Note di Adrián Recinos
tratte da "Popol Vuh - Le antiche storie del Quiché"
Edizioni G. EINAUDI - TORINO - 1960
SECONDA PARTE
1 Chi agabal, cioè: prima che vi fosse sole, né luna, né fosse stato creato l'uomo.
2 Hun-Hunahpú, «1 Hunahpú»; Vucub-Hunahpú, «7 Hanabpú», sono due giorni del calendario quiché. Com'è noto, gli antichi Indiani indicavano i giorni preponendo a ciascuno un numero, formando così serie di 13 giorni che si ripetevano senza interruzione sino a formare il ciclo di 260 giorni, che i Maya chiamavano tzolkin, i Quiché cholquih ed i Messicani totalpohualli [Goetz e Morley: tonalpohualli]. Era uso dare alle persone il nome del giorno in cui nascevano.
Il calendario quiché si compone di venti giorni. Ciascun giorno è preceduto da un numero di una serie da 1 a 13, che si ripete indefinitamente, di modo che il nome di un giorno ed il numero che lo accompagna non si possono ripetere finché non siano passati 260 giorni, cioè 13x20. Questo periodo di 260 giorni costituisce l'anno rituale, o cholquih. I nomi dei giorni ed il loro significato in italiano sono i seguenti:
1. Imox, nome di un pesce.
2. Ic, luna, vento, spirito.
3. Acbal, notte.
4. Cat, rete per portare il mais, oppure lucertola.
5. Can, serpente.
6. Camey, morte.
7. Queh, cervo.
8. Canel, ricchezza, pannocchia di mais giallo.
9. Toh, pioggia, tormenta.
10. Tzt, cane.
11. Batz, scimmia.
12. E, ci, dente, spazzola.
13. Ah, canna, o mais tenero.
14. Balam, tigre.
15. Tziquín, uccello.
16. Ahmac, gufo.
17. Noh, forte, resina.
18. Tihax, filo di lama, ossidiana.
19. Caoc, lampo e tuono.
20. Hunahpú, cacciatore, capo o signore.
Con questi 20 giorni i Quiché formano i 18 mesi seguenti:
1. Teqiuezepual, tempo di seminare i campi di mais.
2. Tziba pop, stuoia o pelate dipinto.
3. Zac, bianco come certi fiori.
4. Ch'ab, suolo fangoso.
5. Nabey mam, primo vecchio.
6. Ucab mam, secondo vecchio. Sono entrambi mesi di cattivo augurio.
7. Nabey liquín cá, terra molle e scivolosa.
8. Ucab liquín cá, secondo mese come il precedente.
9. Nabey pach, primo germoglio, tempo di covare.
10. Ucab pach, secondo germoglio.
11. Tzizil lakam, vengono i bocciuoli.
12. Tziquín kih, stagione degli uccelli.
13. Cakam, nuvole rosse.
14. Botam, stuoie arrotolate.
15. Nabey zih, primo mese di fiori bianchi.
16. Ucab zih, secondo mese di fiori bianchi.
17. Rox zih, terzo mese di fiori bianchi.
18. Chee, alberi. Pariché nel calendario cakchiquel.
Il Brinton (1893) prese questi dati, ed altri, da vari calendari indigeni che risalgono al secolo XVIII e dalla Geografía del Gavarrete.
3 II Brasseur traduce questa parte in modo erroneo: Or, ces Hunhún-Ahpú étaient deux; ils avaìent engendré deux fils légitimes, et le nom du premier né (était) Hunbatz et Hunchouen le nom du second. Come si legge più avanti, Hunbatz e Hunchouén erano figli soltanto di Hun-Hunahpú e della moglie di costui, Ixbaqui-yalo. Hun-Batz, «1 scimmia», è l'undicesimo giorno del calendario quiché; Hun-Chouén, anche «1 scimmia», 1 Chuén, è l'undicesimo giorno del calendario maya. Si osservi che, oltre all'annuncio che verrá detto il nome dei genitori di Hunahpú ed Ixbalanqué, non si torna a parlare di questi eroi finché non se ne racconta la nascita nel Capitolo quinto della Seconda parte. In quel passo si narra l'altra metá della storia, che a questo punto l'autore lascia intenzionalmente nell'oscuritá.
4 Ixbaquiyalo, «quella dalle ossa legate», secondo Ximénez. Potrebbe essere anche «quella dalle ossa disuguali».
5 Ab chuen, in maya, significa «artigiano». Diccionario de Motul.
6 Nel luogo dove giocavano alla palla, pa hom nell'originale, andava ad osservarli il voc o vac, che è lo sparviero. Nel parlare dei Maya del Yucatan, il vescovo Landa dice che « giocavano alla palla e ad un gioco con fave simile al gioco dei dadi».
7 Chi-Xibalbá. Anticamente, dice il Padre Goto, questo nome, Xibalbay, significava il demonio, o i defunti, o le visioni che apparivano agli Indiani. Nel Yucatan aveva gli stessi significati. Xibalbá era il diavolo e xibil significa «scomparire come una visione o un fantasma », secondo il Diccionario de Motul. Presso i Maya esisteva un ballo chiamato Xibalbá ocot, o «ballo del demonio». Per i Quiché, Xibalbá era la regione sotterranea abitata da nemici dell'uomo.
8 Hun Camé, «1 morte»; Vucub Camé, «7 morte»; sono giorni del calendario. La gerarchia quiché andava spesso da uno a sette.
9 Xiquiripat, «bisaccia volante», secondo Ximénez. Cuchumaquic, «sangue raccolto», secondo lo stesso traduttore.
10 Ahalpuh, «colui che fabbrica il pus». Nome di malattia tra i Cakchiquel. Ahalganá, «colui che provoca l'idropisia», secondo Ximénez.
11 Chi pe puh chiri r'acan.
12 Letteralmente, «nel suo giallore» (Ximénez). Specie d'itterizia.
13 Chamiabac, «che porta una mazza fatta d'osso». Chamiaholom, «che porta una mazza con un teschio». Sono entrambi simboli di smagrimento e di morte. Ahchamí, «l'uomo della mazza», simbolo d'autoritá, o «del randello», che è portato dal custode dell'ordine pubblico.
