitanti della pampa avevano bisogno come tutti gli esseri civilizzati di un pavimento isolante nelle loro abitazioni. Qui nel Pan de Azúcar l’accampamento fu costruito sopra delle discariche. Mentre entro in una delle case, una moglie mi va raccontando come all’improvviso escono dal suolo della sua abitazione, topi morti, suole di scarpe, la spazzatura che affiora alla superficie. Entro nella sua casa e essa mi mostra i giacigli, alcuni sopra il suolo, gli altri mobili, una tavola fatta di cassette, una sola sedia per tutta la casa. Non fecero la cucina a queste abitazioni. A livello del suolo un focolare fatto di calamina e fascette metalliche fa da cucina. “Il cibo esce nero”, mi dice.
Guardo le camerette degli scapoli, senza finestre, con enormi macchie di ossido sopra la calamina, lunghe file oscure e puzzolenti. Non c’è un
water né un bagno nell’accampamento e come manca l’acqua, che a volte devono comprare, gli eczemi e le ulcere che producono gli acidi della elaborazione del salnitro sono un problema in più nelle loro vite angosciate.
Entriamo nell’altro accampamento. Vi invito ad entrare con me nell’accampamento di San José. Un momento dopo che siamo arrivati, l’Inno Nazionale si alza da tutti i petti. Vi invito di nuovo a vedere questi volti, questo generoso sguardo bruno della pampa. Ascoltiamo le loro tribolazioni che Lafertte tanto conosce. Egli è stato come loro operaio di tutte le fabbriche e non c’è un solo punto del desertico nord che non lo abbia visto lavorare in ogni mestiere. Lo circondano, lo riempiono della loro venerazione carica di infinita fiducia. Che sogno per tutti loro, che sogno per tutti i bambini della pampa, che sogno per questi cuori maltrattati, per questa folla tanto lungamente martirizzata.
Le bandiere sembrano ricevere dal sole ardente un azzurro più splendido, un rosso più vivente, una stella più pura. Ho udito mille volte Lafertte nella pampa. Non mi ha stancato mai. Dozzine di bambini lo aspettano, non possono portargli fiori perché non ne hanno, un bambino gli offre un biglietto in cui vi sono alcuni fiori dipinti.
Lafertte si ingrandisce nella pampa. È già il presidente della pampa. Parla lungamente agli abitanti e nelle sue comunicazioni ha qualcosa di tanto diretto e emozionante che la vostra attenzione rimarrebbe spaventata come quella di quei semplici figli della sabbia. Gli parla di tutti i problemi politici, quindi crede che non c’è tema che non possano capire gli operai. Questa volta in tutte le fabbriche gli dirà come si conduce uno sciopero da dentro. Gli mostrerà lo scheletro morale del movimento. Unità, solidarietà, sobrietà, le ripeterà mille volte. L’alcool è un alleato dei vostri nemici. In questi giorni dovete sollevarvi sopra la vostra situazione, essere più sobri, più preziosi, dovete imparare quello che prima non avete imparato. Quello che sa leggere insegni a quello che non sa leggere. Che questi giorni di sciopero siano così incancellabili nella vostra memoria, perché domani potrete dire: Imparai a leggere nello sciopero. E questo, chi potrà toglierlo a voi? Lo ho udito parlar loro anche della Orchestra Sinfonica, di Camilo Mori, della mia poesia. Lo ho ascoltato spiegargli, in maniera diretta e grafica, frammenti del miei versi, e mille direttive morali perché sia più fraterna la relazione tra gli uomini, e più corrette e più dolci le relazioni coniugali. Lo ho udito parlare, come nessuno talvolta, dei problemi del lavoro e dell’economia, del nostro senso nazionale, della nostra intimità cilena. Quando Lafertte arriva nella pampa, spariscono i tanghi e le rumbe perché tutti conoscono la sua esigenza: prima di tutto, la
cueca.
Adesso entriamo di sorpresa in una casa dell’accampamento. Busso. È la casa di donna Emelina Rojas. Non mi conosce ma mi riceve sorridente. Il suo vestito è fatto di cento pezzetti di stoffa differente, come certe sovraccoperte che ricordo aver visto nella mia infanzia. Anche se questo vestito è vecchio e spezzettato e piccole pezze di tessuto rotto lo attaccano da tutte le parti, penso che è un’opera maestra di economia e di pazienza. Penso: “Perché possano vestirsi i bambini”.
Sono due stanze con pavimento di terra. In una stanno i letti puliti, con quella pulizia sorprendente che si incontra nelle abitazioni della pampa. Lì dormono sette persone. L’altra serve da sala da pranzo, da cucina e da pollaio. Vado a contare quattro galline, due conigli, due cavie (che anche si mangiano). Inoltre, un cagnolino di lana di indefinito colore. Sulle pareti l’immancabile ritratto di Balmaceda vicino a quello di Recabarren e l’inaudita oleografia tedesca: eleganti cacciatori che offrono ad una dama sulla porta di un castello un cervo appena cacciato nei loro possedimenti. Domando alla signora Emelina dei suoi problemi. È una donna rassegnata e dolce. Suo fratello e suo figlio sostengono la casa. Che età ha suo figlio, le domando? Diciassette anni ed è un figlio molto buono. Non beve. Guadagnano fra tutti e due 40 pesos. Quanto spende signora, al giorno? Da 30 a 40 pesos. A volte più di 40.
Sempre alla mercé di una angosciante spada queste teste della pampa! Un incidente, una infermità, la mancanza del fratello o del figlio, un matrimonio, una morte o una nuova vita, scompiglieranno tutte queste vite, le vite di queste donne, di queste galline e di queste cavie. I 40 pesos non possono allungarsi mai. Al vestito di donna Emelina non spettano più pezzetti di tela. Il cuore valoroso di donna Emelina deve anche essere fatto di molti frammenti cuciti con un ago molto duro. Un poco più di combattimento e si romperanno le sue ultime sfilacciature. Ricordo i piccoli cimiteri aridi, le croci pure sfilacciate.
Si riempirebbero pagine e pagine, potremmo riferire fino a domani la catena innumerevole di questi innumerevoli patimenti. Per questo c’è tale determinazione in questo sciopero. Dopo 20 giorni ritorno alla pampa, vedo il medesimo sforzo, la medesima fede per resistere. I fagioli bianchi sono stati la goccia finale. La lista di ingiustizie, di persecuzioni, di freddezza nella distruzione di un popolo riempirebbe le pagine di un lungo libro, straordinariamente amaro.

Quante volte, arrivando di notte dalle profondità oscure della pampa con lo spirito depresso e dolorante, pensai che esisteva una volontà diabolica nel perpetuare questo stato di angoscia irrespirabile. Ricordai i campi di concentramento e di lavoro forzato dei nazisti nei paesi invasi. La Compagnia Tarapacá-Antofagasta tra gli altri crimini ha quello di uccidere l’allegria del lavoro. Ricordo i motti dei nazisti, specialmente quello che stava dipinto con grandi lettere sopra l’entrata del campo di Auschwitz: “La libertà per il lavoro”. Fatidica bugia per quei condannati. E si tratta in realtà di assassinio dell’allegria per il lavoro.
A Mapocho ci diceva una compagna: “La compagnia ci fa sporgere querela contro noi stessi. Nello spaccio è tanto scarsa l’esistenza delle provviste che le donne devono lottare lì, fino all’insulto e a volte fino ad arrivare alle mani per ottenere insignificanti razioni”. E ricordo un libro della scrittrice polacca Pelagia Lewinska, che ci racconta come nel campo di sterminio di Auschwitz i tedeschi usavano non soltanto il gas, la forca, la fucilazione. Usavano anche la lotta intestina, la denuncia per le più piccole cose della vita dei condannati, per abbassare, schiacciare e annientare il loro morale. E, precisamente, Pelagia Lewinska ci racconta in questo libro terribile che quando i condannati furono a conoscenza di questa arma iniqua, scoprirono che il conservare la fratellanza e la solidarietà e la decenza, il non abbandonarsi alla disperazione, era anche un’arma poderosa contro il nemico. E questo è stato il grande sciopero del nord: una prova di meravigliosa fratellanza e solidarietà nella disgrazia, e se di qualcosa devono sentirci orgogliosi i cileni è dell’importanza e della grandezza dei nostri compatrioti, i lavoratori del salnitro, che nella lotta di distruzione fisica e circondati dalla desolazione e dall’isolamento delle immense pampas desertiche difendono con incorruttibile bravura l’unico dei loro tesori: i privilegi umani, la dignità dell’uomo.
Scrissi in quei giorni questo sonetto, piccola medaglia che lasciai penzolante dal petto degli abitanti della pampa:

Salnitro

Salnitro, farina della luna piena,
cereale della pampa calcinata,
spuma delle aspre sabbie,
gelsomino di fiori sotterrati.

Polvere di stella sprofondata nella terra oscura,
neve di solitudini bruciate,
coltello di innevata impugnatura,
rosa bianca di sangue spruzzato.

Vicino alla tua nivea luce di stalattite
duello, vento e dolore l’uomo abita:
brandelli e solitudine sono la sua medaglia.

Fratelli delle terre desolate:
qui possedete come un mucchio di spade
il mio cuore disposto alla battaglia.

