DOVERE DEL POETA
A chi non ascolta il mare in questo venerdì
mattina, a chi dentro qualcosa,
casa, ufficio, fabbrica o donna,
o strada o miniera o secca prigione:
a questo io mi presento e senza parlare né vedere
arrivo e apro la porta della reclusione
e un senza fine di ode vago nell’insistenza,
un lungo tuono rotto si incatena
al peso del pianeta e della schiuma,
sgorgano i fiumi rauchi dall’oceano,
vibra veloce nel suo roseto la stella
e il mare palpita, muore e continua.
Così per un destino guidato
devo senza tregua udire e conservare
il lamento marino nella mia coscienza,
debbo sentire il colpo dell’acqua dura
e raccoglierlo in una tazza eterna
perché dove stia l’imprigionato,
dove soffra il castigo dell’autunno
io sia presente con una onda errante,
io circoli attraverso le finestre
e all’udirmi alzi lo sguardo
dicendo: come mi avvicinerò all’oceano?
E io trasmetterò senza dire nulla
gli echi stellati dell’onda,
un dolore di schiuma e di arenili,
un sussurro di sale che si ritira,
il grido grigio dell’uccello della costa.
E così, per me, la libertà e il mare
risponderanno al cuore oscuro
LA PAROLA
Nacque
la parola nel sangue,
crebbe nel corpo oscuro, palpitando,
e volò con le labbra e la bocca.
Più lontano, e più vicino
ancora, ancora veniva
da padri morti e da erranti razze,
da territori che si fecero pietra,
che si stancarono delle sue povere tribù,
perché quando il dolore apparve sulla strada
i popoli camminarono e arrivarono
e nuova terra ed acqua riunirono
per seminare di nuovo la sua parola.
E così l’eredità è questa:
questa è l’aria che ci comunica
con l’uomo sotterrato e con l’aurora
di nuovi esseri che ancora non albeggiarono.
Ancora l’atmosfera trema
con la prima parola
elaborata
con panico e gemito.
Uscì
dalle tenebre
e fino ad allora non c’è tuono
che tuoni ancora con la sua ferramenta
come quella parola,
la prima
parola pronunciata:
forse soltanto un sussurro fu, una goccia,
e cade e cade ancora la sua cateratta.
Poi il senso riempie la parola.
Rimase gravida e si riempì di vite.
Tutto fu nascite e suoni:
l’affermazione, la chiarezza, la forza,
la negazione, la distruzione, la morte:
il verbo assunse tutti i poteri
e si fuse esistenza con essenza
nell’elettricità della sua bellezza.
Parola umana, sillaba, fianco
di lunga luce e di dura oreficeria,
ereditaria coppa che riceve
le comunicazioni del sangue:
è qui che il silenzio fu integrato
dal totale della parola umana
e non parlare è morire tra gli esseri:
si fa linguaggio fino alla chioma,
parla la bocca senza muovere le labbra:
gli occhi all’improvviso sono parole.
Io prendo la parola e la percorro
come se fosse soltanto forma umana,
mi affascinano le sue linee e navigo
in ogni risonanza dell’idioma:
pronuncio e sono e senza parlare mi avvicina
la fine delle parole al silenzio.
Bevo per la parola alzando
una parola o una coppa cristallina,
in essa bevo
il vino dell’idioma
o l’acqua interminabile,
sorgente materna delle parole,
e coppa e acqua e vino
originano il mio canto
perché il verbo è origine
e versa vita: è sangue,
è il sangue che manifesta la sua sostanza
ed è preparato così il suo sviluppo:
danno cristallo al cristallo, sangue al sangue,
e danno vita alla vita le parole.
OCEANO
Corpo più puro di un’onda,
sale che lava la linea,
e l’uccello lucido
vola senza radici.
ACQUA
Tutto sulla terra si increspò, il rovo
si conficcò e il filo verde
mordeva, il petalo cadde cadendo
finché unico fiore fu la morte.
L’acqua è differente,
non ha direzione bensì bellezza,
corre per ogni sogno di colore,
prende lezioni chiare
dalla pietra
e in queste attività elabora
i doveri intatti della schiuma.
IL MARE
Un solo essere, ma non c’è sangue.
Una sola carezza, morte o rosa.
Viene il mare e riunisce le nostre vite
e solo assale e si divide e canta
di notte e giorno e uomo e creatura.
L’essenza: fuoco e freddo: movimento.
NASCE
Io qui venni ai limiti
dove non c’è da dire niente,
tutto si apprende con tempo e oceano,
e girava la luna,
le sue linee argentate
e ogni volta si rompeva l’ombra
con un colpo di onda
e ogni giorno sul balcone del mare
apre le ali, nasce il fuoco
e tutto continua azzurro come domani.
TORRE
La linea lava il mondo,
oh immutabile freschezza,
oh lunga spada:
tagli
il disordine,
lì rimane il naufragio,
qui la stella,
da punto a punto a punto
circola per la linea
la purezza
ed è invariabile il clima,
sicura la misura,
stabile il muro dell’angolo
mentre l’aria cambia e attraversa
la torre
pura
della geometria.
PIANETA
Ci sono pietre di acqua sulla luna?
Ci sono acque d’oro?
Di che colore è l’autunno?
Si uniscono uno ad uno i giorni
finché in una chioma
si slegano? Quanto cade
- carte, vino, mani, morti –
della terra in questa regione?
Vivono lì gli annegati?
IL NUDO
Questa linea è il Sud che corre,
questo cerchio è l’Ovest,
le matasse le fece il vento
con i suoi capitoli più chiari
ed è diritto il mezzogiorno come
un palo che sostiene il cielo
mentre volano le linee pure
di silenzio in silenzio fino ad essere
gli uccelli esili dell’aria,
le direzioni della fortuna.
NELLA TORRE
In questa grave torre
non c’è combattimento:
la nebbia, l’aria, il giorno
la circondano, andarono via
ed io restai con cielo e con carta,
solitarie dolcezze e doveri.
Pura torre di terra
con odio e mare lontani
mescolati
dall’onda del cielo:
nella linea. nella parola quante
sillabe? Ho detto?