14 Ahalmez, «colui che faceva spazzatura» (Ximénez). «Colui che lavora nelle immondizie» (Brasseur). Ahaltocob, «colui che portava miseria» (Ximénez). «Colui che opera o produce la miseria» (Brasseur). Potrebbe essere colui che cagiona le ferite, l'assassino. Il verbo toc significa «trafiggere», «pugnalare», «ferire», «sgozzare». Tocopé ha gli stessi significati.
15 Xic, «sparviero»; Patán, striscia di cuoio che gli Indiani portano sulla fronte, alla quale è appeso il carico che recano sulla schiena, nota oggi col nome messicano di mecapal. Parecchi di questi nomi si trovano nel Vocabulario de las lenguas Qiché y Kakchiquel, che li qualifica «nomi di demoni», spiegando che derivano da Ahau, «Signore»; Ahalpuh, Calel Ahau, Ahal Tocol, Ahal Xic, Ahal Canyá; quest'ultimo è evidentemente l'Ahalganá del Popol Vuh. Il Padre Pantaleón de Guzmán dice che, tra altre divinitá, i Cakchiquel adoravano Ahal puh, Ahal Tecob, Ahal Xic ed Ahal Canyá; tutti questi sono nomi di malattie; ed adoravano inoltre Tatán bak e Tatán holom, «il padre delle ossa» e «il padre dei teschi», dèi della morte. Come si osserverá, questi ultimi nomi non sono molto diversi da Chamiabac e Chamiaholom. Ahal puh pare sia lo stesso dio della morte che i Maya del Yucatan conoscevano col nome di Ah Puch o Hunbau e che aveva il suo regno nel Mitnal o inferno maya.
16 Tzuun, «rotella di cuoio», interpreta Ximénez. Erano i ripari di cuoio che coprivano loro le gambe e le proteggevano dal colpo della palla.
17 Baté, «anelli», «collare per la gola» (Vocabulario Qiché-Cakckiquel).
18 Pachgab, «guanti».
19 Yachvach, «corona» od ornamento che portavano sulla testa.
20 Vachzot, «riparo della faccia», secondo Ximénez, «maschera». Tutti questi oggetti erano necessari per il violento gioco della palla e per ornamento dei giocatori.
21 Così nell'originale, per Hun-Chouén.
22 Titolo di alcuni Signori e capi quiché.
23 Chabi-Tucur, « Gufo saetta »; Huracán-Tucur, « Gufo con una gamba» o «Gufo gigante»; Caquix-Tucur, «Gufo ara»; Holom-Tucur, «Testa di gufo», o «Gufo che si distingueva per la testa». Tucur è il nome quiché del gufo. Così si chiama anche un villaggio della Verapaz, San Miguel Tucurú. Quest'uccello notturno nel Guatemala è noto indistintamente col nome di tucurú e con quello di tecolote, dal náhuatl tecolotl. Il dottor Stoll suggerisce l'idea che il nome che venne dato dai Messicani alla Verapaz fosse Teocolotlán [Goetz e Morley: Tecolotlán], o «luogo di gufi o tecolote», «la terra dei tucur», e che i missionari spagnoli, per errore, avessero scritto Teçolotlán, che poi si convertì in Tezulutlán e, dopo la conquista pacifica della regione da parte dei domenicani, in Verapaz. Effettivamente Ixtlilxóchitl dice che i Toltechi emigrarono verso Sud, in Guatimala e Tecolotlán, ed il Sahagún (voi. III, lib. XI, cap. II), nota che il quetzal abita «nella provincia che si chiama Tecolotlán, che è verso l'Honduras, o nelle vicinanze».
24 La grande Carchah, importante centro di popolazione nella Verapaz, regione in cui i Quiché sembrano aver localizzato i fatti mitologici del Popol Vuh. Nel manoscritto cakchiquel si legge che questi ed i Quiché andarono a colonizzare Subinal, al centro di Chacachil, al centro di Nimxor, al centro di Moinal, al centro di Carchah (nicah Carchah). Alcuni di questi luoghi conservano i loro nomi antichi e si possono facilmente identificare nella regione della Verapaz. Secondo il documento cakchiquel, Nim Xor e Carchah erano due luoghi diversi.
25 Cioè, se ne vanno ma ritorneranno.
26 X-chi canah cu caná va ca quic. Vi è qui un gioco di parole; canah è «restare», e caná «pegno», «ostaggio» o «prigioniero».
27 Nu zivan cul, «il mio burrone» o «il burrone stretto». Cu zivan, «burrone stretto, angusto». Zivan è «burrone», ma si chiamano così anche le caverne sotterranee nella Verapaz e nel Petén; sono i siguanes del linguaggio comune della regione. I dati topografici forniti da questo capitolo e le indicazioni che si trovano in altri passi di questa Seconda parte dimostrano che gli antichi Quiché avevano idee abbastanza precise sulla situazione del regno di Xibalbá, dove abitavano capi sanguinari e dispotici ai quali essi furono sottoposti nei tempi mitologici. In questo capitolo si indica come punto di partenza della strada di Xibalbá il grande villaggio di Cardia, che esiste ancor oggi a pochi chilometri da Cobán, la capitale della circoscrizione dell'Alta Verapaz. All'uscita da Carchá la strada discendeva «per scale molto ripide» sino ad arrivare alle forre, o siguanes, tra le quali scorreva vorticosamente un fiume; cioè, si scendeva dalle montagne dell'interno fino ai bassi-piani del Petén, ai domini degli Itza. Alla fine di questa Seconda parte si dice che quelli di Xibalbá erano gli Ah-Tza, gli Ab-Tucur, i malvagi, i gufi. Queste parole, però, si possono leggere anche come «quelli di Itzá» (Petén) e «quelli di Tucur», cioè Tecolotlán, la terra dei gufi (la Verapaz). Sono le due regioni del Nord del Guatemala, notissime nel mondo antico, sino alle quali i Quiché non poterono estendere le loro conquiste. Questi nomi confermano le indicazioni topografiche del testo. Le tribù che in epoche relativamente recenti arrivarono alle montagne dell'interno del Guatemala e vi si stabilirono, credevano senza alcun dubbio che il Nord del territorio fosse popolato dai loro vecchi amici, gli stessi che, in epoche precedenti, avevano disposto della vita dei loro antenati. Tali abitanti del Nord erano i Maya del Vecchio Impero, uno dei cui rami, quello degli Itzá, fu l'ultimo ad arrendersi agli Spagnoli, verso la fine del secolo XVII. Altri dati sparsi per il Popol Vub rivelano che Xibalbá era un luogo profondo, sotterraneo, un abisso dal quale si doveva salire per arrivare sulla terra; ma lo stesso documento quiché spiega che i Signori di Xibalbá non erano dèi, né erano immortali, che erano falsi di cuore, ipocriti, invidiosi e tiranni. Che non fossero invincibili è dimostrato nel corso del racconto.