Una delle ultime notti scendiamo a Iquique con Rodomiro Tomic da Humberstone. Siamo andati a portare con alcuni dirigenti sindacali i punti di accordo finale del conflitto. I punti sopra i quali terminò questo grande sciopero furono fragili: la compagnia non incasserebbe il denaro delle richieste antisindacali, studierebbe il compimento degli accordi sullo spaccio, studierebbe alcuni miglioramenti di salario. La compagnia non abbandonerà i suoi fagioli bianchi. Li manterrebbe alternati alcuni giorni della settimana.
Un mare agitato ci aspettava all’arrivo a Humberstone. Gli operai non volevano tornare al lavoro. I dirigenti dettero la loro parola, anche Tomic ed io cercando la fine del conflitto. Ma ancora dopo quasi un mese di sciopero la gente non voleva né credeva a niente. “Siamo stati ingannati tante volte”. “Tutto continuerà lo stesso”, ci dicevano. Dieci ore dopo, dopo lungo dibattito terminò il conflitto di Humberstone. Ma lì come in tutta la pampa continua il clamore, il clamore di mare di quella notte: “Non crediamo, siamo stati tante volte ingannati”.
E quella notte Tomic mi diceva: “Che cieco è il capitalismo che danneggia e uccide la stessa struttura che gli da la vita”. E è questa una grande verità per il nord. Più che niente è questa politica turpe, cieca e egoista delle compagnie imperialiste che stanno minando la fonte stessa della loro forza: il lavoro umano. In quei giorni di producevano in Nordamerica gli immensi scioperi che interessarono più di un milione e mezzo di lavoratori organizzati. Lì chiedevano il 25 per cento sui salari più bassi, di un dollaro l’ora. Nello stesso istante degli operai del salnitro, i lavoratori nordamericani che guadagnavano in un’ora il doppio di quello che i nostri operai guadagnano in un giorno, chiedono di più, per vivere in luoghi privilegiati per l’apporto della cultura e della bellezza conquistata con la civiltà, a Chigago, a Detroit, a Nuova York o Filadelfia. E qui in mezzo all’isolamento mortale, senza un vero piacere collettivo, senza alberi e senza città, senza uccelli e senza musica, frustati dal vento sabbioso del deserto, quando la nostra gente, carne e sangue della patria, chiede un centesimo di aumento, un mutamento insignificante di alimentazione, si rovescia la collera dell’Olimpo, salgono i carri armati, i giornali parlano degli agitatori professionisti, si chiudono i sindacati, e quello che può conseguirsi per salvare il meglio della razza, si perde e tutto l’impulso vitale è servito per raccogliere un tozzo di pane.
In nessun luogo dei molti che ho percorso nella mia esistenza, ho visto una stampa tanto avvelenata e maligna come i tre giornali che impudicamente difendono le compagnie del salnitro nel nord. Sono questi
El Tarapacá, di Iquique, La Prensa, di Tocopilla e El Mercurio, di Antofagasta. Ogni giorno si pubblica in ciascuno di essi un editoriale dello stessa dimensione, della stessa dimensione materiale e morale, macchiato dallo stesso denaro sudicio. Non soltanto si falsifica e deforma quanto concerne il lavoro operaio, ma anche si insulta e calunnia con una costanza infame.
Da quei giornali, da queste viscose paludi da cui la calunnia fermenta al calore del forno, si estende per tutto il Cile la menzogna. E anche la gente onesta riceve l’eco di una propaganda traditrice sullo stato vero, le condizioni del lavoro e salari del nord. A Chuquicamata, la poderosa e pulita, la spaventosa industria, che nel suo potere tiene una bella città e le migliori condizioni, i salari più alti per gli operai specializzati delle macchine, sono di 55 pesos al giorno. Il valore medio è molto più basso. Ricordo che a María Elena, una delle scarse fabbriche di superiore concetto di vita e condizioni generali, domandai ad una delle campionesse del basket nazionale, della prima equipe del Cile, quanto guadagnava al giorno. Mi sorprese: “Diciassette pesos al giorno”. Non soltanto sono campionesse, sono eroine e sopravviventi, i suoi muscoli e la sua vitalità hanno innumerevoli forze che si acuirono fino a sopravvivere.
A María Elena, nel nostro giro, quando portai un regalo di cento libri al sindacato, mi chiesero versi, poemi. Pure nei luoghi più abbandonati gli abitanti della pampa avevano udito il mio nome di poeta, e non volevano rinunciare alla parte che essi sanno gli appartiene della mia poesia. E nell’alto di Chuquicamata come nei più piccoli accampamenti ascoltavano con religioso silenzio i miei versi. Avrei desiderato che la mia poesia fosse stata più pura, più pura dell’acqua delle alte montagne: mi sembrava che essa scendesse dai miei più profondi versanti come una chiarezza della quale essi erano assetati.
Da Mejillones, caduto in letargo e dimenticato nel centro della sua splendida baia, salimmo verso Calama. All’arrivo a Calama, le alte luci di Pedro de Valdivia, sospese nell’alto dell’ombra, e arriva ancora la visione di Chuquicamata illuminata e notturna, elevata come una corona di diamanti nell’altissima atmosfera. Lì parliamo e proclamiamo Lafertte davanti a circa diecimila operai, riuniti nel magnifico recinto sportivo, poiché la folla non stava in nessuno dei teatri. Bambini e donne ascoltarono da noi lo sviluppo dei successi di Tarapacá, la storia del massacro a Santiago, e le notizie del mondo intero. Ascoltavano con avidità quanto succede nel pianeta, in Jugoslavia e in Francia, in Cina come in Venezuela.

Lasciando dietro l’alta collina di ciottoli di Chuquicamata, dietro la quale il fuoco perenne dei forni dà alla cittadina del rame ancora più fortemente questa apparenza di immenso rito, di piramide verde, di anfiteatro degli dei, scendiamo e nella strada, di notte, arriviamo a un luogo di entusiasmo indimenticabile. A un accampamento dei più dimenticati e poveri, l’accampamento di La Paloma.
Da lontano dalla strada vediamo luci accese. Erano fiaccole, fiaccole maldestramente fatte, e un pugno di gente, un pugno di esseri abbronzati della pampa, anche goffamente vestiti, malamente abbigliati, ma anche luminosi come le loro povere e le dolci fiaccole.
C’era tutta la gente dell’accampamento. Erano poche centinaia. Uomini e donne, e soprattutto, per la sua presenza abbondante e preziosa, bambini, molti bambini. Erano bambini miracolosi della pampa, i bambini più interessanti del mondo intero, con i loro occhi scintillanti di fuoco nero, con i loro piccoli visi che si trasformeranno poco a poco con il lavoro in maschere indurite.
Essi cominciarono a cantare. È una canzone che Lafertte ed io amiamo come nessuna, una canzone patetica e solenne, una canzone triste di angoscia e ribellione. È la
Canción de la Pampa, di Francisco Pezoa. Canta nelle sue dolorose strofe il massacro di Iquique. Per noi significava, udita in questo luogo e in questo momento, con il sangue recentemente versato della Piazza Bulnes, un tono più amaro, più terribile e doloroso.

Anno dopo anno, per le saline
del desolato Tamarugal
lenti attraversando vanno per migliaia
i tristi paria della capitale.

Cantando continuiamo circondati dai bambini e dalle fiaccole fino a fermarci nell’unico vicolo dell’accampamento. Inquadrati fra le abitazioni miserrime il gruppo si fece intimo e unanime.
Allora, quando ci elevammo sopra un piccolo palco per parlare, in piena luna piena, in una notte azzurra come ne ho viste molto poche, rauca e ardente, solenne e grave, si alzò il coro del nostro inno nazionale. Mai lo ho udito più bello. La notte azzurra ara infinitamente vasta e planetaria, come una volta fissa illuminata. La luna stessa sembrava essersi fermata sopra il povero accampamento.
E in quel silenzio centinaia di voci aspre e sicure, voci di petti tanto colpiti come i metalli più nobili, voci di donne della pampa, voci come il vento indomabile, voci pure uscite da cuori puri, cantavano nella notte celeste:

Puro Cile, è il tuo cielo azzurrato,
anche pure brezze ti percorrono,
e il tuo campo di fiori ricamato
è la copia felice dell’Eden.

Avrei voluto piangere, piangere urlando, piangere per anni interi.
In quel punto abbandonato della terra, tra quelle abitazioni desolate, circondati dal deserto la cui unica voce è lo scricchiolio tetro delle saline che screpola l’ombra o il sole, lontani da tutto quello che è umano, lontani da tutte le praterie fiorite, lì, con voce profonda.

e il tuo campo di fiori ricamato…

lì, circondati dalla immensa notte solitaria che per altri esseri della città è un fiume oscuro di piacere, per altri uomini dei campi, un movimento del vento tra gli alberi e le stelle, lì

è la copia felice dell’Eden…

lì, dove la sabbia si tinse tante volte di sangue, e le rivalità si riempirono per tutta la pampa di cadaveri, quando tante voci chiesero tanta poca cosa “un altro pezzo soltanto dei pane” come nei versi di Pezoa, lì dove il sole di fuoco brucia l’estensione senza acqua e il lavoro è tanto violento e la vita tanto miserabile che la nostra razza si consuma, lì

maestosa è la bianca montagna
che ti dette per baluardo il Signore.

Pensai una volta di più che dovevo difenderli. Difendere. difendere… Che strana parola! Difendere l’uomo, il popolo, il numero della razza, la cellula della patria, difenderlo da altri uomini. In altre terre c’è da difenderlo dalla guerra, dalle bestie feroci. Qui dobbiamo difenderlo dalla miseria mortale, dalla fame, dall’infermità e dall’abbandono. Dobbiamo difenderlo da quelli che lo sfruttano e lo attaccano, da quelli che quando non poterono trasformarlo in servo, pieno di collera e di odio, cercano complici che tradiscano e dividano. I lavoratori del salnitro sapevano quella notte per chi cantavano e chi era con loro. E ricorderò tutta la vita quella notte stellare, nella desolazione del deserto selvaggio, quelle voci che chiamarono la mia per cantare per sempre vicino a loro

maestosa è la bianca montagna…

perché la loro lotta è grandiosa come la montagna che mai hanno visto né mai vedranno

questo campo di fiori ricamato…

perché anche se mai hanno guardato le verdi campagne né potranno vederle mai, poiché anche alla loro morte in quei distrutti cimiteri della pampa li accompagneranno delle povere corone di carta dipinta, perché essi guardano come eredità sacra la speranza che Recabarren rovesciò con le sue mani di maestoso proletario, credo che essi siano il campo e i fiori, il ricamo e la montagna, l’acqua e la terra. Essi sono la patria.


