- 1978 - Per nascere son nato - Pablo Neruda - Popol Vuh - Insetti

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- 1978 - Per nascere son nato

PER NASCERE SON NATO (1978)



NOTA DEL TRADUTTORE

Gli scritti di Pablo Neruda raccolti in questo volume hanno quella musicalità e quel ritmo incalzante che il lettore italiano ha già conosciuto in Confesso che ho vissuto, pubblicato da SugarCo e più volte ristampato. Ho cercato, per quanto possibile, di conservare anche nella nostra lingua quelle caratteristiche tipiche della prosa nerudiana; le note, perciò, sono ridotte allo stretto necessario a piè di pagina per non interrompere il piacere della lettura.
Il lettore esigente troverà in calce a Confesso che ho vissuto un ampio ed erudito corredo di note a cura di Giulio Stocchi.
Un occhio ad una carta fisico-politica del Cile aiuterebbe a capire meglio i numerosi e costanti riferimenti alla geografia, alla fauna e alla flora cilena cui tanta importanza dichiara di attribuire l'Autore stesso.

Savino D'Amico




... per nascere son nato, per bloccare la strada a quanto si avvicina, a quanto batte al mio petto, come un nuovo trepidante cuore.

PABLO NERUDA




Quaderno 1
È MOLTO PRESTO

DONNA LONTANA

Questa donna sta nelle mie mani. È bianca e bionda e nelle mie mani la porterei come una cesta di magnolie.
Questa donna sta nei miei occhi. L'avvolgono i miei sguardi, i miei sguardi che nulla vedono quando l'avvolgono.
Questa donna sta nei miei desideri. Nuda sta sotto l'anelante vampata della mia vita e come brace il mio desiderio la brucia.
Però, donna lontana, le mie mani, i miei occhi e i desideri miei per te conservano intera la loro carezza perché solo tu, donna lontana, solo tu stai nel mio cuore.


UN AMORE

Per te insieme ai giardini appena fioriti mi addolorano i profumi di primavera.
Ho dimenticato il tuo volto, non ricordo le tue mani, come baciavano le tue labbra?
Per te amo le bianche statue addormentate nei parchi, le bianche statue che non hanno voce né sguardo.
Ho dimenticato la tua voce, la tua voce allegra, ho dimenticato i tuoi occhi.
Come un fiore al suo profumo, sono legato al tuo ricordo impreciso. Sto vicino al dolore come una ferita, se mi tocchi mi sciupi irrimediabilmente.
Le tue carezze mi avvolgono come i rampicanti i muri all'ombra.
Ho dimenticato il tuo amore eppure t'indovino dietro a tutte le finestre.
Per te mi addolorano i pesanti profumi dell'estate: per te torno a tendere agguati ai segni che precipitano i desideri, le stelle in fuga, gli oggetti che cadono.


VENTI DELLA NOTTE

Come una quinta la luna su in alto deve curvarsi... Venti della notte, tenebrosi venti! Che ruggiscono e fendono le onde del cielo, che camminano con piedi di rugiada sui tetti. Disteso, addormentato, mentre le ebbre risacche del cielo piombano bramando sul pavimento. Disteso, addormentato, quando le distanze si annullano e volano portando ai miei occhi le cose lontane. Venti della notte, tenebrosi venti! Quanto son più piccole le mie ali in questo batter d'ali tremendo! Quanto è grande il mondo di fronte alla mia gola spossata! Eppure, posso, se voglio, morire, distendermi nella notte per lasciarmi portar via dalla rabbia del vento. Morire, distendermi addormentato, volare nella violenta marea, cantando, disteso, addormentato! Sulle tegole galoppano gli zoccoli del cielo. Un comignolo singhiozza... Venti della notte, tenebrosa di venti!


È MOLTO PRESTO

Grave immobilità del silenzio. La fende il canto di un gallo. Anche i passi di un uomo di lavoro. Ma il silenzio continua.
Poi, una mano distratta sul mio petto ha sentito il battito del mio cuore. Continua ad essere sorprendente.
E di nuovo — oh, gli antichi giorni! — i miei ricordi, i miei dolori, i miei propositi camminano chinati a crocifiggersi nei sentieri dello spazio e del tempo.
Così si può transitare con facilità.


LA LEBBROSA

Ho visto arrivare la lebbrosa. Rimase distesa vicino al cespuglio di azalee che sorride nell'abbandono dell'ospedale.
Quando arriva la notte se ne andrà la lebbrosa. Se ne andrà la lebbrosa perché l'ospedale non l'accetta. Se ne andrà quando il giorno comincerà ad affondare dolcemente nella sera, però persino il giorno prolungherà le sue luci gialle per non andarsene assieme
alla lebbrosa.
Piange, piange vicino al cespuglio di azalee. Le sorelle bionde e vestite di azzurro l'hanno abbandonata: non cureranno le sue tristi piaghe le sorelle bionde vestite d'azzurro.
I bambini, cui han proibito di avvicinarla, sono fuggiti per i corridoi.
L'hanno dimenticata i cani, i cani che leccano le ferite dei dimenticati.
Però il cespuglio rosa delle azalee — sorriso unico e dolce sorriso dell'ospedale — non si è mosso dall'angolo del cortile, dall'angolo del cortile dove la lebbrosa è rimasta abbandonata.


CANZONE

Mia cugina Isabela... Non l'ho conosciuta, mia cugina Isabela. Ho attraversato, anni dopo, il cortile col giardino nel quale, mi dicono, ci siamo visti e amati bambini. È un posto all'ombra: come nei cimiteri ci sono alberi invernali e induriti. Un muschio giallo circonda le cinture di certe tazzone scure adagiate nel cortile di questi ricordi... È stato lì, dunque, che
ho visto mia cugina Isabela.
Devo averle fatto quegli occhi dei bambini che aspettano che qualcosa stia per accadere, stia accadendo, sia accaduto.
Cugina Isabela, promessa sposa, scorre un fiume continuo, eterno fra le nostre solitudini. Io da questo lato lascio scorrere verso valli che non scorgo le mie grida, le mie azioni, che ritornano al mio lato con echi inutili e perduti. Tu dall'altro lato…
Però molte volte ti ho sfiorata, Isabela. Perché tu sarai chissà dove! Quella donna ritirata che, quando cammino nel crepuscolo, conta dalla finestra, come me, le prime stelle.
Cugina Isabela, le prime stelle. *

* Nell'originale, con evidente gioco di parole, suona così: Prima Isabella, las primeras estrellas [N.d.T.].


LA TENDA

Riparavamo allora una palafitta crollata, in piena campagna australe. Era estate. Di notte le squadre rientravano e, stanchi, ci buttavamo sull'erba o sulle coperte distese. Il vento australe copriva di rugiade la campagna in estasi e scuoteva la nostra tenda mobile come una vela.
Con quale strana tenerezza amai in quei giorni il pezzo di tela che ci proteggeva, la casa che voleva cullare il nostro sonno al ritorno dalla giornata estenuante!
Dopo mezzanotte, aprivo gli occhi, e immobile, ascoltavo... Accanto a me, il ritmico respiro degli uomini addormentati... Attraverso un'apertura ovale della tenda passa l'ampio alito della notte nei campi... Di tanto in tanto l'angosciosa voce d'amore delle donne possedute: a intermittenza e lontani, l'allucinato gracchiar delle rane o il rumore della corrente del fiume contro le opere della palafitta.
A volte, trascinandomi come un bruco, uscivo furtivamente dalla tenda. All'esterno mi stendevo sul trifoglio bagnato, la testa carica di nostalgie, con le pupille assorte in qualche costellazione. La notte contadina e oceanica mi dava il capogiro, e la mia vita galleggiava in essa come una farfalla caduta in uno stagno.
Una stella filante mi riempiva di un'allegria inverosimile.


LA BONTÀ

Induriamo la bontà, amici. È benefica anch'essa la coltellata che fa saltare la roditura e i vermi; benefica è anche la fiamma che s'accende nei boschi perché solchino la terra i buoni aratri.
Induriamo la nostra bontà, amici. Ormai non c'è pusillanime dagli occhi annacquati e dalle blande parole, ormai non c'è cretino di nascoste intenzioni e gesto condiscendente che non porti la bontà, da voi concessa, come una porta chiusa a qualsiasi penetrazione del nostro esame. Vedete che abbiamo bisogno che siano chiamati buoni quelli dal cuore retto, chi non si è piegato e i sottomessi.
Vedete che la parola sta diventando accogliente per le più vili complicità e confessate che la bontà delle vostre parole è stata sempre — o quasi sempre —
bugiarda. Qualche volta bisogna smetterla di mentire poiché, in fin dei conti, dipendiamo soltanto da noi stessi e ci stiamo sempre pentendo da soli della nostra falsità vivendo così rinchiusi in noi stessi fra le pareti della nostra astuta stupidità.
I buoni saranno quelli che riusciranno a liberarsi al più presto di questa menzogna paurosa e che sapranno dire la loro bontà indurita contro tutto ciò che lo meriti. Bontà che va, non con qualcuno, ma contro qualcuno. Bontà che non scocci né lecchi, ma che sbudelli e combatta perché è l'arma stessa della vita.
E soltanto così saranno chiamati buoni quelli dal cuore retto, chi non si è piegato, chi non si è sottomesso, i migliori. Essi rivendicheranno la bontà marcia per tanta bassezza, saranno il braccio della vita e i ricchi di spirito. E loro, soltanto loro, sarà il regno
della terra.


GLI EROI

Come se li portassi dentro la mia ansia trovo gli eroi dove li cerco. Dapprincipio non seppi distinguerli, però reso ormai esperto degli inganni della vita, me li vedo passare accanto e imparo a dar loro quanto non possiedono. Ma ecco questo eroismo mi è venuto a noia e lo respingo stanco. Perché adesso cerco uomini che voltino la schiena alla tormenta, uomini che urlino alle prime frustate, eroi oscuri che non sappiano sorridere e che guardino la vita come una grande cantina, umida, lugubre, senza spiragli di sole.
Però adesso non li trovo. La mia ansia è piena dei vecchi eroismi, degli antichi eroi.


LA LOTTA PER IL RICORDO

I miei pensieri sono andati allontanandosi da me, ma giunto ad un sentiero accogliente respingo i tumultuosi dispiaceri presenti e mi fermo, gli occhi chiusi, snervato in un aroma di lontananza che io stesso sono andato conservando nella mia lotta piccola contro la vita. Sono vissuto soltanto ieri. L'oggi ha quella nudità in attesa di ciò che desidera, suggello provvisorio che ci si va invecchiando senza amore.
Ieri è un albero dai lunghi rami e alla sua ombra sto disteso, ricordando.
D'un tratto contemplo sorpreso lunghe carovane di viandanti che, giunti come me a questo sentiero, con gli occhi addormentati nel ricordo, si cantano canzoni e ricordano. E qualcosa mi dice che hanno cambiato per fermarsi, che han parlato per tacersi, che hanno aperto gli attoniti occhi davanti alla festa delle stelle per chiuderli e ricordare...
Disteso in questo nuovo cammino, con gli avidi occhi fioriti di lontananza, cerco invano di interrompere il fiume del tempo che tremola sui miei atteggiamenti. Però l'acqua che riesco a raccogliere rimane imprigionata negli occulti serbatoi del mio cuore dove domani dovranno immergersi le mie vecchie mani solitarie...


IL FUMO

A volte mi prende il desiderio di parlare un poco, terra terra, con le frasi mediocri in cui esiste questa realtà dell'angolo di strada, orizzonte e cielo che scruto all'imbrunire, dall'alta finestra dove sempre sto pensando. Desiderio, senza nessun senso universale,
vincolo primario che è necessario tendere per sentirsi vivo, accanto alla più alta finestra, nel solitario imbrunire.
Dire, per esempio, che la strada polverosa mi sembra un canale di terre immobili, senza potere di riflettere, definitivamente taciturno.
I grandi roces * invadono di fumo l'aria ferma e la luna affacciata da quell'estremità gocciola grossi acini di sangue.
La prima luce si accende nel postribolo dell'angolo, ogni pomeriggio. Sempre esce sul marciapiedi il finocchio della casa, un adolescente magro e preoccupato sotto il suo spolverino di canapa. Il finocchio ride ogni momento, lancia acute grida, e fa sempre qualcosa col piumino o piega vestiti o pulisce con una scopa l'immondizia dell'ingresso. In tal modo che le puttane escono ad affacciarsi pigramente alla porta, affacciano la testa, ritornan dentro, mentre il povero finocchio sta sempre a ridere o a pulire col piumino o si preoccupa per i vetri della finestra. Quei vetri devono esser neri di terra.
Io, guardando queste piccole azioni, posso stare con l'anima in viaggio: Isabel aveva la voce triste, o cercando di ricordare, per esempio, in che mese son venuto al villaggio. Ah, che giorni caduti nella mia mano tesa! Solo voi lo sapete, scarpe mie, letto mio,finestra mia, solo voi. A volte mi credono morto. Andando, andando, pensando. Piove, ah mio Dio!
Sebbene supponga che un cane magro e schivo attraversi annusando e pisciando lentamente rasentando le case, quel cane è esatto e reale e mai cambierà la sua camminata immaginaria.
Sembra che sia d'obbligo mettere un po' di musica fra queste lettere che butto alla rinfusa sulla carta. Indispensabile fisarmonica, scala di ubriachi che a volte inciampano. Ma anche un organino che fa girare i suoi grossi valzer in cima ai tetti.
Anche adesso mi sembra lei quella che viene, ma adesso, per cosa verrebbe? Ululano i levrieri della campagna. Che lunga fila di eucaliptus impauriti, neri e impauriti!
Ricordarla è come se seppellissi il mio cuore nell'acqua. Anche adesso mi sembra lei, ma perché verrebbe adesso? Ah che giorni tristi! Mi stenderò un'altra volta sul letto, non voglio guardare un'altra volta questa prospettiva umida. I tuoi occhi: due sonnolente tazze annerite con maquis ** della foresta vergine. Nella foresta che foglia di rampicante bianca, fragrante, pesante, ti avrei portato. Tutto si allontana da questa solitudine forgiata a forza di pioggia e di pensiero. Padrone della mia esistenza profonda, limito ed estendo il mio potere sulle cose. E dopo tutto, una finestra, un cielo di fumo, in fondo, non ho nulla.
Dei carretti passano traballando, risuonando, strascicando. La gente andando scarabocchia figure sul suolo. S'illumina una voce dietro quella finestra. Sigari accesi nell'ombra. Chi picchia con tanta fretta nella casa di sotto? La montagna del fondo, oscura
cintura che cinge la notte. Niente di più fatale di quel colpo alla porta, poi i passi che salgono la mia povera scala: qualcuno viene a trovarmi. Perciò scrivo in fretta: la notte come un albero, affonda nelle mie radici, tenebrose radici. Intrecciato di frutta ardendo,
su, sul fogliame, si ricopre la luna.
Povero, povero campanaro, che mette in fuga la solitudine a colpi di battacchio. La scampanata trapassa l'aria e cade velocemente. Rimani solo, arrampicato sulle tue campane, lassù in alto.

* Per liberare il terreno da erbacce e sterpi vi si appicca il fuoco: l'incendio che ne deriva è il roce [N.d.T.].
** Pianta selvatica, con bacche nere simili al mirtillo, commestibili; fermentate danno la chicha, specie di grappa fortemente alcoolica; adoperate anche come colorante naturale [N.d.T.].


LA NAVE DEGLI ADDII

Dall'eternità naviganti invisibili continuano a portarmi attraverso atmosfere strane, solcando mari sconosciuti. Lo spazio profondo ha coperto i miei viaggi che non finiscono mai. La mia chiglia ha rotto la massa immobile di iceberg risplendenti che tentavano di
nascondere la rotta con i loro corpi polverosi. Poi ho navigato per mari di foschia che estendevano le loro nebbie fra altri astri più chiari della terra. E poi per mari bianchi, per mari rossi che hanno tinto il mio scafo coi loro colori e le loro foschie. A volte abbiamo incrociato l'atmosfera pura, un'atmosfera densa, luminosa che inzuppò la mia velatura e la rese fulgida come il sole. A lungo ci fermavamo in paesi dominati dall'acqua e dal vento. E un giorno — sempre inatteso — i miei naviganti invisibili levavano le mie ancore e il vento spingeva le mie vele sfolgoranti. Ed era di nuovo l'infinito senza vie, le atmosfere astrali
aperte su pianure immensamente solitarie.
Giunsi alla terra, mi ancorarono in un mare, il più verde, sotto un cielo azzurro che non conoscevo. Abituate al bacio verde delle onde, le mie ancore riposano sulla sabbia d'oro del fondo del mare giocando con la flora contorta della sua profondità, sostengono
le bianche sirene che nei giorni lunghi vengono a cavalcare su di esse. I miei alberi alti e dritti sono amici del sole, della luna e dell'aria amorosa che li mette alla prova. Uccelli che non han mai visto si fermano su di essi dopo un volo di frecce, solcano il cielo, allontanandosi per sempre. Io ho cominciato ad amare questo cielo, questo mare. Ho cominciato ad amare questi uomini...
Ma un bei giorno, il più inatteso, arriveranno i miei naviganti invisibili. Leveranno le mie ancore ramificate nelle alghe dell'acqua profonda, riempiranno di vento le mie vele sfolgoranti...
E sarà di nuovo l'infinito senza vie, i mari rossi e bianchi che si estendono fra altri astri eternamente solitari.

(Questi dodici brani di prosa poetica sono stati pubblicati sulla rivista « Claridad » di Santiago del Cile nell'anno 1922).


ESEGESI E SOLITUDINE

Ho intrapreso la più grande uscita da me stesso: la creazione, volendo illuminare le parole. Dieci anni di impresa solitaria che fanno con precisione la metà della mia vita, hanno fatto sì che nella mia espressione si succedessero ritmi diversi, correnti contrarie. Legandoli, intrecciandoli senza trovare il durevole, perché non esiste, ecco i Veinte poemas de amor y una canción desesperada. Dispersi come il pensiero nella sua inafferrabile variazione, allegri e amari, li ho fatti e qualcosa ho sofferto facendoli. Ho cantato soltanto la mia vita e l'amore di alcune donne care, come chi comincia salutando a gran voce la parte più vicina del mondo. Ho cercato di far aderire sempre di più l'espressione al mio pensiero e qualche vittoria l'ho ottenuta: in ogni cosa che usciva da me mi son messo con sincerità e volontà. Senza tentennamenti, gente onesta e sconosciuta — non impiegati e pedagoghi che mi detestano personalmente — mi ha mostrato i suoi gesti cordiali, da lontano. Senza dargli importanza, concentrando la mia forza per fermare la marea, non ho fatto altro che dare intensità al mio lavoro. Non mi
sono stancato di nessuna disciplina perché non ne ho mai avuta: la roba usata che va bene per i più, mi andò piccola o grande, e la riconobbi senza guardarla. Buon meditatore, mentre vivevo davo alloggio a troppe inquietudini perché queste passassero di colpo attraverso quello che scrivo. Senza guardare in nessuna direzione, liberamente, incontenibilmente, mi sgorgarono i miei poemi.

(Pubblicato sul giornale « La Nación », di Santiago del Cile, nell’anno 1924).




Quaderno 2
IMMAGINE CHE VIAGGIA


IMMAGINE CHE VIAGGIA

È successo qualche giorno fa. L'immenso Brasile saltò sulla nave.
Di buon'ora, la baia di Santos era color della cenere e poi le cose emanarono la loro luce naturale, il cielo si fece azzurro. Allora, la riva apparve nel colore di migliaia di banani, comparvero le canoe piene di arance, macachi si dondolavano davanti agli occhi e da un estremo all'altro della nave strepitavano i pappagalli reali.
Fantastica terra. Dal suo ventre silenzioso, nessun segno: i massicci di luce verde e scura, l'orizzonte vegetale e torrido, la sua distesa, percorsa, segreta, da liane gigantesche che riempiono la lontananza in una circostanza di silenzio misterioso. Ma le barche scricchiolano sventrate da cassoni: caffè, tabacco, frutta in grandi quantità e l'odore ti tira dalle narici verso la terra.
Lì salì quel giorno una famiglia brasiliana: padre, madre e una ragazza. Lei, la niña,* era molto bella.
Buona parte della faccia era occupata dagli occhi, assorti, nerastri, mossi senza fretta, con profonda abbondanza di fulgore. Sotto la fronte pallida fanno notare la loro presenza in un costante battito di ciglia. La bocca è grande perché i denti vogliono brillare nella luce del mare dall'alto del sorriso. Una bella criolla, ** caro mio. Il suo essere comincia con due piedini minuscoli e sale lungo le gambe dalla forma sensuale, la cui maturità lo sguardo vorrebbe mordere.
Lentamente, lentamente va la nave costeggiando queste terre, come se facesse un grande sforzo per staccarsi, come se la trattenessero le voci ardenti del litorale. D'un tratto sulla coperta cadono grandissime farfalle nere e verdi, d'un tratto il vento fischia con la sua aria calda da terra, da lontano, portando, a volte, la cronaca dei lavori delle piantagioni, l'eco della marcia segreta dei seringueiros *** verso il caucciù, altre volte si ferma e la sua pausa è un avvertimento.
Perché, acque percorrendo, giungiamo alla linea dell'equatore, nel deserto d'acqua come olio penetra la nave senza rumore, come in uno stagno. E ha qualcosa di spaventoso questo accesso ad un'atmosfera calda in mezzo all'oceano. Dove comincia questo anello incendiato? Il bastimento avanza nella latitudine più silenziosa, deserta, di implacabile ebollizione spenta. Quali forme fantasma abiteranno il mare sotto questa pressione di fuoco?
Marinech, la brasiliana, occupa ogni pomeriggio la sua sedia a sdraio in coperta, rivolta al crepuscolo. Il suo viso lievemente si tinge dei colori del firmamento, a volte sorride.
È amica mia, Marinech. Conversa nella melliflua lingua portoghese e la sua lingua di giocattolo la rende incantevole. Quindici spasimanti la circondano facendo crocchi attorno a lei. È altera, pallida, non mostra preferenza per nessuno. Il suo sguardo, carico di materia scura, sta fuggendo.
Bene, le sere quando calano sulla terra si rompono in pezzi, si sfracellano contro il suolo. Per questo si sente quel rumore, quella vacuità del crepuscolo terrestre, quel baccano misterioso che non è altro che lo schiantarsi vespertino del giorno. Qui, la sera cala in un silenzio letale, come se un panno scuro piombasse sull'acqua. E la notte ci chiude gli occhi di sorpresa, senza far sentire i suoi passi, perché vuoi sapere se è stata riconosciuta, lei, l'infinita inconfondibile.

* Niña in Cile, oltre alla normale accezione, bambina, indica una donna attraente; si usa anche nel presentare la propria ragazza: « Mi niña » [N.d.T.].
** Criolla, discendente da europei che vive in America latina [N.d.T.].
*** Operai delle piantagioni di caucciù [N.d.T.].


PORTO SAID

Commentare questo passare di cose è acquisire un tono. Si rotola sul piano inclinato di una tendenza interiore e cominciano ad apparire delle presenze: il ritrovamento sentimentale, i suoi aspetti laceranti di partire o arrivare, il comico inventa i suoi lazzi, il tragico i suoi drammi.
Io, sulla prua del piroscafo, seduto nella mia sedia a sdraio, ho una carenza di senso speciale, il mio sguardo è di sfinge vuota, di cartone che difficilmente alleva sorprese. L'Oriente arriva fino a questa sedia di buon mattino, un giorno, prende la forma di mercanti egiziani, di tipo bruno, col cucurucho * rosso, loquaci, insistenti fino alla follia, a mostrare la loro tappezzeria, le loro collane di vetro, a invitarti al bordello.
Attaccato alla nave c'è Porto Said, una fila di depositi internazionali, le lance del baratto marittimo, più dentro, l'orizzonte di architetture tronche, case la cui crescita sembra impedita dalla terrazza e le palme d'Africa, le prime, timidamente verdi, umiliate in mezzo a questo strepito di carbone e farina, dentro a questo alito internazionale, stridore di cingoli, pesante palpitare di macchine che danno e ricevono con grandi dita di ferro.
Porto Said racchiude una rumorosa gravitazione delle più stridule razze del mondo. Le sue viuzze strette sono tutte bazar e mercato, gridano in tutte le lingue acutamente e incalzano con odori immondi, si tingono di colori verdi e scarlatti. In questa accumulazione vegetale e bestiale è inutile voler tornare indietro; anche l'aria di Porto Said, la luce, gridano prezzi e inviti; il cielo di Porto Said, basso e azzurro, è una tenda da capannone e oscilla appena sul suo mostruoso bazar.
Di tanto in tanto, attraversano le strade le donne arabe col volto coperto, dagli occhi seducenti. Sono una resurrezione, piuttosto triste, delle letture di Pierre Loti; completamente avvolte nei loro panni scuri, sembrano oppresse da questa funzione di mantenere il loro prestigio letterario, non fanno parte di questa violenta aria africana, suscitano una curiosità malinconica e scarsa. Anche i fumatori di narghilè, per quanto autentici, senza alcun dubbio, mentre succhiano quell'attrezzo visto a sazietà nei negozi di antiquariato, sopportano con vera e propria dignità il loro ruolo leggendario diffuso da antichi libercoli. Fumano con una particolare serenità, sudando un po', grossi, bruni, avvolti nelle loro tuniche.
Ben presto il bastimento si lascia dietro distese al sole tutte queste ricche miserie, questo porto cui manca un po' di quella seria decorazione orientale dei film. Alcune scalinate, alcune cupole, le giare grandiose del Ladro di Bagdad, e la nave fugge con grande nostalgia attraverso il Canale di Suez (quest'opera fredda, deserta, non ancora uscita dalla carta di Whatman, dell'ingegner Lesseps). La nave porta con sé il più grande scompiglio prodotto da uno sconosciuto aspetto della terra, l'impronta recondita di quanto
ha vissuto un giorno in più della vita fra il fantastico, l'immaginario, il misterioso.

* Cappello conico, come quello che, a carnevale, portano i bimbi mascherati da mago [N.d.T.].


DANZA AFRICANA

Devo scrivere questo passo con la mano sinistra, mentre con la destra mi proteggo dal sole. Dall'acuto sole africano che, a una a una, fa passare le mie dita dal rosso al bianco. Allora le immergo nell'acqua; bruscamente diventano tiepide, fredde, pesanti. La mia mano destra è diventata di metallo; con essa (nascondendola in un guanto) vincerò i più spaventosi pugili, il più ardito fachiro.
Siamo di fronte a Gibuti. Il limite fra il Mar Rosso e l'Oceano indiano non si nota; le acque superano questa barriera di lettere, i titoli della carta geografica, con incoscienza da analfabeti. Qui si confondono acque e religioni, in questo stesso punto. I primi salmoni buddisti passano indifferenti accanto alle ultime triglie saracene.
Allora, dalla profondità del litorale balzan fuori i più graziosi negroidi somali ad acchiappar monete, dall'acqua o dall'aria. Episodio descritto milioni di volte e che, in realtà, è così: la banda dei monelli è olivastra, con lunghe orecchie egizie, con bocca bianca e un solo e fermo sorriso e il cui ombelico notevole si vede che è stato tracciato da una moneta francese lanciata dalla murata con troppa forza. Sono uno sciame di api scure che a volte, al volo, cacciano l'esemplare fuori corso; la maggior parte delle volte lo strappano dal mare e lo sollevano in bocca, abituandosi così a quell'alimento argentino che fa del tipo somalo una specie umana di consistenza metallica, dal suono chiaro, impossibile da rompere.
Gibuti è bianca, bassa, quadrata nella sua parte europea, come tutti i dadi su un'incerata splendente. Gibuti è sterile come il piatto di una spada; queste arance vengono dall'Arabia; quelle pelli dall'Abissinia. Su questa regione senza istinti materni, il sole cade a picco, e trapassa il suolo. Gli europei a quest'ora si nascondono in fondo alle loro case con palme e ombra, si seppelliscono nelle vasche da bagno, fumano fra l'acqua e i ventilatori. Per le strade, perpetuamente immobili in un'illuminazione da lampo, passano soltanto gli orientali noncuranti: silenziosi indù, arabi, abissini dalla barba quadrata, somali nudi.
Gibuti mi appartiene. L'ho dominata, passeggiando sotto il suo sole nelle ore terribili: il mezzogiorno, la siesta, i cui colpi di fuoco spezzarono la vita di Arthur Rimbaud nell'ora in cui i cammelli fanno diminuire la loro gobba e rivolgono i loro piccoli occhi dal lato del deserto.
Dal lato del deserto c'è la città indigena. Tortuosa, schiacciata, fatta di materiali vecchi e asciutti: mattoni crudi, tetti di canna * miserabili. Varietà di caffè arabi in cui fumano distesi su stuoie, seminudi, personaggi dal volto superbo. Girato un angolo, gran pandemonio di donne, gonne multicolori, facce nere dipinte di giallo, braccialetti di ambra: è la strada delle ballerine. In tante, a grappoli, appese alle nostre braccia vogliono, ognuna, guadagnare le monete dello straniero. Entro nella prima capanna e mi stendo su un tappeto. In quel momento, dal fondo, appaiono due donne. Sono nude. Ballano.
Danzano senza musica, calpestando il gran silenzio dell'Africa, un tappeto. Il loro movimento è lento, accorto, non si sentirebbero anche se ballassero fra le campane. Sono d'ombra. Di una simile ombra ardente e dura, per sempre attaccata al metallo diritto dei petti, alla forza di pietra di tutte le membra. Alimentano la danza con voci interne, ventriloquo, e il ritmo diventa leggero, frenetico. I talloni colpiscono il suolo con pesante fulgore: una gravitazione senza senso, un imperativo irascibile le spinge. I loro corpi neri brillano di sudore, come mobili bagnati; le loro mani, sollevandosi, fanno risuonare i braccialetti, e con un balzo brusco, tese nell'ultima giravolta, rimangono immobili, finita la danza, incollate al suolo come fantocci schiacciati, ormai passata l'ora del fuoco, come frati prostrati dalla presenza di ciò che suscitarono.
Non ballano più. Allora, chiamo accanto a me la ballerina più piccola, quella più gracile. Lei viene: con la mia giacchetta bianca di palm-beach pulisco la sua fronte notturna, col braccio la prendo per la vita. Allora, le parlo in una lingua che non aveva mai
sentito prima, le parlo in spagnolo, nella lingua in cui Diaz Casanueva scrive versi lunghi, vespertini; nella stessa lingua in cui Joaquin Edwards predica il nazionalismo. Il mio discorso è profondo; parlo con eloquenza e seduzione; le mie parole escono, più che
da me, dalle calde notti, dalle molte notti solitarie del Mar Rosso e quando la piccola ballerina solleva il suo braccio fino al mio collo, capisco che capisce. Meraviglioso idioma!

* Totoras, tetti di foglie di tortora; una specie di canna che si trova in Cile [N.d.T.].


IL SOGNO DELL'EQUIPAGGIO

La nave avanza insensibile per la sua strada. Cosa cerca? Presto toccheremo Sumatra. Questo diminuisce la sua velocità, che a poco a poco diventa impercettibile, per paura di affondare improvvisamente nelle morbide boscaglie dell'isola, di svegliarsi la mattina con gli elefanti e, magari, gli ornitorinchi sul ponte.
È, notte, una notte arrivata di forza, decisiva. È la notte che cerca di estendersi sull'oceano, il letto senza burroni, senza vulcani, senza treni che passano. Lì russa la sua libertà, senza ritirare le gambe dentro le frontiere, senza ridursi in penisole; dorme, nemica
della topografia sognando in libertà.
L'equipaggio giace sul ponte per sfuggire al caldo, in disordine, prostrati, senza occhi, come dopo una battaglia. Stanno dormendo, ciascuno in un sonno diverso, come dentro un vestito.
Dormono i dolci annamiti, col dorso addormentato sulle coperte, e Laho, il loro caporale, sogna di sollevare una spada dai bordi dorati; i suoi muscoli si muovono, come rettili dentro la sua pelle. Il suo corpo soffre, si affatica lottando. Altri hanno dentro un
sogno di guerrieri, duro come una lancia di pietra e sembrano soffrire, aprire gli occhi alla sua acuta pressione. Altri piangono lievemente, con un rauco gemito che si perde, e ci sono di quelli che hanno il sonno leggero come un uovo, il cui guscio si fende ad ogni emozione, ad ogni suono; il contenuto si spande come il latte sovracoperta e poi si ricompone, i loro gusci senza materia e senza rumore si attaccano e l'uomo continua assorto. Ce ne sono altri.
Laurent, il vero marinaio del Mediterraneo, riposa supino con la sua maglietta a strisce e la sua cintura rossa. Gli indù dormono con gli occhi bendati, separati dalla vita da quella benda da condannati a morte e più d'uno appoggia lievemente la mano al posto del
cuore lottando bravamente con il sonno, come con una pallottola. I negri della Martinica dormono, voluttuosi, diurni: l'Oscurità indiana si traspone in una siesta di palme, in scogliere di luce immobile. Gli arabi legano la loro testa per mantenerla ferma nella direzione di Maometto morto.
Alvaro Rafael Hinojosa dorme senza sonno, sogna sartine olandesi, 'maestre di Charlesville, Erika Pola di Dresda; il suo sogno è una scomposizione dello spazio, un liquido corruttore, una trivella. Ha l'impressione di scendere in quella spirale di trapano, ingoiato come una farfalla in un ventilatore molto grande; gli pare di perforare le distanze dure della terra, i trascorsi salmastri del mare; si vede perduto, debole senza gambe, arrotolato nella trasmigrazione interminabile; quando vuole tornare indietro picchia la fronte contro età sbagliate, sostituite, regioni dalle quali fugge, accolto come uno scopritore. Da un punto all'altro del tempo, vola con furore, il vento soffia accanto a lui come attorno a un proiettile.
I cinesi, a metà prosternati, hanno calzato la loro maschera di sonno, gelata, rigida, e vanno nell'addormentato come nel fondo di un'armatura. I corsi russano, sonori come conchiglie, pieni di tatuaggi, come se lavorassero. È che sollevano il sonno come l'alberatura di una chiatta, a colpi di muscolo, con perizia marinara. Anche la loro barca è più sicura nei sogni, tentenna appena nel temporale celeste; porta fra il cordame angeli e pappagalli equatoriali.
Lì c'è Dominique, disteso sulle tavole. Alla caviglia ha tatuato Marche ou Crève, a lettere azzurre. Sulle braccia ha una mano che stringe un pugnale, il che significa coraggio; sul petto, il ritratto dell'ingrata Eloise, fra una ragnatela di pelo; e poi ha le gambe tatuate con ancore che scongiurano i pericoli del mare; colombe che evitano la prigione della rosa dei venti, buona per orientarsi e protettrice degli ubriachi.
Ce ne sono che dormono senza sognare, come minerali; altri, con la faccia scura come se stessero di fronte ad una barriera insormontabile. Io stendo la mia stuoia, chiudo gli occhi e il mio sogno si slancia ad occupare il suo territorio con infinita attenzione. Ho paura di svegliarli. Cerco di non sognare sonagli, Montmartre, fonografi; potrebbero svegliare. Sognerò delle donnine, quelle più silenziose: Lulù o, anzi, Laura, la cui voce a volte si leggeva, a volte era del sogno.