28 Chupam halhal ha zimah. La parola quiché zimah corrisponde all'albero ed al frutto che gli Indiani messicani chiamavano xicalli e che in Guatemala è chiamato jicaro. È un albero della famiglia delle bignoniacee. Crescenza cujete. Il frutto di quest'albero, di forma rotonda od ovale, ha una scorza dura con la quale gli Indiani fabbricano vasi che chiamano jícaras e guacales.
29 Cb'y [Goetz e Morley: Chuvec ch'y...] qaza u vach, nell'originale. Nel testo trascritto dal Brasseur de Bourbourg si legge ch'y qaza a vach. Il mutamento di una sola vocale rendeva incomprensibile la frase, che lo Schuller (1935) credeva fosse stata mutilata dal traduttore francese.
30 Chah in quiché:, ocotl nella lingua messicana, pino resinoso usato dagli Indiani per illuminazione,
31 Ziq, «tabacco»; zikar, «fumare».
32 Qequma-ha. Il Brasseur paragona questa Casa Buia con la casa tenebrosa che Votán costruì a Huehuetlán, provincia di Soconusco, come narra il Vescovo Núñez de la Vega.
33 Are curi qui chah xa coloquic cha zaquitoc u bi ri chah [Goetz e Morley aggiungono: u chah] Xibalbá. Zaquitoc, letteralmente, è «coltello bianco». Il Brasseur traduce blanc silex. Il Seler pensa che il zaquitoc fosse il coltello usato nei sacrifici umani per aprire il petto alle vittime. La descrizione contenuta nel testo identifica in modo chiaro la punta di selce, dura e lucente, che gli antichi Indiani maya e quiché usavano come arma tagliente e pungente (coltelli, punte di lancia, ecc.). L'autore gioca con le parole cha, «selce» ed «ossidiana» e chah, «pino», ocote, «scheggia di pino», ecc. Lo scopo di questa confusione, e la spiegazione di tutto questo passo, è evidentemente ricordare che gli ospiti di Xibalbá sono minacciati dal coltello del sacrificio.
34 Chay, «ossidiana», sostanza vetrosa, pietra vulcanica nera, la «pietra della folgore» dei contadini, dalla quale gli Indiani staccavano piccole lame taglienti che usavano come coltelli o rasoi e come punte di freccia.
35 Quii nabec u tihobal Xibalbá. Così Ximénez legge questa frase e ne è questo il senso logico.
36 Ta x-e puz cut, x-e muc cut chi Pucbal-Chah u bi. Ximénez (1929) traduce questo nome: «il mondezzaio dove gettavano la cenere». Il Brasseur traduce: «deposito di cenere». Pare evidente che vi è qui un errore di trascrizione e che il nome di quel luogo deve esser stato Puzbal-Chah, cioè «il luogo destinato ai sacrifici nel gioco della palla». Puzbal è «luogo destinato ai sacrifici», secondo
il Basseta, e chah è il gioco della palla. Anche il Raynaud dà quest'ultima interpretazione.
37 X-e muc vi, frase dell'originale che manca nel testo pubblicato dal Brasscur.
38 Ma qo ma chapuvic ri u vach. Il Brasseur non tradusse questa frase, benché essa figuri nell'originale e nel testo che egli stesso pubblica.
39 Ma cu calah chiri u holom Hunhún-Ahpú.
40 Cuchumaquic, «sangue raccolto»; Ixquic, «sangue piccolo, o di donna».
41 Naol Ahuchán, «oratore», titolo di uno dei funzionar! che servivano alla corte e che si chiamavano Lolmay, Atzihuinac, Galel e Ahuchán. Erano gli amministratori, i contabili ed i tesorieri, come si legge nella Petición de los Principales de Santiago Atitlán al Rey Felipe II, inserita in Ternaux Compans, Recueil de pièces relatives a la conquète du Mexique, Paris 1838, p. 415. Naoh ah uchán, «colui che sa», «maestro del discorso», secondo il P. Pantaleón de Guzmán.
42 Era soltanto la testa di Hun-Hunahpú. Come si sará osservato, questo passo ricorda il mito messicano della nascita di Huitzilopochtli, il quale venne generato da una pallottola di piuma che discese sulla madre sua Coatlicue e che questa si mise sul seno, «della quale dicono rimase gravida», come racconta il Sahagún (lib. III, cap. I).
Ta x-il ri r'al, letteralmente, «quando vide il figlio».