Testo letto agli studenti dell'Università
del Cile, Santiago, maggio o giugno
1946. Raccolto in
Viaggi, 1955


VII
TEMPO DI BATTAGLIE. TEMPO DI TRADIMENTO
(1946-1947)

Le piccole sorelle dimenticate

Le piccole repubbliche sorelle dell'America Centrale continuano, solitariamente, una lotta incredibilmente dura per la sua liberazione. Quelli che hanno raggiunto, come l'eroico Guate- mala, il trionfo dopo lotte esemplari, si videro nell'istante decisivo isolate ed incomprese dalle grandi repubbliche, ed ancora in questa ora non sono appoggiate come dovessero essere egli nell'introduzione ed esecuzione dei suoi nuovi codici democratici.
Il caso della Repubblica Dominicana, come quello del Nicaragua, continua nella mappa mostrando la sua lampada spenta nel continente. Le comitive presidenziali passano tra i dominicani oltraggiati, sono ricevute e festeggiate per il tiranno Trujillo, si insigniscono mutuamente rappresentanti di regimi incompatibili, e dopo il gran silenzio che conosce già tutta la l'America Centrale, cade sulla piccola repubblica soggiogata, coprendo di ombra il calvario terrificante.
Queste pagine sono un'accusa terribile. Mentre i fatti qui denunciati stanno succedendo in una nazione fraterna, i nostri delegati alle conferenze internazionali frequentano nelle deliberazioni i delegati di questa sopravvivenza di una America tenebrosa. Di questi piccoli paesi circondati dalla tirannia vanno e vengono confabulazioni, intrighi del labirinto dittatoriale. Un consigliere a stipendio di Trujillo è, contemporaneamente, funzionario del Servizio Esterno del Cile. A chi dà consigli? Da che fonti vengono questi?
Perciò tutto si complica ed aggroviglia, e la bugia ufficiale è protetta da imperialisti e falsi democratici, mentre nella Repubblica Dominicana si eterna il crimine mostruoso.
Che queste pagine del giovane e feroce lottatore Franco Ornes arrivino alle tronfie coscienze di quelli che governano le relazioni esterne dei nostri paesi fratelli. Tutti o quasi tutti proteggono fatti come la sinistra combriccola nazi argentina, la servitù della Bolivia consegnata ad alcuni audaci avventurieri fascisti, e quando si parla di attaccare le grotte della tirannia, tutto diventa ipocrita sostentamento di principi che non vengono a racconto, tutto diventa pratica e scuse, ed il viso completo della libertà americana continua attraversato per queste sinistre cicatrici. Nessuno interviene. Gli abbracci continuano, e le onorificenze del letamaio si ostentano nel banchetto delle nazioni libere.
Nel frattempo i morti, quelli martirizzati, quegli imprigionati, gli esiliati della Repubblica Dominicana fanno domande mortali a tutta la nostra America, e queste domande devono, qualche volta, avere risposte.

Prologo a Pericles Franco Ornes, La tragedia dominicana.
Análisis de la tiranía de Trujillo, Santiago, edizione della
Federación de Estudiantes de Chile, gennaio 1946


L'ombrello marcio di Monaco, di nuovo sui martirii della Spagna

Quelli che si danno il lavoro giornaliero di leggere penosamente la scalcinata e errata pagina editoriale di
El Mercurio, il quotidiano peggio scritto dell'America del Sud, poiché è scritto dai suoi diretti giganti, robusti mercenari della penna, avranno trovato oggi uno di quegli articoli che protesta per la realizzazione di questo atto, e richiama l'attenzione alle autorità chiedendo al cielo affinché i finanzieri chiudano le porte di questo salone. Per gli alpinisti di El Mercurio, le università servono solo da disturbo. Per che motivo servono, se il Manuale del perfetto sciatore, La zia Pepa, La mia terra nativa, Asparago, non hanno bisogno della conoscenza, non necessitano per prodursisi del crocevia dei quattro venti dello spirito, bensì di alcuni male pagati copisti e traduttori e si incaricherà già il quotidiano di chiedere più tardi un monumento affinché si perpetui all'autore che tanta gomma avesse speso attaccando pensieri altrui.
Ha ragione
El Mercurio nel chiedere che si chiuda questa sala e, se gli fosse possibile, questa università, in cui tante volte si sentirono le voci che hanno sostenuto fuori dalle sfere ufficiali l'immortale dignità della nostra patria. Perché quando un ex proprietario di El Mercurio nel Consiglio della Lega delle Nazioni dava la peggiore pugnalata, la pugnalata fascista, alla dolorosa schiena della Repubblica spagnola, eliminandola a colpi di prevaricazione e di minaccia e dando quindi un colpo mortale alla stessa Lega delle Nazioni, qui in questo recinto non mancarono uomini di diritto e di cuore che denunciassero questo oltraggio e che lasciassero scritta nell'aria, e nel più incancellabile del ricordo, quello che potè essere la politica internazionale del Cile, senza questi tradimenti e l'adesione fedele, risoluta, ostinata, incorruttibile e commovente alla causa del paese spagnolo di tutta la nostra intelligenza e di tutto il nostro paese.
Da allora si stabilirono le strade che in questo giorno di oggi si trovarono anche in situazione conflittuale: da un lato gli scribacchini fascisti di
El Mercurio e d'altra parte e per altri sentieri, diametralmente differenti, lo spirito repubblicano e liberatore di questa università, spirito che è stato difeso da molti giovani, da molti vecchi che attraverso una non interrotta catena di etica civile ci hanno trasmesso l'indistruttibile cattedra e la tradizione spirituale necessarie affinché l'università continui aperta alla vita del mondo, all'aria pura della libertà e non incassata, polverosa e mortuaria come lo volessero questi esautorati e screditati mercanti della stampa fascista.
Uno di essi, uscendo dalla stessa boscaglia, pretese, alcune domeniche fa, tirare alcuni grandi macchie del suo inchiostro mercenario alla radiante figura del gran poeta spagnolo Rafael Alberti, che poco tempo fa sentivamo in questa stessa sala ed il cui luminosa presenza non si cancellerà facilmente dal ricordo cileno. In questa aggressione di inchiostro stupido troviamo quella codarda ed indelebile marca del fascismo di sagrestia. Si pretese di coinvolgere Alberti e fino ad accusarlo dell'assassinio di Federico García Lorca. Quelli che aizzano la maledetta muta di lupi spagnoli affinché il sangue continui macchiando ed allagando le terre della Spagna, quelli che non ebbero mai una parola di condanna davanti al più mostruoso dei crimini franchisti, quelli che fecero continuamente da propagandisti crudeli delle malvage orde di Franco, quelli che tradirono coscienziosamente il loro dovere e la loro carta di intellettuali allineandosi con gli assassini, osano oggi accusare quelli che per dignità, e per coscienza, e per dovere storico e morale, persero tutto, famiglia, paese e patria. Ma questi ladri che pretendono di correre dietro il giudice, non inganneranno nessuno. Cadere su essi il nostro più attivo, pesante e giustiziere disprezzo!

Stiamo riuniti qui per evitare alla nostra maniera e con le nostre forze che un nuovo crimine ritorni a spruzzare il viso insanguinato della Spagna.
Che doloroso destino quello degli spagnoli di questa epoca! Giustamente nello stesso momento in cui a Norimberga, a pochi passi delle forche che li aspettano, sono investigati e scrutinati per tutte le tenebrose rughe dell'anima i boia nazisti che riuscirono quasi a strangolare la libertà del mondo, in Spagna gli stessi boia osano sedersi per giudicare ed assassinare i combattenti della libertà restaurata da tutte le parti. Gli stessi boia possono lì, nelle abbandonate e tradite terre della Spagna, vendicare in Álvarez e Zapiraín, l'umiliante sconfitta che soffrirono quando l'Esercito Rosso inchiodò le bandiere che continuano a ondeggiare a Berlino. Possono lì i boia grazie al rinascere della vigliaccheria e della pacificazione spegnere i battiti di altri due cuori guerriglieri del cui movimento sta in questo istante prendedo la coscienza di tutti quelli che lottarono in qualunque terreno per assicurare il trionfo dei diritti umani calpestati per il fascismo.
Che angosciato destino quello di questi spagnoli!
Furono i primi a mostrare ad un mondo addormentato la tempesta che veniva, tirarono fuori dai campi il fucile arrugginito, dalle miniere la dinamite che santificarono e dalle strade le pietre ed i pali, e così continuarono combattendo. Solo una mano attraversò il gelato cuore dell'Europa per aiutarli nel loro combattimento, e questa fu la stessa mano che oggi batte il tavolo delle Nazioni Unite per chiedere attenzione verso la stessa lotta, per chiedere lo stesso decoro perso per le nazioni che non seppero o non vollero aiutare in tempo. Questa mano dell'Unione Sovietica fu combattuta allora e questo aiuto fu mozzato e così si bollarono i martirii della Spagna. Ed oggi che chiediamo per questi due giovani eroi della libertà mondiale, Álvarez e Zapiraín, le due nazioni imperialista, che credono che la pace si è guadagnata per essi, per certe avidità, per certi sfruttamenti, hanno respinto la mozione della Polonia appoggiata dall'Unione Sovietica che avrebbe finito con questa farsa sanguinante. Invece, si è nominato un comitato investigatore. Lo spettro di Monaco si è alzato, l'abbiamo sentito coi suoi passi trascinati attraversare il vestibolo della casa in cui si sta costruendo la nuova pace del mondo, abbiamo sentito il suo odore di cadavere seppellito, ma ha avanzato lasciando sul tavolo il suo marcio ombrello. Un comitato investigatore dopo un milione di spagnoli morti, un comitato investigatore dopo aver cacciato Franco per il mondo mezzo milione di esiliati, un comitato investigatore quando alcune settimane fa fucilarono nove guerriglieri, un comitato investigatore quando le prigioni sono piene di gente degna che non uscirà da esse se non verso il cimitero o verso la libertà.
Così, dunque, in brutti momenti di dimenticanza in cui sembrano un'altra volta arenarsi le sorgenti di tanta speranza umana che si andò accumulando, in un'altra ora indecisa torna ad essere la Spagna la pietra di rintocco della libertà. Verso lei guardiamo dandole dal nostro più profondo essere il rispetto verso i suoi eroi, la giustizia che gli hanno strappato, il ricordo indistruttibile che la sua lotta inchiodò nelle nostre spaziose Americhe, la sicurezza che in un'ora non lontana sarà alzata da tutte le nostre braccia, le sarà lavato il sangue del martirio e con la sua orgogliosa testa eretta tra tutte le nazioni, ripartirà la giustizia e la punizione. Ed a questi due uomini, frutti fortificati e fecondi del paese spagnolo, a voi, Álvarez e Zapiraín, a voi, fratelli, fratelli eroici, benché non ascoltiate il nostro grido, da questa casa del pensiero del Cile, da questa casa generosa dell'intelligenza americana, gridiamo attraverso l'oceano:
"Continuate a guardare faccia a faccia i vostri boia, perché incarnate il grande e l’immortale del vostro paese che se non può salvarvi oggi vi vendicherà domani."