Bella è l’incertezza della rugiada,
alla mattina cade
separando
la notte dall’aurora
e il suo glaciale regalo
rimane
indeciso, aspettando il duro sole
che lo ferirà a morte.
Non si sa
se chiudiamo gli occhi o la notte
apre in noi occhi stellati,
se scava nella parete del nostro sogno
finché apre una porta.
Ma il sonno
è il veloce vestito di un minuto;
si consumò in un battito
dell’ombra
e cadde ai nostri piedi, disabitato,
quando si muove il giorno e ci naviga.
Questa è la torre da dove vedo
tra la luce e l’acqua segreta
il tempo con la sua spada
e mi precipito quindi a vivere,
respiro tutta l’aria,
mi incanta il deserto
che si costruisce sopra la città
e parlo con me senza sapere con chi
sfogliando il silenzio
dell’altezza.
UCCELLO
Cadeva da un uccello ad un altro
tutto quello che il giorno porta,
andava di flauto in flauto il giorno,
andava vestito di verdura
con voli che aprivano un tunnel,
e da lì passava il vento
da dove gli uccelli aprivano
l’aria compatta e azzurra:
da lì entrava la notte.
Quando tornai da tanti viaggi
rimasi sospeso e verde
tra il sole e la geografia:
vidi come lavoravano le ali,
come si trasmette l profumo
da un telefono impiumato
e dall’alto vidi la strada,
le sorgenti, le tegole,
i pescatori a pescare,
i pantaloni della schiuma,
tutto dal mio cielo verde.
Non avevo più alfabeto
che il viaggio delle rondini,
l’acqua pura e piccolina
del piccolo uccello ardente
che balla uscendo dal polline.
SERENATA
Con la mano raccolgo questo vuoto,
imponderabile notte, famiglie stellate,
un coro più silenzioso che il silenzio,
un suono di luna, un po’ segreto, un triangolo,
un trapezio di gesso.
È la notte oceanica, la terza solitudine,
una indecisione aprendo porte, ali,
la popolazione profonda che non ha presenza
palpita traboccando i nomi dell’estuario.
Notte, nome del mare, patria, grappolo, rosa!
IL COSTRUTTORE
Io scelsi la chimera,
di sale gelato costruii la statua:
fondai l’orologio in piena pioggia
e ciò nonostante vivo.
È vero che il mio lungo potere
suddivise i sogni
e senza che io lo sapessi alzavano
muri, separazioni, incessanti.
Allora andai alla costa.
Io vidi quando nacque l’imbarcazione,
la toccai, liscia come il pesce sacro:
tremò come la cetra di Dio,
il legno era puro,
aveva odore di miele.
E quando non ritornava,
la nave non ritornava
tutti si sommersero nelle loro lacrime
mentre io ritornavo al legno
con l’ascia nuda come stella.
La mia religione erano quelle navi.
Non ho altro rimedio che vivere.
PER LAVARE UN BAMBINO
Soltanto l’amore più vecchio della terra
lava e pettina la statua dei bambini,
raddrizza le gambe, le ginocchia,
solleva l’acqua, scivolano i saponi,
e il corpo puro esce a respirare
l’aria del fiore e della mamma.
Oh vigilanza chiara!
Oh dolce perfidia!
Oh tenera guerra!
Già il capello era un tortuoso
pelame intrecciato con carboni,
con segatura e olio,
con fuliggini, fil di ferro e granchi,
finché la pazienza
dell’amore
decretò i secchi, le spugne,
i pettini, gli asciugamani,
e di strofinare, di pettinare e di profumo,
di antica parsimonia e di gelsomini
rimase più nuovo il bambino ancora
corse dalle mani della mamma
a comporre di nuovo il suo ciclone,
a cercare fango, olio, ruggine, inchiostro,
a ferirsi e rotolarsi sulle pietre.
E così appena lavato salta il bambino a vivere
perché più tardi soltanto avrà tempo
per camminare pulito, ma già senza vita.
ODE PER STIRARE
La poesia è bianca:
sale dall’acqua avvolta in gocce,
si raggrinzisce e si ammucchia,
deve estendere la pelle del pianeta,
deve stirare il mare della sua bianchezza
e vanno e vanno le mani,
si lisciano le sacre superfici
e così si fanno le cose:
le mani fanno ogni giorno il mondo,
si unisce il fuoco all’acciaio,
si avvicinano il lino, la tela, il cotone grezzo
del combattimento delle lavanderie
e nasce dalla luce una colomba:
la castità ritorna dalla schiuma.
LE NASCITE
Mai ricorderemo di essere morto.
Tanta pazienza
per essere abbiamo
annotato
i numeri, i giorni,
gli anni e i mesi,
i capelli, le bocche che baciamo,
e quel minuto di morire
lo lasceremo senza annotazione:
lo consegniamo ad altri di ricordo
o semplicemente all’acqua,
all’acqua, all’aria, al tempo.
Neppure di nascere
abbiamo la memoria,
sebbene importante e sfacciato fu nascere:
e adesso non ricordi un dettaglio,
non hai conservato neppure un ramo
della prima luce.
Si sa che nasciamo.
Si sa che nella sala
o nel bosco
o nel tugurio del quartiere dei pescatori
o nei canneti crepitanti
c’è un silenzio estremamente strano,
un minuto solenne di legno
e una donna si prepara a partorire.
Si sa che nascemmo.
Ma dalla profonda scossa
di non essere a esistere, a avere le mani,
a vedere, ad avere occhi,
a mangiare e piangere e prodigarsi
e amare e amare e soffrire e soffrire,
di quella transizione o brivido
dal contenuto elettrico che assume
un corpo più che una coppa viva,
e da quella donna disabitata,
la madre che lì rimane con il suo sangue
e la sua lacerante pienezza
e la sua fine e principio, e il disordine
che turba il battito, il suolo, le coperte,
finché tutto si mette in ordine e somma
il nodo più il filo della vita,
niente, non rimase niente nella tua memoria
del mare feroce che alzò un’onda
e abbatté dell’albero una mela oscura.
Non hai altro ricordo che la tua vita.
AL DEFUNTO POVERO
Un nostro povero sotterriamo oggi:
un nostro povero povero.