44 Qo chi r'al, letteralmente «è con figlio», come in inglese with child.
45 Xa u hoxbal, letteralmente, «non è altro che una prostituta».
46 Ch'a qolo u chi ri, letteralmente, «scrutale la bocca».
47 Apa ahchoc e ri aval qo ch'a pam, at nu meal?
48 Ma-habi achih v'etaam u vach, «non ho conosciuto la faccia di un uomo».
49 II zaqtiitoc, il coltello usato nei sacrifici umani.
50 Cb'anim cb'y canta uloc pa zel.
51 Ma cu xa ch'y chih vinac chi camic.
52 Xa quic xa holomax rech ch'uxoc are chicut chuvach. Ximénez traduce questo difficile passo così: «Solo saranno loro il sangue ed i teschi ». La frase contiene il pronome possessivo al singolare, seguendo l'uso dello scrittore quiché di considerare una sola persona il gruppo di due, in questo caso Hun-Camé e Vucub-Camé. La parola holomax non si trova né nel Tesoro di Ximénez né negli altri vocabolari quiché e cakchiquel da noi consultati; ma ha una grande somiglianza con la parola maya yolomal, che è un composto di O'om, «sangue» nell'antica lingua del Yucatan. Yolomal [Goetz e Morley: Yo omal...] uinic, «sangue di uomo», registra il Diccionario de Motul. È possibile, pertanto, che holomax sia un derivato del maya o'om, yolomal, sinonimo di «sangue», e che perciò l’autore, cui piaceva molto accumulare sinonimi, lo usi qui per dare enfasi all'espressione.
53 Anche se non era stato detto prima, Ixquic sapeva benissimo che i Signori desideravano il suo cuore per bruciarlo. Era questa un'antica usanza dei Maya. Il Padre Landa narra che nel mese Mac «gettavano sul fuoco i cuori degli uccelli per bruciarli e, se non vi erano animali grandi come tigri, leoni o caimani, fabbricavano dei cuori con l'incenso (pom o copale); e se vi erano animali e li uccidevano, gettavano i loro cuori su quel fuoco».
54 Chuh cakché. È l'albero che i Messicani chiamavano ezquahuitl, «albero di sangue» e che gli europei conoscono anche col nome di «sangue», Sangue di Drago, Croton sanguifluus, pianta tropicale la cui linfa ha il colore e la densitá del sangue. Il Vázquez de Espinosa lo descrive così: «Vi è un altro albero in questa provincia di Chiapa ed in quella del Guatemala che si chiama dragos. Sono alti come mandorli, la foglia è bianca ed i fusti sono dello stesso colore, e quando vi si dà in qualsiasi punto una coltellata stilla sangue in modo così naturale come se fosse umano», Compendio y Descripción de las Indias Occidentales, Washington 1948, I parte, lib. V, p. 195. Nella Relación della sua spedizione nel Petén, il Padre Agustín Cano, citato da Ximénez (1929, vol. III, p. 17), dice che al Nord di Cahabón, Verapaz, «vi è un genere di alberi grandi, che se si incidono versano sangue come quello di Drago, e nella lingua di Cahabón vengono chiamati Pilix ed in chol Cancante».
55 Rumal quic holomax ch'u chaxic. Si ripetono qui le parole che abbiamo esaminate in una nota precedente, ma in un senso leggermente diverso. Quic è «sangue», «linfa» e «resina di albero», specialmente quella del caucciù o gomma elastica, che gli antichi Maya e Quiché usavano talvolta come incenso per le loro cerimonie. La palla con cui giocavano si chiamava anche quic. Il nome dell'eroina di questo episodio era pure Ixquic, «quella del sangue femminile», o «quella della gomma elastica». Il Brasseur de Bourbourg (1869) la chiama «la vierge Ixquic, celle de la gomme élastique ».
56 Era la nonna di questi ragazzi, che fungeva loro da madre.
57 Nel trascrivere il testo quiché, il Brasseur de Bourbourg soppresse varie parole di questo passo, giudicandole probabilmente inutile ripetizione. Il testo completo è il seguente: Arecut e qo ri u chuch Hunbatz, Hunchouen, ta x-ul ri ixoc Ixquic u bi. Ta x-ul cut ri ìxoc Ixquic ruq ri u chuch Hunbatz, Hunchouen.
58 Milpa, «campo seminato a mais»; viene chiamato così anche il piede o cespo di mais.
59 Echa, «cibo», «nutrimento», per antonomasia, «mais».
60 Custode dei seminati.
61 II Brasseur interpreta questi nomi così: Ixtoh, la dea della pioggia; Ixcanil, la dea delle messi (da ganel, «spiga di mais giallo»); e Ixcacau, la dea del cacao.
62 U qolibal cat chuxe. Né Brasseur né Ximénez traducono chuxe, «ai piedi».
63 E nauinac chic, « saggi », « maghi » od « indovini » in quiché.
64 X-c'ah rumai qui chaquimal, qui gag vachibal puch cumal Hunbatz, Hunchouen.
65 Xere qu'etaam ri qui qoheic, queheri zac ca qu'ilo.
66 X-caminac cut qui naoh qui cabichal chirech qui chaquic Hunbatz, Hunchouen. Questo passo non venne capito dal Brasseur. Dei traduttori del Popol Vuh soltanto Ximénez lo interpretò correttamente, dicendo: «Ed essendosi i due consultati insieme, sul modo di vincere Hunbatz e Hun-chouen».
67 Ca tzih ta ch'uxoc, letteralmente, «che la nostra parola, o il nostro ordine, si compia».
68 Chi qui qux, letteralmente, «nel loro cuore».
69 Canté, palo amarillo; Gliricidia sepium. Albero dalle cui radici i Maya ricavavano una sostanza di colore giallo, secondo il Diccionario de Motul. Nel Yucatan è noto col nome di Zac-yac e nell'America Centrale con quello di Madre de cacao. Standley 1930.
70 Ch'y quira y vex. « Slacciatevi i calzoni, o le brache »; probabilmente era un semplice perizoma, simile al maxtatl degli Indiani messicani ed all'ex dei Maya.
71 La scimmia di Hunahpú.
72 X-e ul chic u nicahal u va ha, letteralmente, «arrivarono al centro della sponda della casa ».
73 U chi qui qux, letteralmente «la bocca del loro stomaco».
74 I pittori e gli incisori del Yucatan invocavano Hunchevén e Hunahau, che erano i figli minori di Ixcbel ed Itzamná (la dea ed il dio venerati dai Maya della penisola), a quanto narra il P. Las Casas (1909, CCXXXV, «De los libros y de las tradiciones religiosas que habù en Guatemala»). Quei figli minori - dice il cronista - non erano dèi, ma uomini divini. I loro nomi sono evidentemente quelli di due giorni del calendario maya, 1 Chuén e 1 Ahau. Il lettore noterá facilmente la somiglianzá che esiste tra i giovani quiché ed i semidei maya. Il P. Las Casas scrive: «Tutti gli artigiani abili, come i pittori, i piumai, gli incisori, i gioiellieri e simili, veneravano e facevano sacrifici a quei figli minori chiamati Hunchevén e Hunahau, affinchè concedessero loro buon ingegno e destrezza per eseguire il loro lavoro in modo eccellente e perfetto».