El Siglo, Santiago, 11.5.1946.


Silva nell'ombra

Il secolo diciannovesimo americano fu più lungo di tutti i secoli, ed isolato, ed acerbo, e piovoso. Le pampas e le cordigliere, le savane ed i fiumi, gli uomini ed i campanili trascorsero avvolti in distanza, solitudine e nebbia.
Questa nebbia grande e transustanziale galoppa e rimane sulle nostre altezze, come un manto violetto, qui e là diretto dalle raffiche degli uragani più violenti, combattuto contro le pareti glaciali della cordigliera innevata, e respinto o accettato a volte dal cuore degli uomini solitari.
Per le strade ci sono ancora vampate ed odore acre di polvere e soldato, ed i capi interrompono il silenzio con le loro cavalcate di puledri guerrieri, ed alla luce della luna mostrano in un lampo le spalline dorate, i pantaloni scarlatti. Nelle profonde case di patii e granai, alcuni uomini cadono sui libri, divorando le pagine alla scarsa luce dei ceri, professando la vita in forma intellettuale accanita, insegnando e combattendo come Sarmiento o Bilbao, o dandosi alla poesia in forma profonda e totale come Pedro Antonio González o José Asunción Silva.
Satani, angeli oscuri, sacerdoti martirizzati da più spettrale e perduto, sale da pranzo di stelle, pescatori della notte ombrosa. Le sue sagome di spettro funebremente vestite risaltano nella bianchiccia luce del vapore boreale, e così cominciai a vedere José Asunción Silva, elegantemente tetro, con la sua lira purpurea ed i suoi soavi guanti di cavaliere a lutto. Nell'altro angolo dell'America, alla luce dei lampioni più amari, andava ad attraversare barcollante l'ombra di Pedro Antonio González, minacciato da tutti i terrori, triturato dai pugnali più mortali, spettinato dalla sua sonambolica ubriachezza. Per i saloni incerati di Bogotà, vicino alle più dolcissime signore, vicino all'arpa da mille voci di oro, portava a spasso il doloroso usignolo inguantato, e per gli stagni pestilenziali delle colline di Valparaíso continuava a dare scossoni il nostro tenebroso e misterioso maestro.
Tutte queste solitudini le andava a disperdere in un solo tuono di neve e suono l'alto canto di Rubén Darío.
Ma questa unità totale americana che ci andava a dare Rubén Darío, questo tono forestale e corale, questa unità di rumore e di canto si alzava sui dolori da una America tormentata, sui crepuscoli di una America oscura.
Herrera y Reissig nei cui sonetti brilla una magnanima luce da frutti, luce che non dura che si torce, si increspa, si infuria negli ultimi lampi geniali della sua opera, disfatto da droghe e da amarezza, parsimonioso suicida di questo clima spettrale. Lugones, orgoglioso gigante della forma e del vocabolario; Alfonsina Storni, appassionata e fiorita; José Asunción Silva, albero e cetra del romanticismo americano, entrando nella morte per volontà propria, sono solo i più coraggiosi suicidi, sono gli anticipatori di un corteo legato alle radici sterminatrici della poesia americana. Suicidi furono anche il padre Rubén Darío, tanto atterrito e martire di quanto esisteva, e la delirante e perversa Barba Jacob, e l'abbandonato ed esiliato César Vallejo, grande tra i grandi... Morrò a Parigi con acquazzone / un giorno del quale ho già il ricordo."
In questo coro angosciato come la massa ombrosa di un cielo Je pioggia di una determinata selva americana, di questa necrologia che abbraccia tutti gli inni e le sillabe, l'espressione tutta del nostro essere continentale, la voce di José Asunción Silva si stacca con una purezza ed una dolcezza illimitate, come un violino esile e combattente o come la voce dell'usignolo che esce dalla notte ombrosa.
A quanti abbiamo abbracciato il cammino la poesia ci spaventa a volte l'immenso lavoro degli antenati. Un "Notturno" di José Asunción Silva è tale progresso attivo del pensiero poetico, tale commozione nella città lirica dello spagnolo, come può esserlo nell'inglese del Nordamerica "Il corvo" di Poe, o nell'inglese dell'Inghilterra "La ballata del vecchio marinaio", di Coleridge. Questo gran poema scritto durante questa agonica e breve vita dalle mani tanto delicate che, tuttavia, poterono spararsi il colpo mortale, apre le porte di velluto di un spagnolo magnifico e tenebroso, di una lingua mai prima usata, condotta da un angelo notturno alle ultime decisioni e premure del rituale. Per quelle larghe porte del gran notturno penetra la nostra voce dell'America a prendere parte al coro orchestrale della terra.
È per la voce di Eduardo Carranza, gran poeta della Colombia, espressione viva della forza e la purezza poetica, di un paese che ha fatto saltare la poesia di roccia in roccia e di metallo in metallo, raccogliendo così il più diamantino di vetro e fulgore, è per la voce di questo grande giovane e rappresentativo maestro della gioventù poetica della Colombia che continuerete a conoscere e riconoscere nelle sue pieghe e ripiegature l'ombrosa figura di José Asunción. Ed il fatto stesso che Eduardo Carranza, capitano della nuova poesia colombiana abbia scelto - o la vita lo abbia scelto - per parlare per la prima volta davanti ai cileni di una figura tanto aureolata per la poesia, e tanto irriducibile nel suo misterioso esempio, ci mostrano la grandezza e la continuità della cultura colombiana. In questo pomeriggio di grande inverno australe, Silva e Carranza, uniti dal più segreto e permanente di un'inesauribile tradizione poetica, non possono essere qui ascoltati se non come due grandi fratelli fioriti, l'uno taciturno nel suo abisso, l'altro ardente nel suo fuoco, che si danno le mani attraverso la notte, nel ponte immortale della poesia.

La Nación, Santiago, 27.5.1946. Introduzione ad una
conferenza di Eduardo Carranza su José Asunción
Silva (a 50 anni dalla sua morte) nel Salone di Onore di
l'Università del Cile.