COLOMBO ADDORMENTATA E SVEGLIA

Dopo le dieci di sera (ora inglese). Colombo muore. Arrivai a Colombo alle 10.05 di sera, sperando di afferrare almeno un rantolo. Quella era morta di colpo, quella era una città senza ombra, senza luce: era Valparaíso di notte a Buenos Aires. Il porto sembrava
una figura geometrica; i suoi angoli bianchi non avevano il minimo rapporto di parentela con le ascelle orientali cariche di temperatura e di odore. Era il modello in rilievo di una città ieratica, dura, senza respiro, senza bevande. Né facce di donne, né l'ombra
di canzoni allegre. Addio.
Tornai al mattino. I morti erano usciti dal sepolcro, i morti dai colori e dai vestiti strani. Quello scuotimento di resurrezione aveva la portata e l'effetto del turbine. Graffiato quell'indifferente guscio terrestre, rimasero al sole le interiora segrete di Ceylon e il suo
suono assordante, la sua rauca voce di timballo.
Vado seduto su un risciò, di quelli tirati con leggerezza da un cingalese che, per correre, assume l'aspetto di uno struzzo. La città indigena ribolle ai miei quattro lati e, di passaggio fra i 280 mila abitanti di Colombo, è tutta una mobile ora di colore.
La moltitudine che incrocio ha una certa uniformità. Gli uomini dalla carnagione bruna scura vanno vestiti semplicemente, indossano tuniche che li coprono quasi completamente, l'abito nazionale. Le donne, quasi tutte con ornamenti al naso, trafitto da pietre azzurre o viola, vestite di pesante tulle; al collo sciarpa multicolori. In mezzo alla grande moltitudine dai piedi scalzi, di tanto in tanto, inglesi con grossi stivali, malesi con scarpette di velluto. La gente di Ceylon è di rado bella, in ogni volto, regolare e ardente, due occhi di forza, dallo sguardo grave in modo impressionante. Pare che non esista né il dolore né la miseria in questo mondo indifferente. Due vecchi camminano a testa alta, il loro sguardo di carbone è superbo e i monelli seminudi sorridono con scioltezza, senza petulanza, senza aver l'aria di elemosina.
Le piccole, bianche case indù prolungano in tutto il marciapiede i loro negozi, invadendoli di strane mercanzie. I negozi dei barbieri impressionano, soprattutto: il cliente e il barbiere stanno accovacciati, immobili uno di fronte all'altro, come nella pratica di un paziente rito. Il barbiere mi guarda senza inquietudine, mentre percorre il cranio del suo contendente con un lunghissimo coltello. Gli usurai, chiamati chettys, passeggiano con grandi barbe da monarca, in camicia, con aria impassibile: passano dei giovani dall'aspetto religioso con una viva macchia di zafferano fra le due sopracciglia, altri più ricchi, con un rubino o un diamante incrostato. In tutti i negozi, caucciù, seterie, tè e elefanti di ebano con zanne di avorio, di pietre, preziose, di tutte le dimensioni. Ne compro uno, da] tre rupie, grande come un coniglio.
Questa varietà di colori, come un albero che avesse ogni foglia diversa di tono, di forma, di posizione, crea attorno a te un'atmosfera immensa di sogno, da vecchio racconto. Sono di favola, di ingiallita poesia anche i corvi che, a centinaia, trovano ospitalità sui cornicioni della città indigena, che scendono fino al marciapiede, che cambiano posto da un lato all'altro della strada e rimangono immobili e storti in cima alle porte, come numeri di quantità sconosciuta.
Ma non era accessibile il tempio bramino di Colombo, vecchio di 300 anni, col suo esterno barocco, stretto da mille figure guerriere, femminili, mistiche, tagliate e dipinte di azzurri, di verdi, di rossi, con i suoi dèi dalle nove facce superbe e le sue piccole divinità dalla testa di elefante. Impedisce l'ingresso un bonzi dipinto color zafferano, inutile il mio gesto di scalzarmi e di tirar fuori alcune rupie. I templi indù son vietati agli stranieri e mi devo accontentare di guardare e di ascoltare frammenti di cerimonia. Davano alle porte, due fedeli spaccano contro il suolo di pietra grandi noci di cocco, la cui polpa bianca rimane in offerta così al Dio Brahma. Suona un campanello che indica il momento delle libagioni di fiori, i bonzi corrono, si prosternano, si stendono al suolo con l'aria di chi è ferito a morte.
La cosa più bella di Colombo è il mercato, quella festa, quella montagna di frutta e di foglie da Eden. Si ammucchiano a milioni le arance verdi, i minuscoli limoni asiatici, le noci di aree, i manghi, la frutta dal nome difficile e dallo sconosciuto sapore. Le foglie di
betel si ammucchiano in gigantesche colonne, ordinate alla perfezione come biglietti, accanto ai fagioli di Ceylon, i cui baccelli misurano un metro di lunghezza. L'immenso mercato si muove, ribolle dappertutto la sua fastosa carica, ubriaca l'acuto profumo dei frutti, dei mucchi di legumi, il colore esaltato, brillante come cristalleria, di ogni mucchio, dietro il quale dei ragazzi indù, che non sono più scuri dei sudamericani, guardano e se la ridono con più saggezza, con maggiore risonanza intima, in un atteggiamento che ha
una qualità più elevata del modo di fare criollo. Per il resto, a volte, la somiglianza ti coglie di sorpresa; d'un tratto si avvicina un disegnatore di tatuaggi, uguale a Hugo Silva, un venditore di betel con la stessa faccia del poeta Homero Arce.
La nave lascia Colombo. Ed ecco, d'un tratto, l'immensità del porto cosmopolita, le sue navi mercantili di tutte le latitudini e al centro, un incrociatore inglese bianco, argenteo, esile, perfetto e liscio come un dente o un coltello. Sta lì, di fronte ai boschi dell'isola, di fronte al tetto acuto delle pagode, fra l'odore di spezie che proviene dalla terra sottomessa, attaccato al mare, come un segno di fredda minaccia.
Poi, sparse, le canoe cingalesi dalle vele ocra e rosso, così strette, che gli occupanti ci stanno in piedi. In piedi e nudi come statue, sembrano uscire dall'età
eterna dell'acqua con quell'aria segreta della materia elementare.


DIURNO DI SINGAPORE

Mi sveglio: ma entro io e la natura resta ancora; un velo, un tessuto sottile è la zanzariera della mia casa. Dietro di essa le cose hanno preso il posto che gli spetta nel mondo; le fidanzate ricevono un fiore; i debitori, un conto. Dove sono? Sale dalla strada l'odore e il suono di una città, odori umidi, suoni acuti. Sulla bianca parete della mia stanza prendono il sole le lucertole. L'acqua del mio lavandino è calda, zanzare nate sulla linea dell'equatore mi mordono le caviglie. Guardo la finestra, poi la carta geografica. So-
no a Singapore.
Sì, perché a ovest della baia vivono gli oscuri industani, più in qua dei bruni malesi; di fronte alla mia finestra i cinesi veramente giallognoli, e a est, i rosei inglesi; in una progressiva transizione, come se soltanto qui fossero andati cambiando colore e lentamente avessero adottato gli uni il buddismo, gli altri il riso e gli altri il tennis.
Però, in verità, la capitale degli Straits Settlements è cinese. Ci sono 300 mila pallidi e obliqui cittadini, ormai senza codino, ma ancora con tanto di oppio e di bandiera nazionalista. C'è, dentro la città, un'immensa, ribollente, attivissima città cinese. È il dominio dei grandi cartelli con bei caratteri geroglifici, misteriosi alfabeti che attraversano da un lato all'altro la strada, escono da ogni finestra e da ogni porta in splendida lacca rossa e dorata, intermezzo di dragoni di autentico coromandel. Da quel momento in poi sono la pura avvertenza dei nuovi enigmi, della grassa terra e, anche se annunciano il miglior lucido per scarpe o la perfetta cappelleria, bisogna dar loro un significato occulto e diffidare delle apparenze.
Magnifica moltitudine! Le ampie strade del quartiere cinese lasciano appena un po' di spazio per il passaggio di un poeta. La strada è mercato, ristorante, immenso mucchio di cose vendibili e di esseri venditori. Ogni porta è un negozio stracolmo, un magazzino scoppiato che, non potendo contenere le sue mercanzie, lascia che invadano la strada. È tutto un avvolgersi di commestibili e giocattoli, di lavandai, calzolai, panettieri, usurai e mobilieri in quella giungla umana; non c'è quasi posto per il compratore; ad ogni lato della strada i cibi si ammucchiano in lunghe file di larghe tavole, di isolato in isolato, frequentate a qualsiasi ora da pazienti mangiatori di riso, da distinti consumatori di spaghetti, i lunghi spaghetti che cadono, a volte, sul petto, come cordoni d'onore.
Ci sono forgiatori che maneggiano i loro metalli standosene accovacciati, venditori ambulanti di frutta e di sigari, giullari che fanno stridere il mandolino a due corde. Case di pettinatori in cui la testa della cliente si trasforma in un castello duro, verniciato con la lacca. Ci sono vendite di pesci nei vasi; corridoi di ghiaccio pestato e noccioline; rappresentazione di marionette; miagolii di canzoni cinesi; fumerie d'oppio con tanto di cartello sulla porta.


MADRAS
CONTEMPLAZIONI DELL'ACQUARIO

In mattinata si installa sulla nave un giocoliere indù che è anche incantatore di serpenti. Soffia in una calabaza * dal suono stridulo, lugubre e come un'eco, da un cestino rotondo, si svolge un cobra scuro, dalla testa schiacciata: la terribile naja. Disturbata nel suo riposo, vuole mordere l'incantatore ad ogni istante; altre volte, gettando in un indicibile panico i passeggeri, cerca di avventurarsi sul ponte. Il giocoliere non si ferma lì: fa crescere alberi, nascere uccelli alla vista di tutti: escogita i suoi trucchi fino all'incredibile.
Madras da l'idea di una città estesa, spaziosa. Bassa, con grandi parchi, ampie strade, è un riflesso di una città inglese in cui all'improvviso, una pagoda, un tempio, mostrano la loro architettura invecchiata, come resti di istinto, tracce annerite dello splendore originale. La prima miseria indigena appare al viaggiatore; i primi mendicanti dell'India avanzano con passo maestoso e sguardo da re, ma le loro dita stringono come tenaglie la piccola moneta, l'anna di nickel; i coolies soffrono per le strade, tirando pesanti carrette di materiali: si vede che l'uomo ha ereditato i duri destini della bestia, del cavallo, del bue. D'altra parte, questi piccoli buoi asiatici, con le loro lunghe corna orizzontali, sono dei giocattoli, sono, certamente, pieni di segatura o sono magari apparizioni del bestiario adorativo.
Però, voglio celebrare con grandi parole le tuniche, il vestito delle donne indù, che incontro qui per la prima volta. Una sola pezza, che dopo esser stata gonna, si avvolge al torso con grazia soprannaturale, avvolgendole in una sola fiamma di seta sfolgorante, verde e purpurea, violetta, salendo dagli anelli del piede fino ai gioielli delle braccia e del collo.
È l'antichità greca o romana, la stessa aria, identico maestoso atteggiamento; le greche dorate del vestito, la severità del volto ariano sembra che le faccia resuscitare dal mondo sepolto, creature purissime, fatte di gravità, di tempo.
Un risciò mi porta lungo la Via Marina, orgoglio di Madras, larga di asfalto, con i suoi giardini inglesi inframmezzati da palme, con la sua riva d'acqua, l'acqua estesa del golfo del Bengala. Grandi edifici pubblici pieni di alberi, campi da tennis con giocatori
bruni, a dire il vero, entusiasti. Siamo sotto il sole del primo mese d'inverno, un sole terribile che colpisce senza commuoversi davanti a quella fredda parola. La schiena dell'uomo che tira il mio risciò gronda sudore, lungo la fenditura della sua spina di bronzo
vedo scorrere i rivoli grossi e lucenti.
Andiamo all'Acquario Marino di Madras, famoso in un vastissimo circondario per i suoi esemplari straordinari. In realtà è straordinario.
Ci sono non più di venti vasche, ma piene di eccellenti mostri. Ci sono immensi pesci corazzati e sedentari, lievi meduse tricolori, pesci canarini, gialli come lo zolfo. Ci sono piccoli esseri elastici e barbuti: graziosi natanti che trasmettono a chi li tocca una scossa elettrica; « pesci drago » a forma di tromba, con delle specie di ali, bardati di difese, simili a cavalieri da torneo medievale, con un gran roteare di vecchi aggeggi di protezione. Passeggiano nella loro assolata vasca i « pesci farfalla », larghi come sogliole, con una bacchetta infilzata nel dorso e ampi nastri azzurri e dorati. Ce ne sono di zebrati, o che sembrano dei pezzi di domino di un ballo sotterraneo con azzurri elettrici, con greche disegnate in cinabro, con occhi in pietre preziose verdi, semicoperti d'oro. I cavallucci marini si sostengono attorcigliando la coda ai rami di corallo trapiantati.
I serpenti marini sono impressionanti. Bruni, neri, alcuni si ergono come colonne immobili dal fondo della vasca. Altri, come se fossero stati condannati a muoversi in perpetuo, ondeggiano veloci, senza fermarsi un secondo.
Ecco i sinistri cobra del mare, uguali a quelli terrestri e ancor più velenosi. Si sopravvive soltanto alcuni minuti al loro morso e povero il pescatore che di notte abbia catturato nella sua rete un tale sinistro tesoro.
Accanto a loro, tutte assieme in una piccola grotta, le murene dell'Oceano Indiano, crudeli anguille dalla vita gregaria, formano un indistinto nodo grigio. È inutile cercare di separarle, attraversano le profonde vasche dell'acquario per unirsi di nuovo al loro gruppo. Sono un orrendo mucchio di streghe o di condannate al supplizio che si muovono in inquiete spirali, vera e propria assemblea di mostri viscerali.
Ci sono piccoli pesci millimetrici, di una sola squama; aguzzi polipi curiosi, come trappole; pesci che camminano su due piedi, come esseri umani: abitanti del mare notturno, oscuri, foderati di velluto; pesci cantori, al richiamo dei quali tutto il branco si riunisce; esemplari contemporanei di quello ingoiato da Angel Cruchaga, pesce diluviano, remotissimo. Immobili sul fondo delle vasche o che girano in cerchi eterni, danno l'idea di un mondo sconosciuto, quasi umano: gente decorata, guerrieri, gente camuffata, traditori, eroi, girano e rigirano in un coro muto e anelante dalla loro profondissima solitudine oceanica. Si allontanano puri di materia, come colori in movimento, con le loro belle forme di proiettile o di bara.
È tardi quando ritorno dal mobile Museo. Alle porte delle case, indù accovacciati mangiano il loro curry su larghe foglie, per terra, lentamente; le donne, mettendo in mostra le loro caviglie d'argento e i loro piedi adorni di pietre preziose; gli uomini malinconici, più piccoli e oscuri, come schiacciati dall'immenso crepuscolo dell'India, dalla sua palpitazione religiosa.
Nelle grosse barche sul lungomare, nella semioscurità, i pescatori tessono reti con destrezza, lo sguardo fisso nel vuoto, assente. Uno di loro, in ogni gruppo, legge alla luce di una lampada che ondeggia; la sua lettura è una cantilena, a volte un po' gutturale e selvaggia, altre volte scende appena fino alle labbra in un chiacchiericcio impercettibile. Sono preghiere, litanie sacre, leggende rituali, ramayana.
Sotto la loro protezione trovano consolazione i sottomessi, i dominati; resuscitando sogni cosmici ed eroici, cercano la strada per l'oblio, nutrimento alla speranza.

* Un tipo di zucca, svuotata dei semi e della polpa. Quelle di dimensioni ridotte, quanto una tazza da tè, servono per bere il mate, famoso infuso di erbe originario della regione del Rio de la Plata [N.d.r.].


SMOKING ROOM

I mendicanti ciechi annunciano la loro presenza con uno scampanellio. Gli incantatori di serpenti cullano i loro cobra suonando la loro musica triste, farmaceutica. È un immenso spettacolo di moltitudine, che non sta mai ferma, di distribuzione a milioni; è l'odore, lo strepito, il colore, la sete, la fame, il sudiciume, l'abitudine del Lontano Oriente.
La città europea è poi il luogo dove si agitano confuse le remote razze fermatesi sulla porta dell'Estremo Oriente. Passano tenendosi per mano, con le chiome lunghe e la gonna, i cingalesi; gli indostani a torso nudo, le donne del Malabar con le loro pietre preziose al naso e alle orecchie; i musulmani con il loro copricapo tronco. In mezzo a loro, i poliziotti della razza Sikh, tutti ugualmente barbuti e giganteschi. Il malese originario scarseggia. È stato spostato dai mestieri nobili e ora è un umile coolie, un infelice uomo del risciò. Questo son diventati i vecchi pirati, ecco dove sono andati a finire i nipoti delle tigri della Malesia. Gli eredi di Sandokan sono morti o van di male in peggio, non hanno un'aria eroica, la loro presenza è miserabile. La loro unica nave pirata l'ho vista nel Museo di Raffles: era la nave degli spiriti della mitologia malese. Dai suoi alberi pendevano rigidi impiccati di legno, i loro terribili mascheroni guardavano l’inferno.
Il traffico è diretto da poliziotti con ali di tela ad ogni spalla, libellule in piedi, i tram e i filobus percorrono lentamente l'asfalto lucido. Tutto ha un aspetto corroso, ricoperto da una patina di vecchie umidità. Le case nostrano grandi cicatrici di vecchiaia, di vegetazione parassita; tutto sembra molle, marcio. I materiali sono stati corrosi dal fuoco e dall'acqua, dal sole bianco di mezzogiorno, dalla pioggia equatoriale ) breve e violenta, come un dono dato di mala grazia.
Dall'altro lato dell'Isola di Singapore, separato da una angusta visitazione del mare, c'è il sultanato di Johore. L'auto percorre in un'ora la strada da poco aperta nella giungla. Siamo circondati da un silenzio pesante, accumulato; da una vegetazione che fa spavento, da una titanica impresa della terra. Non c'è un buco, tutto è ricoperto dal fogliame di un verde violento, da tronchi durissimi. Rampicanti simili al coille * s'increspano sugli alberi del pane; in alto si nutrono le erette palme da cocco, i grossi bambù, come zampe di elefante. I travellertrees ** a forma di ventaglio.
Ma la cosa più straordinaria è una vendita di fiere che ho visto a Singapore. Elefanti appena cacciati, agili tigri di Sumatra, fantastiche pantere nere di Giava. Le tigri si rivoltano in una furia spaventosa. Non sono le vecchie tigri dei circhi da fiera, hanno un altro atteggiamento, diverso colore. Un manto a strisce, scuro, di terra, una tinta naturale, ancora selvatica. I piccoli elefanti sonnecchiano in un'atmosfera da porcile; le pantere fanno brillare i dischi d'oro dal manto di ambra nera. Quattro cuccioli di tigre valgono duemila dollari; e mille un pitone di dodici metri, vestito di grigio. Gorilla color mattone si scagliano con furia contro le pareti della gabbia, mentre gli orsi della Malesia giocano con un'aria infantile.
Ma ecco che, venuto dalle isole Oceaniche, vestito di piume di fuoco, congiunzione di zaffiri e di zolfi, anelo degli ornitologhi, come una scheggia di pietra abbagliante appare un Uccello del Paradiso; di luce. E senza scopo.

* Specie di rampicante del sud del Cile, di colore verde [N.d.T.].
** Letteralmente, alberi viaggiatori [N.d.T.].


INVERNO NEI PORTI

È triste lasciarsi dietro la terra indocinese dai dolci nomi: Battambang, Berembeng, Saigon. Da tutta questa penisola, — non in fiore, ma in frutta — emana un consistente aroma, una tenace impregnazione di abitudine. Com'è difficile lasciare il Siam, perdere per
sempre l'eterea, mormorante notte di Bangkok, il sogno dei suoi mille canali coperti dalle imbarcazioni, le loro fermate; ciascuna ha la sua goccia di miele, la sua rovina Khmer in quella monumentale, il suo corpo di ballerina nella grazia. Ma ancora più impossibile è lasciare Saigon, soave e piena d'incanto.
In Oriente, è un riposo questa regione semioccidentalizzata; lì c'è un odore di caffè caldo, una temperatura dolce come pelle femminile e, nella natura, una certa vocazione paradisiaca. L'oppio che si vende ad ogni angolo di strada, il razzo cinese che suona come un colpo di arma da fuoco, il ristorante francese pieno di risa, insalate e vino rosso, fanno di Saigon una città di sangue meticcio, attraente e turbatrice. Aggiungete il passaggio delle ragazze annamite, adorne di seta, con un fazzoletto che diventa una deliziosa cuffia sulla testa, bambole di finissima femminilità, sottilmente impregnata di un'atmosfera da gineceo, gracili come apparizioni floreali, accessibili e amorose.
Ma tutto ciò cambia con violenza nei primi giorni di navigazione del Mar della Cina. Si avanza sotto un’implacabile costellazione di gelo, un freddo terribile graffia le ossa.
Quello sbarco a Kowloon, sotto una pioggerella petrigna, ha come un senso di avvertimento, somiglia a una spedizione in un paese esquimese. I passeggeri battono i denti avvolti nelle sciarpe e i coolies che scaricano i bagagli vestono straordinariamente delle mantelle di juta e paglia. Hanno l'aspetto di fantastici pinguini di una riva glaciale. Le luci di Hong Kong tremolano, attaccate al loro teatro di montagne. A sera, le altissime costruzioni americane svaniscono un pò e una moltitudine insondabile di tetti vanno a dormire ammucchiati sotto le lenzuola di una nebbia spessa.
Kowloon! Guardo le strade nelle quali, ancora poco tempo fa, Juan Guzmán consumava e creava un tempo decisamente solitario, un isolamento da spaventoso vicinato inglese, e le strade pare che conservino qualcosa della sua letteratura, qualcosa di elegante, freddo e oscuro. Però, qualcosa risuona al bordo stesso delle acque del canale, è Hong Kong, vasta oscura e luccicante come una balena appena cacciata, piena
di rumori, di respirazioni misteriose, di fischi incredibili.
Ed eccoci qua, circondati da una città formicaio, alta e grigia di muri, senz'altro carattere cinese che non siano i cartelli dalle lettere enigmatiche; una violenza da grande città dell'Occidente — Buenos Aires o Londra — i cui abitanti avessero acquisito gli occhi
obliqui e la pelle pallida. La moltitudine che ci spinge al suo passaggio è soprattutto imbacuccata in enormi cappotti lunghi, fino alla stravaganza, o in vestaglie nere di seta o satin sotto le quali spunta una spessa imbottitura protettrice. La gente, così vestita, cammina ridicolmente obesa e i bambini, le cui teste riescono appena ad emergere dallo spessore di questo tipo di vestiario, assumono un curioso carattere extraumano, ippopotamico. Ogni mattina fa giorno con una dozzina di morti per il freddo della terribile notte di Hong Kong, notte di estensione ostile che ha bisogno di cadaveri e alla quale bisogna sacrificare puntualmente quelle vittime, alimentando così i suoi disegni mortiferi.
Shanghai sembra più comoda e ospitale con i suoi cabaret internazionali, con la sua vita di metropoli notturna e il suo evidente disordine morale.
Tutti i passeggeri della nave su cui viaggio scendono a Shanghai, come a fine corsa. Vengono dalla Norvegia, dalla Martinica, da Mendoza. In tutta la costa dell'Oriente non c'è una calamità che attiri di più del porto del fiume Wangpoo e lì il nostro pianeta si è
accresciuto di un densissimo tumulto umano, di una colossale casta di razze. Nelle sue strade si perde il controllo, l'attenzione si spezzetta suddividendosi in milioni di vie a voler captare la circolazione rumorosa, oceanica, il traffico dove si agitano milioni di esseri. Le innumerevoli stradine cinesi sboccano nei viali europei come navi dalle vele straordinariamente colorate. In esse, cioè nella selva di tele appese che adornano l'esterno dei bazar, si incontrano ad ogni passo il leone di seta e il loto di giada, il vestito del mandarino e la pipa dei sognatori. Queste stradine stracolme di moltitudine, composte da una ressa compatta, sembrano il percorso di un solo grande animale vivo, di un drago sgargiante, lento e lungo.
All'interno del limite delle concessioni, il Bund o City bancaria si estende sulla riva del fiume; e a meno di cinquanta metri, le grandi navi da guerra inglesi, americane, francesi, sembrano sedute nell'acqua, dal profilo basso e grigio. Queste presenze severe e minacciose impongono la sicurezza sul grande porto. Infatti, in nessun'altra parte si avverte di più la prossimità, l'atmosfera della rivoluzione. Le porte di ferro che ogni sera chiudono l'accesso alle Concessioni sembrano troppo deboli di fronte a una valanga scatenata. L'aggressività contro lo straniero viene ostentata ogni momento, e il passante cinese, suddito ambiguo di Nankino e di Londra, diventa più superbo e audace. Il mio compagno di viaggio, il cileno Alvaro Hinojosa, è aggredito e derubato alla sua prima escursione notturna. Il coolie di Shanghai assume davanti al bianco un'aria di vera e propria insolenza: la sua ferocia mongolica chiede di essere alimentata in quest’epoca di ferocia e di sangue. L'offerta che il viaggiatore si sente fare in Oriente, mille volte al giorno:
Girls! Girls!, assume a Shanghai un carattere di imposizione; l’uomo del risciò, l'autista, si contendono il cliente con aria di ferocia contenuta, svaligiandolo, poi, con gli occhi.
Tuttavia Shanghai fa un'eccezione nell'oscura vita coloniale. La sua vita così affollata si è riempita di piaceri; nell’estremo Oriente segna lo stesso solstizio del cabaret e della roulette. Nonostante ciò, io trovo una certa tristezza in questi locali notturni di Shanghai. La stessa monotona clientela di soldati e di marinai. Dancing nei quali le gambe a campana del marinaio internazionale si attaccano obbligatoriamente alle gonne dell'avventuriera russa. Dancing troppo grandi, un pò bui, come sale da ricevimento di re spodestati nelle quali la musica non raggiunge gli angoli, come un riscaldamento difettoso, frustrato nel suo tentativo di creare temperatura e intimità.
Però, quale immancabile risorsa del pittoresco, c'è la strada, il sorprendente, magnetico ruscello dell'Asia. Quante scoperte, che mucchio di stravaganze, che dominio di colori e di usi strani, in ogni suburbio. Veicoli, vestiario, tutto sembra avvolto fra le meravigliose dita dell'assurdo.
Monaci taoisti, mendicanti buddisti, venditori di ceste, distributori di cibo, giocolieri, indovini, case di piacere o Giardini da Tè, dentisti ambulanti, e anche il palanchino signorile che trasporta le belle, coi denti che sorridono. Ogni cosa denuncia un incontro intraducibile, una sorpresa improvvisa che si ammucchia sulle altre.


NOME DI UN MORTO

Io l'ho conosciuto, Winter, nel suo porto, nel suo nascondiglio di Bajo Imperial. L'ho conosciuto di fama, poi l'ho conosciuto di vista e, alla fine, in profondità. Come stupirsi che sia morto? Come non mi sorprende che una giovane donna abbia figli, che un oggetto faccia ombra. L'ombra di Winter era mortale, la sua predilezione era al lutto, era un autentico invitato dei fantasmi, Winter. La sua vocazione alla solitudine era più acuta di ogni altra e la sua penetrazione nell'inanimato lo isolava, avvolgendolo nel freddo, nell'aria celeste. Studente delle Ombre, Laureato dei Deserti!
Don Augusto era l'uomo dalle mani minuscole, dagli occhi di acqua azzurra, l'uomo aristocratico del Nord, il vecchio gentleman autentico. Giunse nel Sud a fare contrasto, in una terra di meticci rivoltosi, di coloni oscuri, in un semenzaio di indios senza legge. Lì visse don Augusto, delicato, invecchiando. Nelle sue vicinanze più prossime c'erano libercoli, saggezze, e attorno a lui una densa cortina di pioggia e di alcoolismo. Perfino i miei ricordi di quelle solitudini mi spaventano! Quando il maltempo si scatena da quelle parti le acque sembrano parenti del demonio, e quelle del fiume, quelle del mare, quelle del cielo, si accoppiano, bramose. Paese abbandonato dove perfino le lettere arrivano senza freschezza, sciupate dalle distanze e dove i cuori si pietrificano e si alterano.
Quello, tutto quello, fa tutt'uno con la mia fanciulza, quello e don Augusto con la sua barba mezzo gialla dal tempo e i suoi occhi sognanti. A me – tanti anni fa - sembrava misterioso quel gentleman, il suo lutto e il suo aspetto da grande dolore. Io spiavo le
passeggiate del pomeriggio in cui, passo passo in riva ad un mondo tramortito, era come se guardasse dentro di sé, quasi a rincorrere le sue stesse estensioni. Poveretto, solo! Dopo di allora, ho visto uomini ormai molto appartati, ormai molto stanchi della vita e molto parchi d'azione, molto avvolti nelle distanze. Ma come lui, nessuno. Nessuno che avesse tanta confidenza con la disgrazia, tanta somiglianza con l'oblio.
Molte volte ho sentito ululare i lunghi temporali della frontiera parlando con Winter. A volte l'ho visto puro su uno sfondo sanguinoso ascoltare il rumore del trambusto elettorale, e così mi sembrava, così esiliato d'esempi, don Augusto, così eccezionale, così purificato fra l'uragano degli araucani e il galoppo devastatore dei fucilieri. Su uno sfondo di pioggia, di laghi australi, stava più in pace, simile lui stesso all'elemento trasparente e turbato. Dietro una cortina di anni, trascorsi a mesi, a settimane, a giorni, milioni di ore nello stesso posto, frantumatrici ed amare come tenacia di gocce. Ricordo la sua casa, il suo tabacco, la sua teosofia, il suo cattolicesimo, il suo ateismo e lo vedo disteso, addormentato, scortato da quei costumi e quelle ansie. Io ammiro la sua figura e con
orrore mi faccio il segno della croce, affinchè mi aiuti: — Allontanati, solitudine così tremenda.
C'è qualcosa di lui nei suoi versi, qualcosa in quella specie di cadenza errante che posseggono, in quella luce di pazienza e in quel tessuto di età che sembrano avere. Le sue poesie sono come vecchi merletti distruttivamente avvizziti, hanno un'aria sciupata e un odore di nascondiglio. Sono vecchie giaculatorie in cui una nota di acque malinconiche, ahimè!, si ripete, un accordo di tristezza spaziale, di sogni perduti. La sua poesia è come il cadere e ricadere di un suono desolato, è la perdita e la restituzione di una sostanza straziante.
Ma in lui c'era anche una trepidazione di insostenibili disperazioni. Mi accorsi che era visitato dalle incertezze e che alla sua anima si nutrivano ad un tempo la colomba e la frusta. La sua esistenza cercava un Portolano, le sue condizioni dolenti respingevano e esigevano.
Penso al suo cadavere coricato e silenzioso sulla riva del Mar Pacifico. Vecchi compagni, compagni amari!


CONTRIBUTO
AL DOMINIO DEI VESTITI

Ci sono frontiere del pianeta in cui i vestiti fioriscono. C'è una stagione per loro: una lunga primavera, un'estate fantastica. Il vestito, grigio compagno dell'azione, angelo custode quotidiano, sorride. Era, in verità, eterna quell'agonia di colori; a mano a mano, non c'era più differenza fra le moltitudini dell'ardente Spagna e della piovosa Inghilterra. Moltitudini confuse, annerite; adoratrici dell'impermeabile, idolatre della bombetta; infagottate in lugubri vestimenta burocratiche, in uniforme dietro ordine del cachemire.
Questa oscurità vestiaria, in apparenza senza conseguenze, è andata profondamente danneggiando il senso della storia, ha distrutto il sentimento popolare di
grandezza. Rivoluzione, destituzione, cospiratore, ammutinamento, tutto questo magnifico rosario di effetti ancora attuali. Oggi suona a vuoto, a morto, affogato nelle profondità del pantalone messo sotto allo smoking e all'ombrello.
Quelle parole, i loro grandi significati, abbandonano il mondo espulse da un vestiario senza grandezza. Ma, senza dubbio, ritorneranno in futuro in compagnia del
dittatore del Vestito che, con cuore da dittatore, amerà la magica Opera Italiana e ci restituirà i bei borzacchini di velluto, il calzone a sbuffo, la manica azzurro-turchese.
Ma voglio parlare dell'Oriente, di quella continua saison * dei vestiti. Mi piace, per esempio, il teatro cinese che sembra essere soltanto questo: un'idealizzazione senza vestito, restituzione al meraviglioso. Tutto lì sembra riferirsi al lusso, alla magnificenza vestimentaria. Molte volte, e per lunghe ore, ho assistito allo svolgimento della lentissima arte drammatica cinese. Come soffiati dall'insistente, acutissimo suono dei flauti, appaiono da sinistra i personaggi con passo esageratamente maestoso. Sono, principalmente, monarchi benefattori, santoni venerati vestiti fino all'inverosimile, carichi di seterie e dalle immense barbe bianche dalle ampie maniche più lunghe delle braccia, la spada al cinto, un piumino rituale e un fazzoletto in mano. La testa sporge appena, quasi strangolata da un terribile elmo luccicante e ingigantita da un pennacchio; un luminoso, vivacissimo abito talare lo copre, aperto, in modo che si veda un pantalone ricamato e accecante. Dalle spalle, "frange di tela come stole pendono fino ai piedi, che calzano coturni di metallo e
lacca. Questo è il personaggio: avanza a passi corti, di cerimonia come un'antica danza; muove all'indietro la testa, di continuo, lisciandosi la lunga barba, retrocede, si gira per lasciar ammirare le costose spalle. Incarnazione del solenne, attraversa un momento
la scena, stupendo, manichino soprannaturale di carminio e giallo. Poi, questo immenso fantasma di seta scompare, lasciando il passo ad altri, ancora più abbaglianti.
Molte volte, queste sfilate senza parole, questa esibizione di acconciature, dura a lungo. Ogni movimento, ogni inflessione del passo del personaggio, sono divorati e digeriti da un pubblico avido di meraviglioso. L'obiettivo teatrale è stato indubbiamente raggiunto esaltando l'importanza dei costumi; lo sperpero ricaduto sul corpo di un attore ha dato ansia e piacere a una moltitudine.
Il vestito ordinario cinese è semplice e senza bellezza: un giacchettino, un pantalone; il cinese laborioso, come una formica, scompare nel suo vestito di tutti i giorni; sembra consumato, ricoperto da una sorta di patina dal lavoro di secoli, il suo stesso corpo sembra consunto come il manico di un martello. Per questo, quella fantasmagoria scenica gli apre la vita e quel fantoccio prodigioso sembra proteggere i suoi padroni.
Ricordo ancora la mia impressione di fronte alle prime donne indostaniche che ho visto qualche mese fa a Colombo. Erano belle, ma non è questo. Io ho adorato i loro vestiti fin dal primo giorno. Quei vestiti in cui il colore avvolge, come un olio o una fiamma. È soltanto un'ampia tunica chiamata « sari » avvolta in molti giri dalla cintola ai piedi che lascia appena a scorgere l'andatura, i cerchietti delle caviglie e il tallone nudo; tunica che, poi, gira attorno al torso con ferma solennità e che, nelle donne del Bengala, sale fino alla testa e incornicia il volto. È un severo vestito peplico, clamidatico, che è sopravvissuto ad
un'antichità certamente serena. Però quasi tutta la sua vita sta nel colore, in quella forza di colori per i quali il nome è pallido. Verdi color dello zolfo, amaranto, parole senza vigore; sono, piuttosto, tinte pure viste per la prima volta. Quelle gambe adolescenti, legate da una tela di fuoco, quella schiena bruna avvolta in un'onda di luce scende pettinata in una crocchia nera, nella quale riluce una rosa di pietre preziose, rimangono a lungo nella memoria, come violente apparizioni.
Ora il vestito indostano è piuttosto inerente alla sua condizione di nobiltà, di tranquillità. Nessuno lo porta meglio di Tagore; l'ho visto, e, avvolto nella sua tunica color grano, era Dio Padre in persona.
Faceva bene la sua parte, il poeta, in quella carica per metà sacra e direttiva. Io diedi la mano al vecchio poeta, grande nella sua veste solenne, augusto di barba.
In Birmania, dove scrivo quest'ozio, il colore soltanto indica i vestiti. L'uomo si avvolge in gonne multicolori e alla testa un fazzoletto rosa. Porta un giacchettino scuro, di stile cinese, senza risvolti, cioè, liscio: dalla cintola in su è un torero mongolico. Ma la sua tunica di lunghi è rilucente e straordinaria, in modo estremo, è cremisi o sauro o azzurro cinabro. Le strade di Mandalay, i viali, i bazar di Rangoon ribollono perpetuamente dipinti da queste tinte abbaglianti. In mezzo alla moltitudine color cardellino passeggiano i ponyls, frati buddisti mendicanti, seri come resuscitati, vestiti di un saio leggero, color zafferano vivace, venerabilmente giallo. Questa massa di gente è un giorno imbandierato, un'errante scatola di acquarelli, per la prima volta voglio imbattermi nella parola caleidoscopio.
Parlo della Birmania, paese in cui le donne si portano in testa delle lunghe pettinature cilindriche, nelle quali non manca mai il dorato fiore del padauk e fumano giganteschi sigari. Messa a terra la dinastia birmana, le ballerine indossano i vestiti delle principesse, bianchi di gioielli e con inspiegabili ariste sui fianchi; quelle alette facevano parte della danza acrobatica dei pue popolari e rendono ancora più strane quelle contrazioni indescrivibili che compongono le loro tensioni morali.
Di frequente, in questo tumultuoso giardino dei vestiti, in questa variegata stagione vestiaria, s'incontrano cose che sono a metà fra il grottesco e l'arbitrario. Questo è il giardino delle sorprese, la sorgente delle forme vive, e l'osservazione si perde in un oceano di inattese variazioni, di tentativi eccellenti e momentanei di audacia e, a volte, di bella gente nuda.
Ricordo che una volta incontrai alla periferia di Samarang, a Giava, una coppia di ballerini malesi, che si esibiva davanti a un pubblico scarso. Lei era una bambina, indossava un corsetto, il sarong e una corona di latta. Lui era vecchio, la seguiva muovendo i talloni e le dita del piede, alla maniera malese; in faccia aveva una maschera di lacca rossa e in mano un lungo coltello di legno. Molte volte, nel sonno, rivedo quella
triste danza di suburbio.
Quello era il mio vestito. Io vorrei andar vestito da ballerino mascherato; vorrei chiamarmi Michael.