75 La tortora, mucuy in maya.
76 Xalog nell'originale; letteralmente, «invano», come traduce Ximénez, o «gratuitamente», come scrive il Brasseur.
77 La parola catoh è tradotta da Ximénez con lo spagnolo roza, che significa il campo formato abbattendo gli alberi e bruciandoli subito.
78 Are puch tiquil u qux agab ta x-e petic, x-e chauiheic conohel ta x-e -petic. Are qui chabal ri: Yaclin che, yaclin caam [Nota di Goetz e Morley].
79 Nell'originale si legge: Xa cuch u he x-qui chap vi. Ci pare che vi sia un errore e che si debba leggere xa cu u he, ecc., e cosi abbiamo tradotto.
80 Nella sua trascrizione del testo quiché, il Brasseur omise le parole ri qu'etzabal x-e quel canoc, che abbiamo tradotto come si legge qui. Etzan è «giocare» e etzabal gli strumenti di gioco.
81 Erano in concreto i cibi quotidiani degli antichi Quiché. Coi semi di cacao (cacau in maya ed in Quiché) essi facevano una bevanda molto nutriente, ed usavano allo stesso modo una specie di cacao, Theobroma bicolor, che i Quiché chiamavano pec e che è conosciuta generalmente col nome messicano di pataxte. [Nota di Goetz e Morley. Cfr. Terza parte, nota 4].
82 Come ciò che si serba nella dispensa.
83 Xa ch'y cutu ca ti, letteralmente, «macinate il nostro pranzo». Il pranzo dei Quiché consisteva essenzialmente in focacce e torte di mais cotto e macinato sulla pietra chiamata caam, il metatl del Messico.
84 Cutum-ic, in quiché; chilmulli, in náhuatl, salsa di chile o peperoncino rosso.
85 Chupam cutum ic, dentro al chilmol. La salsa liquida e rossa fungeva da specchio e rifletteva i movimenti del topo sul soffitto, senza che paresse che i ragazzi stessero ad osservarlo.
86 Oh hizabah chi ya.
87 Ad attingere acqua.
88 Naqui x-chi v'u chah qui taquic ri viy? nell'originale.
89 Tamazul u bi, ri xpek. L'autore usa la parola náhuatl tamazul per indicare il rospo, mettendo in evidenza l'influsso tolteco sulla cultura degli Indiani del Guatemala.
90 Letteralmente, «armadillo bianco». Serpe di grandi dimensioni che fa molto rumore quando scappa, Santa María, Diccionario Cakchiquel.
91 Sparviero che mangia le serpi, Vocabulario de los Padres Franciscanos.
92 Nell'originale vi è qui un gioco di parole: qui cu tacal u bac uub chu bac u vach, «lo colpirono con la pallottola (bac} della cerbottana nel globo (bac) dell'occhio ».
93 Lotz, «acetosa» volgarmente nel Guatemala, «chicha forte»; lotz-quic, «gomma o succo di acetosa». È un'erba tropicale americana, che dai Messicani è chiamata Xocoyolli, e che probabilmente s'identifica con la Oxalis della nostra classificazione di storia naturale, dice il Brasseur. Egli aggiunge che gli indigeni dell'America Centrale gli assicurarono che la usavano per curare le cataratte degli occhi. L'Inca Garcilaso de la Vega parla parimenti di una pianta simile usata dagli Indiani del Perù. Secondo il Vocabulario de los Padres Franciscanos, lotz è anche il sapuyulo, o nocciolo del frutto del zapote, che talora si ricopre di una gomma bianca od ambrata.
94 Xa quehe xa bic.
95 Molay ed i suoi derivati in lingua maya significano «riunione», «stormo», «branco», da mol, «ammucchiare». Il testo probabilmente allude ai grandi stormi di uccelli che si trovano nei boschi e nei campi tropicali del Guatemala.
96 Zanzara. Lo stesso alleato di Hunahpú ed Ixbalanqué che aveva aperto un buco nella brocca di Ixmucané.
97 II Brasseur corresse il testo di questo passo, che nel manoscritto originale si legge così: - ¿Naqui Hun-Came naquila tni-x-i tiouic? ¿Xab i na qu'i chila x-i tioic? x-cha chic u cah culel.
98 Nell'enumerazione dei Signori di Xibalbá che si legge a questo punto appaiono alcuni nomi diversi da quelli che figurano nel Capitolo primo di questa Seconda parte e se ne omettono altri.
È pur vero che tra l'uno e l'altro episodio era trascorsa una generazione e tali mutamenti erano naturali. Oppure si tratta di un'altra versione di queste storie? Sono nuovi i seguenti nomi: Quicxic (ala insanguinata), Quicré (denti coperti di sangue). Nella composizione di tutti questi nomi entra, com'è naturale, la parola quic («sangue»).