A Eduardo Carranza

Caro Eduardo, poeta della Colombia:
Quando per molti anni e per molte regioni il mio pensiero si tratteneva in Colombia, mi era apparsa la tua vasta terra verde e forestale, il fiume Cauca gonfiato dalle lacrime di María e planando su tutte le terre ed i fiumi, come fazzoletti di velluto celestiale, le straordinarie farfalle amazzoniche, le farfalle di Muzo. Vidi sempre il tuo paese attraverso una luce azzurra di farfalle sotto questo sciame di ali ultraviolette, e vidi anche i casali spiegati in questo tremulo viavai di ali, e dopo vidi la storia della Colombia seguita per un cometa di farfalle azzurre: i suoi grandi capitani, Santander, Bolivar con una farfalla luminosa posata in ogni spalla, come la più abbagliante spallina, ed ai tuoi poeti sfortunati come José Asunción o come Porfirio o superbi come Valencia, perseguitati fino al fine della loro vita da una farfalla, che dimenticavano all'improvviso nel cappello o in un sonetto, farfalla che volò quando Silva consumò il suo romantico suicidio per posarsi più tardi forse sulle tue tempie, Eduardo Carranza.
Perché tu sei la fronte poetica della Colombia, di quella Colombia divisa in mille fronti, di quella patria sonora, popolata per i canti segreti della foresta verginale e per l'alto e disinteressato inno della poesia colombiana. Nella tua patria si accumulò nel sottosuolo la misteriosa pasta dello smeraldo e nell'aria si costruì, come una colonna di vetro, la poesia.
Lasciami ricordare oggi a questa fraternità di poeti che lì potei amare e conoscere. Ti piacerebbe, colombiano pazzo, che stiano i tuoi amici in questa festa. Guardate qui tra noi questo stravagante cavaliere scandinavo che entra per quella porta: è León de Greiff, alto voce corale americana. Guardate più in là quel grande buongustaio di caffè, di vita e di biblioteca: è Arturo Camacho Ramírez, dionisiaco e rivoluzionario; qui, Carlos Martín, che appena ha pescato tre versi ancora inzuppati di fioriture strane nell'ansa caimanica del suo fiume natale; qui viene Ciro Mendía, appena arrivato di Medellin, con la sua lira silvestre sotto il braccio ed il suo nobile aspetto di fuochista marino; e, finalmente, qui hai tuo gran fratello, Jorge Rojas, di gran corpo e di gran cuore, appena uscito dalla sua poesia brinosa, dalla sua epopeica missione sottomarina in cui le sue vittorie furono insignite per il sale più difficile.
Ma tu dai qui, e questa notte, il viso a tutti questi cari assenti.
Nella tua poesia si cristallizzano, rapprendendosi in mille roseti, le linee geometriche della vostra tradizione poetica e, vicino al suo vigore, un sentimento, un'aria emozionante che tocca tutte le foglie del Monte Parnaso americano, aria di vita e di malinconia, aria di congedo e di arrivo, sapore di dolce amore e di grappolo.
Oggi arrivi al nostro tempestoss territorio, all'uragano oceanico della nostra poesia, di una poesia senza più norma che quella delle sue vitali esplorazioni, di una poesia che copre, da Gabriela Mistral ed Ángel Cruchaga fino agli ultimi giovani, tutte le sabbie ed i boschi e gli abissi ed i sentieri, come una clamide agitata dalla furia del vento marino.
Con questo abbraccio irregolare e con questa festa allegra ti riceviamo tra il più nostro, e lo facciamo nella coscienza che sei un lavoratore onesto del laboratorio americano, che il tuo bicchiere cristallino c'appartiene perché in lei mettesti uno specchio vivo di trasparenza e di sogno.
Quando arrivai dalla tua Colombia natale mi ricevettero i tuoi fratelli e compagni, e ricordo che in quello coro di tanta poderosa fraternità, uno dei più giovani e dei più preziosi mi rimproverò in linguaggio di senza pari dignità questa ultima tappa della mia vita e della mia poesia, consacrata ferreamente al futuro dell'uomo ed alle lotte del popolo.
Appena risposi, bensì essendo io stesso, davanti a voi, affinché vedeste il naturale che in me erano allo stesso modo la mia vocazione poetica e la mia condotta politica. Non risposi perché sto rispondendo sempre col mio canto e con la mia azione alle molte domande che mi sono fatte e mi faccio. Ma forse risponderei loro dicendo che lottando tanto ferocemente stiamo difendendo, tra altre cose pure, la poesia pura; cioè, la libertà futura del poeta affinché in un mondo felice - questo è -, in un mondo senza stracci e senza fame, possano sorgere i suoi canti più segreti e più profondi.
Così, dunque, al mio passo per la Colombia, non mi negai alle emanazioni della vostra concezione estetica, ma feci anche mie la vostra investigazione, il vostro problema ed i vostri miti. Entrai nelle vostre belle sale rettangolari e, quando per le loro finestre entrava il largo crepuscolo della Colombia, mi sentii ricco nella vostra preziosità, luminoso con la vostra luce diamantina.
Così pure, oggi che vengo a vivere ed a cantare tra noi, ti voglio chiedere a nome della nostra poesia, dai piedini scalzi di Gabriella ed i poemi che per la bocca di Víctor Domingo Silva parlarono già tempo fa i dolori di un paese pieno di sofferenze, oggi ti chiedo di non negarti al destino che andrai a conquistarti, e che continui a separare qualcosa dal tuo ben riempito tesoro per il tuo paese che è anche il nostro. Marinai delle zattere dei tuoi grandi fiumi, pescatori neri del tuo litorale, minatori del sale e degli smeraldi, contadini caffeari dalla casa povera, tutti essi hanno diritto al tuo pensiero, alla tua attenzione e la tua poesia, e che gran regalo farai ai cileni se la tua vita nella nostra terra australe, tanto bella e tanto dolorosa come tutta la nostra l'America, arriva ad inzupparsi degli oscuri dolori dei paesi che amiamo e per il cui liberazione combatterà domani la tua preziosa, fertile e risplendente poesia.
Bastano queste parole, benché esse ti portino tanto il nostro affetto. Oggi è giorno di festa nel tuo cuore ed in questa sala. Oggi è nato in una strada di Santiago, tra quattro pareti cilene, un tuo figlio. Tua moglie, la dolce Rositaa Coronado, le racconterà della nostra tenerezza. E per te questa festa con fiori di carta sminuzzata, tagliati da noi stessi, con chitarre e vino di autunno, coi nomi di alcuni di quelli che nella tua terra veneriamo, e con un fuoco di amicizia tra la tua patria e la nostra, che tu sei venuto ad accendere, e che deve alzarsi alto, tra la pietra ed il cielo, per non spegnersi mai più.

Santiago, 1.6.1946. Raccolto in PNN, pp. 83-86.


Italia, tesoro universale

Abbiamo amato all'Italia come la più antica madre della cultura, abbiamo visto più tardi una Italia sfigurata e matrigna, trascinando per i capelli i suoi figli, giocare una parte tragica nelle distruzioni di questo tempo: oggi salutiamo con amore e speranza una Italia rinata, una Italia sorella, repubblicana e popolare.
Non perdemmo mai la fede in Italia, nel popolo italiano. Sapevamo della solitudine di Croce, conoscevamo il pensiero di Sforza, stringevamo la mano dei fratelli Rosselli, a Parigi, prima che fossero assassinati vilmente, conoscemmo Frola, Montagnana, Vidali, centinaia di emigrati che vivevano la fede nella resurrezione patria come una fiamma inestinguibile. E quando i soldati italiani perdevano battaglie in una guerra che non volevano, i soldati italiani delle Brigate Internazionali lasciarono in Spagna un nome legendario di prodezza e di onore.
Io credo che di tutte le nazioni sia questo continente latinoamericano quello che raccoglie con più fervore, con una scossa profonda e fraterna queste nuove mani repubblicane che aiutano a sostenere d'ora in poi il baluardo della democrazia europea. Quando la Spagna, prima odiata, dopo sconosciuta, rompe le sue legature feudali ed irrompe oltre il mare con la sua bandiera repubblicana purpurea, rossa e gialla, noi, gli americani, alziamo il nostro più alto e straripante bicchiere per salutare la nascita di un Stato che speravamo dalla nostra propria indipendenza, perché i patrioti americani non lottarono col paese spagnolo, non lottarono contro il ribelle spirito dei casigliani del partito delle Comunitades, né contro Riego, né contro Quevedo e Cervantes, né contro Gracián o Góngora, né contro Goya, bensì contro una Spagna tentacolare, inquisitoria e maledetta. Bolivar ed O'Higgins, Sucre e Morelos, Hidalgo e San Martin lottarono nel 1810 contro una Spagna sanguinaria che oggi continua Francisco Franco, e quegli americani che oggi pretendono di dare la mano a Franco, come quelli che la diedero a Mussolini e Hitler, tradiscono la causa dell'indipendenza americana.
Non furono mai anti italiani gli antifascisti. Precisamente perché veneravamo il faro ultravioletto della sua poesia medievale, perché avevamo imparato in Alighieri il rispetto augusto all'intelligenza ed in Garibaldi il culto indivisibile della libertà e nella sua pittura i più profondi piaceri dello spirito, perché adoravamo i suoi paesi di olio e vini dorati, i suoi casali litoranei pieni di profumo e musica, la costruzione serena e la turbolenza di secoli nel suo pensiero, la fraternità generosa del suo popolo, precisamente per tutto quell'e per molte altre cose che tesoreggiavamo, usciamo nel mezzo della strada a gridare contro il fascismo, mai contro l'Italia, precisamente per non perdere l'Italia, per liberarla dei suoi boia, per recuperarla come un tesoro universale.
Anni angosciati! I reazionari fascisti cominciano col chiudere per un giorno o tre giorni un quotidiano comunista, cominciano ad intervenire nei sindacati, producendo risse mortali, e dopo portano la soldatesca per schiacciare il disordine che loro stessi provocano. Ahi a quei paesi che non vedono in tempo il pericolo, perché dopo i tiranni vanno inghiottendo tutte le altre libertà, finchè solo rimagono fuori dalla prigione con alcuni bande di avventurieri che al suo turno sono divorati! C'è allora un gran silenzio che chiamano ordine questi becchini della libertà.
Oggi la nostra America repubblicana ha una notizia, grande e luminosa sorella: Italia della conoscenza e della bellezza, Italia guerrigliera e popolare, Italia piena di api e bandiere, in questi giorni grandi del tuo destino in cui apri le dure porte del futuro, pulisci la tua casa dalle bestie, e che il tuo paese ordini, costruisca, pensi, balli, purifichi, lotti e cammini, ricostruisca e canti!

Aurora de Chile, num. 23, Santiago, giugno-luglio 1946.


Julio Ortiz di Zárate
Araucaria nazionale

Questo formidabile edificio di forza e tenerezza è crollato, come una gran araucaria dei territori australi. La vita di Julio Ortiz di Zárate trascorse tra le materie fondamentali dell'universo: pietra, legno, colore e lotta, fraternità umana.
Ebbe la statura aspra e tenera della gran araucaria, ogni muscolo e frutto, ferma radice sotto la terra rocciosa e padiglione poderoso dove le canzoni si preservavano della tempesta.
Le sue mani di artigiano combatterono il ferro più duro e la pietra più altezzosa. Ferro e pietra sotto le sue mani si trasformarono in fiore, in rampicante, in ala.
Dopo, queste mani lottarono con la luce e la sua forza artigiana raccolse per la nostra pittura il soffio immortale del vivente.
Io lo conobbi negli umidi giorni passati e, anche, nei giorni di sole. Fu il mio amico di temporale e primavera, e nell'ombrosa notte del patimento usciva da lui una canzone come da una casa di pietra, e nei giorni dei ciliegi fioriti cantava in lui la luce innumerevole.
È morto in questi giorni di nebbia e lotta, quando appena avemmo tempo per accompagnarlo, e quando dobbiamo sistemare la sua immensa assenza, rimpicciolirla, per potere vivere. Forse anche pecchiamo con la sua vita, senza prendere abbastanza da lei, senza tirare fuori del suo cuore giganti più radici, più forza, più profondità, più tenerezza.

Extra, Santiago, 1.8.1946.