* In francese nell'originale, stagione, momento in cui si presentano i modelli [N.d.T.].


DENSA CEYLON

Litorale felice! Una barriera di corallo si allunga, parallela alla spiaggia e l'oceano interrompe lì i suoi azzurri in una gorgiera arricciata, bianca e perpetua di piume e spume; le triangolari vele dei sampan; la lunghezza pura della costa sulla quale, come fuochi
d'artificio, s'innalzano i ritti tronchi delle palme da cocco, che riuniscono quasi in cielo i loro brillanti e verdi pettini.
Attraversando quasi in linea retta l'isola in direzione di Trincomali, il paesaggio diventa denso, terrestre; gli esseri e le cose mobili scompaiono; la foresta immutabile, solida, occupa tutto. Gli alberi si annodano aiutandosi o distruggendosi e, mischiandosi, perdono i loro contorni e così si cammina come sotto un tunnel di bassi e spessi vegetali, dentro uno spaventoso mondo di verze caotiche e violente.
Torme di elefanti attraversano la strada, ad uno ad uno; piccole lepri della giungla balzano velocemente per sfuggire all'automobile; galline e galli silvestri, minuscoli e leggeri si affacciano da tutte le parti; fragili e azzurri uccelli del Paradiso appaiono e fuggono.
Di notte, la nostra macchina corre silenziosamente attraverso i profumi e le ombre della giungla. Da ogni parte germogliano occhi di esseri sorpresi; occhi che ardono veramente come fiamme di alcool; è la notte selvatica, popolata d'istinti, di fame e di amori e spariamo costantemente ai cinghiali selvatici, ai bei leopardi, ai cervi. Sotto i fari dell'automobile si fermano senza cercare di fuggire, come sconcertati, e poi, cadono scomparendo fra il frascume e si tira fuori un moribondo tutto umido e magnifico di rugiada e di sangue, che odora di foglie e, al tempo stesso, di morte.
C’è una densa foresta un silenzio uguale a quello delle biblioteche, astratto, umido.
A volte, si ode il barrito degli elefanti selvatici o il familiare ululato degli sciacalli. A volte, uno sparo di cacciatore esplode e scompare ingoiato dal silenzio, come l'acqua ingoia una pietra. |
Riposano anche, in mezzo alla selva e invase dal essa, le rovine delle misteriose città cingalesi: Anuradhapura, Polonaruwa, Mihintale, Sigiriya, Dambulla. Delicati capitelli di pietra sepolti per venti secoli spuntano coi loro gusci grigi fra le piante; statue e scalinate abbattute, immensi stagni e palazzi che sono tornati al suolo come i loro genitori ormai dimenticati. Eppure, vicino a quelle pietre disperse, all'ombra delle immense pagode di Anuradhapura, la notte di luna si riempie di buddisti inginocchiati e le vecchie preghiere tornano alle labbra dei cingalesi.
La tragica roccia Sigiriya mi viene in mente mentre scrivo. Nello spesso centro della giungla, un immenso e dirupato spunto di roccia, accessibile soltanto attraverso insicure, rischiose gradinate tagliate nella pietra viva; e in cima ad esso, le rovine di un palazzo e i meravigliosi affreschi sigiri, intatti, nonostante i secoli. Mille e cinquecento anni fa, un re di
Ceylon, parricida, cercò rifugio contro suo fratello vendicatore sulla cima della terribile montagna di pietra. E lì costruì, allora, a sua immagine e somiglianza, il suo castello isolato e pieno di rimorsi. Con le sue regine e i suoi guerrieri e i suoi artisti e i suoi elefanti si arrampicò e rimase sulla rocca, per vent'anni, finché suo fratello implacabile riuscì a distruggerlo.
Non c'è sul pianeta un posto così desolato come Sigirya. La gigantesca roccia con i suoi tenui scalini tagliati, interminabili, e le sue garritte ormai prive per sempre di sentinelle; in alto, i resti del palazzo, la sala delle udienze del monarca col suo trono di pietra nera e, dappertutto, rovine dello scomparso, che si ricoprono di vegetazione e d'oblio; e, dall'altura, tutt'attorno a noi, niente, salvo l'impenetrabile giungla per leghe e leghe; niente, né un essere umano, né una capanna, né un movimento di vita, niente, salvo l'oscura, spessa e oceanica foresta.

(Questi dodici articoli furono inviati dall'Oriente e pubblicati sul giornale « La Nación », di Santiago del Cile, nell'anno, 1927).




Quaderno 3
FUOCO DI AMICIZIA


INTRODUZIONE ALLA POETICA
DI ÁNGEL CRUCHAGA

Non si impreca con salute da fuorilegge, né chi piange con grande sentimento rimane fuori dalla casa delle muse. Ma chi ride, chi ride, sì, quello rimane fuori.
La residenza delle signore muse è imbottita di arazzi aspri e le Dame vanno comunemente abbigliate di dolorosa organzina. Dure e cristalline come verticali e solide acque sono le mura della abitazione solenne. E i prodotti dei loro giardini non danno il risultato dell'estate bensì espongono l'oscurità del loro mistero.
Questo è il modo e il sacrificio per cominciare a frequentare le stanze di Ángel de Cruchaga e di Santa Maria e il modo di imbattersi nei loro numeri angelici e di digerire i loro ostinati e lugubri alimenti.
Come rintocchi di campane nere e con tremito e suono diametrale e augure, le parole del magico attraversano la solitudine del Cile, prendendo dall'atmosfera sostanze diverse di superstizione e pioggia. Restituzioni, acquisti, età, lo hanno trasfigurato, vestendolo ogni giorno lunare con un abbigliamento più scuro, tanto che, visto all'improvviso nella Notte e nella Casa, sinistramente spogliato di attributi mortali; sembrerebbe, senz'altro, la statua eretta alle entrate del gran recinto.
Come anelli della temperatura dell'avvento dell'alba del giorno d'autunno, i canti di Ángel ti si avvicinano pieni di gelida chiarezza, con un certo tremore extraterrestre e sublunare, vestiti di una certa pelle di stelle. Come vaghi cassetti di merletti e pietre preziose quasi astratti, ancora intrisi di folgorante splendore, generatori di una tristezza insana, sembrano adattarsi immediatamente all'imprevisto e al presentito e all'antico e all'amaro, alle radici torbidamente sensibili che trafiggono l'essere accumulando lì le loro dolenti necessità e il loro triste oblio.
Quei bauli dolci e fenomenali della poetica di Ángel conservano, soprattutto, occhi azzurri di donne scomparse, grandi e freddi come occhi di strani pesci ancora capaci di dare sguardi lunghi come arcobaleni, Sostanze definitivamente stellari, comete, certe stelle, lenti fenomeni celesti ci hanno lasciato un odore di cielo, e, al tempo stesso, consumati materiali decorativi, come spessi tappeti distrutti, rose giallastre, vecchi indirizzi, denunciano il passaggio tanto immobile del tempo. Le cose dell'impero siderale diventano femminilmente tiepide, girano in cerchi di oscuro splendore, come corpi di belle affogate circondate dall'acqua morta, disposte alla cerimonia del poeta.
Quelle viventi e quelle scomparse di Cruchaga hanno avuto una titanica predisposizione mortuaria, sono esistite così puramente, con le mani così gravemente incrociate sul petto, con una tale precisione di posizione crepuscolare, dietro un'abbondanza di vetrate, in un così posato transito corporeo, da assomigliare piuttosto a vegetali dell'acqua, umide e immobili infiorescenze.
Colori vescovili e cambiamenti di chiarezza si alternano nella sua dimora e queste luci duali si succedono in un perpetuo rituale. Non c'è il peso né i rumori della danza negli atri angelici bensì la stessa popolazione del silenzio con voci e maschere, spesso tenebrose. Da un estremo all'altro, il movimento dell'aria ripete suoni e lamenti in un coro smorzato e disperante.
Malattie e sogni e esseri divini, i miscugli del tedio e della solitudine e gli aromi di certi fiori e di certi paesi e continenti, hanno trovato nella retorica di Ángel un posto più statico che nella realtà del mondo. La sua mitologia geografica e i suoi nomi d'argento come vene di fuoco freddo si intersecano nella sua pietra materiale, nella sua unica e favorita statua.
E fra i ripetuti sintomi mistici della sua opera così desolata, sento il suo attrito di lenta frequenza che agisce attorno a me con dominio infinito.

(Batavia, lava, febbraio 1931).


FEDERIGO GARCÍA LORCA

Come osare far risaltare un nome su questa immensa foresta dei nostri morti! Tanto gli umili contadini dell'Andalusia, assassinati dai loro nemici che risalgono a tempi immemorabili, quanto i minatori morti nelle Asturie, e i falegnami, i muratori, i salariati della
città e della campagna, quanto ciascuna delle migliaia di donne assassinate e dei bambini fatti a pezzi, ciascuna di queste ombre ardenti ha diritto a comparire davanti a voi come testimoni del grande paese sventurato, e ha posto, credo, nei vostri cuori, se siete liberi da ingiustizia e cattiveria. Tutte queste ombre terribili hanno nome nel ricordo, nomi di fuoco e
lealtà, nomi puri, comuni, antichi e nobili come il nome del sale e dell'acqua. Come il sale e l'acqua si sono persi di nuovo nella terra, nel nome infinito della terra. Perché i sacrifici, i dolori, la purezza e la forza del popolo spagnolo si collocano in questa lotta purificatrice più che in qualsiasi altra lotta con un panorama di pianure e grano e pietre, in mezzo all’inverno, con un fondo di aspro pianeta conteso dalla neve e dal sangue.
Si; come osare scegliere un nome, uno solo, fra tanti che non vengono nominati? Ma il nome che sto per pronunciare davanti a voi ha dietro alle sue sillabe oscure una tale ricchezza mortale, è così pesante e così percorso da significati, che pronunciandolo si pronunciano i nomi di tutti quelli che caddero per difendere la materia stessa dei suoi canti perché era lui il difensore sonoro del cuore della Spagna, Federico García Lorca! Era popolare come una chitarra, allegro, malinconico, profondo e chiaro come un bambino, come il popolo. Se avessero cercato con cura, passo a passo in tutti gli angoli chi sacrificare, come si sacrifica un simbolo, non avrebbero trovato l'elemento popolare spagnolo, in velocità e in profondità, in nessuno e in nulla come in questo essere eletto. E lo hanno ben scelto quelli che fucilandolo hanno voluto sparare al cuore della sua razza. Hanno scelto per piegare e martirizzare la Spagna, esaurirne il profumo più rapido, spezzarne la respirazione più veemente, tagliarne il riso più indistruttibile. Le due
Spagne più inconciliabili sono state messe alla prova davanti a questa morte: la Spagna verde e nera dalla spaventosa unghia fessa, diabolica, la Spagna sotterranea e maledetta, la Spagna crocifiggitrice e velenosa dei grandi crimini dinastici e ecclesiastici, e di fronte ad essa la Spagna raggiante dell'orgoglio vitale e dello spirito, la Spagna meteorica dell'intuizione, della continuazione e della scoperta, la Spagna di Federico García Lorca.
Sarà morto lui, offerto come un giglio, come una chitarra selvaggia, sotto la terra che i suoi assassini gettarono con i piedi sulle sue ferite, ma la sua razza si difende come i suoi canti, in piedi e cantando mentre dall'anima sgorgano turbini di sangue, e così rimarranno per sempre nella memoria degli uomini.
Non so come precisare il suo ricordo. La violenta luce della vita illuminò solo un momento il suo volto ora ferito e spento. Ma in quel lungo minuto della sua vita la sua figura risplendette di luce solare. Così come dall'epoca di Góngora e di Lope non era ricomparso in Spagna tanto élan * creativo, tanta mobilita di forma e di linguaggio, da quel tempo in cui gli spagnoli del popolo baciavano il vestito di Lope de Vega non si è vista in lingua spagnola una seduzione popolare così immensa rivolta a un poeta. Tutto quello che toccava anche ai livelli dell'estetismo misterioso, al quale come grande poeta letterato non poteva rinunciare senza tradirsi, tutto quello che toccava si riempiva di profonde essenze di suoni che giungevano fino al fondo delle moltitudini. Quando parlo di estetismo, attenzione, non lasciamoci trarre in inganno: García Lorca era l'antiesteta, nel senso che riempie la sua poesia e il suo teatro di drammi umani e di tempeste del cuore, ma non per questo rinuncia a segreti originali del mistero poetico. Il popolo, con meravigliosa intuizione, si impadronisce della sua poesia che ormai si canta e si cantava anonima nei villaggi dell'Andalusia, ma lui non adulava in se stesso questa tendenza per trame vantaggio, tutt'altro: cercava con avidità dentro e fuori di sé.
II suo antiestetismo è forse ali origine della sua enorme popolarità in America. Di questa generazione brillante di poeti come Alberti, Aleixandre, Altolaguirre, Cernuda, ecc., fu forse l'unico sul quale l'ombra di Góngora non esercitò il dominio di ghiaccio che l'anno
1927 sterilizzò esteticamente la grande poesia giovane spagnola. L'America, separata da secoli di oceano dai padri classici dell'idioma, riconobbe la grandezza di questo giovane poeta irresistibilmente attratto verso il popolo e il sangue. Ho visto a Buenos Aires, tre
anni fa, il più grande apogeo che un poeta della nostra razza abbia mai raggiunto, le grandi moltitudini ascoltavano con emozione e pianto le sue tragedie di inaudita opulenza verbale. In essa si rinnovava acquistando nuovo fulgore fosforico l'eterno dramma spagnolo, l'amore e la morte che ballano una danza furiosa, l'amore e la morte mascherati o nudi.
Il suo ricordo, tracciare a questa distanza la sua fotografia, è impensabile. Era un lampo fisico, un'energia in continua rapidità, un'allegria, uno splendore, una tenerezza completamente sovrumana. La sua persona era magica e bruna, e portava la felicità.
Per una curiosa e strana coincidenza, i due grandi poeti giovani di maggior fama in Spagna, Alberti e García Lorca, si somigliavano molto, fino alla rivalità. Entrambi andalusi dionisiaci, musicali, esuberanti, segreti e popolari, esaurivano al tempo stesso le origini della poesia spagnola, il folklore millenario dell’Andalusia e di Castiglia, portando gradualmente la loro poetica dalla grazia aerea e vegetale degli inizi del linguaggio fino al superamento della grazia e all’ingresso nella drammatica selva della loro razza. Allora si separarono: mentre uno, Alberti, si dedica con generosità totale alla causa degli oppressi e vive soltanto in funzione della sua magnifica fede rivoluzionaria, l’altro torna sempre di più nella sua letteratura verso la sua terra verso Granada, fino a tornarci del tutto, fino a morirci. Fra di loro non ci fu una vera e propria rivalità, furono buoni e brillanti fratelli, e
così vediamo che nell'ultimo ritorno di Alberti dalla Russia e dal Messico e nella grande cerimonia che ebbe luogo in suo onore a Madrid, Federico gli dedicò, a nome di tutti, quella riunione con magnifiche parole. Pochi mesi dopo García Lorca partiva per Granada. E lì, per una strana fatalità, lo aspettava la morte, la morte che riservavano ad Alberti i nemici del popolo. Senza dimenticare il nostro grande poeta morto, ricordiamo un secondo il nostro grande compagno vivo, Alberti, che con un gruppo di poeti come Serrano Plaja, Miguel Hernandez, Emilio Prados, Antonio Aparicio, stanno in questo momento difendendo la causa del loro popolo e la loro poesia.
Però l'inquietudine sociale in Federico assumeva altre forme più vicine alla sua anima di trovatore moresco. Con la sua troupe ** La Barraca percorreva le strade di Spagna rappresentando il vecchio e grande teatro dimenticato: Lope de Rueda, Lope de Vega, Cervantes. Gli antichi romanzi drammatizzati erano riportati da lui al puro seno da dove erano usciti. I più remoti angoli di Castiglia conobbero le sue rappresentazioni. Grazie a lui gli andalusi, gli asturiani, gli abitanti dell'Estremadura poterono comunicare di
nuovo con i loro geniali poeti da poco assopiti nei loro cuori dato che lo spettacolo li riempiva di meraviglia senza sorpresa. Né i vestiti antichi, né il linguaggio arcaico colpivano quei contadini che molte volte non avevano visto un'automobile né ascoltato un
grammofono. In mezzo alla tremenda, fantastica povertà del contadino spagnolo che anch'io ho visto vivere in caverne e nutrirsi di erbe e di rettili, passava questo turbine magico di poesia portando fra i sogni dei vecchi poeti i grani di polvere e l'insoddisfazione della cultura.
Egli vide sempre in quelle regioni agonizzanti la miseria incredibile in cui i privilegiati mantenevano il suo popolo, soffrì con i contadini l'inverno nelle praterie e sulle colline aride e la tragedia fece tremare con molti dolori il suo cuore del sud.
Mi viene in mente ora uno dei suoi ricordi. Alcuni mesi prima era andato di nuovo per i suoi villaggi. Si doveva rappresentare Peribáñez di Lope de Vega e Federico si mise ad andare per tutti gli angoli dell'Estremadura per cercare i vestiti, gli autentici vestiti del XVII secolo che le vecchie famiglie contadine conservano ancora nei loro bauli. Tornò con un carico prodigioso di teli azzurri e dorati, scarpe e collane, vestiario che vedeva la luce per la prima volta da secoli, Con la sua irresistibile simpatia riusciva ad ottenere tutto.
Una notte in un villaggio dell'Estremadura, non riuscendo a dormire, si alzò allo spuntare dell'alba. Il duro paesaggio dell'Estremadura era ancora pieno di nebbia. Federico si sedette a guardar sorgere il sole accanto ad alcune statue abbattute. Erano figure di marmo del XVIII secolo e il posto era l'ingresso di una tenuta feudale, completamente abbandonata, come tante proprietà dei gran signori spagnoli. Federico guardava i torsi fatti a pezzi, accesi di bianco dal sole nascente, quando un agnellino staccatesi dal suo gregge cominciò a brucar l'erba accanto a lui. Tutt'a un tratto passarono di lì cinque o sette cinghiali neri che si scagliarono sull'agnello e in pochi minuti, davanti al suo spavento e alla sua sorpresa, lo fecero a pezzi e lo divorarono. Federico, preso da
indicibile paura, immobilizzato dall'orrore, guardava i cinghiali neri uccidere e divorare l'agnello fra le statue cadute, in quell'alba solitaria.
Quando me lo raccontò al suo ritorno a Madrid la voce ancora gli tremava perché la tragedia della morte ossessionava fino al delirio la sua sensibilità di bambino. Ora la sua morte, la sua terribile morte che nulla ci farà dimenticare, mi fa venire in mente quel mattino insanguinato. Chissà, forse a quel grande poeta, dolce e profetico, la vita aveva offerto in anticipo e in un simbolo terribile, la visione della propria morte.
Ho voluto portare davanti a voi il ricordo del nostro grande compagno scomparso. Molti si aspettavano forse da me tranquille parole poetiche lontane alla terra e dalla guerra. La stessa parola Spagna suscita in molta gente un'immensa angoscia mista a una grave speranza. Io non volevo aumentare questa angoscia né turbare le vostre speranze, ma essendo appena uscito dalla Spagna, io, latinoamericano, spagnolo di razza e di linguaggio, non avrei potuto parlarvi che delle sue disgrazie. Non sono un politico né ho preso mai parte alla lotta politica e le mie parole, che molti avrebbero voluto neutrali, sono state tinte di passione. Siate comprensivi e capite che noi, poeti dell'America spagnola e poeti della Spagna, non dimenticheremo e non perdoneremo mai l'assassinio di chi consideriamo il più grande fra di noi, l'angelo di questo momento della nostra lingua. E perdonatemi se di tutti i dolori della Spagna vi ricordo soltanto la vita e la morte di un poeta. Il fatto è che noi non potremo mai dimenticare questo crimine, né perdonarlo. Non lo dimenticheremo né lo perdoneremo mai. Mai.

* Slancio, estro, in francese nel testo originale [N.d.T.].
** Compagnia teatrale, in francese nel testo originale [N.d.T.].

(Conferenza pronunciata a Parigi nel 1937).


AMICIZIE E INIMICIZIE LETTERARIE

Non solo di stelle...
Forse a nessuno su questi lidi è toccato in sorte di scatenare tante invidie come alla mia persona letteraria. C'è gente che vive di questa professione, di invidiarmi, di farmi una pubblicità strana per mezzo di opuscoli tortuosi e tenaci e pittoresche riviste. Ho perso nei miei viaggi questa collezione singolare. I piccoli opuscoli mi sono rimasti in abitazioni lontane, in altri climi. In Cile riempio di nuovo la mia valigia di questa lebbra endemica e fosforescente, ammucchio in un angolo di nuovo gli aggettivi viziosi che vogliono assassinarmi. Da altre parti non mi succedono queste cose. Eppure, ritorno. Il fatto è che mi piace ciecamente la mia terra e tutto il sapore verde e amaro del suo cielo e del suo fango. E l'amore che mi tocca mi piace di più qui e quest'odio stravagante e mistico che mi circonda mette in mio possesso un fecondo e necessario escremento. Non solo di stelle
vive l'uomo...
La Spagna, quando calpestai il suo suolo, mi diede tutte le mani dei suoi poeti, dei suoi leali poeti, e con loro ho diviso il pane e il vino nell'amicizia eletta del centro della mia vita. Ho il ricordo vivo di quelle prime ore o anni della Spagna, e molte volte sento la mancanza dell'affetto dei miei compagni.

VIGENTE ALEIXANDRE

In un quartiere tutto pieno di fiori, fra Cuatro Caminos e la nascente Città Universitaria, nella via Wellingtonia, vive Vicente Aleixandre.
È grande, biondo e rosa. È ammalato da anni. Non esce mai di casa. Vive quasi immobile.
La sua profonda e meravigliosa poesia è la rivelazione di un mondo dominato da forze misteriose. È il poeta più segreto di Spagna, lo splendore sommerso dei suoi versi lo avvicina a volte al nostro Rosamel del Valle.
Tutte le settimane mi aspetta, in un giorno stabilito, che per lui, nella sua solitudine, è una festa. Non parliamo d'altro che di poesia. Aleixandre non può andare al cinema. Non sa niente di politica.
Lo separo da tutti i miei amici per la qualità infinitamente pura della sua amicizia. Nel recinto isolato della sua casa la poesia e la vita acquistano una trasparenza sacra.
Io gli porto la vita di Madrid, i vecchi poeti che scopro nelle interminabili librerie di Atocha, i miei viaggi per i mercati da dove estraggo immense foglie di sedano o pezzi di formaggio della Mancia unti di olio levantino. Si appassiona per le mie lunghe camminate, nelle quali non può accompagnarmi, per la Strada della Cava Baja, una strada di bottai e di funai stretta e fresca, resa tutta dorata dal legno e dalla corda.
O leggiamo lungamente Pedro de Espinosa, Soto de Rojas, Villamediana. Cercavamo in essi gli elementi magici e materiali che fanno della poesia spagnola, in un'epoca cortigiana, una corrente persistente e vitale di chiarezza e di mistero.

MIGUEL HERNÁNDEZ

Dove sarà Miguel Hernández? Adesso preti e guardie civili «sistemano» la cultura in Spagna. Eugenio Montes e Peman sono grandi figure e stanno bene accanto al transfuga Millan Astray, che non è altri a presiedere le nuove società letterarie in Spagna. Intanto, Miguel Hernández, il grande e giovane poeta contadino, se non è stato fucilato e sotterrato, starà in carcere o vagando per i monti.
Avevo letto prima che Miguel arrivasse a Madrid le sue rappresentazioni sacre, di inaudita costruzione verbale. Miguel faceva a Orihuela il pastore di capre il curato gli prestava libri cattolici che lui leggeva e assimilava poderosamente.
Così come è il più grande dei nuovi costruttori della poesia politica, è il più grande poeta nuovo del cattolicesimo spagnolo. Alla sua seconda visita a Madrid stava per far ritorno al suo paese quando, a casa mia, lo convinsi a restare. E allora rimase, molto paesano a Madrid, molto forestiero, con la sua faccia di patata e i suoi occhi brillanti.
Mio grande amico, Miguel, quanto ti voglio bene e quanto rispetto e amo la tua giovane e forte poesia. Dove sei in questo momento, in carcere, per le strade, nella morte, fa lo stesso: né i carcerieri, né le guardie civili, né gli assassini potranno cancellare la tua voce già ascoltata, la tua voce che era la voce del popolo tuo.

RAFAEL ALBERTI

Prima di arrivare in Spagna conobbi Rafael Alberti. A Ceylon ricevetti la sua prima lettera, più di dieci anni fa. Voleva pubblicare il mio libro Residencia en la tierra, se lo portò dietro di viaggio in viaggio da Mosca alla Liguria e, soprattutto, lo portò a spasso per tutta Madrid. Dall'originale di Rafael, Gerardo Diego fece tre copie. Rafael fu instancabile. Tutti i
poeti di Madrid ascoltarono i miei versi, letti da lui, sulla sua terrazza della via Urquijo.
Tutti, Bergamín, Serrano Plaja, Petere, tanti altri, mi conoscevano prima che arrivassi. Avevo, grazie a Rafael Alberti, amici inseparabili, prima di conoscerli.
Poi, con Rafael siamo stati semplicemente fratelli. La vita ha intricato molto le nostre vite, sconvolgendo la nostra poesia e il nostro destino.
Questo giovane maestro della letteratura spagnola contemporanea, questo rivoluzionario senza macchia della poesia e della politica dovrebbe venire in Cile, portare nella nostra terra la sua forza, la sua allegria e la sua generosità. Dovrebbe venire per farci cantare. C’è molto da cantare da queste parti. Con Rafael e Roches potremmo fare dei cori formidabili. Alberti canta meglio di chiunque altro il « tamborileiro » *** il Paso del Ebro, e altre canzoni di allegria e di guerra.
Rafael Alberti è il poeta più appassionato della poesia che mi sia toccato conoscere. Come Paul Éluard non si separa da essa. Può recitare a memoria la Primera Soledad di Góngora e inoltre lunghi franmmenti di Garcilaso e di Rubén Darío e di Apollinaire e di Majakovskij.
Forse Rafael Alberti scriverà, tra le altre, le pagine della sua vita che ci è toccato condividere. In esse si vedrà, come in tutto ciò che fa lui, il suo splendido cuore fraterno e il suo spirito così spagnolo dell'ordine, equo e centrale dentro la costruzione adamantina e assoluta della sua espressione, ormai classica.

DESTINATARIO: ARTURO SERRANO PLAJA Y VIGENTE SALAS VIU

Voi siete gli unici amici della mia vita letteraria in Spagna che siano giunti nella mia patria. Mi sarebbe piaciuto farvi venire tutti e non ho ancora desistito da questo progetto. Cercherò di farli venire, dal Messico, da Buenos Aires, da Santo Domingo, dalla Spagna.
Non solo la guerra ci ha uniti, ma anche la poesia. Vi avevo portato a Madrid il mio buon cuore americano e un ramo di rime che avete conservato con voi.
Voi, quanti! tutti, avete illuminato tanto il mio pensiero, mi avete dato una così singolare e così trasparente amicizia. Molti di voi li ho aiutati in problemi reconditi, prima, durante e dopo la guerra.
Voi mi avete aiutato di più.
Mi avete fatto mostra di un'amicizia allegra e attenta e il vostro decoro intellettuale mi sorprese all'inizio: io arrivavo dall'invidia cruda del mio paese, dal tormento. Dal momento che mi accoglieste come uno dei vostri, avete dato una tale sicurezza alla mia ragion d'essere e alla mia poesia, che ho potuto passare tranquillo a lottare nelle file del popolo. La vostra amicizia e la vostra nobiltà mi hanno aiutato più dei trattati. E fino ad ora, questo semplice cammino che scopro è l’unico per tutti gli intellettuali. Non passino a lottare con il popolo gli invidiosi, i risentiti, gli avvelenati, i maligni, i megalomani.
Quelli dall'altra parte.
Con noi, amici e fratelli spagnoli, solamente i puri, i fraterni/gli onesti, i nostri.

*** Accompagnato dal battere delle mani, ballo tipico dell'Andalusia [N.d.T.].

(Pubblicato dalla rivista « Qué Hubo », a Santiago del Cile, il 20 aprile 1940)


CÉSAR VALLEJO È MORTO

Questa primavera d'Europa sta crescendo su uno in più, uno indimenticabile fra i morti, il nostro benammirato, il nostro beneamato César Vallejo. Di questi tempi di Parigi, lui viveva con la finestra aperta e la sua pensosa testa di pietra peruviana raccoglieva il rumore di Francia, del mondo, di Spagna... Vecchio combattente della speranza, vecchio caro. È possibile? E che faremo in questo mondo per essere degni della tua silenziosa opera duratura, del tuo interno crescere essenziale? Già nei tuoi ultimi tempi, fratello, il tuo corpo, la tua anima ti chiedevano terra americana, però il rogo spagnolo ti tratteneva in Francia, dove nessuno fu più straniero di te. Perché eri lo spettro americano - indoamericano come voi preferite dire - uno spettro della nostra martirizzata America, uno spettro maturo nella libertà e nella passione. Avevi qualcosa della miniera, della galleria lunare, qualcosa di terrenamente profondo.
« Ha reso omaggio alle sue molte fami », mi scrive Juan Larrea. Molte fami, non sembra vero... Le molte fami, le molte solitudini, le molte leghe di viaggio, pensando agli uomini, all'ingiustizia su questa terra, alla codardia di mezza umanità. Quello che accadeva in Spagna ti stava già rodendo l'anima. Quell'anima già così rosa dal tuo stesso spirito, così spoglia, tanto ferita dalla tua stessa necessità ascetica. Quello che accadeva in Spagna è stato il trapano di ogni giorno per la tua immensa virtù. Eri grande, Vallejo. Eri inferiore e grande come un grande palazzo di pietra sotterranea, con molto silenzio minerale, con molta essenza di tempo e specie. E lì nel fondo il fuoco implacabile dello spirito, brace e cenere... Salve, grande poeta, salve, fratello.

(Scritto alla morte del grande poeta César Vallejo e pubblicato dalla rivista « Aurora », a Santiago del Cile, il 1° agosto del 1938).