Tanto male camminò sempre
che è la prima volta
che abita questo abitante.
Perché non ebbe casa, né terreno,
né alfabeto, né lenzuola,
né arrosto,
e così da un posto all’altro, nelle strade,
stava morendo per non avere vita,
stava morendo poco a poco
perché questo gli continuò dalla nascita.
Per fortuna, ed è strano, si trovarono d’accordo
tutti dal vescovo fino al giudice
per dirgli che avrà cielo
e adesso morto, ben morto il nostro povero,
ahi il nostro povero povero
non sa che fare con tanto cielo.
Potrà ararlo e seminarlo e raccoglierlo?
Egli lo fece sempre, duro
lottò con le zolle,
e adesso il cielo è soffice per ararlo,
e poi tra i frutti celestiali
alla fine avrà il suo, e sulla tavola
a tanta altezza tutto è predisposto
perché mangi cielo a due guance
il nostro povero che porta, per fortuna,
sessanta anni di fame da sotto
per saziarla, alla fine, come si deve,
senza ricevere più bastonate dalla vita,
senza che lo mettano carcerato perché mangia,
ben sicuro nella sua cassa e sotto terra
e non si muove per difendersi,
e già non combatterà per il suo salario.
Mai sperò in tanta giustizia quest’uomo,
all’improvviso lo hanno colmato e lo gradisce:
morì zittito dall’allegria.
Che peso ha adesso il povero povero!
Era di puro osso e di occhi scuri
e adesso sappiamo, per il suo puro peso,
quante cose gli mancarono sempre,
perché se questo vigore stava camminando,
vangando terreni incolti, raccogliendo pietre,
falciando frumento, bagnando argilla,
macinando zolfo, trasportando legna,
se questo uomo tanto gravato non aveva
scarpe, oh dolore, se questo uomo intatto
di tendini e muscoli non ebbe
mai ragione e tutti lo colpirono,
tutti lo demolirono, e anche allora
adempì ai suoi lavori, adesso portandolo
nella sua bara sopra di noi,
adesso sappiamo quanto gli mancò
e non lo difendemmo sulla terra.
Adesso noi diamo conto che ci carichiamo
con quello che non gli demmo, ed è tardi:
non pesa e non possiamo con il suo peso.
Quante persone pesa il nostro morto?
Pesa come questo mondo, e continuiamo
portando in salita questo morto. È chiaro
che il cielo è una grande panetteria.
A “LA SEBASTIANA”
Io costruii la casa.
La feci per prima cosa di aria.
Poi salii nell’aria la bandiera
e la lasciai appesa
al firmamento, alla stella,
alla chiarezza e all’oscurità.
Cemento, ferro, vetro,
erano la favola,
costavano più del frumento e come l’oro,
dovevo cercare e vendere,
e così arrivò un camion:
tirarono giù sacchi
e più sacchi,
la torre si aggrappò alla terra dura
- ma, non basta, disse il costruttore,
occorre cemento, vetro, ferro, porte -,
e non dormii quella notte.
Però, cresceva,
crescevano le finestre
e con poco,
incollandola alla carta e lavorando
e attaccandola con ginocchio e spalla
cresceva fino ad arrivare a essere,
fino a poter guardare dalla finestra,
e sembrava che con tanto sacco
potesse avere tetto e aumentare
e si afferrasse, infine, alla bandiera
che ancora pendeva dal cielo i suoi colori.
Mi dedicai alle porte più economiche,
a quelle che erano morte
ed erano state buttate dalle loro case,
porte senza muro, rotte,
ammucchiate in demolizioni,
porte già senza memoria,
senza ricordo di chiave,
e io dissi: «Venite
a me, porte perdute:
vi darò casa e muro
e mano che vi colpisca,
oscillerete di nuovo aprendo l’anima,
custodirete il sonno di Matilde
con le vostre ali che volarono tanto».
Allora la pittura
arrivò anche a lambire le pareti,
le vestì di celeste e di rosa
perché si mettessero a ballare.
Così la torre balla,
cantano le scale e le porte,
sale la casa fino a toccare l’albero,
ma manca il denaro:
mancano chiodi,
mancano battiporta, serrature, marmo.
Ciò nonostante, la casa
continua a crescere
e qualcosa accade, un battito
circola nelle sue arterie:
è forse un seghetto che naviga
come un pesce nell’acqua dei sogni
o un martello che picchia
come perfido condor carpentiere
le tavole del pino che calpesteremo.
Qualcosa accade e la vita continua.
La casa cresce e parla,
si sostiene con i suoi piedi,
ha vestiti appesi ad una impalcatura,
e come per il mare la primavera
nuotando come naiade marina
bacia la sabbia di Valparaiso,
non pensiamo ormai più: questa è la casa:
tutto quello che manca sarà azzurro,
quello che necessita è fiorire.
E questo è lavoro della primavera.
ADDII
Oh addii a una terra e a un’altra terra,
a ogni bocca e a ogni tristezza,
alla luna insolente, alle settimane
che arrotolarono i giorni e scomparvero,
addio a questa e a quella voce tinta
di amaranto, e addio
al letto e al piatto di abitudine,
al luogo vespertino degli addii,
alla sedia sposata con lo stesso crepuscolo,
alla strada che fecero le mie scarpe.
Mi diffusi, non c’è dubbio,
mi cambiai d’esistenza,
cambia di pelle, di lampada, di odi,
dovetti farlo
non per legge né capriccio,
ma per vincolo,
mi incatenò ogni nuova strada,
trovai gusto nella terra in tutta la terra.
E subito dissi addio, da poco arrivato,
con la tenerezza ancora da poco partita
come se il pane si aprisse e d’improvviso
fuggisse tutto il mondo dalla tavola.
Così andai via da tutte le lingue,
ripetei gli addii come una porta vecchia,
cambiai di cinema, di ragione, di tomba,
andai da tutte le parti e da un’altra parte,
continuai a essere e continuando
mezzo smantellato nell’allegria,
nuziale nella tristezza,
senza sapere mai come né quando
pronto per tornare, ma non si ritorna.