Il popolo ti chiama Gabriel
[Frammento]
EL PUEBLO TE LLAMA GABRIEL. (Pagina 594.) Neruda fu il Capo Nazionale della Propaganda della candidatura di Gabriel González Videla. La organizzò con successo incluso un raduno di folla nello Stadio Nazionale di Santiago, dove il candidato lesse il giuramento che alcuni mesi dopo avrebbe tradito. Sul poema Neruda stesso ricorderà dopo anni: "Effettivamente, io lo scrissi. Gabriel González Videla stava sempre dietro me chiedendomi che scrivessi cose nel suo onore. Non l'accettai mai. Quel suo atteggiamento, man mano che si avvicinava l'elezione, diventava sempre di più insopportabile. Alla vigilia dell'atto dello Stadio insistè fino alla stanchezza affinché gli scrivessi un poema. Lo feci solo dopo che me lo chiese la Direzione del mio partito. Fu un breve romanzo cavalleresco nel quale ognuna delle sue strofe finiva col verso El pueblo te llama gabriel (Il popolo ti chiama Gabriel). Non ne feci nessuna copia. Lesse il manoscritto di fronte al microfono l'attrice Inés Moreno. Ed appena finì di recitare mi avvicinai a lei, gli chiesi l'originale del poema e lo spezzai lì stesso in mille pezzi. Avevo visto tante cose cose nei miei contatti con lui che intuivo la possibilità di una capriola. Nessuno conosce oggi quel poema, perché non si pubblicò da nessuna parte!" (dichiarazioni ad El Siglo, Santiago, 3.8.1963). Il frammento che qui pubblichiamo - a titolo di curiosità documentale e senza garanzie di totale fedeltà - fu probabilmente ricostruito a memoria dal quotidiano Extra, magari a richiesta del candidato stesso. Neanche Collier e Sater menzionano la fonte della strofa che citano nella loro Historia de Chile.

Dalla sabbia fino all'altezza,
dal salnitro allo spessore,
il popolo ti chiama Gabriel,
con semplicità e con dolcezza

come un fratello, fratello fedele.
E tra tutte le cose pure
non ce n'è un'altra come questo alloro:
il popolo ti chiama Gabriel.

Extra, Santiago, 4.9.1946.


Nel nord l'operaio del rame,
nel sud l'operaio della rotaia,
da un confine all’altro della patria
il popolo ti chiama Gabriel

In Collier y Sater, p. 217.


Salnitro

Salnitro, farina della luna piena,
cereale della pampa riarsa,
schiuma delle aspre sabbie,
gelsomino di fiori sepolti.

Polvere di stella infossata in terra oscura,
neve di solitudini infocate,
coltello di innevata impugnatura,
rosa bianca di sangue schizzato.

Vicino alla tua nivea luce di stalattite,
dolore, vento e dolore, l'uomo abita:
straccio e solitudine sono la sua medaglia.

Fratelli delle terre desolate:
qui avete come un mucchio di spade
il mio cuore disposto alla battaglia.

El Siglo, Santiago, 27.10.1946.


Argelia Veloso

Camminando tra razze di altre terre, nelle isole del Pacifico caldo, o tra le rugose sierre messicane, lamentai molte volte che il Cile non producesse arti miniaturiali del Paese: ci mancherà il Don prolisso che lavora in una goccia: la scienza e la pazienza del minuscolo.
Al contrario la nostra gran cordigliera, e l'immagine di gesta e valori leggendari, provoca e sostiene lo smisurato del Cile, altezza ed avvallamento, elevazione o caduta che a volte generano grandi cose belle ed altre rovesciano nel vuoto le pale della forza inutile.
La grazia e la bellezza minute di queste creazioni dell'Argelia Veloso, mi restituiscono con generoso splendore questa assenza, come certi poemi di Barrenechea o Nicanor Parra, in cui la luce, la rugiada ed il polline ballano su un'ape.
Queste minime statue di colore di grano, finemente tramate, intessute filo a filo, vivono dentro l’infinito popolare, come molte meravigliose creazioni senza cognome, germogliate delle mani del popolo.
Questa arte della
raffia portata in Cile dalla nostra luminosa María Valencia, devia e continua, trovando in Algelia un nuovo alveo.
Quanti dettagli di bellezza. Come se lo sfregamento digitale di una fata avesse toccato questa materia gialla, dandogli movimento affascinante, numerosa poesia, vento di ballo, corporazione di fiori.
Un nuovo artista arriva alla nostra geografia, popolando la mappa con piccoli esseri indimenticabili che, tra i grandi macigni e fiumi della patria, esisteranno orgogliosamente, perché furono costruiti con avanzi vegetali, con sogni e dita di donna, con quasi niente, e tuttavia conservano nella sua costruzione parte del fragile ed eterno monumento umano: popolo, tenerezza, verità e poesia.

Los Guindos, dicembre 1946

Extra, Santiago, 24.12.1946.


Addio a Nicolás Guillén

Io comprendo che Nicolás Guillén abbia poca voglia di andare via del Cile. Quello che accade è che ha molti motivi di tornare a Cuba, ed io anche. Cuba è un punto di terra circondato dappertutto dal mare e dalla poesia di Nicolás Guillén. Lì le braccia ed i bicchieri, le palme e le anche, i venti ed i racconti hanno il profumo acido, salato ed azzurro della schiuma antillana, e propagano un suono di argento fine e sonaglio silvestre; sono suoni che Nicolás Guillen ricevè corno eredità nel sangue o donazione che egli fece del suo attivo cuore facendolo patrimonio sonoro del suo paese.
La cosa certa è che se a Cuba dovessimo mettergli un cognome, malgrado Martí gli desse le sue stalattiti intellettuali e guerriere, troviamo quel nome un poco freddo per Cuba, e non gli metteremo neanche Marinello, malgrado Juan onori all'isola e ci onori perché la rigida geometria di quel cognome non quadra a questa isola marina nel suo matrimonio. No, signori, a Cuba, tra tanti nomi illustri di filosofi o liberatori, gli daremo oggi un cognome fragrante di poeta platinato dall'amore americano, un cognome di cantore e lottatore, richiameremo a Cuba CUBA GUILLÉN per il suo profondo amore reciproco, poiché l'isola ama il suo gran poeta e questo nonostante le sue infedeltà di viaggiatore conquista a Cuba palio e rispetto, devozione e passione dappertutto.

Questo Guillén è, dunque, parte principale, organica ed estiva di quello mondo antillano limitato da aromi e cicloni dalle cui viscere esce un paese coraggioso e ballerino, guerriero ed allegro, che molte volte ha stupito il nostro tempo.
Invincibili ed indelebili cubani delle paludi, fratelli della selva, studenti antidispotici, capitani di Mella e di Martí, dinamitardi e poeti, sanguinanti tra i canneti, dormieti con libri macchiati dalla polvere da sparo ed il sangue, seri, affilati, inflessibili e notturni combattenti della libertà cubana!
Tra essi questo Nicolás che alla cadenza sorprendente del suo tamburo razziale aggreghi tutta l'area fiorita di un combattimento senza tregua!
In Spagna lo vedemmo tra le esplosioni, in Messico appena distribuite le terre aspirando l'odore acre delle praterie liberate, in Venezuela, pensoso e direttore in epoca di grandi confusioni, in Cile, nella piazza della Costituzione, nel mulinello della nostra lotta, dicendo le sue parole memorabili e care: "Se io fossi cileno, voterei per Gabriel González Videla." Da allora, Nicolás, sei cileno. Lì firmò il popolo del Cile la tua lettera di cittadinanza.

Per il resto, americano integrale, di costa e cordigliera; di neve e caldo, di schiavitú e libertà, sei gran poeta di Cuba. Ora, dopo i tuoi viaggi atlantici e pacifici, vai da un lato all’altro, di questa grande Patria nostra, assorbendo l'asprezza e la soavità della nostra geografia comune. In alcuni posti ti ubriacò la zagara o la raffica bagnata e penetrante dell'alba nell'Orinoco, in altre parti spruzzarono il tuo viso bruno le gocce di sangue che saltano ancora dal corpo martirizzato dell'America. Dopo, nell'alto Perù, ricevesti l'aria originale del nostro pianeta americano, uscita dell'ombelico sepolto, delle culture del mais; dopo volasti sulla Bolivia, paese misterioso, profondo e metallurgico che si affaccia alle aurore di una coscienza popolare. Finalmente, arrivasti a questo aspro paese australe, di neve ed oceano dove già ti chiamiano Nicolás, e dove ti seguiamo ricordando con una tenacia nell'amore che solo noi, nella nostra America conosciamo, perché siamo fino al fine un paese di radici e di giacimenti, una patria di profondità.
Così pure ti è amato il nostro paese, il gran baluardo australe della libertà nel mondo. Antifascisti ed antimperialisti, accigliati cittadini della miniera o del campo feudale, i lavoratori del Cile sostengono la colonna del futuro americano. Essi ti hanno abbracciato nella desolata pampa salnitrica, nelle cordigliere del rame, da tutte le parti essi ti hanno riconosciuto come campana nefasta e sonora nel crepuscolo mattutino dell'uomo.

Nicolás Guillén, manca qui un poco, il mio abbraccio personale. Mi sarebbe piaciuto farti un regalo grandioso: averti regalato le migliori stelle della grandezza australe, averti dato un fiume di vino oscuro della zona dei grandi vigneti, c'esserti regalato Porto Montt o Valparaíso, affinché fossi re di queste solitudini marine. Ma hai preferito seguire le vaste strade dell'America in cui altre città ed altri paesi ti riceveranno come fratello, come conquistatore conquistato.
Il Cile non ferma nessuno se non col suo amore. Le nostre grandi porte di acqua marina, di granito e ghiacciaio, si aprirono per ricevere il tuo rango di poeta esemplare, e rimarranno aperte aspettandoti, come solo si aprono per gli eroi o gli esiliati in questa fortezza i cui i migliori soldati ti conobbero e ti amarono nella poesia e nella lotta.

El Siglo, Santiago, 11.1.1947.