99 X qui cut u vach, letteralmente, «mostrarono il volto».
100 Varanel, «i guardiani notturni».
101 Caca chicop, «insetto di fuoco», «lucciole». Come in inglese, fire-fly.
102 per comprendere meglio i passi del Popol Vuh in cui si parla del gioco della palla, conviene leggere la seguente descrizione del Sahagún (vol. II, lib. VIII, cap. X, p. 297): «Altre volte [il Signore] per suo passatempo giocava alla palla, e per questo gli serbavano le sue palle di ulli; queste palle avevano le dimensioni di grandi bocce per giocare ai birilli [e] erano massicce, di una certa resina o gomma che si chiamava ulli, che è molto leggera e salta come un pallone; e conduceva pure con sé buoni giocatori di palla che giocavano alla sua presenza e dalla [parte] avversaria altri giocatori illustri, e si vincevano oro e chalchigüites e grani d'oro e turchesi e schiavi e coperte ricche e maxtles ricchi, e campi di mais e case, ecc. [piume, cacao, vesti di piume] ... il campo del gioco della palla si chiamava tlaxtli o tlachtli, ed era costituito da due pareti, distanti l'una dall'altra venti o trenta piedi e lunghe fino a circa quaranta o cinquanta piedi; le pareti ed il pavimento erano fortemente imbiancati ed erano alte circa una volta e mezzo la statura di un uomo, ed in mezzo al campo vi era una riga che serviva al gioco; e tra le pareti, alla metà dello spazio del campo, vi erano due pietre simili a macine da mulino bucate nel mezzo, poste l'una dirimpetto all'altra e ciascuna aveva un buco di larghezza tale che la palla potesse passarvi. E chi vi introduceva la palla vinceva il gioco; non giocavano con le mani, ma colpivano la palla con le natiche; per giocare usavano guanti nelle mani ed una cinghia di cuoio sulle natiche, per colpire la palla».
103 II Brasseur alterò di proposito l'ordine di questa parte del dialogo. Abbiamo ristabilito l'ordine secondo l'originale quiché che, come da noi, venne rispettato da Ximénez; si confronti la sua prima versione (Ximénez, 1857).
104 Chil, «verme che brucia», secondo Ximénez, Tesoro. Può essere il millepiedi, secondo il Vocabulario Maya-Quiché-Cakchiquel que se habla en la laguna de Atitlán. Chil è il nome del grillo nella lingua mam.
105 Questo passo è molto oscuro ed il Brasseur lo definisce inintelligibile. Vi è racchiuso un evidente gioco di parole. L'originale dice: He bala xa hu chil, x-e cha Xibalbá. - Ma bala, xa holom coh cha chic, x-e cha qabolab. Bala, particella indefinita che si usa per dare enfasi al discorso, talvolta è anche avverbio di luogo. Pare tuttavia che qui si ripeta nel testo perché simile a balam, come se si volesse dire: «Non comanda la testa della tigre (balam), ma quella del leone (coh)». Sembrano termini dell'antico gioco della palla. Sul fianco dell'imponente campo del gioco della palla di Chichén-Itzá sorge il Tempio dei Giaguari o delle Tigri, così chiamato per le figure di queste belve scolpite sulle pareti. Non v'è dubbio che la tigre fosse in qualche modo connessa col gioco della palla.
106 Catepuch ta x-qu il Xibalbá ri zaqui tog, ta x-el chupam ri quic. Quelli di Xibalbá volevano, senza indugio, uccidere i loro invitati col coltello del sacrificio e desistettero da tale proposito soltanto dinanzi alla giusta protesta che si legge nel periodo seguente.
107 Are cu x-oc ri quic. Giocando con la propria palla, i ragazzi non ebbero difficoltà ad introdurla nell'anello degli avversari e vinsero la partita.
108 Xa cacha ca cah cah zel cotzih. Cah è il numerale «quattro» e l'avverbio di tempo «presto».
109 Caca-muchih. Muchih o muchit è il nome di una certa pianta chiamata chipilín, dice Ximénez. È una pianta della famiglia delle leguminose. Crotalaria longirostrata. La pianta chiamata dal testo Carinimac non si è potuta identificare.
110 Nabe mi x-e ca chaco.
111 Quitzih ta agab cb'y ya ri ca cotzih. Agab, agabá, ha qui il significato «all'alba» o «di buon mattino», «alla fine della notte» e soltanto se così lo si interpreta, questa parte del racconto si accorda con quanto si legge più avanti.
112 Ca chacom puch. Ai traduttori del Popol Vuh è sinora sfuggito il significato del verbo chacón, da chacá e chaqué, « tagliare rami o fiori » in cakchiquel ed in quiché.
113 Agabá, come nel capoverso precedente.
114 Ta x-c cha chire cha. Il Brasseur osserva a questo punto che i Quiché si compiacevano di tali giochi di parole. In tutto questo capitolo l'autore usa la parola cha che significa «parlare», «dire», «lancia», «coltello», «vetro», ecc. Lo stesso si può dire della parola cah, usata, come si è detto in una nota precedente, quale aggettivo, verbo ed avverbio.
115 Chai-zanic, forfecchie.
116 Chequen-zanic, formiche rossicce o nere che escono di notte e tagliano le foglie tenere ed i fiori. Si conoscono popolarmente nel Guatemala col nome di zompopo, parola messicana.
117 ¿Ana-vi x-pe vi r'ilo ca chacon cumal? Di nuovo il verbo chacon, nell'accezione di « tagliare rami o fiori ».
118 Purpuvec e puhuy (si pronunci purpuguec e pujuy [con la jota]) sono i nomi che i Quiché ed i Cakchiquel danno ancor oggi al barbagianni e alla civetta. Sono parole imitative del canto di que-sti uccelli. «Puhuy, Pupuek, uccello notturno che esce quando splende la luna, di notte», dice il Vocabulario de los Padres Franciscanos. Gli uccelli di cui parla il testo pare siano piuttosto le succiacapre, volgarmente chiamate nella regione cuerpo-ruin. Le parole indigene imitano la voce fessa di questi uccelli, che si sente durante la notte. Puhuy è il nome maya di uno di questi uccelli notturni. Il Vocabulario de las lenguas Qiché y Kakchiquel li definisce così: Xpurpugüek, «cuerpo-ruin»; Pujuyú, «chotacabra» [succiacapre]. [Entrambi i nomi si riferiscono allo stesso uccello, membro della famiglia dei Caprimulgidi; nota di Goetz e Morley].
119 Ri puhuyú u bi e caib chahal [Goetz e Morley: ... caib chi chahal...] ticon, u ticon Hun-Camé, Vucub-Camé.
120 Tiquitoh chicut ta x-zaquiric.
121 Qo yvech ch'uxic, letteralmente, «vostro sará ciò che è qui». Ximénez traduce: «Sará questo il vostro cibo!», leggendo yvecha invece del pronome possessivo yvech, «ciò che è vostro».