Si sa che quello che ritorna non andò via,
e così la vita andava a retrocedeva
cambiandomi di vestito e di pianeta,
abituandomi alla compagnia,
alla grande folla dell’esilio,
alla grande solitudine delle campane.
PER TUTTI
All’improvviso non posso dirti
quello che ti debbo dire,
uomo, perdonami, saprai
che benché non ascolti le mie parole
non mi misi a piangere né a dormire
e che con te sto senza vederti
da molto tempo e fino alla fine.
Io capisco che molti pensino,
e che fa Pablo? Sono qui.
Se mi cerchi in questa strada
mi incontrerai con il mio violino
pronto per cantare
e per morire.
Non è questione di separarsi da nessuno
né tanto meno da quelli, né da te,
e se ascolti bene, nella pioggia,
potrai udire
che torno e vado e mi fermo.
E sai che debbo partire.
Se non si sanno le mie parole
non dubitare che sia quello che fui.
Non c’è silenzio che non termini.
Quando viene il momento, aspettami,
e che sappiano tutti che ritorno
alla strada, con il mio violino.
LA PRIMAVERA
L’uccello è venuto
a dare la luce:
da ogni suo trillo
nasce l’acqua.
E tra l’acqua e la luce che l’aria sviluppa
già c’è la primavera inaugurata,
già sa la semenza che è cresciuta,
la radice si ritrae nella corolla,
si aprono alla fine le palpebre del polline.
Tutto lo fece un uccello semplice
da un ramo verde.
A DON ASTERIO ALARCÓN
CRONOMETRISTA A VALPARAISO
Odore di porto pazzo
ha Valparaiso
odore di ombra, di stella,
a scaglia della luna
e a coda di pesce.
Il cuore riceve brividi
nelle straziate scale
delle irsute colline:
lì grande miseria e scuri occhi
ballano nella nebbiolina
e appendono le bandiere
del regno nelle finestre:
le lenzuola rammendate,
le vecchie camicette,
le lunghe mutande,
e il sole del mare saluta gli emblemi
mentre i vestiti bianchi dondolano
un povero addio alla marineria.
Strade del mare, del vento,
del giorno duro avvolto in aria e onda,
vicoli che cantano verso l’alto
in spirale come le chiocciole:
il pomeriggio commerciale è trasparente,
il sole visita i magazzini,
per vendere sorride l‘emporio
aprendo vetrine e dentiere,
scarpe e termometri, bottiglie
che racchiudono notte verde,
vestiti irraggiungibili, tessuti d’oro,
funesti calzini, soavi formaggi,
e quindi arrivo al tema
di questa ode.
C’è una vetrina
con il suo vetro
e dentro,
tra cronometri,
don Asterio Alarcón, cronometrista.
La strada bolle e continua,
arde e colpisce,
ma dietro il vetro
l’orologiaio,
il vecchio riparatore di orologi,
sta immobile
con un occhio verso fuori,
un occhio stravagante
che indovina l’enigma,
la cardiaca fine degli orologi
e scruta con un occhio
finché l’impalpabile farfalla
della cronometria
si arresta davanti a lui
e si muovono le ali dell’orologio.
Don Asterio Alarcón è l’antico
eroe dei minuti
e la barca va sull’onda
misurata dalle sua mani
che unirono
responsabilità alla lancetta dei minuti,
accuratezza al battito:
Don Asterio nel suo acquario
vigilò i cronometri del mare,
oliò con pazienza
il cuore azzurro della marina.
Durante cinquanta anni,
o diciottomila giorni,
lì passava il fiume
di bambini e maschi e femmine
verso cenciose colline o verso il mare,
mentre l’orologiaio,
tra orologi,
trattenuto nel tempo,
si addolcì come la nave pura
contro l’eternità della corrente,
tranquillizzò il suo legno,
e a poco a poco il saggio
uscì dall’artigiano,
lavorando
con lente e con olio
ripulì l’invidia, scartò il timore,
eseguì la sua occupazione e il suo destino,
finché adesso il tempo,
il trascorrere terribile,
fece un patto con lui, con don Asterio,
ed egli aspetta la sua ora di orologio.
Per questo quando passo
per la trepidante strada,
il fiume scuro di Valparaiso,
soltanto ascolto un suono tra i suoni,
tra tanti orologi uno solo:
l’affaticato, soave, sussurrante
e antico movimento
di un gran cuore puro:
l’insigne e umile
tic tac di don Asterio.
ODE A ACARIO COTAPOS
Da qualche totale sonoro
arrivò al mondo Cotapos,
arrivò col suo pianeta
col suo tuono,
e si mise a passeggiare per le città
svolgendo l’albero della musica
aprendo le cantine del suono.
Silenzio! Cadrà la cittadina
perché dalla sua ribelle artiglieria
quando meno si pensa e non si sa
vola il silenzio improvviso del cigno
ed è tale lo splendore
che a sua misura
tutta l’acqua richiama,
ogni diceria si è trasformato in onda,
tutto uscì a suonare con la rugiada.
Però, città, facciamo attenzione
all’ordine di questa ode
perché non soltanto l’aria si decide
ad accompagnare il peso del suo canto
e non soltanto gli uccelli vittoriosi
alzarono il loro volo sull’estuario,
ma anche entrò e uscì dalle cantine,
assimilò motori,
dalla elettricità estrasse l’aurora
e la vestì di sfarzo e potere.
E ancor più, dalla tenebra primordiale
il musicista ritorna
con il lupo e il foraggio pastorale,
con il sangue violaceo del centauro,
con il primo tamburo dei combattimenti
e la gravitazione delle campane.
Arriva e soffia nel suo corno
e ci riunisce,
ci conta,
ci inventa,
ci mente,
ci rivela,
ci lega a un filo saggio, alla sorpresa
della sua sicura lingua favolosa,
ci confonde e quando
si va a spegnere alza
la mano e cade e continua
la cateratta insigne del suo canto.