A Paul Langevin

Non sparisce Paul Langevin dallo SCENARIO europeo, bensì dall'INTEGRITÀ europea, dalla fondamentale malta della Francia.
Non è Langevin un uomo di SCENARIO ma di PROFONDITÀ: non è una maschera della cultura quella che vediamo oggi estinguersi attraverso l'oceano e la morte, bensì una delle sue radici esploratrici e nutrizionali.
Situiamo questa gran figura dell'intelligenza tra la luce sanguinante delle due guerre mondiali. Tra quei due angosciosi rantoli vediamo sorgere straordinarie figure umaniste, eroi della coscienza universale, come Einstein e Romain Rolland, Henri Barbusse e Paul Langevin.
Nel grave disorientamento di quegli anni, fermi nei suoi baluardi di saggezza e serenità, questi uomini espressero molte volte con un'interezza che li ha fatti immortali i sordidi conflitti, le bugie sistematiche del capitalismo, le minaccianti tenebre che si accumulavano per il futuro dell'umanità.

Langevin è tanto grande in questo terreno della morale politica del nostro tempo come nella sua azione tenace nella fisica materiale.
Durante quegli anni lo vediamo allo stesso modo nel laboratorio che sul palco, cercando e mostrando la verità scientifica e civile.
È tra i primi ad annunciare lo splendore sovietico, tra i primi in guardare verso l'Unione Sovietica e mantenere lì il su alto sguardo incorruttibile, resistendo con ciò la calunnia e la viltà che dal principio accumularono gli imperialismi per distruggere la resurrezione dell'uomo che lì si operava.
Questo gran palombaro della materia porta la sua esplorazione all’inevitabile: non trema davanti allo sconosciuto, ma cerca nelle leggi del materialismo la difesa e l'elevazione degli esseri umani. Questo materialista implacabile risulta essere uno dei campioni dello spirito umano, un gladiatore titanico ingigantito nella difesa del patrimonio culturale.

Io lo conobbi in quegli anni annunciatori poco prima della guerra spagnola e della nuova guerra mondiale.
Prima lo vidi molte volte nelle presidenze di grandi riunioni dell'intelligenza. A volte nella Casa della Cultura, vicino a Barbusse, spettrale, divorato per la lotta, altre volte nelle grandi moltitudini del Vélodrome d'Hiver: dappertutto dove si associava l'uomo per illuminare la strada storica della società o per difendere i diritti conquistati dal popolo, lì stava questo maschio cavaliere bianco e scrutatori occhi sereni ed azzurri.
Così mi fu mostrata la grandezza di certe anzianità dell’Europa che mostrano dozzine di queste teste innevate, vecchi visi eminenti, testate di prua della conoscenza.
Quanto ci manca in America la robusta anzianità da questi grandi protagonisti della cultura. Qui l'uomo in generale si rammollisce presto, come una cascata tropicale, e dall'equilibrio, con gli anni, passa all'equilibrismo e di lì alla vigliaccheria, al tradimento e alla reazione.
Mi piaceva in quegli agitati giorni in cui si dibattevano i problemi impetuodi dell'Europa vedere la testa d’argento di Langevin, vicino al vecchio e glorioso Barbusse, vicino al vecchio e glorioso Victor Base, assassinato dopo dai nazisti, vicino ad altre figure memorabili, presiedendo innumerabili riunioni, combattendo in tutti i fronti della libertà minacciata.
Poi la guerra della Spagna mi fece conoscerlo più intimamente. Conobbi la sua casa, sua figlia e suo giovane genero, giovane saggio che anche torturarono ed assassinarono i nazisti. Strinsi la sua mano di conoscitore e combattente, e al riceverla e stringerla mi sembrò toccare la più vigorosa quercia di Francia rumorosa.
Poi lo persi di vista. I nazisti lo gettano in una cella solitaria e con fiammiferi spenti scrive formule fisiche e pensieri in minuscole carte di sigaretta. Durante la notte dell'Europa, la coscienza del nostro camerata illustre continua accesa, illuminando con molte altre volontà quello verso la liberazione.

Immediatamente restituito alla libertà, installato nuovamente con tutti gli onori nella direzione della celebre Scuola di Fisica e Chimica di Parigi, entra nel Partito Comunista della Francia.
I suoi ultimi lavori ci avvertono del pericolo immenso dell'uso nella guerra dell'energia atomica e del benessere che questa energia può derivare per l'umanità se non è incanalata aggressivamente verso la distruzione.
Cito le sue parole: "Nei principi del periodo capitalista si ebbe urgente necessità di dare al lavoratore il minimo di istruzione, rappresentata dall'educazione primaria dei vecchi tempi, questo è, per la lettura, la scrittura e le quattro operazioni, aumentare la sua abilità tecnica ed il plusvalore del suo lavoro. Nella nuova era sarà necessario sfruttare tecniche e maneggiare macchine di complessità crescente in mezzo ad una comunità umana che costantemente progredirà in coesione ed unità, e questo esigerà da ognuno nell'interesse comune un grado elevato di istruzione, una comprensione incessantemente in sviluppo della struttura del mondo e delle leggi che dirigono la natura e l'uomo."
Avete ascoltato già questo pomeriggio di labbra del maestro signor Lira e del giovane fisico Nicanor Parra, una valutazione senza dubbio veritiera della portata scientifica che Langevin lascia come eredità alla scienza universale.
È conveniente che ci licenziamo questo pomeriggio stabilendo anche il lascito che ci lascia riassumendo la sua preziosa condotta cittadina.

E permettetemi per concentrare l'eredità civile di questo gran pensatore che scenda dal generale all’incidentale ad un piccolo motivo di ieri nella notte nella nostra città di Santiago.
Io uscivo in strada da un ristorante, pensando alle parole che questo pomeriggio doveva dirvi quando osservai centinaia di volantini di propaganda appena incollati nella parete.
Mi avvicinai, ne staccai alcuni. Qui ne ho uno. Dice: "Cileno: Scegli." Ed una bandiera cilena vicino ad una bandiera sovietica. Ed alcune iniziali di una società anticomunista.
E pensai alle lotte di quell'uomo, di quell'anziano illustre.
I suoi nemici sono vivi.
I nemici dell'intelligenza della verità, gli avversari di Langevin stanno anche vicino a qui.
Si alzano in altre parti i velenosi incubi e succubi, le larve che alimentarono le tenebre dell'Europa.
I figli di Goebbels, di Laval, di Franco, di Hitler, degli assassini di Norimberga, alzano la testa.
Gli assassini del genero di Langevin, quelli che inviarono la figlia del saggio illustre ad una casa di morte, stanno vicino a noi in questo istante.
Pubblicano una rivista (
Estanquero) con fiele e bugia, con veleno e crimine, con detrito di boia.
A quelle due bandiere che essi vogliono far apparire come bandiere nemiche rispondiamo sempre con la voce eterna di Langevin: "Non scegliamo, accettiamo le due, amiamo la nostra bandiera e la bandiera di una gran nazione, madre di paesi e di azioni immense." Rispondiamo: "La nostra bandiera ed altre bandiere, tutte le bandiere dei paesi liberi." Però mai la loro bandiera, la svastica dell'odio gocciolante di sangue innocente di gas maledetto.
Questa è l'eredità di Langevin, compatrioti. Questo è il suo insegnamento.
Benché il nostro sforzo non sia tanto intenso, benché la nostra capacità non si confronti alla sua grandezza, mettiamo la nostra vita nell'ora decisiva della lotta, per la dignità e la libertà, per la coscienza e la cultura, per la verità e per il paese, Per tutto quello che amò nella sua vita il grande, nobile ed austero Paul Langevin, eroe venerato della sua patria e del mondo.

El Siglo, Santiago, 17.1.1947. Discorso nel
Salone di Onore dell'Università del Cile.


La parola del cancelliere

Ricordo che in quei terribili primi mesi della guerra spagnola, quando solo l'URSS alzava la voce in difesa da quella accerchiata democrazia, irruppe nella mia casa un gruppo di giovani miliziani che, pieni di polvere e sudore, tirarono sopra al mio tavolo alcune cartucce vuote e tiepide ancora del combattimento:

- Guarda ll loro marchio - mi dissero.

Erano del Messico.
Erano l'unico aiuto della nostra America al paese eroico. Mi riempii di allegria, di un'allegria inzuppata di vergogna e lacrime.
- E il Cile? - domandava qualcosa dentro me - E il Cile?
Il governo di allora - ed alcuni altri che lo seguirono - tradirono la propria causa della nostra nascita come Repubblica. Agustín Edwards, nella Lega delle Nazioni, diede la sua pugnalata di assassino nella schiena della Repubblica con l'applauso di tutta la villania fascista del mondo.
Quelle pallottole messicane sparate al petto del fascismo mi riempirono di orgoglio e pena.
Portai questa vergogna per molti anni nella lotta. Il Cile, mi sembrava, non pagava il suo debito con la causa universale della libertà.
I nostri ministri di Relazioni Esterne continuarono una politica di vigliaccheria, di compromesso, di negare la luce.
Oggi per la prima volta ho una sensazione grande di sollievo.
La voce del cancelliere nel Senato ha riempito questi anni strrili in cui il paese del Cile non era stato udito.
Julliet ha fatto un discorso storico. Le sue parole sostentando i nostri diritti nell'Antartide, la sua formidabile denuncia del regime franchista, la sua posizione di appoggio al veto nelle Nazioni Unite, furono per la prima volta in lunghi anni, le parole che aspettavamo dalla nostra patria e dalla nostra democrazia.
Questo nobile allegato per la nostra sovranità, in difesa della dignità umana, restituisce onore alla nostra politica estera. Sulle istruzioni torbide delle cancellerie precedenti, cariche di veleno nazista, di istruzioni antiespagnole ed antisemite, di circolari antidemocratiche, arriva finalmente questo documento di alta morale, figlio di una nuova coscienza.
Che lo conoscano i paesi dell'America, i paesi duramente schiavizzati che ci cercarono nei momenti difficili, e non rispondemmo. Che lo conoscano i paesi liberati, perché il Cile assume di nuovo la carta direttiva ed orientatrice nella lotta contro le tirannie.
E che la rottura con Franco non tardi. È già esposta in questo documento trascendentale del cancelliere, e realizzata in piccolo, con sacrificio eroico, dagli operai portuali di Tocopilla.