A EDUARDO CARRANZA

Caro Eduardo, poeta di Colombia:
quando per molti anni e per molte regioni il mio pensiero si arrestava in Colombia, mi appariva la tua vasta terra verde e boscosa, il Rio Cauca gonfiato dalle lacrime di Maria e, su tutte le terre e i fiumi, come fazzoletti di velluto celestiale, planavano le straordinarie
farfalle amazzoniche, le farfalle di Muzo. Ho sempre visto il tuo paese attraverso la luce azzurra di farfalle sotto questo sciame di ali ultraviolette, e ho visto anche le case sparse in questo trepido va e vieni di ali, e poi ho visto la storia di Colombia seguita da una cometa di farfalle azzurre: i suoi grandi capitani, Santander, Bolívar con una farfalla luminosa posata su ciascuna spalla, come la più abbagliante delle spalline, e i tuoi poeti, disgraziati come José Asunción o come Porfirio o superbi come Valencia, perseguitati fino alla fine dei loro giorni da una farfalla, che dimenticavano d'un tratto nel cappello o in un sonetto, farfalla che volò via quando Silva consumò il suo romantico suicidio per posarsi forse più tardi sulle tue tempie, Eduardo Carranza.
Perché tu sei la fronte poetica della Colombia, di quella Colombia divisa in mille fronti, di quella patria sonora, popolata dai canti segreti dell'intreccio di rami virgineo e dall'alto e disinteressato inno della poesia colombiana. Nella tua patria si è accumulata nel
sottosuolo la misteriosa pasta dello smeraldo, e nell'aria si è costruita, come una colonna di cristallo, la poesia.
Lascia che ricordi oggi quella confraternita di poeti che lì ho potuto amare e conoscere. Ti piacerebbe, colombiano matto, che ci fossero i tuoi amici a questa festa. Guardate qui con noi questo stravagante signore scandinavo che entra da quella porta: è Leon de Greiff, alta voce corale americana. Guardate più in là quel grande consumatore di caffè, di vita e di biblioteca: è Arturo Camacho Ramírez, dionisiaco e rivoluzionario; c'è Carlos Martín, che ha appena pescato tre versi ancora inzuppati di strane infiorescenze nell'ansa caimanica del suo fiume natale; ecco che viene Ciro Mandia appena arrivato da Medellín, con la sua lira silvestre sotto il braccio e il suo nobile portamento di fuochista marino; e, infine, ecco qui il tuo grande fratello, Jorge Rojas, di grande corpo, di gran cuore, appena uscito dalla sua poesia coperta di brina, dalla sua epopeica missione sottomarina nella quale le sue vittorie sono state decorate dal sale più difficile.
Ma tu ci dai qui, e questa notte, il volto di tutti questi cari assenti.
Nella tua poesia si cristallizzano, coagulandosi in mille rosette, le linee geometriche della vostra tradizione poetica e, accanto al suo vigore, un sentimento, un'aria emozionante che tocca tutte le foglie del Monte Parnaso americano, aria di vita e di malinconia, aria di partenza e di arrivo, sapore di dolce amore e di grappolo.
Oggi giungi al nostro territorio tormentato dagli uragani, al vento impetuoso oceanico della nostra poesia, di una poesia senz'altra norma se non quella delle sue
vitali esplorazioni, di una poesia che copre, da Gabriela Mistral a Ángel Cruchaga fino agli ultimi giovani, tutte le spiagge e i boschi e gli abissi e i sentieri, come una clamide agitata dalla furia del vento marino.
Con questo abbraccio irregolare e con questa festa allegra ti accogliamo fra ciò che è più nostro, e lo facciamo con la coscienza che sei un onesto lavoratore del laboratorio americano e che la tua coppa cristallina ci appartiene perché in essa hai posto uno specchio vivo di trasparenza e sogno.
Quando arrivai alla tua Colombia natale mi accolsero i tuoi fratelli e compagni, e ricordo che in quel coro di cos’ intensa fraternità, uno dei più giovani e dei più coraggiosi mi rimproverò in un linguaggio di dignità senza pari questa ultima fase della mia vita e della mia poesia dedicata ferreamente al futuro dell’uomo e alle lotte del popolo.
Non risposi neppure, se non essendo me stesso, davanti a voi, per farvi vedere quanto naturali erano in me alla stessa stregua la mia vocazione poetica e la mia condotta politica. Non risposi perché sto rispondendo sempre col mio canto e con la mia azione a molte domande che mi vengono rivolte e che mi faccio. Ma forse risponderei a tutte dicendo che lottando in modo così accanito stiamo difendendo, tra le altre cose pure, la poesia pura; vale a dire, la libertà futura del poeta affinché in un mondo felice — cioè senza stracci e senza fame — possano esprimersi i suoi canti più segreti e più profondi.
Così, quindi, di passaggio per la Colombia, non rifiutai le espressioni della vostra concezione estetica, ma anzi feci miei anche la vostra indagine, il vostro problema e i vostri miti. Entrai nelle vostre belle sale rettangolari e, quando dalle loro finestre entrava il largo crepuscolo della Colombia, mi sentii ricco nelle vostre pietre preziose, luminoso con la vostra luce adamantina.
Così anche a te, oggi che vieni a vivere e a cantare in mezzo a noi, voglio chiedere in nome della nostra poesia, dai piedini scalzi di Gabriela e dai poemi che per bocca di Victor Domingo Silva espressero già tempo fa i dolori di un popolo pieno di sofferenze, oggi ti chiedo di non respingere il destino che dovrai conquistarti, e di prendere qualcosa dal tuo ben fornito tesoro per il tuo popolo, che è anche il nostro. Marinai delle zattere dei tuoi grandi fiumi, pescatori neri del tuo litorale, minatori del sale e degli smeraldi, contadini cafeteros * dalla povera casa, tutti loro hanno diritto al tuo pensiero, alla tua attenzione e alla tua poesia, e che grande regalo ci farai, a noi cileni, se la tua vita nella nostra terra australe, così bella e così dolorosa come tutta l'America nostra, arriva ad assorbire gli oscuri dolori dei popoli che amiamo e per la cui liberazione combatterà domani la tua coraggiosa, fertile e risplendente poesia.
Basta con queste parole, anche se esse ti esprimono tanto affetto nostro. Oggi è giorno di festa nel tuo cuore e in questa sala. Oggi è nato in una strada di Santiago, fra quattro muri cileni, un figlio tuo. A tua moglie, la dolce Rosita Coronado, racconterai della nostra tenerezza. E per te, questa festa coi fiori di coriandoli che noi stessi abbiamo tagliato, con le chitarre e il vino d'autunno, con i nomi di alcuni di quelli che veneriamo nella tua terra e con un fuoco di amicizia fra la tua patria e la nostra, che tu sei venuto ad accendere e che deve levarsi alto, fra la pietra e il cielo, per non spegnersi mai.

* Che lavorano nelle piantagioni di caffè [N.d.T.].

(Discorso pronunciato in una cerimonia in omaggio a Eduardo Carranza a Santiago del Cile, il 1 ° giugno 1946).


RAFAEL ALBERTI E MARIA TERESA LEÓN

Da questo posto cominciai anni fa a parlare della Spagna andando per tutti i paesi e le profondità dell'America, di quella Spagna ieri distrutta e ferita e oggi di nuovo dimenticata e tradita.
Oggi, sono fiero di presentarvi questo doppio splendore, questa coppia spagnola sulla cui fronte dorata è accesa l'aurora e l'agonia che la loro patria ci ha mostrato e che sono rimaste scritte in indelebili caratteri di fuoco nella terra di Cile.
Rafael Alberti, primo poeta di Spagna, combattente esemplare, fratello mio:
Non avrei mai immaginato, fra i fiori e la polvere della pace e della guerra a Madrid, fra le verbene e le esplosioni, nell'aria pungente della pianura castigliana, che un giorno ti avrei dato in questo luogo le chiavi della nostra capitale circondata dalla neve e che ti avrei aperto le porte oceaniche e andine di questo territorio, che, molti secoli or sono, don Alonso de Ercilla lasciava fecondato e seminato e stellato con la sua violenta e ultramarina poesia.
Maria Teresa, non avrei mai immaginato, tutte quelle volte che abbiamo diviso il pane e il vino nella tua casa generosa, che un giorno avrei avuto la fortuna di offrirti nella mia patria il pane, il vino e l'amicizia di tutti i cileni.
Perché qui tutti stavamo ad aspettarvi, Rafael, Maria Teresa. Vi distingueva il mio popolo, non solo come figure uniche e fiere dell'intelligenza, ma anche come pellegrini della patria chiusa dal sangue e dall'odio.
Nessun popolo in America ha sentito le sventure de la Spagna come il nostro popolo, e nessuno è rimasto leale come noi alla vostra lotta e alla vostra speranza. Non
pensate, Maria Teresa, Rafael, ai governi che aderiscono superficialmente alle transazioni universali della viltà pensate bensì che entrando in Cile bussate alla porta o al petto di qualsiasi cileno e uscirà ad accogliervi il cuore di un popolo che non ha mai riconosciuto Franco. Questo ve lo diranno gli uomini e le donne, i bambini e i vecchi della mia patria e perfino le pietre delle strade sulle quali la mano del popolo ha scritto in cattiva ortografia, ma con maggiore coscienza di un ministro laburista, la sua maledizione per Franco e il suo amore appassionato per la Repubblica popolare della quale siete figli erranti e splendidi ambasciatori.
In questa terra della poesia e della libertà, siamo felici di accogliervi, giovani creatori della poesia e della libertà che avete difeso accanto al vostro popolo. E ora che siete giunti dove finisce il Pacifico, il più ampio percorso del pianeta dato al mondo da altri spagnoli pellegrini, che questo sia anche il punto da dove iniziare il ritorno, perché quando in tutta la terra germoglia la libertà, avete più diritto di tutti a chiederla per gli spagnoli, dato che foste i primi a combattere per essa.
Cari fratelli: vi amavamo da tanto tempo, che quasi non avevamo bisogno di ascoltarvi. La vostra poesia e la vostra condizione di coraggiosi illuminavano da qualsiasi angolo le numerose terre americane. Avete voluto attraversare le più alte nevi del pianeta affinché potessimo ammirare in questo vertiginoso minuto del mondo i vostri due nobili volti che rappresentano per noi la dignità del pensiero universale. Guardate anche voi il volto innumerevole del popolo che vi accoglie, entrate cantando, perché così vogliamo, nella nostra primavera marina, toccate tutti gli angoli minerali dell’ampio cuore del Cile: perché lo sapete già, Rafael, Maria Teresa, ve lo avranno già raccontato le chitarre: quando il popolo cileno da il suo cuore, lo da intero e per sempre a chi come voi, in modo così elevato ha saputo cantare e combattere.
Eccoli qua: per bocca loro parlerà la Spagna.

(Parole pronunciate in una cerimonia in omaggio a Rafael Alberti e Maria Teresa León, a Santiago del Cile, nel 1946).


PICASSO È UNA RAZZA

Nelle nostre Americhe si fanno dei ritrovamenti: su isole disabitate o in foreste irascibili sotto la terra d'un tratto si trovano statue d'oro, pitture sulla pietra, collane di turchesi, teste immense, vestigia di innumerevoli esseri sconosciuti che bisogna scoprire e nominare affinché rispondano dal loro silenzio secolare.
Se su una nostra isola si trovassero gli strati successivi di Picasso, la sua monumentale astrazione, la sua creazione rupestre, i suoi gioielli precisi, i suoi quadri di felicità e di terrore, gli archeologi impressionati cercherebbero gli abitanti, le culture che tanto fecero per accumulare favolosi giochi e miracoli.
Picasso è un'isola. Un continente popolato da argonauti, caribes * tori e arance. Picasso è una razza. Nel suo cuore il sole non tramonta.

* Personaggi feroci, inumani [N.d.T.].

(Scritto in occasione della celebrazione a Parigi del 90° compleanno di Picasso, nell'ottobre del 1971).


QUESTO GIORNO FREDDO

Questa fredda giornata d'estate è come la sua dipartita come la sua scomparsa repentina in mezzo all'allegria moltiplicata della sua opera.
Non farò un'orazione funebre per Mariano Latorre.
Voglio dedicargli un volo di queltehues vicino all'acqua, i loro gridi fatidici e le loro piume bianche e nere che si levano d'un tratto come un ventaglio a lutto.
Gli dedicherò, un lamento di trampolieri e la chiazza bagnata, come sangue sul petto, di tutte le loicas (1) del Cile.
Gli dedicherò uno sprone di huaso, (2) con rugiada mattutina, di qualche cavaliere che si mette in viaggio di buon mattino per le sponde del Maule e la sua fragranza.
Gli dedicherò, sollevandola in suo onore, la coppa di vino della patria, colma di quelle essenze che egli descrisse e godette.
Vengo a lasciargli un rosario giallo di topa-topas, non dei burroni, fiori selvaggi e puri.
Ma lui merita anche il sussurro segreto dei maitenes (3) tutelari e la fronda dell'araucaria. (4) Lui, più di ogni altro, è degno della nostra flora e la sua vera corona sta da oggi in poi sulle montagne dell'Araucania, intrecciata di boldos,(5) arrayanes, (6) copihues (7) e lauro.
Una canzone di vendemmia lo accompagna, e molte trecce delle nostre fanciulle silvestri, nei porticati e sotto le grondaie, alla luce dell'estate o della pioggia.
E quel nastro tricolore che si annoda al collo delle chitarre, al filo delle canzoni, sta qui, cinge il suo corpo come una ghirlanda e lo accompagna.
Sentiamo accanto a lui i passi di contadini e di pampinos (8) di minatori e di pescatori, di quelli che lavorano, rastrellano, solcano, fecondano la nostra terra dura.
Di questi tempi si sta riempiendo la spiga del cereale e per qualche tempo ancora le messi mature muoveranno le loro onde dorate ricordando l'assente.
Da Victoria a sud fino alle isole verdi, in campi e reale e per qualche tempo ancora le messi mature casali, in capanne e sentieri, non starà con noi, lo conriche dei loro frutti di mare, ma ormai Mariano non navigherà fra le isole.
Egli amò le terre e le acque del Cile, le conquistò con pazienza, con saggezza e amore, le sigillò con le sue parole e con i suoi occhi azzurri.
Nelle nostre Americhe il governante, da un clima all'altro non fa altro che svendere le ricchezze originali. Lo scrittore, accompagnando la lotta dei popoli, difende e conserva l'eredità. Si cercherà in seguito, se sono stati sacrificati i nostri costumi e i nostri vestiti, le nostre canzoni e le nostre chitarre, il tesoro che hanno messo da parte uomini come Mariano Latorre irriducibili nel loro canto nazionale.
Andremo a cercare nell'intreccio dei suoi libri, ricorreremo alle sue pagine preziose per conoscere e difendere ciò che è nostro.
I classici li produce la terra, o meglio, l'alleanza fra i loro libri e la terra, e forse abbiamo vissuto assieme al nostro primo classico, Mariano Latorre, senza renderci conto di quanto conterrà di permanente la sua fedeltà al mandato della terra. Gli uomini dimenticati, gli arnesi e gli uccelli, il linguaggio e le fatiche, gli animali e le feste, continueranno a vivere nella frescura dei suoi libri.
Il suo cuore era una nave di legno odoroso, uscita dai boschi del Maule, ben costruita e martellata nei cantieri della foce, e nel suo viaggio per l'oceano continuerà a portare la forza, il fiore e la poesia della patria.

(1) Loicas: uccelli simili ai pettirossi [N.d.T.].

(2) Huaso: figura tipica delle campagne cilene, equivalente del gaucho argentino [N.d.T.].

(3) Maitenes: albero cileno dalle fronde verde scuro, fiori purpurei a campanella: tutelari perché piantati di solito in prossimità di case contadine [N.d.T.].

(4) Araucaria: elegante sempreverde cileno [N.d.T.].

(5) Boldos: specie di arbusto verde cileno [N.d.T.].

(6) Arrayanes: arbusti sempre verdi dai fiori bianchi [N.d.T.].

(7) Copihues: rampicanti ornamentali dai fiori rossi, o bianchi; fiore nazionale cileno [N.d.T.].

(8) Abitanti della pampa [N.d.T.].

(Parole scritte in occasione della scomparsa dello scrittore Mariano Latorre nell'anno 1955).


LO SPLENDORE DEL SANGUE

Nell'esilio, l'aspra patria prende un colore di luna, la distanza e i giorni limano e addolciscono il suo lungo corpo, le sue pianure, i suoi monti e le sue isole.
E ricordo un pomeriggio passato con Elias Lafertte (1) in un villaggio senza uomini, in una delle miniere abbandonate della pampa.
Sabbiosa e infinita, la pampa si estendeva attorno a noi, e ad ogni cambiamento della luce solare il suo pallore cambiava come il collo di una colomba selvaggia, dolce, verde e violetto si depositava sotto forma di polvere sulle cicatrici planetarie, cenere cadeva dal cielo, confusa madreperla iridava il deserto.
Era nel desolato Norte grande, nelle solitudini di Huantajaya. Da lì comincia questo libro, le sue pagine sono fatte con quella sabbia, forte, ampio e trepidante è il suo mondo e in esso le vite stanno incise con fuoco e sudore come sulle pale dei derripiadores. (2) Un altro colore si aggiunge alle estensioni della pampa: lo splendore del sangue.
Nessuno potrà dimenticare questo libro.

I governanti, con poche eccezioni, si sono accaniti col popolo del Cile e hanno represso con ferocia i movimenti popolari. Hanno obbedito a decreti di casta o a mandati di interessi stranieri. Dal massacro di Iquique fino al campo di morte eretto a Pisagua da González Videla, si tratta di una storia lunga e crudele. Contro il popolo, cioè contro la patria, si pratica una guerra permanente. Tortura poliziesca, bastonate e sciabolate, stato d'assedio, la marina e l'esercito, navi da guerra, aerei e carri armati: questi elementi i governanti del Cile non li usano per difendere il salnitro o il rame contro i pirati dell'esterno, no, questi sono elementi della cruenta battaglia contro il Cile. Il carcere, l’esilio e la morte sono misure di « ORDINE » e i governanti che compiono azioni di sangue contro i loro
compatrioti vengono ripagati con un viaggio a Washington, decorati in una Università nordamericana. Si tratta semplicemente di una politica coloniale. Non c'è una grande differenza fra i massacri del Madagascar, della Tunisia, della Malesia, della Corea, effettuati contro popoli indifesi da invasori armati francesi, inglesi, nordamericani, e la sistematica repressione attuata nel nostro Continente da governanti spietati, agenti degli
interessi imperialisti.
Ma nel corso della storia, il popolo cileno è uscito vittorioso.
Da ogni colpo tragico ha tratto insegnamenti utili e ha risposto, come forse nessun altro popolo americano, con la sua arma più potente: l'organizzazione delle sue lotte.
Questa lotta moltiplicata è il centro della vita nazionale, le sue vertebre, i suoi nervi e il suo sangue. Infiniti episodi tristi o vittoriosi l'accendono e la continuano. Per questo nel vasto dramma del Cile, il protagonista è continuamente il popolo. Questo libro è come un esteso prologo di quel dramma, e ci mostra con purezza e profondità il sorgere della coscienza.
Però Hijo del salitre, non è una desertica dissertazione civile, ma un prodigioso e molteplice ritratto dell'uomo. All'epico sussulto delle sue descrizioni succede la tenerezza imponderabile. L'amore di Volodia Teitelboim (3) per il suo popolo lo porta fino a trovare
la fonte nascosta della canzone e delle lacrime, le raffiche di violenta allegria, le vite solitarie della pampa, il va e vieni che separa e sgrana i destini della gente semplice che vive nel suo libro.
Molti sono i problemi del realismo per lo scrittore che vive nel mondo capitalista. Hijo del salitre assolve al mandato creativo, essenziale nei libri che aspettiamo. Non basta buttare a mare il balbettamento oscurantista, l'individualismo reazionario, il naturalismo inamidato, il realismo pessimista. Questo libro applica e supera i logori canoni del romanzo, saturandoci di grandiosa bellezza. Ma raggiunge anche un altro dei punti inseparabili della creazione contemporanea: quello di fare la cronaca definitiva di un'epoca. Sappiamo già come s'impadroniscono della storia i falsificatori ufficiali della borghesia. Noi, scrittori del mondo capitalista, abbiamo il dovere di preservare la verità del nostro tempo: il Generale Silva Renard (4) o il Presidente González Videla non possono sfuggire al vero giudizio storico. Gli scrittori cileni dovranno scrivere col sangue — sì, col sangue di Iquique o di Pisagua — e così nascerà la nostra letteratura.
In queste gesta in cui Baldomero Lillo pone la sua prima pietra nera, Volodia Teitelboim leva la prima colonna fondamentale. Perché non solo i dolori, le allegrie e le verità di un popolo rimangono in questo modo incise, bensì, come molti sentieri che si uniscono a formare una strada grande e sicura, il popolo sfocia nella sua organizzazione liberatrice, nel Partito. Recabarren e Lafertte non sono in questo libro eroi statici, ma bensì progenitori della storia.
Con Volodia Teitelboim, assieme al nostro popolo, abbiamo vissuto ore grandi e dure. Dopo anni di esilio giunge nelle mie mani questo libro suo, grappolo impressionante di vite e di lotte, carico di semi. Io, da qui, come se stessi sulle alture abbandonate di Huantajaya, intravedo in queste pagine la vita terribile dell'uomo del salnitro, vedo gli arenili, le colline, la miseria, il sangue e le vittorie del mio popolo. E sono fiero del frutto del mio fratello.

(1) Fu il primo Segretario del Partito Comunista del Cile [N.d.T.].
(2) Operai che, nelle cave, caricano la ghiaia per il calcestruzzo [N.d.T.].
(3) Dirigente del Partito Comunista del Cile [N.d.T.].
(4) Responsabile del massacro dei minatori di Iquique durante uno sciopero del 1907 [N.d.T.].

(Prefazione a Hijo del salitre, libro dello scrittore cileno Volodia Teitelboim, maggio 1952).


CARLO LEVI ERA UN GUFO

Mentre mi faceva il ritratto nel suo antico studio, scendeva lentamente il crepuscolo romano, i colori si attenuavano come se li consumasse d'un tratto il tempo impaziente, si udiva lo strombazzare delle automobili che correvano verso le strade della campagna, verso il silenzio, verso la notte stellata. Io sprofondai nell'oscurità ma lui continuava a dipingere. Il silenzio finì per divorarmi, ma lui continuava a dipingere, chissà, forse dipingeva il mio scheletro. Perché l'alternativa era: o le mie ossa erano fosforescenti o Carlo Levi era un gufo, con gli occhi scrutatori dell'uccello della notte.

Dato che non mi si poteva vedere affatto e lui non poteva distinguere né il mio naso né le mie braccia né io potevo distinguere i suoi pennelli, mi misi a pensarlo e a vestirlo nella mia immaginazione. Ero sicuro che si ricopriva di piume e che mi dipingeva con la
punta di una delle ali. Perché io sentivo, più che un fruscio di pennello che oliava la tela un graffiare di ali che volavano nella notte e che sicuramente mi stavano disegnando in quel quadro sommerso. Io protestavo invano: lui coi suoi immensi occhi paralizzava le mie parole nell'oscurità dello studio.
Di nuovo mi riconcentravo e lo vedevo nella mia immaginazione trasformato in un grande crisantemo i cui immensi petali cadevano sul quadro, comunicandogli freschi o appassiti gialli. D'un tratto e nell'ombra compresi che sorrideva con un sorriso da crisantemo, e che non mi avrebbe lasciato uscire dallo studio senza che fosse terminata la pittura. Ma tornato di nuovo alla quiete compresi che Carlo Levi era anche un sole, che pensava e dipingeva come un sole, con molta fermezza e chiarezza, perché la sua forza
luminosa è sempre dipesa dallo spazio. Compresi che quest'uomo spazioso mi avrebbe salvato coi suoi rasgi, sollevandomi, alla fine, dalla mia poltrona, dandomi luce nella scala dell'antico palazzo per uscire alla strada, fino al cinema, fino alla notte stellata, verso
l'Oceano che mi appartiene.

Ma seppi che sarei rimasto sempre lì, sulla sua tela e nel suo pensiero, e che non avrei mai potuto uscire da Carlo Levi, dalla sua chiaroveggenza, dal suo sole dal suo crisantemo, dai suoi serenissimi occhi che scrutano le cose e la vita.
Questo è il potere di quel mago. Dopo molti anni qui, mentre scrivo in un'ora crepuscolare, nella mia casa di fronte alle onde del Mare del Sud, mi sento legato a lui da quello stesso crepuscolo romano, dal suo pensiero indimenticabile, dalla sua arte consumata e dalla sua saggezza di grande uccello notturno che ha attraversato tutto lo spazio senza abbandonarci mai.

(Omaggio al pittore Cario Levi, Roma 1949).


NOSTRO GRANDE FRATELLO MAJAKOVSKIJ

Non mi dichiaro nemico irriducibile delle grandi discussioni letterarie, però confesso che la discussione non è il mio elemento: non ci nuoto come l'anatra nell'acqua. Sono amico appassionato delle discussioni letterarie. La poesia è il mio elemento.
Per quanto sia difficile parlare di Majakovskij senza discuterlo, e per quanto il grande poeta volasse nella discussione (perché nel regno della poesia ci sono un po' tutte le piume) come un'aquila in cielo, voglio parlare di Majakovskij con amore e semplicità, senza impantanarmi né nella sua vita feconda né nella sua morte sfortunata.
Majakovskij è il primo poeta che fa entrare il Partito e il proletariato attivo nella poesia e fa di questi fattori alta materia poetica. Questa è una rivoluzione trascendentale e sul piano universale della letteratura è un apporto, come quello di Baudelaire o di Whitman
alla poesia contemporanea. Con ciò voglio dire che l’apporto di Majakovskij non è dogmatico, ma poetico. Perché qualsiasi innovazione di contenuto che non sia digerita e non riesca a diventare parte nutritiva del pensiero, non è altro che uno stimolo esterno del pensiero. Majakovskij fa circolare dentro la poesia i duri temi della lotta, i monotoni temi della riunione e questi argomenti fioriscono nella sua parola, si trasforano in armi prodigiose, in gigli rossi.
Questo non vuoi dire che tutta la poesia debba essere politica o partitica, ma dopo Majakovskij, il vero poeta che nasce ogni giorno ha una nuova strada da scegliere tra le molte strade della vera poesia.
Ma Majakovskij ha un fuoco proprio che non può estinguersi. È un poeta copioso e ho la sensazione che, come Federico García Lorca, nonostante la maturità della sua poesia, avesse ancora molto da dire, molto da creare e cantare. Mi sembra che le opere di questi due giovani poeti, morti in piena illuminazione, siano come due inizi di giganti, e che dovevano ancora misurarsi con le montagne. Con ciò voglio dire che soltanto loro avevano la chiave per superarsi, e, purtroppo per noi quelle chiavi sono andate perdute, tragicamente sepolte nelle terre di Spagna e di Russia.
Majakovskij è un poeta di una vitalità verbale che arriva all'insolenza. Prodigiosamente dotato, fa appello a tutti gli ardimenti, a tutte le risorse del virtuoso. La sua poesia è un catalogo di immagini repentine che rimangono brillanti con tracce fosforescenti. La sua poesia è a tratti insultante, offensiva, ma anche piena di purissima tenerezza. È un essere violento e dolce, organicamente, figlio e padre della sua poesia.
A ciò si aggiungono le sue capacità satiriche.
Le sue satire contro la burocrazia sono devastatrici e ora continuano ad essere rappresentate nei teatri sovietici con successo crescente. La sua sarcastica lotta contro la piccola borghesia arriva alla crudeltà e all'odio. Possiamo non essere d'accordo, possiamo detestare la crudeltà contro gente deformata da vizi di un sistema ma i grandi poeti satirici raggiunsero sempre l'esagerazione più delirante. Così fu Swift, così fu Gogol.
Dopo quarant'anni di letteratura sovietica in cui sono stati scritti molti libri buoni e molti libri cattivi, Majakovskij continua ad essere per me un poeta impressionante, come una torre. È impossibile non vederlo da qualsiasi parte della nostra terra, si distinguono la testa, le mani e i piedi di questo gigantesco ragazzo. Scrisse con tutto, con la testa, con le mani, col corpo. Scrisse con intelligenza, con saggezza di artigiano, con violenza di soldato nella battaglia.
In questi giorni di festeggiamenti e di riflessione in cui celebriamo con amore e con orgoglio questo anniversario della rivoluzione d'Ottobre, mi soffermo un minuto per la strada e mi inchino davanti alla figura e alla poesia del nostro grande fratello Majakovskij.
In questi giorni in cui lui avrebbe cantato come nessun altro, levo alla sua memoria una rosa, una sola rosa rossa.

(Omaggio a Majakovskij, Pechino, agosto 1957).


IL MIO AMICO PAUL ÉLUARD È MORTO

È molto difficile per me scrivere su Paul Éluard. Continuerò a vederlo vivo vicino a me, accesa nei suoi occhi l'elettrica profondità azzurra che guardava così ampio e da tanto lontano.
Quest'uomo tranquillo era una torre fiorita di Francia. Usciva dal suolo in cui allori e radici intrecciano le loro fragranti eredità. La sua levatura era fatta di acqua e di pietra e su di essa si arrampicavano antichi rampicanti portatori di fiori e fulgore, di nidi e canti trasparenti.
Trasparenza, ecco la parola. La sua poesia era cristallo di pietra, acqua immobilizzata nella sua costante corrente.
Poeta dell'amore zenitale, falò puro di mezzogiorno, nei giorni disastrosi della patria mise in mezzo ad essa il suo cuore e da esso uscì il fuoco decisivo per le battaglie.
Così giunse naturalmente nelle file del Partito. Per Éluard essere comunisti significava confermare con la sua poesia e con la sua vita i valori dell'umanità e
dell’umanesimo.
Non si creda che Éluard fosse meno politico che poeta. Sono stato spesso impressionato dalla sua chiara visione e dalla sua formidabile ragione politica. Assieme abbiamo esaminato molte cose, uomini e problemi del nostro tempo, e la sua lucidità mi è servita per sempre.
Non si perdette nell'irrazionalismo surrealista perché non fu un imitatore ma un creatore e sparò sul cadavere del surrealismo colpi di chiarezza e di intelligenza.
Fu mio amico di tutti i giorni e perdo la sua tenerezza che era parte del mio pane. Nessuno potrà darmi ormai quello che lui si porta via perché la sua fraternità attiva era uno dei pregiati lussi della mia vita.
Lui sosteneva con la sua colonna azzurra le forze della pace e dell'allegria. È morto con le mani fiorite, soldato della pace, poeta del suo popolo.
Torre di Francia, fratello!
Mi inchino sui tuoi occhi chiusi che continueranno a darmi la luce e la grandezza, la semplicità e la rettitudine, la bontà e la semplicità che hai piantato sulla terra.

(In morte di Paul Éluard, 1952).


LA VISITA DI MARGARITA ALIGHER

Mi trovavo a Concepción, nel sud del mio paese, quando lessi sul giornale che Margarita Aligher era arrivata in Cile.
Anche se fra Santiago del Cile e Concepción ci sono centinaia di chilometri di vigne, pascoli, uve che nel mese di marzo diventeranno vino, subito arrivò nel sud, Margarita.
È piena estate in Cile, il cielo del sud era azzurro nella sua integrità, come una bandiera azzurra, come una coppa. Neppure una sola nuvoletta bianca. Margarita Aligher era necessaria al cielo del sud del Cile perché è come una piccola nube bianca. È così silenziosa, che pare che viaggi con la sua nuvola e se l'avvolga attorno. È solita anche sedersi nella piccola nube che, quando si ritira da una riunione, la trasporta dolcemente da un'altra parte. Siamo stati insieme per lo smisurato paesaggio, io sul mio cavallo e lei sulla sua nuvola. Entrambi questi mezzi di locomozione vanno bene in questi territori, dato che le strade sono spesso aspre e alle montagne seguono insolite praterie che finiscono sulla spiaggia del mare.
Margarita vede tutto con uno sguardo penetrante che non riposa. È vero che Margarita Aligher può stare delle ore senza dire una parola, ma sta guardando tutto. Non ho mai visto una persona che guardi tanto così bene come Margarita.
A cento chilometri all'ora e semplicemente immobile giarda come nessun altro. Non è uno sguardo mistico o sensuale come quello degli antichi poeti romantici, è uno sguardo ampio e diretto, uno sguardo che cerca il sottosuolo, il frutto fra le foglie, il lavoro fra le radici. Guarda anche con decisione i volti e i problemi umani. Siamo entrati in mercati e in piazze piene di gente del popolo. I cileni si sono abituati a vedere i penetranti occhi di Margarita che sommano o sottraggono le cose e gli esseri, e i giorni che passavano con la sua bandiera azzurra in alto.
Siamo stati anche a vedere gli studi dei pittori e in particolare, l'immenso mural di González Camarena nella Casa dell'Arte.
Il mural è grandissimo, quaranta metri di lunghezza per otto di altezza. Mi dice il pittore che leggendo il mio libro Canto General ha trovato il tema della sua opera. Mi fece piacere sentirmelo dire.
In un angolo, su un nopal (1) messicano si attaccano i fiori selvatici del copihue cileno. Queste piante sono simboli delle nostre nazionalità.
Il nopal è trafitto da decine di pugnali e a volte le sue grosse foglie sono amputate o ferite. Con questo, il pittore esprime gli attacchi nordamericani e le perdite di territorio che ne sono seguite.
Verso qua si estendono i volti giganteschi di diversi metri di altezza delle diverse razze americane, verso il basso come in un tunnel giacciono gli scheletri dei conquistadores e il sottosuolo minerale, le cavità delle miniere. Tutto ciò fiorisce verso l'alto in divinità e raccolti, spighe e segni di splendore.
Questa descrizione è molto sommaria. Il muro con la sua figura di color verde e violetto, i suoi ricchissimi grigi, i suoi ocra meravigliosi, la sua costruzione figurativa e astratta, cubista e umanista, è un grande insegnamento di come tutte le scuole apportano come alla luce un colore, un elemento che si trasforma nel permanente, nell'iride della verità.
Fra quelle figure monumentali e sotterranee si spostava la fragile figura di Margarita con la sua aerea soavità, volando fra le ariste fosforescenti dell'affresco, prendendo parte alla vicenda come un personaggio dipinto lì anch'esso dal pittore.
Probabilmente con ogni diritto, dato che, la sua poesia, così lieve e così profonda ad un tempo, fa parte della flora, dei sogni e della vita, della realtà che lì avevano i colori raggianti del Messico ancestrale.
Venendo da tanto lontano, dalla Georgia, dagli Urali, da Mosca, Margarita Aligher faceva parte del nostro mondo.
È celeste e sotterranea, costruisce sogni e guarda con gli occhi aperti ed eterni della poesia.

(1) Pianta messicana della famiglia dei cactus [N.d.T.].

(Scritto in occasione della visita in Cile della poetessa soviegarlta Aligher, nell'anno 1968).