Conobbi dalla sua bocca
la storia naturale degli enigmi,
l’uccello corollario,
il segreto telefono
dei gatti, il vecchio fiume
Mississipi con navi di legno,
il carnefice di Ivan il Terribile,
la voce ampia di Boris Godunov,
le cerimonie degli ornitologi
quando s’insigniscono a Parigi,
il sacro terrore dell’uomo debole,
l’umido microfono del cane,
l’innovazione nefasta
del signor Puga Borne,
il fox hunting nella contea
con giacchettina rossa e cup of tea,
il tacchino che viaggiò a Leningrado
in braccio al benigno don Gregorio,
la sfilata dei piccoli boliviani,
Ramón con il suo profondo calamaro
e, soprattutto, la fatale storia
che Federico amava
del Cinghiale Cornúpeto
quando
sbuffando e russando
crebbe e crebbe la bestia favolosa
finché la sua irascibile corpulenza
sorpassò i limiti dell’Europa
e gonfia come l’immenso Zeppelin
viaggio in Brasile, dove
agrimensori, ingegneri,
con pericolo evidente per le loro vite,
lo discesero vicino al Rio delle Amazzoni.
Cotapos, nella tua musica
si ricompose la natura,
le acque naturali,
l’impazienza del tuono,
e vidi e toccai la luce nei tuoi preludi
come se fossero figli
di una cometa scarlatta,
e in questa commozione delle tue campane,
in queste fughe di tormenta e faro
gli elementi trovano la loro misura
forgiando i metalli della musica.
Ma trovai nella tua parola
l’invincibile perfidia
del distruttore di miti e di piatti,
l’insperata associazione che incontra
nella sua strada la volpe verso l’uva
quando annusa aria verde o piuma errante,
e non soltanto
questo, ma
di più:
la sinalefe elettrica che cambia
ogni visione e cambiano le colombe.
Tu, poeta senza libri,
unisti in vita il canto irrispettoso,
la parola che salta dalla sua grotta
dove giacque senza sonno
e trasformasti per me l’idioma
in un crollo di cristallerie.
Maestro, compagno,
mi hai insegnato tante cose chiare
che dove sto mi dai la tua chiarezza.
Adesso,
scrivo un libro di quello che sono
e in questo sono, Acario, sei con me.
RITORNÒ IL VIANDANTE
In piena strada mi domando, dove
è la città? Andò via, non è ritornato.
Forse questa è la stessa, ed ha case,
ha pareti, ma non la trovo.
Non si tratta di Pedro né di Juan,
né di quella donna, né di quell’albero,
già la città che si interrò,
si mise in un recinto sotterraneo
e un’altra ora vive, un’altra e non la stessa,
occupando la linea delle strade,
e un identico numero sulle case.
Il tempo allora, lo comprendo, esiste,
esiste, già lo so, ma non capisco
come quella città che ebbe sangue,
che ebbe tanto cielo per tutti,
e dal cui sorriso a mezzogiorno
si staccava un cesto di susine,
da quelle case con odore di bosco
appena tagliato all’alba con la sega,
che continuava a cantare vicino all’acqua
delle segherie di montagna,
tutto quello che era suo ed era mio,
della città e della trasparenza,
si avvolse nell’amore come un segreto
e si lasciò cadere nell’oblio.
Adesso dove stette ci sono altre vite,
altra ragione di essere e altra durezza:
tutto va bene, ma perché non esiste?
Per quale ragione quell’aroma dorme?
Perché quelle campane si zittirono
e disse addio la torre di legno?
Forse su di me cadde casa per casa
la città, con cantine distrutte
dalla lenta umidità, per il trascorso,
su di me cadde l’azzurro della farmacia,
il frumento accumulato, il ferro di cavallo
che penzolò dalla selleria,
e su di me caddero esseri che cercavano
come in un pozzo l’acqua oscura.
Allora io a che cosa vengo, a che cosa sono venuto.
Quella che io amai tra le susine
nella violenta estate, quella chiara
come un’ascia che brilla con la luna,
quella dagli occhi che mordevano
come acido il metallo dell’abbandono,
essa andò via, andò via senza che fosse,
senza cambiarsi di casa né frontiera,
andò via in se stessa, cadde nel tempo
verso indietro, e non cadde nei miei
quando apriva, forse, quelle braccia
che strinsero il mio corpo, e mi chiamava
durante, forse, tanti anni,
mentre io in altro angolo del pianeta
nella mia distante età mi immergevo.
Ricorrerò a me stesso per entrare,
per tornare alla città perduta.
In me devo trovare gli assenti,
quell’odore di falegnameria,
continua a crescere soltanto in me forse
il frumento che tremava nel pendio
e in me devo viaggiare trovando quello
che si prese la pioggia, e non c’è rimedio,
altrimenti niente vivrà,
debbo prendermi cura io stesso di quelle strade
e in qualche modo decidere
dove piantare gli alberi, di nuovo.
ALSTROMOERIA
In questo mese di gennaio la alstromoeria,
il sepolto fiore, il sommerso,
dal suo segreto sale verso i terreni desertici.
E albeggiò rosa la roccia.
I miei occhi riconoscono
la sua forma triangolare sopra la sabbia.
Io mi domando
vedendo
il dente pallido
di un petalo, il grembo
perfetto dei suoi intimi nei,
il soave fuoco della sua simmetria,
come si preparò sotto la terra?
Come dove non c’era che polvere,
pietruzze o cenere
spuntò incitante, pura, acconciata,
increspando nella vita la sua bellezza?
Come fu quel lavoro sotterraneo?
Quando si unì la forma con il polline?
Come all’oscurità
arrivò la rugiada
e salì con la tenera fiammata
del fiore repentino
finché si tessero goccia a goccia,
filo per filo le regioni aride
e per la luce rosata
passò l’aria spargendo la fragranza
come se lì nascesse
da pura terra secca e abbandono
fecondità fiorita,
freschezza moltiplicata dall’amore?
Così pensai in gennaio
guardando il secco ieri mentre adesso
timida e riccia cresce
la tenera moltitudine della alstromoeria:
e dove pietre e terreno desertico
stettero
passa il vento sulla sua nave navigando
le onde odorose.