122 Pipistrello di morte. Il dio vampiro dei codici maya appare con il coltello dei sacrifici in una mano e la sua vittima nell'altra.
123 Chaqui tzam, «punta secca»; si può interpretare come il bastone indurito sul fuoco.
124 Huzu ch'utzinic ch'opon chi qui vach, nell'originale. Chupam nel Brasseur per errore di trascrizione.
125 Ri tiz coc, letteralmente, «la tartaruga stretta o compressa» (entro il suo guscio).
126 È difficilissimo capire questo passo nella trascrizione del Brasseur. Il testo si deve leggere: Are cut ta chi r'ah zaquiric chi cactarin u xecab. - ¡Ca xaquinu [Goetz e Morley: zaquinu] chic, amat!, x-u chax ri vuch. Come si è detto, la punteggiatura non è completa nel manoscritto del Popol Vuh e le correzioni del Brasseur non sempre sono giuste. È evidente, inoltre, che le ultime parole del testo si devono leggere: x-u chax ri vuch, così come più avanti si legge x-u chax umul, «venne detto al coniglio». Nel trascrivere il testo primitivo, Ximénez scrisse chux e non chax, ma nella sua traduzione letterale si legge: «venne detto al zopilote».
Ci pare che abbia sbagliato anche chi ha tradotto a questo punto il verbo xaquin «aprire le gambe». Xaquin in quiché significa «render scuro», «annerire», «macchiare di fuliggine o di carbone». Ximénez, giustamente, traduce; obscurecer.
Si osservi, inoltre, che noi, seguendo Ximénez, interpretiamo vuch come zopilote (avvoltoio) e non «volpe» o «sariga» (tacuat-zín), come il Brasseur ed altri. «Avvoltoio» in quiché è cuch o kuch, scritto talvolta dai missionari spagnoli guch, che ha lo stesso suono di vuch o uuch. Il significato di questo passo è più appropriato per l'avvoltoio o zopilote, uccello dalle penne nere, che per il piccolo mammifero chiamato tacuatzín o volpe. L'immagine del zopilote che allarga le ali per oscurare il cielo e nascondere la segreta fabbricazione della testa artificiale di Hunahpú, appartiene al più genuino repertorio della mitologia.
127 Ve, x-cha ri mama. I Quiché chiamano il Zopilote maschio mama cuch, ossia «zopilote vecchio». L'identitá dell'animale qui nominato, comunque, è priva d'importanza. Gli antichi Indiani si servivano degli oggetti e degli esseri naturali per rappresentare le idee e le cose immateriali, fondandosi sulla somiglianzá dei nomi. Nel caso che qui ci interessa, essi cercavano senza dubbio di rappresentare l'idea dell'oscuritá che precede immediatamente l'alba, da loro chiamata vuch. Il P. Thomas Coto così scrive, nello spiegare il significato della parola vuch: «Significa parimenti quel-l'oscurarsi del cielo quando ormai sta per spuntar l'alba». Per rappresentare questo concetto, gli Indiani tracciavano la figura dell'animale il cui nome suonava come la parola che essi cercavano di suggerire.
128 II testo si deve leggere: Mana qui c'at chaahic, xaqui ch'a yecuh avib. Xa in hun qui qui banouic, x-cha Ixbalanqué chire.
129 Chupam pixc. Ximénez traduce «nell'orto dei pomodori», leggendo pix per pixc. Il Brasseur scrive entre les glands de la corniche. Villacorta e Rodas scrivono, «nel vano sotto il tetto» [Schultze Jena, «cornice». Goetz e Morley]. In quiché ed in cakchiquel, pixc è la quercia ed il suo frutto, la ghianda, gland in francese
130 Mi-x-y bano qui yan, nell'originale.
131 Ch'a caca ri holom chi quic. Il Brasseur legge ed interpreta questa frase a suo capriccio. Cac significa «scagliar pietre», «colpire».
132 Nell'originale: Ma cu chi qui ca caxou chic.
133 Chi yecoub quib, letteralmente «fingeva» o «simulava».
134 Xulú, «diavoletti che apparivano accanto ai fiumi ed avevano con essi poteri curativi», secondo il P. Barela. Ahxulú è lo stesso di ahquih, «indovino». Pacam, «distinto».
135 Cioè quelli ili Hunahpú ed Ixbalanqué.
136 Vinac-car, letteralmente, «uomo-pesce». Senza dubbio l'autore gioca con queste parole per suggerire che gli eroi della storia erano figli delle acque. Vinac-car, in realtá, è il nome comune di una varietá di pesci, un «pesce grandissimo, - dice il Barela, - che si pesca col verbasco» (immerso nell'acqua per avvelenarla). Tuttavia, il Vocabulario de las lenguas Qiché y Kakchiquel, attenendosi certamente al senso letterale delle parole, le interpreta «pesce grande e sirena».
137 Nella danza dell'Ixtzul i ballerini portavano piccole maschere e code di ara sulla nuca, secondo il Barela. Il Landa dice che nelle feste di Capodanno, quando questo cadeva nel giorno Muluc, i Maya del Yucatan ballavano una danza con trampoli altissimi.
138 Vinaquic chic, letteralmente, «le creavano di nuovo».
139 La frase esatta nell'originale è: Ma quehe la cu x-chi ca ban chique ri áhauab?
140 Vi è qui una ripetizione dello stesso concetto in una serie di verbi sinonimi: que mocho chic, chi qui xule la qui vach, x-qui quemelah quib, chi qui luc quib, chi qui pack quib. Quest'ultima forma venne omessa dal Brasseur. Tutte queste frasi hanno un senso identico e sono senza dubbio usate per sottolineare l'esagerato rispetto che i giovani eroi, così abilmente travestiti da vagabondi, volevano fingere dinanzi ai loro nemici, i Signori di Xibalbá.