POETI DELLA ROMANIA FIORITA

Appena arrivai in Transilvania chiesi di Dracula.
Non mi compresero. Che peccato!
Quel vampiro sempre in frac che si staccava dai merli del suo castello di pietra nera! Quel terrorista superattivo che volava come un pipistrello!
Che peccato!
Tutti i miei sogni crollarono. Lì era vissuto lui fra questi boschi di abeti, lui stesso terrorizzato dalla luce del giorno, che si arrotolava e srotolava a seconda dell'attrazione e del potere delle tenebre, che incitavano il volo della sua cappa tenebrosa.
Che peccato!
Perché, in realtà, i poeti rumeni che mi accompagnavano non lo conoscevano. Se fossi nato in Romania non avrei desistito dal cercarlo, gli avrei teso degli agguati da bambino, mi avrebbero sfiorato le sue ali metamorfosiche e membranose, avrei aspettato nell'ombra transilvana che cadesse dalle tasche del suo frac una delle sue chiavi d'oro. Aperti poi furtivamente i portoni, avrei percorso le stanze, avrei conosciuto i segreti mortali di quel potente satanico. Niente di tutto ciò fu possibile! Dracula non abitava più nella selvatica Transilvania.
I poeti che mi circondavano avevano l'anima chiara dell'acqua di montagna, mi celebrarono con grandi scrosci di risa. Però, devo confessarlo, i miei compagni poeti della Romania fiorita non sono dotti in tenebre.
Le tenebre della Romania... il canto dell'acqua romena. Quante cose da dimenticare, quante cose da cantare!
La verità è che le tenebre non sono state soltanto pagine di carta, ma fatti duri, capitoli crudeli, interminabili agonie.
La verità è che le acque cantarono nonostante tutto cantano, continueranno a cantare.
Secoli di servitù, epoche di martirio, invasioni, abbandono, miseria, morte, ammutinamenti, soldatesca, ribellioni, incendi. E su questa antica Romania impastata dalle migliori mani del dolore, dietro a questa Romania mille volte crocefissa in ciascuno degli uomini rumeni, sotto questa Romania povera e medievale, folkloristica e singhiozzante, la poesia cantò senza mascherare la sua eminenza, cantò sempre nella
sua campana cristallina.
Molto di questo si vedrà in queste pagine.
La pressione espressiva di un'antica e poderosa letteratura, che si è sempre espressa in forma critica e creatrice, non ha fatto che continuare nella Romania
di oggi.
Nessuna interruzione di silenzio o di violenza fra le epoche separate dalla rivoluzione. Con la morte del feudalesimo non scomparve sotto le macerie la poesia perché la grande poesia rumena non accompagnò mai il crepuscolo delle campagne che nascondevano miseria e patimenti.
La poesia entrò a passi facili in un'età di costruzioni. E i semi andavano sotto la terra e i fiori spuntarono copiosi con la fioritura generale di un popolo.
La poesia non abbandonò il suo canto di acqua ferita che scende dalle montagne, ma entrò col suo alveo nell'attivo umanesimo della nuova Romania. E questo senza lasciarsi dietro la riflessione né la malinconia. Canto come prima la vita e la morte, ma anche la realtà e la speranza. Il simbolista Bacovia tinse nel turno della città e nel sangue dei mattatoi la sua tristezza, che lo avvolse come una cappa. Nuovi poeti di oggi riflettono come statue di gladiatori nudi il colore del sole e del grano. Però nel fondo, questa poesia
ha seguito la sua strada fra le radici nazionali e non ci sarà un verso, una riga, una sillaba che non sia imbevuta della chiarezza e della notte rumena, di un selvaggio e tenero sentimento di amore verso la sua terra, verso l'anima più antica e più moderna dell’Europa.
Vicino a Costanza ho visto un blocco greco appena estratto dalle acque del Mar Nero. Qualche uomo rana inciampò in quegli dei bianchi che continuavano ad ascoltare il canto delle antiche sirene. Vicino a Plogsti i contadini trovarono sulla strada un tesoro: dozzine di anfore e coppe d'oro, lavorate forse per antichissimi monarchi. Stanno lì in una vetrina. Non ho mai visto tanto splendore.
Tirnave, Dragasani, Legarcea, Murfatlar sono nomi di vigneti antichi, che giunsero al cuore di uomini molto distanti, ma il cui aroma nacque fra i Carpazi e il Danubio.
Tutta la terra e il fango rumeno conservano la palpitazione di una cultura generosa che assorbì e suddivise il suo tesoro. La poesia si è nutrita dei chiari alimenti della terra, dell'acqua e dell'aria, si è vestita dell'antico oro, ha sognato i sogni greci. Ed è maturata nella ragione della nostra epoca continuando con solennità il cammino di un canto sempre grave, sempre sonoro e alto. Le fabbriche, le scuole, le canzoni fanno vibrare ora la vecchia terra rumena. La poesia canta nella rivoluzione del grano, nella trepidazione dei telai, nella nuova fecondità della vita, nella sicurezza del popolo, nelle dimensioni recentemente scoperte. Canta nell'antico e nel nuovo vino. In quanto alla creazione stessa, è difficile dire, è difficile scrivere. E per quale ragione? Per quale ragione la poesia
ha bisogno di quella impertinente interpretazione, adesione o diffidenza? Viviamo circondati da libri che commentano i versi che vorrebbero soltanto andare per le strade con scarpe più fragili o più dure. E ci succederà che finiremo per fare proprio questo, leggere quello che si scrive su quello che si è scritto.
In questa Età della Carta presento naturalmente questi poeti rumeni così tradizionali come i canti e i costumi silvestri della patria ereditaria, così riyoluzionari come le sue audaci officine e la trasformazione evidente del mondo di cui fanno parte.
Parlerò dell'anziano poeta Tudor Arghezi.
Con oltre ottanta anni di vita, Arghezi è il grande coronato, e sopporta con bontà e una certa leggera ironia gli allori chiaroscuri che premiano la sua opera serena e frenetica, purissima e demoniaca, cosmica e popolare.
Io lo conobbi a Bucarest, onorato, questo vecchio ribelle, da ministri e da operai, amato e rispettato da una Repubblica che ha cura della sua libertà e della sua tranquillità.
È strano che questo grande poeta europeo sia sconosciuto a tanti, come è stato anche il caso del grande italiano Saba.
Saba è stato rumoroso come un grande fiume che man mano diventa sotterraneo e seppellisce la sua favolosa corrente prima di arrivare all'oceano.
Arghezi è increspato ed eretico, ammutinato e intenso. La nera meditazione dei suoi lunghi primi temni ha lasciato il passo nei suoi ultimi libri all'allegria dell'anima impetuosa. Ha smesso di sostentarsi della sua stessa solitudine: partecipa, alla sua età, alla primavera della sua patria.
Ma ne nominerò alcuni altri, per ringraziarli tutti di aver permesso, tutto il lungo inverno di Isla Negra, qui sulla costa del Pacifico meridionale, che la loro poesia vivesse con me e che mi avvolgesse la forza e la freschezza di Romania, per molti mesi, nella
veglia e nel sonno.
Grazie, Maria Banus!
Per la palpitazione costante del tuo amore e dei tuoi sogni, per la rete magica i cui fili di fumo e d'oro ti permettono di estrarre dalla profondità ricordi oscuri come pesci degli abissi, o di acchiappare in aria la farfalla selvaggia di Baragan.
E a te, Jebeleanu, viaggiatore di Hiroshima, tu che hai raccolto in quel cuore di cenere un fiore puro trasfigurato nel tuo canto: spero che troverai qualche baleno della tua generosa poesia in questo libro. E a Mihail Beniuc: grazie per la tua forza di pensiero, per le tue canzoni combattenti.
A Maria Porumbacu, a Demostene Botez, a Radu Boureanu, a lon Brand, chiedo perdono nel caso che i loro poemi abbiano perduto forza essenziale o gocce d’ambra nel cambiarli di vaso. Ma sapranno, ne sono slcuro che ho messo molto amore nel lavoro, sempre non concluso, di tradurre la loro poesia.
L’idioma rumeno, parente consanguineo del nostro, contiene un'abbondanza di cui non ci serviamo: i suoi angoli slavi. In questi angoli non stiamo più al passo, guardiamo in alto, in basso, e alla fine ci aggrappiamo al francese per non rimanere al buio. Però la lingua rumena, lungi dall'essere un castigliano obliquo, trae il suo elettrico lirismo dalle alluvioni idiomatiche che sfociarono in Romania. Fermo e risplendente è il linguaggio rumeno e poetico per eccellenza. Con Tristan Tzara, Ilarie Voronka e altri, che scrissero la loro opera in francese, la Romania ha contribuito in modo caratteristico alla sua passione universale. Già sappiamo che Eminescu o Caragiale attraversano le barriere della lingua e sono tesaurizzati e discussi dappertutto. Però la Romania ha avuto sempre una voce che ha raggiunto il concerto del mondo dalle sue strade e dalle sue montagne. È stata l'aspirazione universalista e soprattutto la naturalezza e la crescita culturale come è adesso l'orgoglio di una profonda rivoluzione umanista. Ma i poeti che emigrarono in passato fino a cambiare lingua, furono costretti dalla crudeltà di un'epoca. Non fu così per gli europeizzanti della nostra America. I rumeni non andarono in Francia a imitare, ma ad insegnare. Furono la partecipazione rumena alla creazione universale.
Per più di un inverno a casa mia, di fronte all'oceano freddo e alle immense migrazioni di uccelli, mi hanno tenuto assidua compagnia nella traduzione della poesia rumena i poeti Homero Arce e Ennio Moltedo.
Ringrazio i miei due amici. La saggezza e l'impegno di ciascuno di loro mi sono molto serviti. Anche loro hanno goduto come me, mentre lavoravamo, del fogliame fiorito, dell'acqua e del fuoco, che in queste molteplici voci si moltiplicano incitandoci ad ascoltare con raccoglimento il canto corale di un popolo lontano e fratello.

(Prefazione ad un'antologia della poesia rumena, tradotta da Neruda e pubblicata nel 1967 dalla casa editrice Losada di Buenos Aires, in Argentina).


VOLEVANO UCCIDERE LA LUCE DELLA SPAGNA

Si è già trattato qui, dottamente, della sua importanza poetica.
Io comincio col proclamare e predicare che questo è il primo monumento alla sua memoria. E dato che questo omaggio è un dovere per tutte le nazioni d'America, onore e amore a questa terra che lo rende prima di tutte le altre. Proclamo San Paolo del Brasile città benemerita in nome della poesia universale.
Federico Garcia Lorca fu l'uomo più allegro che abbia conosciuto nella mia ormai lunga vita. Irradiava la gioia di vedere, di udire, di cantare, di vivere. Per questo, stiamo attenti alla nostra cerimonia. Niente riti primari. Stiamo celebrando l'immortalità dell'allegria.
Quando guardo malinconicamente le fotografie di quel tempo, mi sorprende la sua gioventù, il suo volto quasi infantile. Era un bambino abbondante, la giovane sorgente di un fiume poderoso. Sciorinava l'immaginazione, conversava con illuminazioni, regalava la
musica, prodigava i suoi magici disegni, abbatteva i muri con le sue risate, improvvisava l'impossibile, faceva della monelleria un'opera d'arte. Non ho mai visto tanta attrazione e tanta costruzione in un essere umano. Quel gran burlone scrisse con la massima coscienza e se sfrenò la sua poesia da matto e con tenerezza, io so che era un saggio ancestrale, un erede della grazia e della grandezza dell'idioma spagnolo. Ma quello che mi sconvolge è pensare che era appena agli inizi, che non sappiamo dove sarebbe arrivato se il delitto non avesse schiacciato il suo magico destino. L’ultima volta che lo vidi, mi portò in un angolo e, come se mi confidasse un segreto, mi disse a memoria sei o sette sonetti che ancora persistono nel mio ricordo come sonetti esemplari, di un'incredibile bellezza. Era un libro intero che nessuno ancora conosce Lo intitolò Sonetos del amor oscuro. Era infaticabile nella creazione, nella sperimentazione, nell'elaborazione. Voglio dire che aveva nelle sue mani la sostanza e gli arnesi: era preparato a tutte le più grandi invenzioni, a tutte le distanze. Così, quindi, vedendo la bellezza che ci ha lasciato, pensando alla sua gioventù assassinata, penso con dolore alla bellezza che non è riuscito a darci.
Ci sono due Federico: quello della verità e quello della leggenda. E tutti e due fanno uno solo. Ci sono tre Federico, quello della poesia, quello della vita e quello della morte. E tutti e tre sono un solo essere. Ci sono cento Federico e cantano tutti quanti. Ci sono Federico in tutto il mondo. La poesia, la sua vita e la sua morte si sono sparse per la terra. Il suo canto e il suo sangue si moltiplicano in ogni essere umano. La sua breve vita cresce e cresce. Il suo cuore spezzato era pieno di semi: chi lo ha assassinato non sa che lo stava seminando, che avrebbe gettato radici, che avrebbe continuato a cantare e a fiorire dappertutto, in tutte le lingue, sempre più sonoro, sempre più vivente. Gli usurpatori che ancora governano la Spagna vogliono mascherare la sua morte terribile. La cronaca ufficiale lo descrive come un fait divers, (1) come una fatalità dei primi giorni sanguinosi. Ma non è così. Lo prova il fatto che un altro meraviglioso poeta, il giovane Miguel Hernández, fu detenuto fino alla morte nelle prigioni fasciste. Si è trattato di un'aggressione contro l'intelligenza, diretta e effettuata con spaventosa premeditazione. Un milione di morti, mezzo milione di esiliati. Il martirio del poeta fu un assalto dell'oscurità: volevano uccidere la luce della Spagna.
Il monumento di Flavio de Carvaiho, bello, misterioso e trasparente è un avvenimento delle nostre vite. Stiamo aspettando, però, il miglior monumento alla gloria di Federico Garcia Lorca: la liberazione della Spagna.

(1) Fatto di cronaca, non importante. In francese nell'originale [N.d.T.].

(Discorso pronunciato all'inaugurazione del monumento a memoria di Federico Garcia Lorca, Sào Paulo, nel 1968).


ADDIO A LENKA

« Mi son messo la cravatta nera per dirti addio, Lenka ».
«Che sciocco, toglitela».
« Abbiamo pianto la notte scorsa, ricordandoti, Lenka ».
« Che sciocchezzai Ricorda piuttosto quando ridevamo assieme ».
« Cosa posso dirti, Lenka! ».
« Raccontami una storia, e stai zitto ».
« Per sapere e raccontare, Lenka, ti racconterò che oggi la terra somiglia alla tua cara testa con oro disordinato e neve che ti minaccia. Tutto questo tempo in cui te ne andavi ogni giorno lavoravamo a Isla Negra, dove sei stata quasi sul punto di morire. È stato l'unico invito che non hai accettato. Il tuo posto era vuoto ».
Però mentre te ne andavi ti avvicinavi e ti allontanavi a forza di dolore, ogni onda s'infrangeva sulla sabbia col tuo nome. Era la tua vita che lottava e cantava. Ogni onda si spegneva con te e tornava a crescere. A fiorire e a morire. Ogni movimento fra la terra e il mare eri tu, Lenka, che venivi a trovarmi, eri tu, parlavi di nuovo, interminabilmente agitata dal vento del mondo. Eri tu che alla fine arrivavi dove aspettavamo, eri tu, cara errante, che vivevi e morivi sempre vicino e sempre lontano.
Pensare a te con tanta schiuma e cielo era dedicarti le cose più alte. E sorge il tuo ricordo, il tuo misterioso ritratto. La tua grandiosa intelligenza e i tuoi gesti accondiscendenti. Eri tanto lavoratrice, cara pigra. Eri così fragile e così forte. Eri essenza di donne e lezione per un milione di uomini.
Ricordo quando mi perseguitavano, a me e a tutto il popolo, e si viveva un carnevale di gente mascherata, tu sostenevi la purezza del tuo volto bianco, il tuo casco d'oro, tenendo alta la dignità della parola scritta. Altri falsi maestri indicavano come mastini la pista della mia poesia, compivano il loro destino di buffoni e di delatori, mentre tu incarnavi la trasparenza della verità, la tua verità senza illusioni ma senza tradimenti.
« Adesso stai esagerando, mi stai facendo un complimento, Pablo, ti riconosco ».
« Scusami, Lenka, se continuo ad essere troppo umano. Adesso sei ancora più bella, sei un'onda di cristallo con gli occhi azzurri, alta e splendente che forse non tornerà a ripetere la sua schiuma d'oro e di neve sulla nostra povera sabbia ».

(La giornalista Lenka Franulic morì a Santiago del Cile il 25 maggio del 1961).


ADDIO A ZOILO ESCOBAR

Ha cessato di battere il cuore più puro di Valparaíso. Come per tutti gli uomini, apriremo la terra che conserverà il suo corpo, ma questa terra sarà la terra che lui ha amato, terra delle colline del porto che lui cantò. Riposerà di fronte all'oceano le cui onde
e venti fecero palpitare la sua poesia, come le vele di una vecchia nave. Nessuna parola potrà coprire la sua mancanza e, forse in questo momento dovrebbe parlare per rendergli omaggio soltanto la voce del mare, del mare di Valparaiso.
Zoilo è stato un poeta del popolo, uscito dal popolo stesso e ha sempre conservato quella figura di bardo antico, di menestrello marino. Quell'allegria picaresca che brillava nei suoi occhi era una picardia da minatore, da pescatore. Le rughe del suo volto erano solchi della terra cilena, la sua poesia era una chitarra del Cile.
Due parole ricorreranno sempre quando si tratterà di ricordare questa vita. Queste parole sono la purezza e la povertà. Zoilo Escobar fu puro di solennità e povero con allegria. Ma in questo luogo dell'abbraccio finale dobbiamo chiarire che noi poeti non accetteremo che si voglia giocare con queste due parole, travisando la sua vita di sognatore. Molti vorranno confondere la sua purezza con Ia sua povertà per giustificare l’abbandono del popolo. Non vogliamo la povertà né per i poeti né per i popoli, e in questo Zoilo Escobar è stato come ogni vero poeta, un rivoluzionario: Fratello di Pezoa Véliz, la sua poesia si tinge di rosso all'inizio del secolo. Erano tempi anarchici in cui Baldomero Lillo creava il primo romanzo realista sociale del Continente. Zoilo Escobar accompagnò lìevoluzione del mondo e cantò col suo stile fiorito le vittorie del socialismo nel mondo nascente.
Che posto occuperà Zoilo Escobar nella permanenza letteraria del nostro paese? Domanda inutile alla quale nessuno può rispondere qui, alla quale nessuno deve rispondere, se non il vento dell'oceano. Non ha passato la sua vita a difendere a morsi il posto del suo nome nel Parnaso. In cambio, ci ha dato a tutti, fin da quando lo conoscemmo giovanissimi, una lezione quotidiana di fraternità, di amicizia, di amore per la vita, ci ha dato, cioè, una lunga lezione di poesia.
Questa insigne tenerezza sarà per me un perpetuo ricordo. Molti poeti che sono già scomparsi hanno goduto della bontà del nostro fratello maggiore, più antico nella bontà e nella poesia di tutti noi. Mi sentirei molto onorato se quelli che hanno taciuto per sempre parlassero con la mia voce per dirgli addio, ora che anche lui ha taciuto.
Gli porto da Isla Negra questi rami di gaggia. Sono fioriti al vento del mare, come i suoi sogni e la sua poesia.

(Il poeta Zoilo Escobar morì a Valparaiso, in Cile, nel 1963)


ALBERTO SÁNCHEZ OSSUTO E FERREO

La morte di Alberto Sánchez a Mosca non solo mi ha portato il dolore immediato di perdere un grande fratello, ma mi ha provocato una certa perplessità. Tutti, pensai, meno Alberto.
E la cosa si spiega con l'opera e la persona di chi è stato per me il più straordinario scultore del nostro tempo.
Poco dopo gli anni Venti, i primi venti del nostro secolo, Alberto comincia a produrre la sua scultura ferruginosa in pietra e ferro. Ma anche lui stesso, col suo lungo corpo magro e il suo volto asciutto su cui appariva l'ossatura audace e poderosa, era una scultura naturale di Castiglia. Da fuori questo grande Alberto Sánchez era intero e pietroso, ossuto e ferreo, come uno di quegli scheletri forgiati all'intemperie castigliana, tagliato a sole e freddo.
Per questo la sua morte mi parve contraria alle leggi di natura. Era uno di quei prodotti duri della terra, un uomo minerale, indurito fin dalla nascita dalla natura. Mi è sempre sembrato uno di quegli alberi altissimi della mia terra che si differenziano molto poco dal minerale andino. Era un albero Alberto Sánchez e in alto aveva uccelli e parafulmini, ali per volare e magnetismo tempestoso.
Questo non voleva dire che il nostro gigantesco scultore fosse un uomo monolitico, pietrificato di dentro. In gioventù faceva, di mestiere, l'operaio panettiere e, in realtà, aveva un cuore di pane, di farina di grano rumoroso. Non c’è dubbi0 che in molte delle sue sculture, come fece notare Picasso, si riconosceva il panettiere: allungava le masse e le torceva, dando loro un movimento, una forma, un ritmo di pane. Popolare come quelle figure che si fanno nei villaggi della Spagna a forma di animali e di uccelli. Ma non c'era
soltanto l'arte del panettiere nella sua opera. Quando vidi per la prima volta a casa di Rafael Alberti, nell'anno 1934, le sue sculture, capii che lì c'era un grande rivelatore della Spagna. Quelle opere di forma ardentemente libera recavano incrostati pezzi di ferro, ciottoli rugosi, ossa e chiodi che spuntavano sull'epidermide dei suoi strani animali. «Uccello di mia invenzione», ricordo che si chiamava uno dei suoi lavori. Luccicavano lì questi strani frammenti, come se fossero parte della pelle irsuta della pianura. L'argilla
o il cemento che formavano la sua opera erano rigati e incrociati da linee e solchi come seminati o facce di contadini. E così, a modo suo, col suo stile singolare e grandioso ci dava l'immagine della sua terra che amò, comprese ed espresse come nessun altro.
Alberto veniva molte volte a casa mia a Madrid, prima di sposarsi con l'ammirevole e cara Clara Sancha. Questo castigliano doveva sposarsi con una donna chiara e sancesca. Ed è stato così fin'ora, ora che Clarita è rimasta senza Alberto e senza Spagna.
A quell'epoca e a Madrid, Alberto fece la sua prima mostra. Soltanto un articolo compassionevole della critica ufficiale lo metteva nel retrobottega dell'incomprensione spagnola, nella quale, come in una bettola, si ammucchiavano tanti peccati. Per fortuna, Alberto aveva ferro e legno per sopportare quel disprezzo. Ma lo vidi impallidire e perfino piangere quando la borghesia di Madrid schernì la sua opera e arrivò perfino a sputare sulle sue sculture.
Quella sera venne a trovarmi al mio domicilio alla Casa de las Flores e mi trovò a letto, malato. Mi raccontò degli oltraggi che ogni giorno subiva la sua mostra. Il suo realismo fondamentale, che va più in là delle forme, la violenza della sua rivoluzione plastica, nella quale sembravano entrare a far parte tutti gli elementi, a cominciare dalla terra e dal fuoco, il colossale potere, il volo impressionante della sua concezione monumentale, tutto ciò lo portava verso una forma apparentemente astratta, ma che era fermamente reale. Le sue donne erano altre donne, le sue stelle, stelle differenti, i suoi uccelli erano inventati da lui. Ciascuna delle sue opere era un piccolo pianeta in cerca della sua orbita nello spazio illimitato del nostro pensiero e del nostro sentimento e che
entrava in essi risvegliando presenze sconosciute.
Creatore di favolosi oggetti che venivano formandosi misteriosamente, come la natura forma le vite, Alberto ci stava consegnando un mondo fatto dalle sue mani, mondo naturale e sovrannaturale che io non solo compresi, ma che mi aiutò a decifrare gli enigmi che ci circondano. Era naturale che la borghesia di Madrid reagisse violentemente contro di lui. Quella gente arretrata aveva codificato il realismo. La ripetizione di una forma, la brutta fotografia del sorriso e dei fiori, la limitazione ottusa che copia il tutto e i particolari, la morte dell'interpretazione, dell'immaginazione e della creazione erano il massimo cui era giunta la cultura ufficiale della Spagna di quegli anni. Era naturale che il fascismo nascesse da lì vicino, sbandierando anch'esso le sue oscure limitazioni e le sue cornici di ferro per sottomettere l'uomo.
Quella volta mi alzai dal mio letto di malato e corremmo alla sala deserta della mostra. Noi due soltanto, Alberto e io. La smontammo molti giorni prima della fine. Da lì ce ne andammo in una taverna a bere aspro vino di Valdepeñas. La guerra circolava ormai per le strade. Quel vino amaro venne interrotto da alcune esplosioni lontane. Ben presto arrivò la guerra intera e tutto fu esplosione.
Come contadino di Toledo, come panettiere e scultore, appena arrivò la guerra, Alberto diede tutto il suo sforzo e la sua passione alla battaglia antifascista. Chiamato dal suo grande amico, l'architetto Luis Lacasa, lo scultore Alberto con Picasso e Mirò forma
la trinità che decorò il padiglione della Spagna repubblicana nel 1937 a Parigi. In quella occasione vedemmo arrivare dalle mani di Picasso, appena uscita dal suo forno incessante, un'opera maestra della pittura universale, Guernica. Ma Picasso rimaneva a lungo distratto guardando all'entrata dell'esposizione una specie di obelisco, una presenza molto allungata, striata e rigata come un cactus della California e che nella sua verticalità mostrava il tema purificato che il nostro Alberto ha sempre perseguito: il volto rugoso e lunario di Castiglia. Quel don Chisciotte senza braccia e senza occhi era il ritratto della Spagna. Innalzato verticalmente verso la lotta con tutta la sua asciutta forza.
Poiché si era giocato la sua sorte con quella della sua patria, Alberto fu mandato in esilio e venne accolto a Mosca, e fino a questi giorni in cui ci ha lasciati, ha lavorato lì con silenziosa profondità.
Dapprima si immerse, durante l'amaro ultimo periodo di Stalin, nel realismo. Non era il realismo della moda sovietica, di quei giorni tormentati. Ma lui fece delle splendide scenografie. La sua presentazione del Balletto degli Uccelli è una grande opera, inuguagliata, dove egli trovò la magica bellezza dell'abbigliamento degli uccelli che tanto amò. Riuscì anche a consegnare al Teatro Gitano splendide visioni per le opere del teatro spagnolo. E quella voce che si sente nel film Don Quijote cantare alcune vecchie canzoni che danno una grande nobiltà a questo film straordinario, è la voce di Alberto, che continuerà a cantare lì per noi, è la voce del nostro Chisciotte che se n'è andato.
Dipinse anche molte opere. Non aveva mai dipinto all'olio in Spagna e imparò a Mosca a farlo per consumare il suo realismo. Si tratta di nature morte di grande purezza plastica, belle e asciutte di materia, tenere nella sua esaltazione degli umilissimi oggetti.
Quel realismo zurbaranesco in cui invece di pallidi frati Alberto dipinse con esaltazione mistica serti di aglio, vasi di legno, bottiglioni che brillano nella nostalgia della luce spagnola. Queste osterie raggiungono il vertice della pittura reale, cose che forse un giorno saranno ambite dal Museo del Prado.
Ma ho detto che quel periodo trovò Alberto appena arrivato a Mosca e accolto in piena fraternità e affetto. Da allora, amò appassionatamente l'Unione Sovietica. Lì visse le disgrazie della guerra e la felicità della vittoria. Eppure, come quei fiumi che si seppelliscono nella sabbia di un grande deserto per riemergere di nuovo e sfociare nell'oceano, soltanto dopo il XX Congresso, Alberto tornò alla sua vera, alla sua trascendente creazione.
Nel suo studio del quartiere dell'Università di Mosca, dove viveva felice questi ultimi anni, lavorando e cantando, rimangono molte opere e molti progetti suoi. Rappresentano il suo re-incontro con la propria verità e con il mondo che questo grande artista universale ha contribuito a creare. Un mondo in cui le materie più aspre si sollevano verso altezze infinite per arte di uno straordinario spirito inventore. Le opere di Alberto Sánchez, severe e grandiose, nate dall'intensa comunicazione fra un uomo e la sua patria creature dell'amore straordinario fra un grande essere umano e una terra possente, rimarranno nella storia della cultura come monumenti eretti da una vita che si è consumata nella ricerca dell'espressione più alta e più vera del nostro tempo.

(Lo scultore spagnolo Alberto Sánchez è morto a Mosca il 12 ottobre 1962)


LE RICAMATRICI DI ISLA NEGRA

A Isla Negra tutto è in fiore. Si trascinano durante l'inverno piccolissimi fiori gialli che diventano poi azzurri e più tardi, con la primavera, assumono un colore amaranto. Il mare fiorisce tutto l'anno. La sua rosa è bianca. I suoi petali sono stelle di sale.
In quest'ultimo inverno hanno cominciato a fiorire le ricamatrici di Isla Negra. Ciascuna di quelle case che conosco da vent'anni ha messo fuori un ricamo come un fiore. Queste case erano prima oscure e silenziose; d'un tratto, si sono riempite di fili colorati, di celeste innocenza, di profondità violetta, di rossa chiarezza. Le ricamatrici erano popolo puro e per questo hanno ricamato col colore del cuore. Si chiamano Mercedes, la moglie di José Luis, si chiamano Eufemia, si chiamano Edulia, Pura, Adela, Adelaida. Si chiamano come si chiama il popolo: come devono chiamarsi. Hanno nomi di fiori, se i fiori potessero scegliere i loro nomi. E loro ricamano coi loro nomi, con i colori puri della terra, col sole e con l'acqua, con la primavera.
Niente è più bello di questi ricami, insigni nella loro purezza, raggianti di un'allegria che ha superato molti patimenti.
Presento con orgoglio le ricamatrici di Isla Negra. Si spiega come la mia poesia abbia gettato qui le sue radici.
Si vedrà da queste opere del popolo, dalle mani lavoratrici delle sue donne, che qui tutto fiorisce.
Primavera di Isla Negra, salve!

(Settembre 1969).


MEMORIE AMABILI

Qui a Isla Negra o in case di Buenos Aires e di Totoral di Córdoba, ci siamo trovati molte volte assieme come si vedrà, con l'autore di questo libro. Di fronte al Grande Oceano o fra i cespugli argentini, la sua presenza ha significato per me una continua e
stimolante allegria. Il mio compiacimento per il suo umore selvatico si mutò in amicizia profonda e in ammirazione per le sue virtù. Umore e virtù si vedranno in queste pagine memorabili. Perché questo libro è il processo alla nostra epoca e a una società nel cui
attivo disordine partecipa nel bene e nel male.
« Non è un paese serio, il tuo paese », mi diceva Erenburg quando al suo arrivo all'aeroporto di Santiago del Cile la polizia gli sequestrò le sue carte: le parole crociate che stava risolvendo in aereo e una lista di piante cilene che avrebbe voluto portare al Giardino Botanico della sua patria. « Questo nome è senz'altro, il nome di un agente bolscevico », dicevamo gli sbirri pavoneggiandosi. Si trattava delle parole Lapageria Rosea, nome con cui un botanico francese battezzò il copihue, in onore dell'Imperatrice Josephine de Lapagerie. La polizia — e questo fa molto piacere — ignora i migliori misteri e, fra le altre cose, il bellissimo nome scientifico del fiore nazionale del Cile.
Si vedrà in queste pagine la mancanza di serietà di un lungo periodo civile argentino, che avrebbe potuto benissimo essere brasiliano, ecuatoriano o panamense. La narrazione non dà tregua, e nel racconto vediamo andare a braccetto l'eleganza e la crudeltà, la tenerezzadei solidali e la meraviglia di fronte a tante e inutili prepotenze. Il libro di Aráoz è anche la storia a vita dell’onore. Perché come il suo antenato dell’ultima pagina, non si arrese alle prigioni, né si fece comandare dalle minacce.
Attraversano queste memorie le raffiche fragranti dell'infanzia, le eresie della gioventù, le sue scorribande di argentino sfacciato per l'Europa che palpita fra i diluvi del sangue e poi le cacce ai maiali silvestri fra Ongamira de la Sierra e Tulumba, le sieste di Totoral accompagnate da un coro di giganteschi rospi.
Ma, incidenze e accidenze a parte, l'importanza di questo libro sta nel suo sovrano incanto, incanto che non si interrompe, acqua magica che scorre raccontando, filo che ci tesse la sua storia e la sua memoria. Io ho sempre incitato Rodolfo a scrivere, fin da quando ricevetti le sue prime lettere, vive e sarcastiche, di quelle lettere che ormai nessuno manda più perché lo stile epistolare è scomparso con il riposo che ci davano quei mobili di una volta, meditativi.
È certo che questi ricordi sono come lettere rivolte al tempo. E il tempo, ne sono sicuro, ne accuserà ricevuta. Il grappolo della sua uva ha un sapore acido e elettrico che persisterà. E saranno lette, forse e anche in seguito, come leggiamo i nostri gustosi classici, Sarmiento, Mansilla, Pérez Rosales, con malinconia e diletto, invidiando perfino i loro patimenti.

(Isla Negra, agosto 1967).

(Prefazione al libro El recuerdo y las cárceles. (Memorias ambles), di Rodolfo Aráoz Alfaro, pubblicato a Buenos Aires nel 1967).


QUALCHE PAROLA PER QUESTO RÍO

El Río non è esattamente un libro, né tanto meno un fiume. È un'escrescenza naturale, un fiotto di pus e di colori, la storia abominevole, scritta sulla materia umana, sulla pelle di uno dei miei popoli latinoamericani.
Io ho aperto gli occhi al mondo, come tutti i cileni, come Gómez Morel, davanti alle più elevate nevi del mondo. Le Ande, da Santiago del Cile sono una statua giacente che ci accompagna tutto l'anno: dal loro seno si staccano insondabili bufere di neve: la chioma del freddo scende dalle alture: un fiume è nato dal loro seno immobile: un fiume che attraversa vertiginosamente le vette e entra in città: l'attraversa per giungere al mare, per liberarsi.
Sotto uno dei ponti di quel fiume Mapocho (così lo chiamano araucani e conquistatori) vissero e soffrirono grappoli di bambini duri abituati al freddo, alla fame e alla più maligna innocenza.
Il cuore di Gómez Morel si determinò sotto uno di questi ponti da un grande abbandono che lo portò alcuni anni dopo, di delitto in delitto, fino alla prigione.
lo ho assistito, senza conoscere l'autore, alla nascita di queste pagine che un amico comune portava dentro e fuori dalla sua segreta. Pubblicato molti anni fa, senza nessuna pretesa scandalistica, il libro aveva un solo dovere essenziale per il suo autore: trascinare lontano, fino al mare, come quelle acque sporche, il danno che aveva sofferto e liberarsi nella sua lotta faccia a faccia contro se stesso. Il fiume provocò un grande brivido e l'uomo uscì di prigione legato al suo fiume.
Sono passati gli anni e questo classico della miseria è stato ristampato molte volte. Ma lo è stato sempre nella sua camicia spagnola e parlando non solo la lingua, ma anche l'amara verità che abbiamo dovuto condividere con orrore da quando abbiamo avuto coscienza dei destini umiliati, dell'ignominia che macchia le mani dell'America Latina. È la prima volta che tira fuori la testa al di là dei mari. Adesso si accinge a guardare gli eleganti europei negli occhi e a interrogarli inchiodandoli con uno sguardo implacabile. Non c'è esotismo ma sterco umano, come dice Gómez Morel, in queste pagine. Nel paese di Mallarmé, nel giardino di Ronsard (che è anche la terra di Zola), come verrà preso questo libro: con pietà, con furia con fastidio o con tenerezza?
Io spero che alla sua luce terribile si capiscano non soltanto la vita e le sofferenze di un uomo, ma anche la vita, la lotta e la speranza dei nostri popoli.
Il Cile stabilisce in questo continente, in modo difficile, attaccato da molti nemici, i nuovi fatti che contraddicono le realtà che il libro di Gómez Morel denuncia in modo così lacerante.
Attenzione.
Ascoltiamo: la barcarola più amara comincia qui. La cantano per voi un fiume amaro e un uomo che non si lasciò vincere né dal male né dalla sofferenza.

(Prefazione a un'edizione francese del libro El Río, dello scrittore cileno Alfredo Gómez Morel, gennaio 1973).