INDAGINI
Domandai a ogni cosa
se aveva
qualcosa di più,
qualcosa di più della struttura
e così seppi che niente era vuoto:
tutto era cassa, treno, barca carica
di moltiplicazioni,
ciascun piede che passò per un sentiero
lasciò scritto sulla pietra un telegramma
e il tessuto nell’acqua del lavaggio
lasciò cadere in gocce la sua esistenza:
di clima in clima fui senza sapere mai
dove lasciare il mio fardello che pesava
con le conoscenze che caricai,
finché tanto vedere e conoscere,
andare e andare, domanda che domanda
a ciascuna sedia, a ciascuna pietra e poi
a tanti uomini che non risposero,
mi abituarono a rispondere da solo:
a rispondermi senza avere parlato:
a conversare con nessuno e divertirmi.
Era forse quello che succede al cieco
che di tanto non vedere già lo vede tutto
e ad un solo punto
guarda
con la insistenza solida del palombaro
che scende in un solo pozzo dell’oceano
e lì tutti i pesci si riuniscono.
Dunque, quando smisi
di scuotere la terra
e muovere ogni cosa dal suo luogo
pensai che ogni cosa mi adulasse
con il suo piccolo grazie o sorriso
o per bene o per qualunque cosa,
ma non fu così e quegli abitanti
della città terribile
allungarono un dito,
un lungo dito morto verso la mia vita
e con occhio impunito,
con occhio di ciclope castrato
mi vigilarono accuratamente:
«Beneficia delle sue rendite clandestine»,
disse un astuto e criminale cadavere.
«Ha un’automobile», disse una beata
con un brivido di dolore.
E un altro passò vestito da poeta,
elegante e collerico con me
perché io non cambiavo camicia
e non avevo amore per il suo direttore.
Mi dissi, dunque, le cose di questo mondo
continuano a essere e forse
hanno ragione:
ma di tanto malvagio
mi risolsi a seguire senza sapere niente
senza reclamare due occhi per un occhio,
né una mano per unghia:
mi decretai la fortuna interminabile
che espressero i popoli per il mio canto.
C.O.S.C.
È morto questo mio amico che si chiamava Carlos,
non importa chi, non domandino, non sanno,
aveva la bontà del buon pane sulla tavola
e un’aria melanconica di cavaliere ferito.
Non è lui ed è lui, è tutto, e la morte che bussa
alla porta,
di pura bontà andò ad aprirle Carlos,
e tra tanti che aprirono questa notte la porta
egli solo rimase fuori,
egli tra tanti uomini adesso non torna.
E la sua assenza mi ferisce come se mi chiamasse,
come se continuasse nell’ombra ad aspettarmi.
Se avessi scelto per questa fine di un giorno
un dolore fra tanti che mi tallonano
non avrei separato dalla notte il suo volto,
ingiustamente sarei passato senza ricordo,
senza nominarlo, e così non sarebbe morto
per me, il suo capo continuerebbe grigio
ed i suoi tranquilli occhi che adesso già non guardano
sarebbero aperti sulle torri del Messico.
Della morte dimenticare il più recente ramo,
ignorare la rotta, la prua o la cantina
e che il mio amico viaggia solo o ammucchiato
ed a questa ora crederlo ancora padrone del giorno,
ancora padrone di quella chiarezza sorridente,
che riparti fra tanti lavori e persone.
Scrivo queste parole sul mio libro pensando
che questo nudo addio in chi non è presente,
questa carta semplice che non ha risposta,
non è niente senza polvere, nuvola, inchiostro, parole
e l’unica verità è che il mio amico è morto.
LA NOTTE A ISLA NEGRA
Antica notte e sale disordinato
colpiscono le pareti della mia casa:
Sola è l’ombra, il cielo
e adesso un battito dell’oceano,
e cielo e ombra esplodono
con fragore di combattimento smisurato:
tutta la notte lottano
e nessuno conosce il nome
della crudele chiarezza che si aprirà
come una goffa frutta:
così nasce sulla costa,
dalla furiosa ombra, l’alba dura
morbida per il sale in movimento,
ripulita dal peso della notte,
insanguinata nel suo cratere marino.
CARDO
In
quell’
estate
del
lungo
litorale,
per
polverose
leghe
e
strade
assetate
nascono le esplosioni
del cardo azzurro del Cile.
Sperone
errabondo,
grande aculeo di moscone violaceo,
piccolo padiglione della bellezza,
tutto l’azzurro
alza
una
coppa
violetta
e,
arido,
ostile,
amaro,
il secco
suolo
difende
il fuoco azzurro
con
le sue
spine,
ispido
come un
filo di ferro
e ostinato,
come
assedio
di ricchi,
il
cardo
si
ammucchia
nel-
la
aggressiva
fecondità
della
boscaglia
selvaggia
e innalza
verso
la indomita bellezza
del territorio secco,
circondato
dal confuso cielo freddo,
la seduzione
azzurra
delle sue corolle
come
invitando
come
sfidando,
con un azzurro
più
duro
di una
spada
tutti
gli
azzurri
del-
la
terra.
PASSATO
Dobbiamo buttare giù il passato
e come si costruisce
piano per piano, finestra e finestra,
e cresce l’edificio
così, tirando giù
per primo le tegole rotte,
poi orgogliose porte,
finché dal passato
esce polvere
come se si colpisse
contro il suolo,
esce fumo
come se si bruciasse,
e ogni nuovo giorno
riluce
come un piatto
vuoto:
non c’è niente, non ci fu niente:
bisogna riempirlo
di nuove nutrizioni
spaziose,
allora, verso il basso
cade il giorno di ieri
come in un pozzo
all’acqua del passato,
alla cisterna
di quello che ormai non ha voce né fuoco.
È difficile
abituare le ossa
a perdersi,
gli occhi
a chiudersi
ma
lo facciamo
senza saperlo:
tutto era vivo,
vivo, vivo, vivo
come un pesce scarlatto
ma il tempo
passò con straccio e notte
e cancellò
il pesce e il suo battito:
l’acqua l’acqua l’acqua
fa cadere il passato
sebbene si afferri
a spine
e radici:
andò via andò via e non contano
i ricordi:
già la palpebra ombrosa
coprì la luce dell’occhio
e quello che viveva
ormai non vive:
quello che fummo non siamo.