El Siglo, Santiago, 22.1.1947.


María Luisa Vicentini, futuro consigliere comunale per Ñuñoa

Una vita di sforzo, di esempio, di lotta. Una vita che, dall'infanzia, si annuncia con un destino irrevocabile. A 16 anni, María Luisa Vicentini è già maestra. A quella stessa età, tutto l'ambiente che la circonda ed in cui si è formata, gli dà il marchio sostanziale della suo fede vendicatrice. Tra i suoi amici sta quello martire indimenticabile di tutte le gioventù, José Domingo Gómez Rojas, sta quel Juan Gandulfo, ribelle, brillante e sarcastico, e quell'altro martire del suo proprio destino, il dottore Demaría, che formano la nervatura della più brillante e rivoluzionaria Federazione di Studenti, esempio e coscienza, allora, di tutte le gioventù dell'America.
Ha avuto dei genitori formati nel lavoro rude ed onesto degli emigranti. Suo patrigno è un artista che appartiene ad un partito rivoluzionario in Italia, del quale questa bambina che è María Luisa Vicentini, segnalata dal dito del destino, impara le prime lezioni di amore al paese che più tardi la porta ad entrare al Partito Comunista.
A venti anni è madre e con ciò ha imparato tutte le lezioni della vita, perché i casi del suo destino e la sua consegna completa alla causa popolare, fanno, allora, più solitaria ed esemplare una vita di studio e preparazione. È ancora quasi una bambina. Ma che cosa fa allora questa donna dai ricchi e puri doni di umanità? Coi suoi scarsi mezzi, forma una scuola che denomina Juan Martínez de Rozas. Lì insegna e le riesce il sostentamento per i suoi figli. Poi organizza una scuola notturna per operai che non possono pagare la loro educazione. In questi atti si vede già la pasta di lottatrice che più tardi di fronte a tutti i più effettivi raggruppamenti femminili del Partito Comunista, lotterà nelle segreterie e per strade per la gran campagna antifascista del partito, senza evitare mai i carichi di maggiore responsabilità e sacrificio. È l'ora in cui la bestia bruna ha mostrato i suoi artigli e ha sommerso il mondo nella guerra più cruenta e sterminatrice di tutti i tempi. María Luisa Vicentini è incaricata nel suo comune di raccogliere fondi per aiuto dei poveri, delle grandi desolazioni della guerra. È l'opera che deve compiere nella 7.ª Comune, alla quale ha dedicato mille dolori e sforzi anonimi. Non c'è una casa operaia in cui María Luisa non abbia fatto arrivare la sua voce e la sua mano piena di insegnamenti e tenerezza. La sua voce che incoraggia e consiglia; la sua mano che segnala e che protegge. È tanto sincera ed efficace la sua fede ed il suo lavoro, sono stati tanto notevoli i suoi servizi, che quando il partito necessita di rinforzare i suoi centri di azione più responsabile, la chiama per organizzare il macchina organizzatrice del Primo Congresso di Donne, nella Commissione di Propaganda e nella difficile Commissione dei Problemi Internazionali, per portarla dopo aver sommato tutte queste dure prove, alla Commissione Nazionale Femminile.
Riflessiva, onesta, rivoluzianaria e studiosa María Luisa Vicentini rappresenterà al paese del Comune di Ñuñoa con straordinaria lucidità, col prestigio della sua cultura formata nella lotta, e la sua fine personalità, sensibile e ferrea, forgiata nel migliore acciaio del partito.

El Siglo, Santiago, 23.3.1947.


Attacca alla cultura

Negli stessi giorni, e dalla stessa mano avvelenata, nei quotidiani più rappresentativi del letamaio reazionario,
El Diario Ilustrado e La Opinión, sono usciti attacchi a due poeti significativi nella nostra vita nazionale: Angelo Cruchaga Santa María e Julio Barrenechea.
Questi attacchi continuano le linee appena apparse in
El Diario Ilustrado in cui incitano a nome del patriottismo a non ascoltare musica russa. Ma non si sono fermati lì questi burini fascisti.
Attaccano Angelo Cruchaga per ostacolare che gli sia concesso il premio Nazionale di Letteratura. Questo premio è un atto di giustizia ritardata, una tardiva onorificenza per il largo e rumoroso fiume della sua poesia, una manifestazione ufficiale di riconoscimento ad una nobile ed elevata vita, ad un'opera trascendentale nella nostra letteratura.
Non credo che i giurati, a causa di questi attacchi ignobili, risentiti ed invidiosi, smettano di prendere in considerazione chi rappresenta nella sua poetica il totale splendore della nostra poesia.
A Julio Barrenechea rimproverano la sua brillante rappresentazione, sicuramente la prima in qualità della nostra diplomazia, e specialmente il suo coraggioso telegramma inviato dalla sua ambasciata dove rappresentava il paese del Cile e non ad avviliti governanti, per protestare per quello che il miserabile di
La Opinión chiama "alcuni incidenti nella piazza Bulnes."
Né Cruchaga né Barrenechea hanno bisogno di difensori, ma l'origine oscuramente anticomunista, immondamente reazionario, envidentemente nazista di questi attacchi alla cultura mi fa scrivere queste righe, sebbene i suoi autori anonimi e codardi meriterebbero solo un sputo nel viso.
L'atteggiamento democratico di questi scrittori che rappresentano lo spirito del nostro paese, e che generosamente hanno contribuito dalla presidenza dell'Alianza de Intelectuales che ambedue hanno esercitato alle lotte antifasciste ed antimperialiste della nostra patria, li fanno loro oggi oggetto di questi sporchi attacchi.
È forse il vero riconoscimento alla loro posizione di lottatori, di scrittori e di patrioti. Ciò indicherà loro, senza dubbio, quanto disturba l'esercizio della dignità alla marmaglia.

El Siglo, Santiago, 26.5.1947.


Per Alfonso Alcalde

Chi li chiama?
Dai boschi,
da una pioggia, più altra, da tutte le sabbie
arrivano i poeti
lasciando una traccia di platino
bruciato
una piccola orma di scarpe perdute
nell'argilla sotterranea.

Tu, Alfonso, dalle
città marine porti
fumo e pioggia nelle tue mani
e sai tessere il filo fresco e freddo
della profondità mattutina.

Tu come altri all'improvviso
accorri dall'onore della selva, o
perduto, tra le case di legno
bagnato
nel silenzio
insabbiato
prendi il treno o l'aria
e qui sta il tuo cappello tremulo, lo
spazio delle nuove radici.

Ti saluta
Pablo Neruda
Maggio 1947

Alfonso Alcalde, Balada para la ciutad muerta,
Santiago, Nascimento, 1947.


Prologo per Juan de Luigi
PRÓLOGO PARA JUAN DE LUIGI. (Pagine 608-609.) La relazione amichevole che questo prologo manifesta si ruppe più tardi, forse per effetto dello stretto contatto tra De Luigi (critico letterario del quotidiano El Siglo durante vari anni) e Pablo de Rokha. Come sembra, Neruda pensava a De Luigi scrivendo la " Oda al mal ciego", OCGC, vol. II, pp. 768-769.

Se chiudendo gli occhi affondate la mano in questa trasparenza che si schianterà nelle vostre dita, sappiate che questa corrente è poesia.
Chiara materia!
Corse segreta tra la notte e l'asprezza, filò una ad una le nevi della conoscenza, si immerse in moltissime sabbie, cantò sotto le foglie.
Sillaba insigne!
Quindi il silenzio la seppellì vivente: la aggrovigliò con le sue fibre più notturne, la separò con le sue mani tessili e cadde su questa corrente sonora come una pietra grande in una strada.
Allora Juan de Luigi si alzò dalla sua propria ombra giacente: arrivò l'aspro giorno della vita ed il suo combattimento. Lottò ora ed ora, notte e notte, fuoco e fuoco.
Lo vidi da lontano consumare i suoi occhi, alzare pagine scintillanti, abbattere altipiani di ragnatela, affondare il suo raggio nelle retrobotteghe tenebrose.
Ricordai allora la sua implacabile gioventù, il suo esame del più indecifrabile, la sua intelligenza mai tranquilla, la sua passione elevata alle nevi più alte. Ricordai quello che, adolescenti, c'unì; i testi che ci diedero rivelazioni, le parole che insieme leggevamo tremando.
Allora lo vidi sempre di più vicino. Diversi giorni e viaggi e lotte differenti, e terre remote ed amici e nemici, ci portarono, tuttavia, allo stesso posto: a difendere gomito a gomito principi e verità perseguite ed eterne.
Ed allora brillarono queste pagine, questa antica corrente di acque pure. Volle Juan rimuovere la gran pietra della vita sull'acqua.
E questa voce canta tra rami ed api, dolce e penetrante, impregnata di immortale malinconia e allegro vino classico! Il tempo ed il silenzio la decantarono, l'oscurità rispettò il suo fulgore.
Eternità trasparente!
Lucido fuoco!

Sotto i castagni, domenica 21 dicembre 1947.

Juan de Luigi,
Poema del verano, Santiago, Zig-Zag, 1948
ed anche in Prólogos, ed. Lumen, pp. 25-26.


La patria prigioniera

Patria della mia tenerezza e dei miei dolori,
patria di amore, di primavera ed acqua,
oggi sanguinano le tue bandiere tricolori
sui reticolati di Pisagua.

Esisti, patria, sopra le paure
ed arde il tuo cuore di fuoco e forgia
oggi, tra carcerieri e traditori,
ieri, tra i muri di Rancagua.

Ma uscirai all'aria, all'allegria,
uscirai dal dolore di queste agonie,
e da questa sommersa primavera,

libera nella dignità del tuo diritto
e canterai nella luce, ed a pieno petto,
la tua dolce voce, oh, patria prigioniera!

Unidad, num. 60, Santiago, dicembre 1947.



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