MIGUEL OTERO SILVA E I SUOI ROMANZI

Passai per Ortiz in una giornata infocata. Il sole venezuelano picchiava duro sulla terra. Vicino alla chiesa in rovina, avevano legato con un grosso fil di ferro la vecchia campana che tante volte avevano ascoltato i morti e i vivi, le cui vite e morti ci racconta Miguel Otero Silva. Non so perché la carta geografica portava ancora quel villaggio, quelle case morte. Un gran silenzio e il duro sole era tutto quello che esisteva. E la vecchia campana appesa al sole e al silenzio.
Non sono mai passato per Oficina N° 1, però sono sicuro che la vita indiavolata, il costante movimento, le forze che creano e che distruggono, la società umana che per la prima volta si riconosce e lotta, tutto ciò continuerà a vivere, come nel libro. Perché questo libro contiene, nella sua desolazione e nella sua vitalità, la realtà caotica del continente latinoamericano. E, naturalmente, è una fotografia straziante e poetica dello scheletro e dell'anima del Venezuela.
L'autore appartiene a una giovane generazione di venezuelani che, da quando son nati, hanno imparato a vivere agitati. Una grande ombra tirannica, una lenta e violenta egemonia del terrore scese dalle grandi montagne venezuelane e ricoprì perfino gli angoli più remoti; intere famiglie venivano trascinate in carcere. Le campagne e i villaggi erano decimati dalla malaria e dalla miseria. A Ortiz, fra le case morte di quel villaggio che agonizzava, si vedevano arrivare catene di prigionieri politici che attraversavano il silenzio per un’altra misteriosa destinazione, che era anche la direzione della morte.
Quello che Miguel Otero Silva non dice è che egli passò per quelle strade e attraversò quel silenzio maligno con le catene alle caviglie verso le prigioni di Gómez. Allora l'autore aveva 15 o 16 anni.
Quello che l'autore non dice è che lui, ormai maggiore d'età, intraprendente e appassionato, visse molte Oficinas N° 1, molti villaggi che nacquero dal petrolio, molti germogli e crescite della nostra impressionante vita di continente che continua a nascere.
Poeta popolare, cuore generoso, integrale patriota venezuelano, non c'è un combattimento di galli o un sindacato che non abbia visto la sua figura, non c'è una pista da ballo popolare che non l'abbia sostenuto mentre ballava, meglio di chiunque altro, il joropo (1) non c'è rinnovamento del suo paese né sogno di liberazione della sua patria che non sia stato in incubazione, che non sia cresciuto, in Otero Silva.
Per noi americani dell'Estremo Sud dell'America quieta e fredda, scossa soltanto da movimenti tellurici, il Venezuela è stato una pietra misteriosa, pietra che pesava sul cuore di tutti gli americani. Dopo quel tiranno che con quaranta anni di regno se ne andò tranquillamente alla tomba, lasciando le carceri ancora piene, accaddero cose inaspettate. Un nobile poeta, Andrés Eloy Bianco, un po' inebriato dall'inabituale aria di libertà, propose di raccogliere i ceppi e le catene che costituivano l'unica legge del tiranno delle Ande. E infatti, raccolsero quei ferri che tutti assieme facevano una montagna, e fra discorsi lirici, li buttarono in mare.
Quei giovani poco pratici della storia, quando vollero affogare nell'oblio le tonnellate del supplizio, credettero di seppellire i dolori del Venezuela. Ma non è stato così.
Col petrolio e gli stabilimenti nordamericani, non solo nacque la vita tumultuosa descritta in questo libro, ma una nuova casta di governanti: i betancures. (2) Questi applicarono al proprio paese i decreti delle compagnie petrolifere, si fecero strumenti della cupiigia straniera. Minacciarono, disprezzarono e spararono sulle masse che chiedevano nuovi diritti. E quando la stella di Cuba brillò come nessun'altra nel cielo tormentato dei Caraibi, i betancures si allearono con gli interessi del petrolio per bloccare e tradire la limpida rivoluzione dell'isola sorella.
Si vede che, invece di buttare a mare i ceppi, devono averli conservati come una montagna di ricordi, come monumento sempre presente.
L'autore di questo libro è, più che altro, un vero ed essenziale poeta. I suoi versi hanno percorso l'estensione della lingua spagnola e li ho sentiti recitare non solo negli atenei e nelle accademie, ma nelle grandi riunioni operaie, nelle giornate di lotta, nei giorni di allegria o nei pomeriggi di tenebre. La loro trasparente poesia dà loro un dominio che comprende tutto il regno degli esseri umani: nomina e descrive gli strani fiori e le piante del territorio venezuelano con la stessa chiarezza con cui definisce gli atti e le inclinazioni
della gente semplice e nascosta che ci va scoprendo.
Queste regioni e questi esseri stanno divisi implacabilmente fra l'agonia e la salute, fra il passato e la speranza, fra il male e la verità.
Potrebbe sembrare schematico, potrebbe sembrare una descrizione fatta di luci e di ombre, ma questa divisione esiste. Questa cicatrice segna in modo crudele il volto abbagliante e doloroso della repubblica venezuelana. E in questo libro si rivelano le origini di questi mali, con tenerezza, a volte, e con spieiata realtà, in altre occasioni.
Miguel Otero Silva ci sommerge nel suo mondo, mostrandoci la testa o la croce della terra drammatica.
P.S. - Abituato a una vita di compagni e alla profonda milizia dell'amicizia, sento la mancanza, d'un tratto, degli assenti. Non nell'insieme, non in quanto occupano dello spazio. No, bensì un tratto, qualcosa che è rimasto persistente nell'aria, nel vuoto dell'assenza.
Di Miguel Otero Silva sento a volte la mancanza e, con violenza, delle sue risate. Le due migliori risate d’America sono quelle del poeta andaluso Rafael Alberti, arguto esiliato, e quella di Miguel. Rafael va incubando la risata, la va suscitando finché, irresistibile, gli scuote tutto il corpo, compresa quella che prima era la sua riccioluta chioma. Miguel, invece, ride tutto in una volta, con una risata interiettiva che, salendo molto in alto, non perde la sua ampiezza e il suo tono rauco. È una risata che va di monte in monte sulle alture del suo Venezuela natale e di strada in strada quando insieme percorriamo l'esteso mondo. È un riso che proclama ai passanti il diritto alla grazia, alla libertà dell'allegria, anche nelle circostanze più complicate.
Su questo libro così serio, così bello e così rivelatore, vedo levarsi il riso di Miguel Otero Silva come se dalle sue pagine spiccasse il volo un uccello libero e alto.

(1) Ballo nazionale venezuelano [N.d.T.].
(2) Voluta deformazione del nome di un presidente venezuelano, Betancourt [N.d.T.].

(Prefazione all'edizione cecoslovacca dei romanzi Casus Muertas e Oficina N° 1 di Miguel Otero Silva, 1963).


LA FAMIGLIA REVUELTAS

Mi scrivono che José Revueltas, il romanziere, è in prigione nella sua patria, il Messico.
La notizia è aspra per chi lo conosce e in me suscita ricordi e tristezza.
Questa famiglia Revueltas ha l'«angelo». (1) In un paese di creazione perpetua, come il paese fratello, essi si sono rivelati eccellenti e superdotati. È una famiglia efficace nella musica, nella lingua, sulle scene. Succede come con i Parra del Cile, famiglia poetica e rappresentativa con talento ingranato o sgranato. (2)
Un pomeriggio, di ritorno dalle mie faccende, trovai uno sconosciuto seduto nella sala della mia casa, a Città del Messico. Non riuscivo a vedergli chiaramente la faccia perché si era messo uno dei miei cappelli di paglia, piccolo e colorato, comprato ad una fiera. Sotto le sue falde una chioma profusa e brizzolata proteggeva il suo robusto collo. Più sotto, venivano due spalle da colosso e un vestito disordinato. Vicino a lui c'erano diverse bottiglie del mio prezioso vino cileno, rigorosamente vuote.
Si trattava del più grande, più originale e potente compositore del Messico: Silvestre Revueltas.
Mi sedetti di fronte a lui e subito sollevò la sua testa di minotauro. Appena aprì gli occhi, mi disse:
« Portami un'altra bottiglia. Sono già diverse ore che ti aspetto. Mi è capitato di pensare questa mattina che potrei morire uno di questi giorni senza averti conosciuto. Per questo sono qui. Non sta bene che i fratelli non si conoscano ».
Era fantastico, pletorico e puerile. Era il gigante geniale della musica messicana.
Tre giorni e tre notti trascorse in casa mia. Io uscivo per le mie faccende e tornavo a ritrovarlo seduto che mi aspettava nella stessa poltrona.
Passammo in rassegna le nostre vite e le vite di altri. Parlavamo fino a notte inoltrata e poi lui si buttava su un letto vestito senza togliersi neppure le scarpe. Quando vedevo che si era addormentato, gli lasciavo un'altra bottiglia di vino, aperta, all'altezza
della sua immensa testa.
Così come era arrivato a casa mia, un giorno scomparve senza salutare e senza cerimonie. Se n'era andato a dirigere le prove del suo Renacuajo paseador (3) balletto classico della nostra epoca contemporanea.
Qualche tempo dopo, la sera della prima, io mi trovavo in un palco. Secondo il programma si avvicinava il momento in cui avrebbe dovuto presentarsi Silvestre a dirigere la sua opera. Ma quel momento non arrivò. Sentii che dall'ombra qualcuno mi toccava la
spalla. Guardai dietro di me. Suo fratello José Revueltas mi sussurrò:
« Vengo da casa. Silvestre è morto poco fa. Sei il primo a saperlo ».
Uscimmo per parlare. Mi raccontò che si era aggravato negli ultimi giorni e che poco prima di morire aveva chiesto che appendessero alla parete, di fronte al suo letto, il cappellino di paglia che si era portato via quella volta. Il giorno dopo lo seppellimmo. Io lessi il mio Oratorio menor, dedicato alla sua memoria. Mai un morto mi aveva ascoltato con più attenzione. Perché la mia poesia lo faceva uscire dalle circostanze e dal territorio per dargli la vera dimensione continentale che gli spettava.
Parlando dei Revueltas, racconterò che a Berlino mi invitò Helene Weigel, vedova di Bertolt Brecht, a una rappresentazione del Berliner Ensemble. Davano un’opera russa del secolo scorso, in tedesco, si capisce, con molte dame e cavalieri cacciatori in scena. La protagonista era bella, festeggiata, fatale e naturale. Guardai il programma. L'attrice era la sorella dei Revueltas, la messicana bruna Rosaura Revueltas. Eccola lì con il suo sguardo nero, che lanciava lampi e scintille e parlava in tedesco, in una capitale dell'Europa e al centro del gruppo teatrale più famoso del mondo.
Dopo la recita, le chiesi:
« Come hai fatto per sembrare cosi bianca in questo teatro di biondi? Ho pensato che ti saresti vista come una mosca nel latte. Ti hanno dipinta? ».
« No mi rispose, non puoi immaginare cos'è successo. Hanno dipinto di scuro gli altri ».
Però adesso, il nostro importante Revueltas è José. Contraddittorio, irsuto, inventivo, disperato e discolo, è José Revueltas: una sintesi dell'anima messicana. Ha, come la sua patria, un'orbita propria, libera e violenta. Ha lo spirito ribelle del Messico e una grandezza ereditata dalla famiglia.
Io provo un amore carnale per il Messico con gli alti e bassi della passione: bruciatura e estasi. Nulla di quanto vi succede mi lascia freddo. E spesso mi feriscono i suoi dolori, mi turbano i suoi errori, e condivido ognuna delle sue vittorie.
Si impara ad amare il Messico nella sua dolcezza e nella sua asperità, soffrendolo e cantandolo come ho fatto io, da vicino e da lontano.
Perciò, con la tranquillità che dà il diritto conquistato con amore, termino così questa prosa:

Signor presidente Díaz Ordaz:
Io chiedo la libertà di José Revueltas, fra le altre cose, perché sicuramente è innocente. Inoltre, perché ha la genialità dei Revueltas e anche, cosa molto importante, perché gli vogliamo molto bene.
(1) L’espressione sta ad indicare, in modo indefinito, ima persona attraente [N.d.T.].
(2) L’immagine che richiama i legumi — come i fagioli — chiusi nel loro baccello o, appunto, sgranati, indica potenzialità e realizzazione [N.d.T.].
(3) La famiglia delle rane a passeggio [N.d.T.].

(Lettera scritta al presidente del Messico, signor Díaz Ordaz, nel febbraio del 1969).


VENTURELLI RESUSCITATO E ATTIVO

Venturelli è mio amico da molti anni, anche se io ho superato i cinquanta e lui appena i trenta. Di persona è un ragazzo gigantesco. Non parla molto. Sorride con gli occhi e con le mani; i pittori hanno fatto sempre così. Noi, poeti, non sappiamo muovere le mani. Loro lasciano la frase interrotta, la prendono nell'aria, la modellano, la portano contro il muro, la dipingono.
Venturelli è stato molto tempo ammalato ai polmoni, lassù in alto, in un sanatorio dell'alta cordillera cilena. Quella era un'epoca piena di mistero. Il pittore stava morendo e quando ormai stavamo per seppellirlo non era più così. Ci arrivavano dozzine di meravigliosi dipinti, bozzetti illuminati pazientemente con i colori drammatici che soltanto Venturelli possiede: gialli insanguinati, ocra verdi.
Io andavo allora per le strade, per le miniere, per i fiumi, facendo guerra a un tirannello che infastidiva come una mosca il mio paese. Ogni tanto i suoi disegni e le mie poesie si incrociavano, quando scendevano dalle montagne coperte di neve o salivano dagli arcipelaghi botanici. E in questo incrocio di lampi sentii che i miei poemi si illuminavano e che al tempo stesso la mia poesia trasmigrava nella sua pittura.
Erano incontri di viandanti, di guerriglie. Tutti siamo viaggiatori e guerriglieri in questo territorio che ha dato la vita a Venturelli e a me. Il Cile, affilato come una spada, con la neve, la sabbia, con spaccature mortali di oceano e di montagne, ha una primavera
marina estesa e dorata e la miseria che latra di giorno e di notte vicino alle case dei poveri.
In questo modo, dunque, si scambiavano di passaggio le nostre ansie, le nostre singolari lampade, e lì nacque la nostra amicizia lavoratrice.
Poi io divenni più misterioso di Venturelli. Ripiegai gli intestini del mio popolo: la polizia mi cercava. Era la polizia di quella mosca, però, dato che non doveva trovarmi, cambiai di casa, di strada, di città. Cambiai di fumo. Cambiai di ombra.
Stavo scrivendo il Canto General. Però i fogli appena terminati potevano cadere nelle mani dei persecutori e per questo, appena uscivano dalle mie mani, correvano per misteriosi canali a essere copiati, a essere stampati.
Venturelli, resuscitato e attivo, diresse l'edizione clandestina e nei segreti «sotterranei della libertà», come direbbe Jorge Amado, si accumulavano migliaia di fogli che formarono a poco a poco il libro. A volte tutto stava per cadere nelle mani della mosca, i poliziotti interrogavano tutti, molte volte addirittura seduti sui bancali dei fogli del mio libro. Venturelli continuava a portare e a prendere cartelle, a correggere bozze, a ordinare i dispersi settori del libro, depositati in posti occulti, come chi compone i resti fossili di un animale preistorico.
Però nel corso di queste andate e venute di viandante e guerrigliero, Venturelli aggiunse alle mie poesie le sue stampe commoventi. Fece il ritratto del conquistatore con la croce e il coltello, il piccolo indio delle Ande, l'ussaro eroico, gli scioperanti mitragliati.
E dipinse anche le figure matte della mia poesia, l'anfora di creta con una farfalla, la statua nuda che volò su una prua.
Venturelli è grande, è infantile e drammatico come l’America. È terribile tutt'a un tratto. Non vede altro che il lutto e i corvi. È abbandonato. Guarda l'abisso e sta per morire. Stanno per morire i popoli, stiamo per cadere sotto il peso di tante crudeltà, non possiamo più resistere. Però, d'un tratto, Venturelli sorride. Tutto è cambiato. Le sue torturate figure sono state cancellate dalla maturità: l'azione è la madre della speranza.

(Scritto nel 1955).


NEMESIO ANTÚNEZ

Devo parlare geograficamente del pittore Nemesio Antúnez. La grande bellezza è un'esplorazione aerea, lunatica e terrestre. Soprattutto terrestre.
Se qualcuno arriva all'esteso e angusto recinto del Cile troverà nella sua prima estensione il Norte Grande, le regioni desertiche del salnitro, del rame: intemperie, silenzio e lotta. L'Estremo Sud della mia patria, le grandi latitudini fredde che saltano dal silenzio patagonico fino al Capo Horn mille volte sorvolato dall'albatros errante, e poi, la risplendente Antartide.
Nemesio Antúnez, pittore, è parte del nostro territorio, fra quegli estremi. Fra Tarapacà e Aysen situeremo il longitudinale Antúnez. Non così secco come terra salnitrale, né così freddo come il continente coperto di neve. Le isole, manifestazioni floreali, nella loro fecondità chiusa in se stessa corrispondono alla cintura centrale, dove si uniscono le uve cariche di zucchero con i pesci, i molluschi e i frutti salati della costa. Antúnez ha questa trasparenza lacustre, la fecondità di un mondo aurorale, trepidante di nascite, dove il polline, la frutta, gli uccelli e i vulcani convivono nella luce.
Non c'è disordine in questa creazione organica e neppure miseria rettilinea. Il colore è nato dalla profondità e poi si è acceso al suo stesso zenit trasformato dalle stagioni, vincolato alla mutevole natura. La sua staticità è soltanto la maschera dell'acqua profonda: una misteriosa forza circolatoria ha creato questa trasparenza.
Le terre Antúnez non sono spazi vuoti. Uomini e cose si sono integrati teneramente in questa continua esistenza e hanno vita, espressione, aroma propri incancellabili.
Nemesio Antúnez l'ho conosciuto verde, l'ho conosciuto quadrangolare, siamo stati grandi amici quando era azzurro. Quando lui era giallo io partii in viaggio, me lo ritrovai violetto, e ci abbracciammo vicino alla stazione Mapocho, nella città di Santiago; lì scorre un fiume delicato che viene dalle Ande, le strade verso la cordillera sostengono pietre colossali, trillano gli uccelli freddi del mezzogiorno d'inverno, d'un tratto c'è il fumo di boschi bruciati, il sole è un re scarlatto, un formaggio collerico, ci sono i cardi, il muschio, acque assordanti, e Nemesio Antúnez cileno è vestito con tutte queste cose, vestito di dentro e di fuori ha l'anima piena di cose sottili, di patria cristallina. È delicato nei suoi oggetti perché nelle campagne cilene si tesse fino, si canta fino, si impasta terra fina e al tempo stesso è impolverato dal polline e dalla neve di una torrenziale primavera, dell'alba andina.

(Scritto nel settembre del 1959).


PER UN GIOVANE GAGLIARDO

II giovane gagliardo che ho conosciuto nel 1934 vestito con una violenta camicia azzurra e con una cravatta come un papavero compie ora 70 anni senza che gli sia stato possibile invecchiare, anche se ha fatto di tutto per arrivare alla vecchiaia: non ha rifiutato
nessuna lotta, nessuna disciplina, nessun lavoro, nessuna allegria, nessun eccesso.
È stato generoso con la sua poesia e con la sua vita. Non lo ha sconfitto la sconfitta né l'esilio, non gli sono venute le rughe sul cuore quando si accollò, come un bardo antico, tutto il peso di un popolo, del suo popolo, nell'esodo.
Ebbe un sentimento magnanimo verso gli ingiusti e verso gli invidiosi e si mantenne come un'ape nell'aureo e terrestre via vai della sua poesia.
Quando sarà scritta la vera storia della Spagna, risponderà il suo profilo da medaglia. E si vedrà che questo volto dorato ha liberato la poesia ispanica: come una sorgente di luce, le diede la dimensione classica e popolare della sua allegria.
La città di Reggio Emilia lo festeggia in assenza dei popoli di Puerto de Santa María, Jerez, Madrid, della Spagna intera. Fanno bene i compagni italiani a circondare il compleanno di Rafael Alberti, del grande poeta, con l'alloro della terra italiana.

(Isla Negra, dicembre. 1972).




Quaderno 4
NAVIGARE NEL FUMO

CONDOTTA E POESIA

Quando il tempo ci va mangiando col suo quotidiano decisivo lampo e gli atteggiamenti fondati, le fiducie, la fede cieca si precipitano e l'elevazione del poeta
tende a cadere come la più triste madreperla sputata, ci chiediamo se è già giunta l'ora di avvilirci. La dolorosa ora di guardare come l'uomo si sostiene solo a forza di denti, di unghie, d'interessi. E come entrano nella casa della poesia i denti e le unghie e i rami del feroce albero dell'odio. È il potere dell'età o, forse, l'inerzia che fa retrocedere i frutti al bordo stesso del cuore, o forse l'« artistico » si impadronisce del poeta e invece del canto salubre che le onde profonde devono far venir fuori, vediamo ogni giorno il miserabile essere umano che ogni giorno difende il suo miserabile tesoro di persona preferita?
Ahimè, il tempo avanza con la cenere, con l'aria e con l'acqua! La pietra che ha morso la fanghiglia e l’angoscia fiorisce d'un tratto con fragore di mare, e la piccola rosa torna alla sua delicata tomba di corolla.
Il tempo lava e scioglie, ordina e continua.
E allora, cosa rimane delle piccole putritudini, delle piccole cospirazioni del silenzio, dei piccoli freddi sporchi dell’ostilità? Niente, nella casa della poesia non rimane niente se non quello che è stato scritto con sangue per essere ascoltato dal sangue.


I TEMI

Verso il cammino del notturno tende le dita la grave statua ferrea dalla statura implacabile. I canti inconsulti, le manifestazioni del cuore corrono con ansia al loro dominio: la poderosa stella polare, la violacciocca planetaria, le grandi ombre invadono l'azzurro. Lo spazio, la grandezza ferita si avvicinano. Non li frequentano i miserabili figli delle capacità e del tempo a tempo. Mentre la lucciola infinita riduce in polvere ardendo la sua coda fosforica, gli studenti della terra, i sicuri geografi, gli impresari si decidono a dormire. Gli avvocati, i destinatari.
Solo solamente qualche cacciatore imprigionato in mezzo ai boschi, curvo di alluminio celestiale, stellato da furiose stelle, solennemente solleva la mano guantata e si percuote il posto del cuore.
Il posto del cuore ci appartiene. Solo solamente da lì, con l'ausilio della nera notte, dell'autunno deserto, escono, ai colpi della mano, i canti del cuore.
Come lava o tenebre, come tremito bestiale, come scampanio senza rombo, la poesia mette le mani nella paura, nelle angosce, nelle malattie del cuore. Sempre esistono fuori le grandi decorazioni che impongono la solitudine e l'oblio: alberi, stelle. Il poeta vestito a lutto scrive trepidamente molto solitario.


G. A. B.
(1836-1936)

...lì cade la pioggia
con un suono eterno...

Quella mano di madreselva bruciando inonda il crepuscolo di fumo pieno di pioggia, di neve piena di pioggia, di fiori che la pioggia ha toccato.
Grande voce, dolce cuore ferito!
Quali rampicanti sviluppi, quali colombe di lutto celestiale volano dai tuoi capelli? Quali api con rugiada si stabiliscono nelle tue ultime sostanze?
Angelo d'oro, asfodelo cenerino!
Le vecchie cortine si sono dissanguate, il polso delle arpe si è fermato per un lungo tempo oscuro. I dolori dell'amore mettono ora falangi di collera e odio nel cuore. Ma le lacrime non si sono asciugate. Sotto i nomi, sotto i fatti scorre un fiume di acqua salata
sanguinosa.
Triste vestito, campana di fiori!
E sotto le cose si eleva la tua statua di ricami caduti, lavata da tanta pioggia e tante lacrime, la tua statua di fantasma dagli occhi mangiati dagli uccelli del mare, la tua statua di gelsomini cancellati dal fulmine.
Sole sfortunato, signore delle piogge!


SU UNA POESIA SENZA PUREZZA

È molto opportuno, in certe ore del giorno o della notte, osservare profondamente gli oggetti in riposo: le ruote che hanno percorso lunghe polverose distanze, sotto il peso di grandi carichi di vegetali o di minerali, i sacchi del carbonaio, i barili, le ceste, i manici e le assi degli attrezzi del falegname. Da essi emana il contatto dell'uomo e della terra come una lezione per il torturato poeta lirico. Le superfici lise, il consumo che le mani hanno inflitto alle cose, l'atmosfera a volte tragica e sempre patetica di questi oggetti, infonde una specie di attrazione da non disprezzale verso la realtà del mondo.
La confusa impurità degli esseri umani si percepisce in essi, il raccoglimento, l'uso e il disuso dei materiali, le tracce del piede e delle dita, la costanza di un'atmosfera umana che inonda le cose dall'interno e dall'esterno.
Così sia la poesia che cerchiamo, consumata come da un acido dai doveri della mano, penetrata dal sudore e dal fumo che sa di urina e di giglio, spruzzata dalle diverse professioni che si esercitano dentro e fuori della legge.
Una poesia impura come un vestito, come un corpo, con macchie di cibo, e atteggiamenti vergognosi, con rughe, osservazioni, sogni, veglie, profezie, dichiarazioni di amore e di odio, bestie, scossoni, idilli, credenze politiche, negazioni, dubbi, affermazioni, imposte.
La sacra legge del madrigale e i decreti del tatto, dell'olfatto, del gusto, della vista, dell'udito, il desiderio di giustizia, il desiderio sessuale, il rumore dell'oceano, senza escludere deliberatamente nulla, l’entrata nella profondità delle cose in un atto d'amore
strappato e il prodotto poesia macchiato da colombe digitali con tracce di denti e di ghiaccio e magari lievemente roso dal sudore e dall'uso. Fino a raggiungere quella dolce superficie dello strumento toccato senza sosta, quella dolcezza durissima del legno maneggiato, dell'orgoglioso ferro. Il fiore, il grano, l'acqua hanno anche quella consistenza speciale, quella risorsa di un magnifico tatto.
E non dimentichiamo mai la malinconia, il consumato sentimentalismo, perfetti frutti impuri della meravigliosa qualità dimenticata, lasciati dietro dal frenetico libresco: il chiar di luna, il cigno all'imbrunire, « cuore mio » sono senza dubbio il poetico elementare e indispensabile. Chi vuole sfuggire al cattivo gusto cade sul ghiaccio.

(Le quattro prose poetiche che precedono sono state pubblicate dalla rivista « Caballo Verde para la Poesia », in Spagna, nel 1935)


MI RIFIUTO DI MASTICARE TEORIE

Mi dice l'editore e amico Enio Silveira che a questo libro della mia poesia, tradotto generosamente da tre poeti fratelli del Brasile, devo aggiungere alcune parole di presentazione.
In questo caso, come quando uno si alza per educazione a brindare con i commensali di una lunga tavola, non so che dire né da dove cominciare. Ho ormai 53 anni e non ho mai saputo cos'è la poesia, né come definire ciò che non conosco. Non ho potuto
neppure consigliare nessuno su questa sostanza oscura e al tempo stesso abbagliante.
Da bambino e da grande sono andato molto di più per fiumi e uccelli che per biblioteche e scrittori.
Ho anche fatto mio il dovere antico dei poeti: la difesa del popolo, della povera gente sfruttata.
Questo è importante? Io credo che siano seduzioni comuni a tutti quelli che hanno scritto, scrivono e scriveranno poesia. L'amore, certo, ha a che vedere con tutto questo e deve mettere sul tavolo le sue carte di fuoco.
Comincio spesso a leggere disquisizioni sulla poesia, che non riesco mai a portare a termine. Una massa di persone eccessivamente illustri si è accinta ad offuscare la luce, a trasformare il pane in carbone, la parola in una morsa. Per separare il povero poeta dai suoi parenti poveri, dai suoi compagni di pianeta, gli dicono ogni sorta di ingannevoli bugie. « Tu sei un mago », gli ripetono, « sei una divinità oscurissima ». A volte, noi poeti crediamo queste cose e le ripetiamo come se ci avessero regalato un regno. In realtà, questi adulatori vogliono rubarci un regno pericoloso per loro: quello della comunicazione fra gli esseri umani.
Questo mistificare e mitificare la poesia produce un’abbondanza di trattati che non leggo e che detesto. Mi ricordano gli alimenti di certe tribù polari che alcuni masticano a lungo affinché altri li divorino. Io mi rifiuto di masticare teorie e invito chiunque a entrare con me in un bosco di roveri rossi nel sud del Cile dove ho cominciato ad amare la terra, in una fabbrica di calze, in una miniera di manganese (lì mi conoscono gli operai) o dovunque si possa mangiare del pesce fritto.
Non so se gli uomini debbano dividersi in naturali e artificiali, in realisti e illusionisti: credo che sia sufficiente mettere da una parte quelli che sono uomini e dall'altra quelli che non lo sono. Questi ultimi non hanno nulla a che vedere con la mia poesia, o per lo meno,
con i miei canti.
Vedo che ho parlato troppo e troppo poco, in piedi, all'estremità di questa tavola brasiliana, dove mi hanno chiesto di fare un brindisi dicendo qualche parola. Non mi sono rifiutato — rompendo il mio disgusto per le introduzioni e le dediche — perché si tratta del
Brasile, paese poetico, terrestre e profondo, che amo e che mi attira.
Io sono cresciuto nel Sud dell'America, sotto la pioggia fredda che per 13 mesi all'anno (dicono i cileni del Sud) cade su villaggi, montagne e strade, fino a bagnare gli arcipelaghi che si diramano nel Pacifico, superare le solitudini della Patagonia e congelarsi nell'Antartide pura.
Per questo, il raggiante Brasile, che come un'infinita farfalla verde chiude e apre le sue ali sulla carta dell’America, mi elettrizzò e mi lasciò a sognare, a cerare i segnali del suo magnetismo misterioso. Ma quando scoprii la sua gente dolce, il suo popolo fraterno e poderoso, il mio cuore si completò con una terra indelebile.
A questa terra e a questo popolo dedico con amore la mia poesia.

(Prefazione per un'edizione portoghese delle sue opere pubblicata nell'aprile dell'anno 1957)


QUESTO LIBRO ADOLESCENTE

Questo libro è stato scritto 36 anni fa (mi pare) e per quanto separato da esso da tante distanze, ho continuato ad essere avvolto da quella primavera marina che lo produsse, dall'atmosfera e dalle stelle di quei giorni e di quelle notti. Gli occhi di donna che
in questo libro si aprono sono stati chiusi dal tempo; le mani che in questo libro ardono, le labbra interrotte dal fuoco, i corpi di grano che si distesero in queste pagine, tutta quella vita, quella verità, quelle acque, entrarono nel grande fiume della vita, palpitante, sotterraneo, fatto di altre e di tutte le vite.
Però la nebbia, la costa, il tumultuoso mare del Sud del Cile, che qui in questo libro adolescente ha trovato la sua strada verso l'intimità della mia poesia, continuano a trapanare la mia memoria, frustandola con la loro schiuma gerarchica, con la loro geografia minacciante.
Io sono cresciuto e ho amato in quei paesaggi fluviali e oceanici, nella più spensierata gioventù.
Eppure, sul litorale freddo dei mari australi, lì a Puerto Saavedra o a Bajo Imperial, qualcosa mi aspettava.
Ancora bambino, vestito di nero, sfociai in piena estate in un cortile in cui tutti i papaveri del mondo crescevano in modo selvaggio. Prima avevo visto soltanto alcuni di essi, sangue o rubino fra i cereali. Qui a migliaia dondolavano i loro lunghi steli come delicati serpenti verticali. Ce n'erano di bianchi, nuziali e marini, come anemoni del mare che li chiamava una voce di toro nero, alcuni alla loro corolla aggiungevano un bordo purpureo come margini di una ferita, altri erano violacei o viola, gialli, corallini, striati, e perfino di quelli che non avevo mai visto prima, i papaveri neri, superstiziosi come apparizioni di quel cortile solitario, agli inizi dell'Antartide, che conservava nel suo dominio estremo anche l'ultimo papavero ghiacciato: il Polo Sud.
E tutto il porto avvolto nella fragranza lattiginosa velenosa di un milione di papaveri che mi aspettavano nel giardino segreto.
Il giardino dei Pacheco. I pescatori Pacheco, la barca abbandonata…
Perché lì andavano a scaricarsi le grandi tempeste del Pacifico meridionale. La popolazione, anni fa, viveva dei naufragi, e nel fondo dell'orto, fra l'immensità dei papaveri, una scialuppa di salvataggio di una nave morta. Lì, guardando verso l'alto il cielo di un
azzurro indurito dal vento freddo, persi molte volte la coscienza di me stesso: fermo, al centro di una spirale azzurra, sotto tutto il peso della verità nuda del cielo, si dibatteva la mia ragione e attorno a me si muovevano le onde del mare.
Queste poesie sono state scritte con aria, mare, spighe, stelle e amore, amore... Da allora vanno danzando in tondo e cantando... Il tempo le ha spogliate del loro primo vestito, il cataclisma del Cile, sospeso sempre come una spada di fuoco, si abbatté su Puerto Saavedra e annientò i miei ricordi. Entrò il mare che si ode in questo libro e la mareggiata travolse le case e i pini, I moli rimasero contorti e spezzati. Un'onda
gigantesca frustò i papaveri. Tutto è stato distrutto in quest'anno 1960.
Tutto... Che la mia poesia conservi nella sua coppa l’antica poesia assassinata.

Parigi, novembre 1960.

(Prefazione a un'edizione francese di Veinte poemas de amor, 1969)


SUMARÌO

È questo il primo passo indietro verso la mia propria distanza, verso la mia infanzia. È il primo ritorno alla foresta verso la fonte della vita, della mia vita. La strada è ormai caduta nell'oblio, non abbiamo lasciato tracce per ritornare e se tremarono le foglie quando passammo allora, adesso non tremano più né sibila il fulmine fatidico che cadde per distruggerci. Andare verso il ricordo quando questi son diventati fumo è come navigare nel fumo. E la mia infanzia vista da Valparaíso nel 1962, dopo aver tanto camminato, è solo pioggia e tanto fumo. Possono andare a cercarla quelli che mi amano: l'unica chiave sua è l'amore.
È. chiaro che queste raffiche disordinate nate al piede vulcanico di cordigliere, fiumi e arcipelaghi che a volte non hanno ancora avuto un nome avranno l'aspetto disordinato e le rughe ostili delle mie origini. Tale è il patrimonio degli americani come noi, siamo nati e cresciuti condizionati dalla natura che al tempo stesso ci nutriva e ci puniva. Sarà difficile cancellare questa lotta a morte quando la luce ci colpì con la sua scimitarra, la foresta ci incitò per farci andare fuori strada, la notte ci ferì col suo freddo stellato. Non avevamo a chi ricorrere. Non c'erano predecessori in quelle regioni: nessuno aveva lasciato per aiutarci qualche edificio sul territorio, né dimenticato le sue ossa i cimiteri che esistettero soltanto dopo: furono nostri i primi morti. Di buono ci fu che potemmo sognare all'aria libera che nessuno aveva respirato e così furono i nostri sogni, i primi della terra.
Ora questo ramo di ombra antartica deve essere ordinato nella bella tipografia e consegnare la sua asprezza a Tallone, rettore della suprema chiarezza, quella
dell'intendimento.
Non ho mai pensato, nelle solitudini che mi hanno originato, che avrei raggiunto un tale onore e consegno queste parziali pagine alla rettitudine del grande stampatore, come quando nella mia infanzia scoprii e aprii un alveare silvestre sulla montagna. Seppi allora
che il miele selvatico che profumava e volava sull'albero tormentato era stato collocato in cellette lineari, e così la segreta dolcezza era stata conservata e rivelata da una fragile e ferma geometria.

(Prefazione al libro Sumario, della casa editrice italiana A. Tallone, 1962)


UCCELLI, UCCELLINI...