E la parola sebbene le lettere abbiano
uguali trasparenze e vocali
adesso è un’altra e è un’altra la bocca:
la stessa bocca è un’altra bocca adesso:
Cambiarono labbra, pelle, circolazioni,
un altro essere occupò il nostro scheletro:
quello che fu in noi ora non c’è:
ci fu, ma se chiamano, rispondiamo
“Qui sono” e si sa che non ci siamo,
che quello che era, fu e si perse:
si perse nel passato e ormai non torna.
A E. S. S.
Cinque anni
di E.,
poi sei anni,
adesso nove e mezzo
sempre qui tra le alghe
di Isla Negra,
tra onda e onda un bambino
con la curiosità dell’universo
che si apre qui come corolla verde
con tutto il mare
battendo gli occhi pellegrini
e, erba di acqua e roccia,
un anno più di Enrique
di Segura,
di Salazar, il nipote di don Carlos.
Saprai più tardi
che vidi
come crescevi
come se mi guardassi
un ciglio,
qualcosa di intimo,
interno come il battito,
e ogni volta da tanto lunghi decorsi
nell’andare a mettere piede sopra la mia sabbia
crescendo
sbucasti fuori
e crescevano i tuoi mesi,
i tuoi anni, uno ad uno, dalla terra
e entravi nella casa
con più tempo negli occhi
e più gambe,
un centimetro in più che innalzava
il tuo cuore di uccello con trilli
un poco più avanti verso il fogliame,
verso l’albero oscuro della vita.
E adesso con i nove anni
di Enrique
qui nell’abbandono della costa
oh piccolo astronauta
ti domando, e domando:
volerai sulla tua nave
qualche volta,
veloce come nessuno tra gli occhi
di Orione che battono le ciglia
invitandoti?
Andrà il tuo carro bruciando
per le strade delle costellazioni,
ci porterà le alghe della luna,
di Aldebaran la pietra misteriosa,
o dall’Orsa Maggiore una chitarra?
Ahi bambino
di questa sabbia,
Enrique di questi terreni marini,
forse, non andrai dove,
né ritornerai mai dal tuttavia
e tra dune e mattoni
trascorrerà la linea
di una tua vita, zolla di argilla massiccia
senza castello né luna,
linea irregolare come
il litorale
ferito
che dissangua tra le pietre perdute
le chiavi della collera, la schiuma
del viavai tumultuoso
che viene e va e si ferma
trasformato nella sabbia
dell’oblio.
ALLO STESSO PORTO
Valparaiso ha fili,
coppe di lunga portata,
reti intrecciate.
E sotto lo spessore
di tutto il mare quando si sviluppa
e crescono una ad una le squame
dei solitari pesci,
o dove gli arpioni
insanguinati dormono palpitando
sogni di sale e sangue.
O più in là, nel petto
del poeta,
Valparaiso scava
e cerca e trova
e apre e lascia
una rete imboscata
nella fermezza:
allora volano impreviste lance,
macchine
gialle,
gli affamati fuochi procellari,
l’abitazione senza rotta
tra le colline,
sostenuta
da un petalo puro di pittura.
E allora nel cielo
l’uccello della sera,
o il ciclonico aereo indurito
come proiettile di luna,
tutto
in alto
riceve
l’emanazione portuale,
e segreta
la stella si dirige
alla povera baia,
alle case sospese,
al dolore, all’abbandono,
all’allegria
della fine del mare, della sirena povera,
della città marina
che l’oceano atroce non demolisce
né seppellì il castigo della terra.
Ha Valparaiso
corrispondenze scure con il vento,
debiti con la rugiada,
buchi che non hanno risposte,
espliciti sindaci che portano a spasso
cagnolini tristi al tramonto,
domeniche silenziose di sarcofago:
ma non importa, tutto
si capisce
quando per terra o mare o cielo o filo
si sente un colpo come
cucchiaiata:
qualcuno chiama, qualcuno cade,
polvere fragile di sonno
battito o luce dell’acqua,
impercettibile
segno,
farina
o sale notturno.
E lì precisamente pieghiamo
lo sguardo
verso Valparaiso.
ALLA TRISTEZZA (II)
Tristezza, ho bisogno
della tua ala scura,
tanto sole, tanto miele nel topazio,
ogni raggio sorride
nella prateria
e tutto è luce rotonda intorno a me,
tutto è ape elettrica nell’altezza.
Per questo
la tua ala scura
dammi,
sorella tristezza:
ho bisogno che qualche volta si spenga
lo zaffiro e che cada
l’obliquo rampicante della pioggia,
il pianto della terra:
voglio
quel tronco rotto nell’estuario,
la vasta casa al buio
e mia madre
che cerca
paraffina
e riempie la lampada
non per dare la luce ma un sospiro.
La notte non nasceva.
Il giorno scivolava
verso il suo cimitero provinciale,
e tra il pane e l’ombra
mi ricordo
me stesso
nella finestra
che guardo quello che non era,
quello che non succedeva
e un’ala scura di acqua mi arrivava
sopra quel cuore che lì forse
dimenticai per sempre, nella finestra.
Adesso getto via di meno
la luce scura.
Dammi il tuo lento sangue,
pioggia
fredda,
dammi il tuo volo attonito!
Al mio petto
restituisci la chiave
della porta chiusa,
distrutta.
Per un minuto, per
una breve vita,
fermati luce e lasciami
sentirmi
perduto e miserabile,
tremando fra i fili
del crepuscolo,
ricevendo nell’anima
le mani
tremanti
del-
la
pioggia.
SOMMARIO
Sono contento con tanti doveri
che mi imposi, nella mia vita
si ammassarono strani materiali:
teneri fantasmi che mi spettinavano,
categoriche mani minerali,
un vento senza motivo che mi agitava,
la spina di alcuni baci laceranti, la dura realtà
dei miei fratelli,
il mio dovere imperioso di vedetta,
la mia inclinazione a essere soltanto me stesso
nella debolezza dei miei piaceri,
per questo – acqua sulla pietra – fu la mia vita
un canto fra la felicità e la durezza.