141 Xhunahpú nell'originale.
142 Que gabar cu ri ronohel rahaual Xibalbá, letteralmente «erano ebbri tutti i Signori di Xibalbá».
143 Libah chicut, omesso nella trascrizione del Brasseur.
144 Questi incantamenti, che ricordano gli effetti di suggestione dei fachiri dell'India, erano ben noti ai Maya del Messico. Il Sahagún, nel descrivere le usanze degli Huastechi, tribù messicana connessa coi Maya del Yucatan, racconta che quando essi ritornarono a Panutla, o Pánuco, «portarono con sé i canti di cui facevano uso quando ballavano e tutti gli ornamenti che usavano nella danza o areyto. Amavano pure fare raggiri, con cui ingannavano la gente, dandole ad intendere che fosse vero ciò che era falso, come far credere che si bruciavano le case, quando così non era; che facevano apparire una fontana con pesci, e non vi era nulla, se non illusione degli occhi; che si uccidevano da sé facendo a fette ed a pezzi le proprie carni, ed altre cose che erano apparenti e non vere...» Come osserva il Brasseur, questo passo parrebbe preso dal Popol Vuh. Cfr. Sahagún, lib. X, cap. XXIX, capoverso 12.
145 Xhunahpu, Xbalanque, nell'originale.
146 Hunal tah coh i puzu x-e cha cut, omesso dal Brasseur.
147 Ma pa yx qo cam oh pu quicotirizay yve, ecc. Il verbo cam significa «morire» e «condurre». Il Brasseur traduce questo passo: est-ce que pour vous peut exister la mort?, ma il senso completo della frase giustifica l'interpretazione datale da Ximénez, che è, in fondo, identica alla nostra.
148 II testo si riferisce naturalmente alla metamorfosi di Hunahpú ed Ixbalanqué nei due ragazzi poveri che ingannarono tragicamente i Signori di Xibalbá con le loro arti magiche.
149 Xhunahpu, Xbalanque nell'originale. La X iniziale denota in quiché il diminutivo. In questo passo serve a stabilire il rapporto da padre a figlio tra Hun-Hunahpú ed Ixhunahpú.
150 Oh cu pacol re vae qui rail, qui caxcol ri ca cahau, nell'originale.
151 X-zcaquin [Goetz e Morley: zaquin] chic ch'y quic holomax. Crediamo di dare una interpretazione approssimativa di questa espressione. In un altro punto abbiamo tradotto quic holomax «Sangue dei Capi». [Goetz e Morley: In un altro punto abbiamo spiegato che tanto quic quanto holomax significano «sangue»]. Vi è qui, - dice il Brasseur, - un gioco misterioso di parole che è impossibile rendere nella traduzione.
152 Mavi chahom quic yve nell’originale. Si ricordi che il gioco della palla era riservato alla gente importante.
153 Vasi grandi di argilla dalla bocca larga, cosi chiamati nel Guatemala.
154 Erano occupazioni della gente comune [Nota di Goetz e Morley].
155 Xa noh chi tzaco rib ch'y vach. Questa frase è di assai difficile comprensione, ed è stata interpretata in vari modi. Il verbo tzaca ha, tra altri significati, quello di «fuggire», «fugare», «allontanare».
156 Ah-Tza, «quelli della guerra». Ah-Tucur, «i gufi». Come indica il Brasseur, vi può essere qualche rapporto tra questi nomi e quelli degli Itzá, tribù maya stabilitasi nel Nord del Guatemala nella regione chiamata Petén-Itzá, e degli abitanti di Tucuru, villaggio della Verapaz. È probabile che i Quiché ed i Cakchiquel fossero migrati dal Nord, sfuggendo la tirannia di quei popoli, allo scopo di vivere in libertá in terre nuove.
157 E quecail, zaquiil, «con l'aspetto di neri e di bianchi», doppia apparenza, simbolo della loro doppiezza; «a due facce».
158 Ahmoxvach, Ahlatzab. Altri sinonimi che significano «autori del male», «perversi», «malvagi», «oppressori».
159 Tra le leggende raccolte dal P. Fra Bartolomé de Las Casas nella Verapaz, si trova quella di un dio nato in quella provincia, il quale era chiamato Exbalanquén. «Di costui raccontano, tra altre favole, - dice il cronista, - che andò a far la guerra all'inferno e combattè con tutta la gente di laggiù e li vinse e catturò il re dell'inferno e molti del suo esercito». Ritornato sulla terra, Exbalanquén conduceva con sé il re dell'inferno, ma, quando si trovavano a pochi passi dalla superficie, questi lo pregò di non farlo uscire «ed egli dandogli un calcio gli disse: "torna indietro e rimanga per te tutto ciò che è rifiuto, e putrefatto e puzzolente"». Il Las Casas aggiunge che «nella Verapaz non ricevettero Exbalanquén con le feste ed i canti che egli avrebbe desiderato, motivo per cui se ne andò in un altro regno, dove fu ricevuto in modo a lui gradito, e di questo vincitore dell'inferno si dice che incominciò a sacrificare uomini». Las Casas, 1909, cap. CXXIV, p. 330. Dobbiamo rimpiangere che lo storiografo non abbia trascritto nella sua opera le «altre favole» raccontate dagli abitanti della Verapaz, le quali probabilmente coincidevano con le leggende del Popol Vuh, a giudicare da questa versione delle gesta di Exbalanquén o Ixbalanqué.
160 Pucbal-Chah.
161 Xa cu zcaquin chic x-cha tah vi xere, nell'originale.
162 Hunahpuil nell'originale, probabilmente per un lapsus calami. II Brasseur credeva che questa fosse una forma di plurale e che significasse l'insieme degli Hunahpú, ma è evidente che il testo si riferisce a Vucub-Hunahpú, ossia al secondo degli Hunahpú. Si osserverá che i giovani eroi trovarono sepolta nel campo del gioco della palla soltanto la testa di Vucub-Hunahpú e che parlarono soltanto con questa. Occorre ricordare che la testa di Hun-Hunahpú era stata spiccata dal corpo ed attaccata sui rami del jicaro dove si era confusa coi frutti dell'albero.