Dalle nevi alla sabbia, passando per vulcani, spiagge, terre incolte, rocce, spighe di grano a perdita d'occhio, strade, onde, dappertutto uccelli. Uccelli, uccellini, uccellacci, uccellucoli, uccellardi! Immobili e in agguato; canori e fischianti, che splendevano al raggio
d'oro e si confondevano con cenere e crepuscolo. E che volavano! Volavano nella libertà dell'aria, rapidi come frecce o lenti come navi. Volavano con stile diverso dividendo il cielo o trapassandolo con coltelli o a volte, con la plenaria moltitudine della migrazione, riempiendo l'universo dell'immenso fluire dell'uccelleria. Mi fermai da bambino sugli argini del fiume araucano; l'acqua e i trilli mi avvolgevano. Il mio sangue raccolse come fosse una spugna canti e radici; più tardi bruciavano i boschi, foglia a foglia, il legno bruciato gemeva per l'ultima volta, diventando cenere senza piegarsi e il calore e l'odore dell'incendio entravano in ondate di furia nel mio sistema. Ma subito alla luce vegetale nasceva e becchettava di nuovo l'uccello falegname, i pesanti bandurrias (1) tuonavano di
nuovo fra i canelos (2) Tutto tornava a ricomporre il profondo aroma originale.
All'uscita dello Stretto di Magellano, imbarcato fra arcipelaghi di pietra e ghiaccio, mi seguì il grande albatros che con le sue ali quasi copriva il corpo stretto del Cile e danzava sospeso nell'aria. La massa dell'oceano sembrava petrolio, la pioggerellina bucherellava lo spumeggiante sale, si riempivano i monti di morte color cenere: l'unica cosa viva erano le più grandi ali del pianeta che praticavano il rito e l’ordine in mezzo a quelle agonie. Salvaci, albatro, con la tua ferocia nutritiva, con la tua volontà di volo! Salvaci dal deserto disperato, dal crepuscolo invasore, dall'oltraggio cosmico!
Infine, uomo retto ma senza fare, come si dev'essere e continuare, ricevetti la visita di minimi cantori, diucas e cardellini, fringilos, calandre, chincoles. (3) La loro professione consisteva nel lasciarsi cadere sul grano, sul vermiciattolo, sull'acqua e scatenarsi in trilli, in allegria, in delirio. Li presi molte volte in mano, mi beccarono, graffiarono, mi considerarono strana carne umana, osso sconosciuto e li lasciai andare, esalarsi, scappare violenti coi loro occhi intrepidi, mentre in mano mi rimane un sussurro di batter d'ali e un odore di creta e di polline.
Le loicas mi mostrarono la loro macchia militare, indicandomi lungo le strade la loro decorazione di sangue.
Tutto mi hanno insegnato i pajaros, pajariles, pajarucos, pajacielos, (4) ma non ho imparato né a volare né a cantare. Ma ho imparato ad amarli vagamente, senza rispetto nella familiarità dell'ignoranza, guardandoli dal basso in alto, orgoglioso della mia stupida
stabilità, mentre loro ridevano volando sulla mia testa. Allora per umiliarli ne ho inventati alcuni affinché volassero fra gli uccelli veri e mi rappresentassero in mezzo a loro.
Così ho compiuto la missione che mi ha portato a nascere nelle terre del Cile, la mia Patria. Questo piccolo libro fa parte della mia testimonianza. E se mi sono mancate, com'è naturale, più ali e migliori canti, gli uccelli mi difenderanno.

(1) Specie di trampolieri [N.d.T.].
(2) Albero del sud del Cile, sacro agli araucani [N.d.T.].
(3) Diucas, fringilos, chincoles : varietà di piccoli uccelli canori locali.
Loicas: uccello simile al pettirosso [N.d.T.].
(4) La radice comune è quella di paraios, cioè uccelli; su di essa si sbizzarrisce la fantasia del poeta a creare suoni diversi. Pajacelios: una sola parola che fonde gli uccelli col cielo. Al traduttore non resta che riportare l’originale [N.d.T.].

(Prefazione al suo libro Pajaros, gennaio 1963).


POETI DEI POPOLI

L'America del Sud è sempre stata terra di vasai. Un continente di anfore. Queste anfore che cantano le ha sempre fatte il popolo. Le ha fatte di fango e con le sue mani. Le ha fatte di argilla e con le sue mani. Le ha fatte di pietra e con le sue mani. Le ha fatte d'argento e con le sue mani.
Ho sempre voluto che nella poesia si vedano le mani dell'uomo. Ho sempre desiderato una poesia con le impronte digitali. Una poesia di creta affinché in essa
l'acqua canti. Una poesia di pane affinché la possano mangiare tutti.
Solo la poesia dei popoli sostenta questa memoria manuale.
Quando i poeti si rinchiusero nei laboratori, il popolo continuò a cantare col suo fango, con la sua terra, coi suoi fiumi, coi suoi minerali. Produsse fiori prodigiosi, sorprendenti epopee, accumulò opuscoletti, raccontò catastrofi. Celebrò gli eroi, difese i suoi diritti, incoronò i santi, pianse i suoi morti.
E tutto ciò fu fatto con le sole mani. Queste mani sono sempre state lente e sagge. Sono state cieche, ma hanno rotto la pietra. Sono state piccole, ma hanno tirato fuori i pesci dal mare. Sono state oscure, ma cercavano la luce.
Perciò questa poesia ha il particolare sortilegio di ciò che è stato creato fra le cose naturali. Questa poesia del popolo ha il sigillo di ciò che deve vivere esposto alle intemperie, sopportando la pioggia, il sole, la neve, il vento. È poesia che deve passare di mano in mano. È poesia che deve muoversi nell'aria come la bandiera. Poesia che è stata colpita, che non ha la simmetria greca dei volti perfetti. Reca cicatrici sul suo volto allegro e amaro.
Io non do un alloro a questi poeti del popolo. Sono loro che regalano a me la forza e l'innocenza che deve nutrire qualsiasi poesia. Sono loro che mi fanno toccare la loro nobiltà materiale, la loro superficie di cuoio, di foglie verdi, di allegria.
Sono loro, i poeti popolari, gli oscuri poeti, quelli che mi indicano la luce.

(Prefazione al libro La Lira Popular, pubblicato a Santiago del Cile il 6 marzo 1966).


UN « BANDITO » CILENO

Ho la mania di non rispondere quando mi si chiede a quale libro sto lavorando o quali sono i miei progetti per il futuro. L'esperienza m'insegna che quando si parla molto di qualcosa prima di farla si corre per lo meno un rischio grave: quello di non farla.
Quando ero un poeta molto giovane (avevo appena sedici anni) trovai un bellissimo titolo per un poema che annunciai a dritta e a manca. Quel titolo fu molto applaudito dai miei compagni di poesia. Subito lo diedero per fatto. Poi si congratulavano per il mio grande successo. Io mi abituai a ricevere quegli elogi. Che necessità c'era, dunque, di scrivere quei versi? E lì è rimasto quel titolo solitario, senza neppure un verso scritto sotto, per quarantasei anni di seguito.
Tutto questo per dire che adesso sì posso parlare di quello che sono andato facendo in questi mesi d’estate sulla costa del Cile. Posso parlarne perché è già cosa fatta. È un lungo poema. Questa volta ho tutti i versi e quello che mi manca è il titolo.
Si tratta di una storia romantica e di colore brillante, anche se poi tutto finisce nell'oscuro colore o lutto.
Succede che quando si propalò nel mondo la notizia dell'oro in California una moltitudine di cileni si trasferì in California in cerca dell'oro. Partivano da Valparaíso, che era allora il porto più importante del Pacifico Sud. Erano minatori, contadini, pescatori, avventurieri. Sentirono l'attrazione violenta di quella abbagliante avventura. Si erano abituati a vincere le difficoltà di una terra povera e aspra.
La cosa curiosa è che questi cileni arrivarono prima dei nordamericani sul posto dell'oro. Sembra strano, ma gli yankees dovevano attraversare il continente su lente carrette. I cileni, sulle loro barche a vela, arriyarono prima.
Con loro arrivò il famoso Joaquin Murieta, il più famoso dei banditi cileni. Ma fu semplicemente un bandito, un fuorilegge?
Questo è il motivo del mio poema.
Murieta fu fortunato. Trovò l'oro, si sposò con una compatriota e mentre continuava a cercare con duro sforzo nuovi giacimenti sopraggiunse la tragedia che cambiò la sua vita.
Messicani, cileni, centroamencani, vivevano nei quartieri poveri dei centri che si svilupparono come funghi vicino a San Francisco. Lì si sentiva di notte la palpitazione delle chitarre e le canzoni del continente bruno.
Ben presto quest'abbondanza di stranieri, di oro, di canzoni e di allegria fece sorgere la violenza. I nordamericani formarono delle squadre di guardie bianche che si scagliavano di notte su queste abitazioni, incendiando, distruggendo, uccidendo.
L'idea del Ku Klux Klan nacque senz'altro lì. Perché lo stesso frenetico razzismo che li distingue ancora oggi l'avevano quei primi crociati yankee che volevano ripulire la California dai latinoamericani e anche, logicamente, metter mano sui loro averi. In una
di queste razzie fu assassinata la moglie di Joaquin Murieta.
II cileno si trovava lontano da lì e quando ritornò giurò di vendicarsi.
Da quel momento le umiliazioni e gli assalti delle squadre razziste non rimasero impunti.
Di notte, la banda dei vendicatori usciva a caccia di nordamericani e questi caddero sgranati ogni volta che si incontrarono con Murieta e i suoi uomini.
Per più di un anno questa guerriglia segreta combatté come poté, e, secondo la leggenda dei banditi generosi, rubò al ricco per dare al povero, cioè, restituiva agli svaligiati quello che gli avevano portato via gli svaligiatori.
Joaquin Murieta morì a modo suo. Cadde in una scaramuccia, crlvellato di colpi. La sua testa mozza fu esibita alla fiera di San Francisco e si arricchirono gli impresari che facevano pagare per vedere quel triste trofeo.
Però Murieta, o meglio la testa di Murieta, acquistò una nuova vita. Divenne una leggenda che ancora percorre, a cento anni di distanza, la memoria di tutti i popoli che parlano spagnolo. Molti libri, molte canzoni, molte poesie popolari, conservano vivo il suo ricordo. I nordamericani gli dettero il titolo di bandito. Però la parola bandito si nobilitò nel ricordo popolare e venne pronunciata, quando si trattava di lui. con rispetto.
Il luogo della sua nascita se lo disputano Messico e Cile, anche se io lo do per cileno. Nella nebbia della leggenda favolosa gli argomenti vanno e vengono, ma Murieta era cileno.
Mi è piaciuto questo tema per i contrasti di razze e per quel cumulo di cupidigia e di sangue che circonda la verità o la leggenda.
Per questo ho dedicato con allegria molte ore di quest'estate a ricordare questa strana vita e a cantare questi avvenimenti lontani nel tempo.


PERCHÉ JOAQUIN MURIETA?

Ho scritto un libro grande con versi, l'ho chiamato La Barcarola, ed era come una cantilena, io beccavo qui e là nei materiali di cui dispongo e questi sono a volte acque o grani, a volte semplici sabbie, petraie o dirupi duri e precisi, e sempre il mare coi suoi silenzi e i suoi tuoni, eternità di cui dispongo qui vicino alla mia finestra e attorno alla mia carta, e in questo libro ci sono episodi che non solo cantano, bensì contano, perché una volta era così, la poesia cantava e contava, e io sono così, di un tempo, e non ho rimedio. Bene! Quel giorno beccai il passato, uscì polvere come di terremoto, volò via la polvere e apparve un episodio con un cavallo e col suo cavaliere e questi si mise a galoppare per i miei versi che adesso sono ampi come strade maestre, come piste, e io corsi dietro ai miei versi e trovai l'oro, l'oro della California, cileni che lavano la sabbia, i bastimenti pieni da Valparaíso, la cupidigia, la turbolenza, le fondazioni e questo cileno vendicativo e vendicatore, scapestrato e sonoro, allora mi disse mia moglie, Matilde Urrutia: ma sì questo è teatro. Teatro?, le risposi, e io non lo sapevo, però eccolo a voi, con libro e scenario torna Murieta, si raccontano le sue ribellioni, e le imprese di cileni agresti che, vagabondi, si slanciarono verso l’oro, tirarono la cinghia mettendosi a lavorare in quante cose e cosette poterono, per poi ricevere la ricompensa dei gringos: (1) la corda, la pallottola e nel migliore dei casi il calcio in testa, ma non soffrite perché inoltre c'è l’amore, con versi che hanno le rime come nei miei tempi migliori e ce n'è un bel i po’, perfino cuecas (2) con musica di Sergio Ortega, e poi Pedro Orthous, famoso regista, ci ha messo lo zampio e qui tagliava e lì mi chiedeva di cambiare, e se protestavo, appresi che così faceva con Lope de Vega e con Shakespeare, ci mette le forbici, li modifica per voi, e io sono soltanto un apprendista teatrale e ho accettato perché tornasse Murieta, affinchè Murieta volasse, come nei sogni, a cavallo e con una bandierina cilena, evviva il Cile bellezza-mia! e che voli con cavallo e tutto come una meteora che ritorna alla sua terra perchè io lo chiamai, lo cercai fra i materiali, scavando nei miei lavori giorno per giorno, di fronte al mare oceano, e tutt'a un tratto saltò fuori il bandolero e lanciava scintille di fuoco la sua cavalcatura nella notte della California, gli dissi, affacciati, avvicinati e lo feci passare per la strada del mio libro affinchè galoppasse con la sua vita e il suo dramma, il suo fulgore e la sua morte, come un sogno crudele, e questo è tutto, questo è il mio sogno e il mio canto.

(1) Pare che questo terminedi uso internazionale per indicare in senso spregiativo i nordamericani sia composto da green, verde, colore dell’uniforme dei soldati yankee impiegati nello smembramento del Messico e, go, andatevene. Ai messicani, il merito di averlo inventato [N.d.T.].
(2) Ballo nazionale cileno [N.d.T.].

(Questo articolo, come il precedente, sono scritti nel 1966 a proposito della sua opera di teatro Fulgor y muerte de Joaquin Murieta).


ANCORA UNA VOLTA A TEMUCO

Sono arrivato ancora una volta a Temuco. La città è talmente cambiata che è come se l'altra se ne fosse andata. Le case di legno color inverno si sono trasformate in grandi case di tristissimo cemento. C'è più gente per le strade, meno cavalli e meno carretti si
fermano alla porta del negozio del ferramenta. Questa era l'unica città del Cile con araucani per la strada. Sono contento che continui ad esserlo. Le donne indie coi loro mantelli viola. Gli indios coi loro ponchos neri sui quali una strana greca bianca si ripete come un fulmine. Prima venivano solo a comprare e a vendere le loro piccole mercanzie: tessuti, uova, galline. Adesso c'è qualcosa di nuovo. Racconterò la mia sorpresa.
Venne tutto il popolo allo stadio ad ascoltare la mia poesia. Era una mattina di domenica e la grande sala stracolma si sentiva vibrare di grida e risate di bambini. I bambini sono i grandi interruttori e non c'è poesia che resista al grido di un bambino che ricorda a quell’ora la sua colazione. Io salii sul palco mentre il pubblico mi salutava e sentii quella vaga inclinazione a Erode, che può attaccare l'essere più paterno. Allora ascoltai che si faceva silenzio e dentro questo silenzio udii elevarsi la più strana, la più primordiale, la più antica musica del pianeta. Proveniva da un gruppo in fond0 al locale.
Erano gli araucani che suonavano i loro strumenti e cantavano per me le loro dolorose melodie. Mai nella storia si era prodotta una cosa del genere, che i miei ritrosi compatrioti partecipassero con la loro arte rituale a una cerimonia poetica e politica. Non avrei mai creduto che avrei avuto la fortuna di assistervi e che questa azione comunicativa fosse diretta a me. Ero ancora più commosso. Gli occhi mi si appannarono, mentre i loro vecchi tamburi di cuoio e i loro flauti giganteschi suonavano in una scala anteriore a ogni musica. Sorda e acuta al tempo stesso; monotona e straziante. Era come la voce della pioggia combattuta dal vento, o il gemito di un animale antico, martirizzato sotto la terra.
Questo per dire come l'Araucania, o quel che rimane di essa, si commuove, sembra uscire dal suo sonno immemorabile e vuole prender parte al mondo che fino ad ora le è stato negato.


LA COPPA DI SANGUE

Quando remotamente ritorno e nello straordinario azzardo dei treni, come gli antenati sulle cavalcature, mi trovo profondamente addormentato e avvolto nelle mie esclusive proprietà, vedo attraverso il nero degli anni, attraversando tutto come un rampicante coperto di neve, un patriottico sentimento, un barbaro vento tricolore nella mia investitura: appartengo a un pezzo di povera terra australe verso l'Araucania, son venuti
i miei atti dai più distanti orologi, come se quella terra boscosa e perpetuamente in pioggia avesse un segreto mio che non conosco, che non conosco e che non devo sapere, e che cerco, perdutamente, ciecamente, esaminando lunghi fiumi, vegetazioni inconcepibili, mucchi di legna, mari del sud, sprofondandomi nella botanica e nella pioggia senza arrivare a quella privilegiata schiuma che le onde depositano e rompono, senza arrivare a quel metro di terra speciale, senza toccare la mia vera sabbia. Allora, mentre il treno not-
turno tocca dolentemente stazioni legnifere o carbonifere come se in mezzo al mare della notte si scuotesse contro la massicciata, mi sento rimpicciolito e scolaro, bambino nel freddo della zona sud, con le scuole ai bordi del villaggio, e contro il cuore le grandi, umide boscaglie del sud del mondo. Entro in un cortile, pesantemente vestito di nero, ho una cravatta da poeta, i miei zii stanno lì tutti riuniti, sono tutti immensi, sotto l'alnero chitarre e coltelli, canti che rapidamente spezza l’aspro vino. E allora aprono la gola di un agnello palpitante e una coppa ardente di sangue mi portano alla bocca, fra spari e canti, e mi sento agonizzante come l’agnello e voglio anche arrivare ad essere centauro e pallido, indeciso, perso in mezzo alla solitaria infanzia, sollevo e bevo la coppa di sangue.
Poco tempo fa è morto mio padre, avvenimento strettamente laico, eppure, qualcosa di religiosamente funebre è accaduto nella sua tomba, e questo è il momento di rivelarlo. Alcune settimane dopo, mia madre, secondo il quotidiano e temibile linguaggio, venne a mancare anche lei e affinché riposassero insieme abbiamo cambiato loculo al signore morto. Andammo a mezzogiorno con mio fratello e alcuni ferrovieri amici del defunto, facemmo aprire il loculo già sigillato e cementato, estraemmo l'urna, ma già piena di funghi, e su di essa una palma con fiori neri ed estinti: l'umidità della zona aveva spaccato la cassa e, mentre lo mettevamo giù da dove stava, senza credere a quello che vedevo, ecco venir giù da essa quantità d'acqua, quantità come interminabili litri che cadevano da dentro a lui, dalla sua sostanza.
Ma tutto si spiega: quest'acqua tragica era pioggia, pioggia magari di un solo giorno, forse di una sola ora del nostro inverno australe, e questa pioggia aveva attraversato tetti e balaustre, mattoni e altri materiali e altri morti fino ad arrivare alla tomba del mio congiunto. Ebbene, quest'acqua terribile, quest'acqua uscita da un impossibile insondabile, straordinario nascondiglio, per mostrare a me il suo torrenziale segreto,
quest'acqua originale e temibile mi avvertiva un'altra volta col suo misterioso spargimento la mia connessione interminabile con una determinata vita, regione e morte.

(1943).


L'ODORE DEL RITORNO

La mia casa è profonda e ramosa. Ha angoli nei quali dopo tanta assenza, mi piace perdermi e assaporare il ritorno. Nel giardino sono cresciuti cespugli misteriosi e fragranze che non conoscevo. Il pioppo che piantai in fondo e che era snello e quasi invisibile è ora adulto. La sua corteccia ha rughe di sapienza che salgono al cielo e si esprimono in un tremore continuo di foglie nuove su in alto.
I castani sono stati gli ultimi a riconoscermi. Quando arrivai, apparivano impenetrabili e ostili coi loro rami nudi e secchi, alti e ciechi, mentre attorno ai loro tronchi germogliava la penetrante primavera del Cile. Sono andato a trovarli ogni giorno, poiché mi rendevo conto che avevano bisogno del mio saluto, e nel freddo del mattino rimanevo immobile sotto i rami senza foglie finché un giorno, una timida gemma verde, molto lontano in alto, uscì a guardarmi e poi vennero le altre. Così fu trasmessa la mia apparizione alle sfiduciate foglie nascoste del castagno più grande che adesso mi salutano gorgogliando benché siano abituate al mio ritorno.
Sugli alberi gli uccelli rinnovano i trilli antichi coMe se nulla tosse accaduto sotto le foglie.
La biblioteca mi riserva un odore profondo di inverno e di fini. Fra tutte le cose è quella che si è più impregnata di assenza.
Questo aroma di libri chiusi ha qualcosa di mortale che va dritto alle narici e gli anditi dell'anima perché è un odore di oblio, di ricordo sepolto.
Accanto alla vecchia finestra, di fronte al cielo andino bianco e azzurro, dietro di me, sento l'aroma della primavera che lotta con i libri. Questi non vogliono staccarsi dal lungo abbandono, esalano ancora raffiche di oblio. La primavera entra nei locali vestita a
nuovo e profumata di madreselva.
I libri si sono dispersi localmente in mia assenza. Non è che ne manchino bensì che han cambiato di posto. Vicino a un tomo dell'austero Bacon, vecchia edizione del secolo XVII, trovo La Capitana de Jucatan, di Salgari, e non si sono comportati male, nonostante tutto. Invece, un Byron sciolto, nel sollevarlo, lascia cadere la sua copertina come un'ala oscura di albatros. Ricucio a fatica costa e copertina, non senza prima ricevere un alito di freddo romanticismo.
Le conchiglie sono i più silenziosi abitanti della mia casa. Tutti gli anni dell'oceano sono passati prima e hanno indurito il loro silenzio. Ora, questi anni hanno aggiunto tempo e polvere. Eppure, i loro freddi baleni di madreperla, le loro concentriche ellissi gotiche e le loro valve aperte, mi ricordano coste e avvenimenti lontani. Questa inestimabile lancia di luce rosea è la Rostellaria, che il malacologo di Cuba, mago della profondità, Carlos de la Torre, mi concesse una volta, come una decorazione sottomarina. Ecco qui, un po' scolorita e impolverata la « oliva » nera dei mari della California e, della stessa provenienza, l'ostrica dalle spine rosse e quella dalle perle nere. Lì quasi naufraghiamo in quel mare dai tanti tesori.
Ci sono abitanti nuovi, libri e cose che escono da casse rimaste a lungo chiuse. Queste di pino vengono dalla Francia. Le loro assi hanno l'odore del Mezzogiorno, e, quando le sollevo, scricchiolano e cantano, mostrando un interno di luce dorata da dove escono le copertine rosse di Victor Hugo. I miserabili, nella loro antica edizione, arrivano a popolare con molteplici e strazianti esistenze i muri della mia casa.
Però da questo lungo cassone simile a una cassa da morto esce un dolce volto di donna, alti seni di legno che tagliarono il vento, certe mani impregnate di musica e di salsedine. È una figura di donna, una polena di prua. La battezzo « Maria Celeste » perchè porta il mistero di un'imbarcazione perduta. Trovai la sua raggiante bellezza in un bric-à-brac di Parigi, sepolta sotto la ferraglia in disuso, sfigurata dall’abbandono, nascosta sotto i cenci sepolcrali del quartiere. Adesso, situata in alto naviga di nuovo viva e fresca. Ogni mattina le sue guance saranno ricoperte da una misteriosa rugiada o da lacrime marine.
Le rose fioriscono precipitosamente. Io prima ero Nemico della rosa delle sue interminabili aderenze letterarie, del suo orgoglio. Però vedendola crescere e reesistere all’inverno senza vestiti né cappelli, quando spuntano i suoi capezzoli coperti di neve o i suoi fuochi color dello zolfo fra i tronchi duri e spinosi, sono stato preso poco a poco da intenerimento, da ammirazione per la sua salute da cavallo, per la sfrontata onda segreta di profumo e di luce che estraggono implacabilmente dalla terra nera, all'ora dovuta, come miracoli del dovere, come esercizi esatti di amore per le intemperie. E adesso, le rose si levano in tutti gli angoli con una serietà commovente che ricambio, lontani, loro e io, dalla pompa e dalla frivolezza, ciascuno impegnato a lavorare al proprio personale splendore.
Ma da tutti gli strati dell'aria giunge un dolce e trepidante andirivieni, una palpitazione di fiore che entra nel cuore. Sono nomi e primavere andate e mani che appena si toccarono e alteri occhi di pietra gialla e trecce perdute nel tempo: la gioventù che batte coi suoi ricordi e il suo più affascinante aroma.
È il profumo della madreselva, sono i primi baci della primavera.

(Pubblicato sul periodico messicano « Novedades », nel 1952).


ANDIAMOCENE IN PARAGUAY

Vivo dietro a Notre Dame, vicino alla Senna. Le barche che trasportano la sabbia, i rimorchiatori i convogli carichi passano, lenti come cetacei fluviali, di fronte alla mia finestra.
La Cattedrale è una barca più grande che eleva come un albero maestro la sua freccia di pietra ricamata. E la mattina mi affaccio a vedere se c'è ancora, vicino al fiume, la nave cattedralizia, se i suoi marinai tagliati nell'antico granito non han dato l'ordine, quando le tenebre coprono il mondo, di salpare, di andarsene a navigare per i mari. Io voglio che mi porti con sé. Mi piacerebbe entrare per il Rio delle Amazzoni su questa imbarcazione gigante, vagare per gli estuari, indagare gli affluenti, e rimanere a un tratto
in qualche punto dell'America amata finché le liane selvatiche fanno un nuovo manto verde sulla vecchia cattedrale e gli uccelli azzurri le danno un nuovo splendore di vetrate.
Oppure, lasciarla all'ancora sugli arenili della osta del sud, vicino ad Antofagasta, vicino alle isole del guano, dove lo sterco dei cormorani ha imbiancato le cime: come la neve ha lasciato nude le figure di prua della nave gotica. Come starebbe, imponente e naturale, la chiesa, come un'altra pietra fra le rocce impervie, flagellata dalla furiosa spuma oceanica, solenne e sola sull'interminabile sabbia.
Io non sono di queste terre, di questi boulevards. Io non appartengo a queste piante, a queste acque. A me questi uccelli non parlano.
Io voglio entrare per il fiume Dulce, navigare tutto il giorno fra le ramaglie, spaventare gli aironi perché sollevino il loro repentino lampo di neve. E voglio in questo momento andare a cavallo, fischiando, verso Puerto Natales in Patagonia. Alla mia sinistra passa un fiume di pecore, ettari di lana riccia che avanzano lentamente verso la morte, alla mia destra pali bruciati, prateria, odore di erba libera.
Dove va Santocristo? Il Venezuela mi chiama, il Venezuela è una fiamma, il Venezuela sta bruciando. Io bob vedo le nebbie questo grande autunno, non vedo
Le foglie rossicce. Dietro a Parigi, come la lanterna di un faro, dalla luce moltiplicata, arde il Venezuela. Nessuno vede questa luce per le strade, tutti vedono edifici, porte e finestre, persone che hanno fretta, sguardi che accecano. Tutti vanno sommersi nel grande autunno. Non io.
Io dietro a tutto vedo il Venezuela come se dietro alla mia unica finestra si dibattesse con tutta la forza del fuoco una grande farfalla. Dove mi porti? Voglio entrare in quella tela di mercato del Messico, del mercato senza nome, del mercato numero mille. Voglio avere quel colore bruciato, voglio essere tessuto e sfilato, voglio che la mia poesia penda dagli alberi del popolo, come una bandiera, e che ogni verso abbia un peso tessile, difenda i fianchi della madre, copra il crine del contadino.
Io non conosco il Paraguay. Come ci sono uomini che hanno brividi di delizia al pensiero che non hanno letto un certo libro di Dumas o di Kafka o di Laforgue, perché sanno che un giorno o l'altro lo avranno nelle loro mani, apriranno una ad una le sue pagine e da esse uscirà la frescura o la fatica, la tristezza o la dolcezza che cercavano, così io penso con delizia al fatto che non conosco il Paraguay, e che la vita mi riserva il Paraguay, un recinto profondo, una cupola incomparabile, una nuova immersione nell'umano.
Quando il Paraguay sarà libero, quando la nostra America sarà libera, quando i suoi popoli si parleranno e si daranno la mano attraverso i muri d'aria che ora ci rinchiudono, allora, ce ne andremo in Paraguay, Voglio vedere lì dove han sofferto e han vinto i miei e gli altri. L’ la terra ha grosse cicatrici rinsecchite, i rovi selvatici nel folto conservano brandelli di soldato. Lì le prigioni hanno trepidato per il martirio. Lì c'è una scuola di eroismo e una terra bagnata di sangue aspro. Io voglio toccare quei muri dove forse mio fratello ha scritto il mio nome e voglio leggere lì per la prima volta, con i primi occhi, il mio nome, e impararlo di nuovo, perché quelli che mi chiamarono allora, mi chiamarono invano e non potei accorrere.
Sono ricco di patria, di terra, gente che amo e che mi ama. Non sono un patriota sfortunato, né conosco l'esilio. La mia bandiera mi manda baci di stella ogni giorno. Non sono esiliato perché sono terra, parte della mia stessa terra, indivisibile, spazioso.
Quando chiudo gli occhi, affinché dentro di me passi come un fiume la circolazione del sogno, passano boschi e treni, deserti, compagni, villaggi. Passa l'America. Passa dentro di me come se io attraversassi un tunnel o come se questo fiume di mondi e di cose restringesse il suo corso e d'un tratto le acque entrassero nel mio cuore.
Il mio cuore ha terra, e in questa terra ci sono alberi e su questi alberi un aroma tenace. E a volte l'odore freddo dell'alloro australe, che quando cade dalla sua torre di quaranta metri, nella foresta, colpisce come un tuono e sposta cento tonnellate di profumo invisibile. O è l'odore di caoba, quella fragranza rossa del Guatemala, che vive in ogni casa, che ti aspetta nelle fabbriche e nelle cucine, nei parchi e nei boschi. E altri aromi ancora.
« Indelebile profumo. Dove mi porti? Ignori l'oceano? ».
« No, non ignoro l'oceano. Però sono la tua capigliatura, sono il tuo pennacchio, ti seguo e ti circondo, sono la tua coda di cometa e di pianeta, sono il tuo unico anello di unico fidanzamento, sono la tua vita».
Sì, sei la mia vita, sei la mia razza, sei la mia stella. Sei la grande conchiglia di sangue e madreperla che suona e risuona nelle mie orecchie. Chi ha ascoltato il tuo mare non ha altro mare, chi è nato vicino ai tuoi fiumi continuerà a nascere con loro ogni giorno, chi è cresciuto con le araucarie di Lonquimay ha un dovere da assolvere, canterà nella tempesta.
Ed è così, signori, come quando mi sveglio e vedo alzarsi, ossa e cenere, sulla Senna, la barca di Notre Dame di Parigi, attaccata e castigata dall’oceano del tempo, augusta, grave, seduta sul suo antico terreno, io penso soltanto, sogno soltanto di andarmene verso le tue rive, oh America mia, in questa imbarcazione o in un'altra qualsiasi, / vivere fra la tua gente che è mia, fra le tue foglie, / lottare assieme a ognuno dei miei fratelli, vincere, / affinché la mia vittoria sia estesa e tua, come la nostra terra ampia, piena di pace e di aroma, / e lì, un bel giorno, su una nuova barca fluviale, su una macchina, su una biblioteca, su un trattore (perché le nostre cattedrali saranno quelle, le
nostre vittorie saranno ampie vittorie) / poter anch'io, dopo aver lottato e vinto, essere anche terra, solo terra solo terra, solo terra tua.

(Pubblicato sulla rivista « Pro Arte », a Santiago del Cile, il 30 novembre del 1950)


AMERICA, NON SPEGNERE LE TUE LAMPADE

La vostra patria per me è sempre esistita, ma non come tutti i territori in cui l'uomo vive, sogna soffre trionfa e canta. Per me il Perù è stata la matrice dell'America, recinto circondato da alte e misteriose pietre, da dentate di spuma bizzarre, da fiumi e metalli
dal corso profondissimo. Gli Incas non hanno lasciato soltanto una piccola corona di fuoco e martirio nelle mani attonite della storia, ma un'ampia, estesa atmosfera cesellata dalle dita più fini, dalle mani capaci di condurre i suoni fino alla malinconia e alla riverenza
e di sollevare le pietre colossali di fronte al tempo infinito.
Ma hanno anche lasciato, con forza equinoziale, impressa nel volto dell'America una tenerezza pensosa, un gesto delicato e commovente che dalle ceramiche, dai gioielli, dalle statue, dai tessuti e dal silenzio lavorato, ha illuminato per sempre il cammino della
profondità americana. Quando la mia terra ricevette le ondate di fertili conquistatori incaici che portarono alle ombre arrochite di Arauco il contatto tessile la liturgia e del vestito; quando le palpitazioni animistiche dei boschi tutelari e australi toccarono il sacro turchese e il vasellame traboccante di contenuto spirituale, non sappiamo fino a che punto le acque
essenziali del Perù invadevano il risveglio della mia patria sommergendola in una maturità tellurica della quale è semplice espressione la mia stessa poesia.
Più tardi, il vecchio conquistatore fabbrica la sua tana di fulmini dove fu il più grande splendore della nostra vita leggendaria. In Perù si succedettero come strati geologici la terra, l'oro e l'acciaio; la terra trasformata in forme così diafane e vitali come gli stessi semi essenziali la cui crescita riempirà le anfore che calmeranno la sete dell'uomo; l'oro il cui potere dal luogo segreto della sua statua sepolta attirerà, attraverso il tempo e l'oceano, gli uomini di altri pianeti e di altri linguaggi; l'acciaio al cui splendore sostanziale si formerà lentamente il lamento e la razza.
C’è qualcosa di cosmico nella vostra terra peruviana, qualcosa di così poderoso e così pieno di splendore, che nessuna moda e nessuno stile hanno potuto coprire come se sotto il vostro territorio un'immensa statua giacente, minerale e fosforica, monolitica e organica fosse ancora coperta da tele e santuari, da epoche e sabbie, e si affacciasse la sua vigorosa struttura nell'altezza delle pietre abbandonate, nel suolo disabitato che abbiamo il dovere di scoprire. America è il vostro Perù, il vostro Perù ottocentesco e primitivo, la vostra patria misteriosa, arrogante e antica, e in nessuno degli Stati d'America potremmo incontrare le concrezioni americane che, come l'oro, il mais, si rovesciano dalla vostra coppa per darci dell'America una prospettiva insondabile.
Americani del Perù, se ho toccato con le mie mani australi la vostra corteccia e ho aperto il frutto sacro della vostra fraternità, non pensate che io vi lasci senza che anche il mio cuore si avvicini al vostro stato e alla vostra grandezza attuali. Perdonatemi, allora, per il fatto che, come Americano essenziale, metto la mano nel vostro silenzio.
Da diversi anni, da tutta l'America silenziosa vi contemplano due paesi che sono le vedette e il lievito della libertà in America. Questi due popoli si chiamano Cile e Messico.
La geagrafia li ha collocati alle estremità dure del Continente. Al Messico è toccato essere il baluardo del nostro sangue quando la vita dell'America gli richiese gagliardamente di imporre le materie fondamentali dell’America nostra di fronte al grande paese materialista del Nord. E sempre al Messico toccò levare le prime bandiere quando la libertà minacciata in tutto il nostro pianeta si vedeva difesa dall'alta stirpe degli americani del Nord.
Il Cile ha conosciuto la libertà, come aveva previsto Simon Bolivar. Nel sacrificio delle terre più dure, nella conoscenza degli ostacoli più impenetrabili, la mia patria, con le stesse mani ardenti e delicate che hanno resistito ai lavori e ai climi più crudeli delle nostre latitudini, ha potuto toccare il cuore dell’uomo. sollevarlo come una coppa raggiante verso la libertà. La storia del mio paese ha camminato pesantemente e duramente verso l'aurora e i cileni di oggi sono impegnati in questo, nel dissipare ogni giorno le tenebre che abbiamo avuto in sorte.
Da questi due punti, antartico l'uno, musicale e esplosivo l'altro, guardiamo verso il Perù nella speranza che i suoi passi si avviino verso la responsabilità che ci dà il titolo di americani. Se nelle vostre mani il difficile destino storico dell'America accende una luce di libertà che il vento di domani potrebbe seppellire per sempre, è vostro dovere non solo verso la vostra terra, ma anche verso il resto della grandezza americana conservare, rafforzare e mantenere questa luce essenziale. Se guardiamo la mattina la carta geografica dell'America con i suoi bei fiumi e i suoi splendidi altari vulcanici noterete che esistono zone in cui le lacrime mettono un cerchio di gelo alle tirannie, vi accorgerete che in quelli più prosperi, in quello più ricco, nel più potente dei nostri Stati d'America, sono
appena nati nuovi tiranni. E questi nuovi tiranni sono esattamente uguali a quelli che ci hanno fatto soffrire col cuore angosciato; hanno le spalline e usano la frusta e la spada. Vediamo come le più piccole vestigia della libertà sono assediate dalle tigri e dai caimani
della nostra spaventosa fauna cosmogonica. Allora, peruviani, cileni, colombiani, tutti quelli che respirate l'aria della libertà che ci lasciano i mostri della nostra preistoria, state attenti, state molto attenti. Stiamo molto attenti all'antica fauna apoplettica che sembrava già inquadrata nei musei con le sue immense ossa difensive, le sue decorazioni e le sue membra sanguinanti. È ancora viva nel mondo la sete di dominio e la volontà di tormento e i nostri boia ci tendono l'agguato dalla mattina alla sera. Ma state anche attenti ai nostri falsi liberatori, a coloro che, non comprendendo lo spirito della nostra epoca, pretendono di fare della violenza un ramo di fiori per consegnarlo sull'altare delle libertà dell'uomo.
II figlio della libertà dell'America, come Sucre, come Bolivar, come O'Higgins, come Morelos, come Antigas, come San Martin, come Mariátegui, è odiato al tempo stesso dalla reazione cavernicola e dalla demagogia sterile. La libertà in America sarà figlia dei nostri fatti e dei nostri pensieri.