IL POPOLO
Di quell’uomo mi ricordo e sono passati
bensì due secoli da quando lo vidi,
non camminava né a cavallo né in carrozza:
a forza di piede
disfece
le distanze
e non portava spada né armatura,
ma reti sulla spalla,
ascia o martello o pala,
mai picchiò nessuno della sua specie:
la sua prodezza fu contro l’acqua o la terra,
contro il frumento perché ci fosse pane,
contro l’albero gigante perché desse legna,
contro i muri per aprire le porte,
contro la sabbia costruendo muri
e contro il mare per farlo partorire.
Lo conobbi e ancora non mi si cancella.
Caddero in pezzi le carrozze,
la guerra distrusse porte e muri,
la città fu un pugno di ceneri,
si fecero polvere tutti i vestiti,
ed egli per me sussiste,
sopravvive nella sabbia,
quando prima sembrava
tutto incancellabile tranne lui.
Nell’andare e venire delle famiglie
a volte fu mio padre o mio parente
o a fatica era lui o se non era
forse quello che non tornò alla sua casa
perché l’acqua o la terra lo ingoiarono
o lo uccise una macchina o un albero
o fu quel triste falegname
che andava dietro il feretro, senza lacrime,
qualcuno infine che non aveva nome,
che si chiamava metallo o legno,
e a chi guardarono altri dall’alto
senza vedere la formica
ma il formicaio
e che quando i suoi piedi non si muovevano,
perché il povero stanco era morto,
non videro mai che non lo vedevano:
aveva già altri piedi in cui stette.
Gli altri piedi erano lui stesso,
anche le altre mani,
l’uomo subentrava:
quando già sembrava trascorso
era lo stesso di nuovo,
lì stava un’altra volta scavando terra,
tagliando tela, ma senza camicia,
lì stava e non stava, come in quel momento,
se ne era andato e lì era di nuovo,
e come mai ebbe cimitero,
né tomba, né il suo nome fu inciso
sopra la pietra che tagliò sudando,
nessuno seppe mai che arrivava
e nessuno seppe quando moriva,
così è che soltanto quando il povero poté
resuscitò un’altra volta senza essere notato.
Era l’uomo senza incertezza, senza eredità,
senza mucca, senza bandiera,
e non si distingueva tra gli altri,
gli altri che erano lui,
dall’alto era grigio come il sottosuolo,
come il cuoio era bruno,
era giallo raccogliendo frumento,
era nero giù nella miniera,
era color di pietra nel castello,
sulla barca da pesca era colore di tonno
e colore di cavallo sulla prateria:
come poteva qualcuno distinguerlo
se era l’inseparabile, l’elemento,
terra, carbone o mare vestito da uomo?
Dove visse cresceva
quanto l’uomo toccava:
La pietra ostile,
sgretolata
dalle sue mani,
si trasformava in ordine
e una ad una formarono
la forte chiarezza dell’edificio,
fece il pane con le sue mani,
mobilitò i treni,
si popolarono di paesi le distanze,
altri uomini crebbero,
arrivarono le api,
e poiché l’uomo crea e moltiplica
la primavera camminò al mercato
tra panetterie e colombe.
Il padre dei pani fu dimenticato,
lui che tagliò e camminò, schiacciando
e aprendo solchi, trasportando sabbia,
quando tutte esistette e già non esisteva,
lui dava la sua esistenza, lui era tutto.
Uscì da un’altra parte a lavorare, e poi
andò a morire rotolando
come pietra del fiume:
acque giù lo portò la morte.
Io, che lo conobbi, lo vidi piegarsi
fino a non essere altro che quello che lasciava:
strade che appena potei conoscere,
case che mai e mai abiterei.
E torno a vederlo, e ogni giorno aspetto.
Lo vedo nella sua bara e risorto.
Lo distinguo fra tutti
quelli che sono i suoi uguali
e mi sembra che non possa essere,
che così non andiamo da nessuna parte,
che accadere così non è gloria.
Io credo che sul trono deve stare
questo uomo, ben calzato e coronato.
Credo che quelli che fecero tante cose
devono esser padroni di tutte le cose.
E quelli che fanno il pane devono mangiare!
E devono avere luce quelli della miniera!
Basta con gli incatenati grigi!
Basta con i pallidi scomparsi!
Né un uomo più che passi senza che regni.
Né una sola donna senza il suo diadema.
Per tutte le mani guanti d’oro.
Frutta di sole a tutti gli oscuri!
Io conobbi quell’uomo e quando potei,
quando ebbi già occhi nel viso,
quando ebbi già la voce nella bocca
lo cercai tra le tombe, e gli dissi
stringendogli un braccio che ancora non era polvere:
“Tutti andranno via, tu rimarrai vivente.
Tu incendiasti la vita.
Tu facesti quello che è tuo.”
Per questo nessuno si offenda quando
sembra che sono solo e non sono solo,
non sono con nessuno e parlo per tutti:
Qualcuno mi sta ascoltando e non lo sanno,
ma quelli che canto e che lo sanno
continueranno a nascere e riempiranno il mondo.
PIENI POTERI
In puro sole scrivo, in piena strada,
in pieno mare, e dove posso canto,
soltanto la notte errante mi trattiene
ma nella sua interruzione raccolgo spazio,
raccolgo ombra per molto tempo.
Il frumento scuro della notte cresce
mentre i miei occhi guardano la prateria
a così di sole in sole faccio le chiavi:
cerco nell’oscurità le serrature
a continuo ad aprire al mare le porte rotte
fino a riempire armadi con la schiuma.
E non mi stanco di andare e di ritornare,
non mi ferma la morte con la sua pietra,
non mi stanco di essere e di non essere.
A volte mi domando se da dove
se da padre o da madre o cordigliera
ereditai i doveri minerali,
i fili di un oceano incendiato
e so che continuo e continuo perché continuo
e canto perché canto e perché canto.
Non ha spiegazione quello che accade
quando chiudo gli occhi e circolo
come tra due canali sottomarini,
uno a morire mi porta sul suo ramo
e l’altro canta perché io canti.
Così dunque di non essere sono composto
e come il mare assalta la scogliera
con capsule salate di bianchezza
e ritrae la pietra con l’onda,
così quello che nella morte mi circonda
apre in me la finestra della vita
e in pieno parossismo sto dormendo.
In piena luce cammino per l’ombra.