(Scritto nel 1943 durante un viaggio attraverso il Perù).


RAMÓN LÓPEZ VELARDE

Quasi negli stessi giorni del 1921 in cui io arrivavo a Santiago del Cile dal mio paese, moriva in Messico il poeta Ramón López Velarde, poeta essenziale e supremo delle nostre dilatate Americhe. Naturalmente io non sapevo né che stava morendo né che era esistito. A quei tempi come adesso ci riempivamo la testa delle ultime cose che arrivavano dai transatlantici: molto di quello che leggevamo passò come fumo o vapore
per il nostro carnivoro appetito, altre rivelazioni ci illuminarono e col tempo sostennero la loro fermezza. Ma non ci capitò di chiedere niente in Messico. Niente altro che l'eco delle sue rivoluzioni ci svegliava ancora col suo tuono. Non conoscevamo l'aspetto singolare,
fiorito di quella terra sanguinosa.
Moltissimi anni dopo mi è capitato di affittare la vecchia villa dei López Velarde, a Covoacán, ai margini del Distretto Federale di Messico. Qualcuno dei miei amici ricorderà quella immensa casa, quell'edificio in cui tutti i saloni erano invasi da scorpioni, venivan
giù le travi attaccate da efficaci insetti e le tavole dei pavimenti si sprofondavano come se uno camminasse in un bosco umido. Riuscii a rimettere in sesto due o tre stanze e lì mi misi a vivere in piena atmosfera López Velarde, del quale cominciai ad assorbire la poesia.
Questa casa di fantasmi conservava ancora un residuo dell'antico parco, colossali palme e ahuehuetes, (1) una piscina barocca, che per le tante fenditure non aveva più acqua di quella della luna e dappertutto statue di najadi del 1910. Vagando per il giardino uno le incontrava nei posti più insperati che ti guardavano dall’interno di un chiosco completamente ricoperto di rampicanti, o, semplicemente, come se stessero andando con passo elegante verso la vecchia piscina senz’acqua a prendere il sole sulle sue rocce artificiali.
Allora mi dispiacque profondamente non essere arrivato a tempo nella vita per conoscere il poeta. Non so perché mi sembra che lo avrei aiutato io a vivere, non so quanto di più, forse solo alcuni versi in più. Sentii come poche volte ho sentito l'amicizia di quell'ombra che ancora impregnava gli ahuehuetes. E mi misi anche a decifrare la sua breve scrittura, le scarse pagine che aveva scritto nella sua breve vita e che fino ad ora, come pochissime, risplendono.
Non c'è una poesia più distillata della sua. È andata di alambicco in alambicco a distillare la goccia giusta di alcool di zagara, ha riposato in minuscole ampolle finché è diventata la perfezione della fragranza. Tale è la sua indipendenza che se ne sta lì addormentata, come in una bottiglia azzurra di farmacia, avvolta nella sua tranquillità e nel suo oblio. Però al minimo contatto sentiamo che continua intatta, attraverso gli anni, questa energia voltaica. E sentiamo che ci ha attraversato il bersaglio del cuore l'ineffabile punta di una freccia che portava nel suo volo l'aroma dei gelsomini che aveva anche attraversato.
Bisogna sapere, parimenti, che questa poesia è commestibile, come torrone o marzapane, o dolci caserecci, preparati con misteriosa pulcritudine e la cui delizia crocchia fra i nostri denti golosi. Nessuna poesia ha avuto prima e dopo tanta dolcezza, né è stata così impastata con farine celestiali.
Però sotto questa fragilità c'è acqua e pietra eterna. Attenti a non sbagliare. Attenti a non sottovalutare questa attillatura e questa squisita esattezza. Pochi poeti in parole così brevi ci han detto tanto, e così eternamente, della propria terra. Anche López Velarde
Fa storia.
A quel tempo quando Ramón López Velarde cantava e moriva, trepidava la vecchia terra. Galoppavano i centauri per imporre il pane agli affamati. Il petrolio attirava i freddi filibustieri del Nord. Il Messico fu derubato e accorciato. Ma non fu vinto.
Il poeta ha lasciato queste testimonianze. Si vedranno nella sua opera come si vedono le vene nel controluce della pelle, senza tratti accessivi: però si sono. Sono la protesta del patriota che volle soltanto cantare. Ma questo poeta civile, quasi surrettizio con le sue due o tre note di piano, con le sue due o tre lacrime vere, col suo purissimo patriottismo, completa la statua del cantore incancellabile.
È anche il più provinciale dei poeti, e conserva fino all'ultimo dei suoi versi non finiti il silenzio, la patina di giardino nascosto di quelle case coi muri bianchi di mattoni crudi dalle quali emergono soltanto cime appuntite di alberi. Da lì viene anche il liquido erotismo
della sua poesia che circola in tutta la sua opera come sotterraneo, avvolto dalla lunga estate, dalla castità rivolta al peccato, dai letargici abbandoni di alcove dal tetto alto dove qualche insetto sonoro interrompe con le sue elitre la siesta del sognatore.
Mi han detto che dieci secoli fa, fra una guerra e l'altra, i custodi della Corona Reale di una monarchia ora defunta, lasciarono cadere l'Oggetto Prezioso di modo che rimase storta per sempre l'antica croce della Corona. Molto saggi, i vecchi re conservarono la croce storta sulla Corona sfolgorante di pietre preziose. E non solo continuarono a conservarla così, se non che la croce storta passò addirittura sui blasoni e sulle bandiere: vale a dire, divenne stile.
In qualche modo questo antico episodio mi ricorda il modo poetico di López Velarde. Come se qualche volta avesse visto la scena di sottecchi e avesse conservato fedelmente una visione obliqua, una luce storta che da a tutta la creazione sua quella inattesa chiarezza.
Nella grande trilogia del modernismo Ramón López Velarde è il maestro finale, quello che mette il punto senza la virgola. Un'epoca rumorosa è terminata. I suoi grandi fratelli, il rigoglioso Rubén Darío e il lunatico Herrera y Reissig, hanno aperto le porte di un'America antiquata, hanno fatto circolare l’aria libera, hanno riempito di cigni i parchi municipali e di impaziente saggezza, tristezza, rimorso, follia e intelligenza gli album delle signorine, album che da allora esplosero con quella carica pericolosa nei salotti.
Però questa rivoluzione non è completa se non consideriamo questo arcangelo finale che ha dato alla poesia americana un sapore e una fragranza che dureranno per sempre. Le sue brevi pagine raggiungono, in qualche modo sottile, l'eternità della poesia.

(1) Conifera messicana simile al cipresso, ma molto più alta [N.d.T.]


(Isla Negra, agosto 1963).


SHAKESPEARE, PRINCIPE DELLA LUCE

Goneril, Regan, Hamlet, Augus, Duncan, Glansdale, Mortimer, Ariel, Leontes...
I nomi di Shakespeare, questi nomi, lavorarono nella nostra infanzia, si cristallizzarono, si fecero materia dei nostri sogni. Dietro i nomi di Shakespeare, quando ancora sapevamo appena leggere, esisteva un continente con fiumi e re, corti e castelli, arcipelaghi che una volta o l'altra avremmo scoperto. I nomi di protagonisti oscuri o splendenti ci mostravano la pelle della poesia, il primo tocco di una gran campana. Dopo, molto tempo dopo, arrivarono i giorni e gli anni in cui scoprimmo le vene e le vite di questi nomi. Scoprimmo patimenti e rimorsi, martirii e crudeltà, esseri di sangue, creature dell'aria, voci che si illuminano per una gran festa magica, banchetti cui partecipano i fantasmi insanguinati. E tanti fatti, e tante anime, e tante passioni e tutta la vita.
In ogni epoca, un bardo assume la totalità dei sogni e della saggezza: esprime la crescita, l'estensione del mondo. Si chiama una volta Alighieri, o Victor Hugo, o Lope de Vega, o Walt Whitman.
Soprattutto, si chiama Shakespeare.
Allora, questi bardi accumulano foglie, però fra queste foglie ci sono trilli, sotto queste foglie ci sono radici. Sono foglie di grandi alberi.
Sono foglie e occhi. (1) Si moltiplicano e guardano noi piccoli uomini di tutte le età transitorie, ci guardano e ci aiutano a scoprirci: ci rivelano il nostro stesso labirinto.
In quanto a Shakespeare, viene poi una terza rivelazione come ne verranno molte altre: quella del sortilegio della sua distillata poesia. Pochi i poeti così compatti e segreti, così rinchiusi nel proprio diamante.
I sonetti furono tagliati nell'opale del pianto, nel rubino dell'amore, nello smeraldo della gelosia, nell’ametista del lutto.
Furono no tagliati nel fuoco, furono fatti d'aria, furono costruiti nel cristallo.
I sonetti furono strappati alla natura in modo tale che dal primo all'ultimo si sente come scorre l'acqua, come balla il vento e come si susseguono, dorate e fiorite, le stagioni e i loro frutti.
I sonetti hanno infinite chiavi, formule magiche, estatica maestà, velocità di frecce.
I sonetti sono bandiere che a una a una salirono sugli spalti del castello. E anche se tutte hanno affrontato le intemperie e il tempo, conservano le loro stelle di colore amaranto, le loro mezzelune di turchese, i loro splendori di cuore incendiato.
Io sono un vecchio lettore della poesia di Shakespeare, dei suoi poemi che non ci dicono nomi, né battaglie, né insolenze, come le sue tragedie.
C'è solo il bianco della carta, la purezza del cammino poetico. Per questa via, interminabilmente scorrono le immagini come piccole navi cariche di miele.
In questa ricchezza eccessiva in cui l'urgente potere creativo si misura con tutta la somma dell'intelligenza, possiamo vedere e palpare uno Shakespeare costante e crescente dove la cosa che risalta non è la ricca creatività, bensì la sua forma esigente.
Il mio esemplare dei Sonetti reca il mio nome scritto e il giorno e il mese in cui comprai quel libro nell'Isola di Giava, nel 1930.
Sono perciò 34 anni che mi segue.
Lì nella lontana Isola, mi diede la norma di una purissima fonte, vlcino alle foreste e alla favolosa moltitudine dei miti sconosciuti fu per me la legge cristallina. Perché la poesia di Shakespeare, come quella di Góngora e quella di Mallarmé, gioca con la luce della ragione, impone un codice stretto, per quanto segreto. In una parola, in quegli anni abbandonati della mia vita, la poesia shekespeariana mi permise di rimanere in contatto con la cultura occidentale. Dicendo questo, comprendo naturalmente nella grande cultura occidentale Puskin, Carlo Marx, Bach e Hölderlin, Lord Tennyson e Majakovskij.
Naturalmente la poesia è disseminata in tutte le grandi tragedie, sulle torri di Elsinore, nella casa di Macbeth, nella barca di Prospero, fra il profumo dei melograni di Verona.
Ogni tragedia ha un suo tunnel attraverso il quale soffia un vento fantasmagorico. Il suono più vecchio del mondo, il suono del cuore umano forma in continuazione le parole indimenticabili. Tutto questo è sgranato nelle tragedie, assieme a interiezoni del popolo, alle insegne dei mercati, alle sillabe sconce di parassiti e di buffoni, fra il rumore di acciaio delle panoplie impazzite.
Ma a me piace cercare la poesia nel suo fluire smisurato quando Shakespeare la ordina e la lascia dipinta sul muro del tempo, con l'azzurro, lo smalto e la spuma magica, amalgama che la lascerà stampata nella nostra eternità.
Per esempio, nell'idillio pastorale Venere e Adone, pubblicato nel 1593, ci sono molte ombre fresche sulle acque che scorrono, insinuazioni verdi della foresta che canta, cascate di poesia che cade e di mitologia che sfugge verso il fogliame.
Però, ad un tratto, compare un puledro e tutta l'irrealtà scompare ai colpi dei suoi zoccoli quando i « suoi occhi sdegnosi luccicano come il fuoco, mostrando il suo caldo coraggio, il suo alto desiderio ».
Sì, perché si vede che se un pittore dipingesse quel cavallo « dovrebbe lottare con l'eccellenza della natura », « il vivo supererebbe i morti ». Non c'è una descrizione come quella di questo cavallo amoroso e furioso che colpisce con le sue vere zampe gli stupendi
sestetti.
E ne parlo dal momento che nel suo bestiario sono rimaste tracce di molte bestie e nell'erbario di Shakespeare permane il colore e l'odore di molti fiori, perchè questo puledro scalpitante è il tema della sua ode, il movimento genesico della natura captato da un grande organizzatore di sogni.
Negli ultimi mesi di questo autunno mi hanno incaricato di tradurre Giulietta e Romeo.
Accettai questa richiesta con umiltà. Con umiltà e per dovere perché mi sentii incapace di volgere in lingua spagnola la storia appassionata di quell'amore. Dovevo farlo dato che questo è il grande anno shakesperiano, l’anno della riverenza universale al poeta che ha dato nuovi universi all'uomo.
Compresi che dietro la trama dell'amore infinito e della morte repentina, c'era un altro dramma, c'era un altro argomento, un altro tema principale.
Giulietta e Romeo è una grande perorazione a favore della pace fra gli uomini. È la condanna dell'odio inutile, la denuncia della barbara guerra e l'esaltazione solenne della pace.
Quando il Principe Escalus rimprovera con dolorose ed esemplari parole i clan feudali che macchiano di sangue le strade di Verona, capiamo che il Principe è l'incarnazione della comprensione, della dignità, della pace.
Quando Benvolio rimprovera a Tibaldo di essere un attaccabrighe, dicendogli: «Tibaldo, non vuoi la pace in queste strade?», il fiero spadaccino risponde:
« Non parlarmi di pace, quella parola la odio ».
La pace, quindi, era odiata da qualcuno nell'Europa elisabettiana. Secoli dopo, Gabriela Mistral, perseguitata e offesa per la sua difesa della pace, licenziata dal giornale cileno che pubblicava da trent'anni i suoi articoli, scrisse il suo messaggio famoso: La pace, quella maledetta parola. Si vede che il mondo e gli organi di stampa hanno continuato ad essere governati dai Tibaldi, dagli spadaccini.
Una ragIone,in più dunque, per amare William Shakespeare, il più vasto degli esseri umani. Avremo sempre tempo e spazio per esplorarlo e perderci in lui, per andare molto lontano attorno alla sua statura, come i minuscoli uomini di Lilliput attorno a Gulliver. Per andare molto lontano senza giungere alla fine, tornando sempre con le mani colme di fragranza e di sangue, di fiori e di dolori, di tesori mortali.
In questa solenne occasione tocca a me aprire la porta d’onore, sollevando il sipario affinché si affacci la sua abbagliante e pensierosa figura. E gli direi attraverso quattro secoli:
« Salve, Principe della luce! Buon giorno istrioni erranti. Abbiamo ereditato i tuoi grandi sogni che continuiamo a sognare. La tua parola fa onore alla terra intera».
E, più piano, all'orecchio, gli direi anche:
« Grazie, compagno ».
(1) Nell'originale hojas y ojos, con evidente gioco di parole, intraducibile IN.d.T.].

(Scritto nel 1964, anno di celebrazioni shakespeariana, in cui Neruda tradusse Giulietta e Romeo).


IRREALTÀ E MIRACOLO

II sole nero spuntò da dietro i monti di Chuquicamata e produsse ombre, cicatrici, triangoli e ferite sui grandi arenili del Cile.
Poi ha prodotto isole, divinità, tormente, bestie di colore viola, edifici, pescatori di fiume e di mare, scarabei.
Quando più tardi il navigatore solitario Max Ernst scoprì allo spuntar del giorno l’isola di Pasqua e pubblicò la cosa sui primi documenti collage di quell'epoca, tutto il Continente Americano era già un'antica convulsione e i fiumi scorrevano coperti da fuggitivi cappelli che subivano le scariche dei cacciatori che facevano la posta da Est e da Ovest alla processione dei cappelli. Non solo accadeva naturalmente un fatto così strano, ma vari avvenimenti politici delle Republiche — come la strana morte del dittatore uruguayano Dr. Francia, mentre studiava nel suo telescopio la simmetria del cielo stellato — dimostrano anche in modo evidente l'influenza del Conte di Lautréamont, uruguayano di origine, su quell'avvenimento misterioso (Devo aggiungere che le spoglie mortali del terribile tiranno — che, tra l’altro, fu un illuminato — per diverse settimane rimasero coperte da arance, rendendo impossibili le indagini sulla sua scomparsa).
Infine è troppo prematuro sapere da dove venne, se venne dall’America o da Parigi, il vento che svisò i vecchi miti facendo assumere loro nuove forme e quella vitalità
che esercita l’ora presente. Lascio questo compito agli storici e anche agli esploratori di
questo lato e dell’altro.
Intanto, celebriamo l'irrealtà e il miracolo: l’uomo prova la sua esistenza entrando e uscendo da porte oscure.

(Scritto per una mostra surrealista a Parigi, maggio 1972)




Quaderno 5
Riflessioni da Isla Negra

RISPONDENDO ALLE DOMANDE DI UN'INCHIESTA

Lei si chiede cosa succederà alla poesia nel 2000. È una domanda pelosa. Se mi capitasse di incontrare questa domanda in un vicolo oscuro mi farebbe venire una fifa boia e ti saluto.
Perché, cosa ne so dell'anno 2000 ? E soprattutto, cosa ne so io della poesia?
Se c'è una cosa di cui sono sicuro è che nel prossimo secolo non si celebrerà il funerale della poesia.
In ogni epoca hanno dato la poesia per spacciata, ma questa si è dimostrata centrifuga e sempiterna, si è dimostrata piena di vitalità, risuscitata con grande intensità, sembra essere eterna. Con Dante sembrò che fosse finita. Ma ecco che poco tempo dopo Jorge Manrique lanciava una scintilla, una specie di sputnik, che continuò a sfavillare nelle tenebre. E poi Victor Hugo sembrava aver fatto tabula rasa, non rimaneva niente per la poesia. Allora si presentò correttamente vestito da dandy il signor Charles Baudelaire, seguito dal giovane Arthur Rimbaud, vestito da vagabondo, e la poesia ricominciò. Dopo Walt Whitman, non c'era più speranza, ormai tutte le foglie d'erba erano state piantate e non si poteva calpestare il prato. Eppure, venne Majakovskij e la poesia sembrava una casa di macchine: ci furono fischi, spari, sospiri e singhiozzi, rumore di treni e di carri blindati. E così va avanti la storia.

È chiaro che i nemici della poesia hanno sempre voluto assestargli una sassata in un occhio o una bastonata nella nuca. E lo han fatto in diversi modi, come marescialli individuali, nemici della luce, o reggimenti burocratici che a passo d'oca marciarono contro i poeti. Riuscirono ad ottenere la disperazione di alcuni, la delusione di altri, le tristi smentite d'i una minoranza. Ma la poesia ha continuato a zampillare come una sorgente o a buttare come una ferita, o a costruire fino a fiaccarsi le braccia, a cantare nel deserto, innalzarsi come un albero, o a rompere gli argini come un fiume, o a stellarsi come la notte nelle mesetas (1) della Bolivia.
La poesia ha accompagnato gli agonizzanti e ha calmato i dolori, ha condotto le vittorie, ha accompagnato i solitari, è stata bruciante come il fuoco, leggera e fresca come la neve, ha avuto mani, dita e pugni, ha avuto germogli come la primavera, ha avuto occhi come la città di Granada; è stata più veloce dei proiettili telecomandati, più forte delle fortezze: ha gettato radici nel cuore dell'uomo.
Non è probabile che agli inizi dell'anno 2000 i poeti capeggino una sollevazione mondiale per spartire la poesia. La poesia sarà spartita come conseguenza del progresso umano, dello sviluppo e dell'accesso dei popoli al libro e alla cultura. Non è probabile che i poeti arrivino a dettar legge o a governare, anche se alcuni di loro lo stanno già facendo, alcuni molto male e altri meno male. Ma i poeti saranno sempre buoni consiglieri e guai a non ascoltarli. Molte volte i governi hanno comunicazioni pubbliche con i loro popoli. La poesia ha una comunicazione segreta con le sofferenze dell'uomo. Bisogna dare ascolto ai poeti. È una lezione della storia.

È probabile che nell'anno 2000 il poeta più originale, più alla moda dappertutto, sia un poeta greco che adesso nessuno legge e che si chiamava Omero.
Io sono d'accordo e per questo ricomincerò a leggerlo. Andrò a cercare la sua influenza, dolce ed eroica, le sue maledizioni e le sue profezie, la sua mitologia di marmo e i suoi bastoni per i ciechi.
In preparazione del nuovo secolo cercherò di scrivere alla maniera di Omero. Non mi starà poi male uno stile così favoloso e così intriso del mare illustre.
Poi uscirò con alcune bandiere di Ulisse, re di Itaca, in strada. E dato che i greci saranno già usciti dai loro presidii, mi accompagneranno anche per dare le norme del nuovo stile del XXI secolo.

(1) Esteso altopiano [N.d.T.].


MI CHIAMO CRUSOE...

Il Cile attira certi avvenimenti insoliti. Il nostro territorio secco, irsuto, sabbioso, umido, arruffato, possiede fosforescenze magnetiche. Qui sono venuti, qualche giorno fa, i professionisti dei terremoti a tracciare una mappa — sempre superficiale — dei nostri secreti terrestri. La patria ha conosciuto, prima di chiunque altro, le scosse atomiche. Siamo protetti e minacciati da una cintura di vulcani il cui interno è sconosciuto quanto il fuoco dei lontani pianeti.
La questione è che la nostra conformazione ferruginosa attira certi avvenimenti di tipo inaudito. L'ammutinamento di Cambiaso, nelle notti gelide di Punta Arenas, ci da la visione di un imperatore sanguinario, dall'uniforme rossa e dorata su un cavallo bianco e per insegna un teschio sventolante nella tormenta.
Non succedono dappertutto questi bagni di sangue.
Mi sono chiesto molte volte perché Robinson Crusoe sia giunto fino alla nostra isola nel Pacifico a specializzarsi in solitudini.
Adesso lo racconto.
Perché già la conosceva. Non si trattava della sua prima visita. E non sono sicuro che non ci sia tornato di nuovo.
Perché il 10 gennaio del 1709, Alessandro Selkirk un anno dopo esser stato riscattato dalla sua prigionia a Juan Fernández) fu nominato nostromo della fregata «Bachelor», che scorrazzava predando per i nostri mari. SeIkirk-Crusoe sapeva quello che faceva oppure era attratto dalla calamità dell'isola.
Bisogna chiedersi perché Robinson Crusoe, libro fra tanti libri, ha affascinato, continuato ad affascinare e continua ad affascinare mezzo mondo.
L'uomo non vuole isolarsi. La solitudine è contro natura. L'essere umano ha una curiosità diurna e notturna per l'essere umano. Gli animali a malapena si guardano o si avvertono. Solo i cani, gli uomini e le formiche dimostrano un'irresistibile curiosità per la propria specie e si guardano, si palpano, si annusano.
L'insopportabile curiosità del marinaio scozzese, che comincia a costruire un mondo solitario, continua ad essere un motivo dell'intelligenza e dell'enigma che ci appartiene.
II capitano Woodes Rogers racconta nel suo Diario di Viaggio la liberazione di Alessandro Selkirk. È un buon giornalismo e il capitano tratta il fatto come una singolare corrispondenza. Immaginiamo che Robinson Crusoe sia stato scoperto e riscattato soltanto ieri e non avremmo letto il fatto diversamente sul « Mercurio » o su « El Sigio ». Scrive il capitano Rogers:

« Poco tempo dopo la chiatta fece ritorno con una gran quantità di aragoste e un uomo vestito di pelli di capra che sembrava più selvaggio di quegli animali. Era uno scozzese chiamato Alessandro Selkirk, che era stato nostromo a bordo della nave "I Cinque Porti" e che l'irascibile capitano Stradling aveva abbandonato su quell'isola da quattro anni e quattro mesi.
« Ci disse che gli sarebbe piaciuto consegnarsi ai francesi se qualcuna delle loro navi fosse arrivata all'isola o avrebbe preferito morire su di essa, piuttosto che cadere in mano agli spagnoli, che non avrebbero esitato ad ucciderlo nel timore che potesse servire agli stranieri nella scoperta dei mari del Sud. Abbandonato su quell'isola con qualche vestito, il suo letto, un fucile, un corno di polvere, pallottole, tabacco, un'ascia, un coltello, una pentola, una Bibbia, i suoi strumenti e i suoi libri di marina, si divertì cercando di organizzarsi come gli era possibile. Però, durante i primi mesi, fece molta fatica a vincere la malinconia e a superare l'orrore che gli provocava una solitudine così spaventosa.
« Dopo aver allontanato la sua malinconia, si divertiva a incidere il suo nome sugli alberi con la data del suo esilio. Oppure cantava a squarciagola nella solitudine, o insegnava ai gatti e alle capre selvatiche a ballare con lui. I gatti e i topi gli fecero agli inizi una guerra crudele: si erano moltiplicati senz'altro, grazie ad alcuni della loro specie usciti dalle navi che per acqua e legna avevano fatto scalo sull'isola. I topi venivano a rodergli i piedi e la roba mentre dormiva. Per combatterli dovette dare ai gatti qualche buon pezzo di carne di capra, il che fece che si abituassero tanto a lui da andare a dormire a centinaia attorno alla sua capanna, proteggendolo dai suoi nemici. Fu così che per un disegno della provvidenza e grazie al vigore della sua gioventù dato che quando lo incontrammo aveva solo trent'anni di età, superò tutte le difficoltà del suo triste abbandono e riuscì a vivere bene nella sua solitudine.

Quando l'abbandonato creò il suo piccolo mondo, non si rese conto che adempiva a un'infinita aspirazione umana, quella di dominare la natura vincendola con la gravitazione dell'intelligenza. Il suo motto solitario dovette essere: « Per la ragione e per la ragione,
sempre per la ragione », lo stesso motto che proponeva Unamuno ai cileni. Il marinaio che si trasformò in Robinson e insegnò a ballare ai gatti e alle capre, fu un nuovo Adamo, senza Eva, ma poderoso. Il suo canto solitario era come l'inno alla creazione appena cominciata.
Strano destino che ancora ci meraviglia. E quando Selkirk ritorna alla sua amata Scozia, e va raccontando la sua impresa di taverna in taverna, comincia a sentire la nostalgia del suo grande chiostro di cielo e mare. L'Oceano Pacifico, irreale, superabbondante ed esteso, continua a chiamarlo con i cori più insistenti. Continua a trasformarlo fino a dargli il tocco della suprema trasfigurazione.
Uno scrittore imponderabile, Daniel Defoe, sente parlare il marinaio solitario, della natura lontanissima, del magnetismo delle isole cilene.
Alessandro Selkirk morì. Ma su una nave di carta stampata — che continua ancora a navigare — è tornato a Juan Fernández un altro marinaio.
« Chi sei ? » gli chiesero.
« Mi chiamo Robinson Crusoe », rispose.


SCARAFAGGIA DISPERSA

A uno scarabeo...

Arrivai anche dallo scarabeo
e gli chiesi della vita:
delle sue abitudini d'autunno
della sua armatura lineare.
Lo cercai nei laghi perduti
nel Sud nero della mia patria,
lo trovai fra la cenere
dei vulcani astiosi
o salendo dalle radici
verso la propria oscurità.
Come facesti il tuo vestito duro?
I tuoi occhi di zinco, la tua cravatta?
I tuoi pantaloni di metallo?
Le tue contraddittorie forbici?
La tua sega d'oro, le tue tenaglie?
Con quale resina maturò
l'incandescenza della tua specie?
(Io avrei voluto avere
un cuore di scarabeo
per perforare lo spessore
e lasciare la mia firma nascosta
nella morte del legno).
(E così il mio nome chissà
di nuovo andrà forse nascendo
per nuovi canaloni notturni
fino ad uscire alla fine dal tunnel
con altre ali venture).
« Nulla è più bello di te,
muto insondabile scarabeo,
sacerdote delle radici,
rinoceronte della rugiada»,
gli dissi, ma non mi disse.
Gli chiesi e non rispose.
Così sono gli scarabei.

(Punta del Este, 1968).


Nella mia infanzia temuchesina (1) scrissi una piccola elegia A un piccolo scarabeo che inavvertitamente ho schiacciato coi piedi. Si trova da qualche parte in un grosso libroccio che è rimasto in possesso di mia sorella Laura e che contiene i miei esecrabili primi versi. Di tanto in tanto qualcuno lo scopre e pubblica dandomi pugnalate retrospettive.
Adesso me ne sono accorto nello scrivere a Punta del Este un altro piccolo poema, per niente elegiaco, bensì piuttosto elettrico, a un altro scarabeo che ho trovato lì fra le radici delle pinete. Era di una famiglia differente e con un corno all'insù, come una minuscola fiera di un'altra età zoologica. Non ho potuto identificarlo. Ma non è affatto strano che non lo conoscessi, dato che gli entomologhi pretendono di classificare la totalità coleottera in trecentomila specie. È probabile che si sbaglino, poiché sempre ci saranno più coleotteri, perché sono così duri, così enigmatici e così belli che il mondo non sarebbe completo senza la loro multitudinaria presenza. E anche se Leonov non me l’ha detto quando è passato da casa mia a Isla Negra, sono sicuro che ha visto la Terra da lontano come se fosse un grande coleottero, azzurrino e volante.

In quei boschi del Sud, che sono stati assassinati a vista e pazienza dei nostri governanti, mi estasiavo a scoprire la silenziosa vita degli insetti, sotto pietre grandi o tronchi caduti quando non erano a cavallo su una corolla o si allenavano in una pozzanghera.
Lì imparai a venerare e a temere i carabi dorati o peorros. Leggiadri e ovoidali, con la veste più elegante della foresta alcuni vanno vestiti di carminio aureo, altri di smeraldo dorato, altri di zaffiro giallo. Ma tutti quando volevo raccoglierli per la mia scatola di studente, mi fecero retrocedere di diversi metri lanciandomi una pestilenza che doveva servirmi da esempio.
Le madri della serpe (Ancistrotus Cumingi), di sette o otto centimetri, addossate ferruginosamente agli antichi alberi, mi diedero la soddisfazione di raccoglierle con facilità, nonostante la loro evidente grandezza. II mio problema era mantenerle in vita nella scatola
perforata, lanciando loro foglie tritate e pezzetti Arrivai ad averne un minuscolo gregge: sono stato un singolare pastore di coleotteri.

Ma il più legato alla mia vita nella Frontera è stato il nostro meraviglioso cervo volante (Chiasognathus granti Steph). Questa bizzarra bestia avvolta in giada dura ci meraviglia con le sue cornamenta verdi e il suo splendore brunito. Gioiello dei boschi, raggiante bellezza che se n'è andata o se ne andrà con la foresta sacrificata.
Quel che è certo è che ho scritto, dopo cinquant'anni, alcuni versi sul tema remoto, versi che questa volta non ebbero il destino di essere sepolti nell'album di mia sorella.
Proprio quando terminai di scriverli si interruppe il mio lavoro-riposo a Punta del Este. Mi avevano scoperto i giornali. Quando sollevai lo sguardo, contento dei miei versi al piccolo e insolito scarabeo, vidi avanzare verso di me un essere umano che mi guardava dal posto che doveva occupare la sua testa. I suoi occhi erano due strane protuberanze formate dalle spesse lenti del suo teleobiettivo. Mi spaventai. Sembrava uno scarabeo. Le antenne di questo invasore ci fotografarono a profusione, sia il mio tema poetico, che si difendeva con le sue numerose zampe, che me, indifeso protettore e cantore di scarabei.

(1) Trascorsa a Temuco [N.d.T.].


UNA SIGNORA DI FANGO

Mi perdoni Marta Colvin, ma la migliore opera di scultura cilena che io conosco è una «scimmia con chitarra», di creta, una delle tante che si fanno nell'ombelico mondiale della ceramica: Quinchamalí. Questa signora con la chitarra è più alta e più larga di quelle solite. È difficile l'esecuzione di questo grande formato, mi han detto le artigiane, le loceras. Questa la fece una contadina di circa cent'anni, che è morta già da un pezzo. Venne così bella, che viaggiò a New York in quegli anni, e fu esposta all'Esposizione Universale. Adesso mi guarda dal tavolo più importante di casa mia. Io la consulto di continuo. La chiamo Madre Terra. Ha una rotondità di collina, ombre che danno le nubi dell'estate sul maggese e, nonostante abbia navigato per i mari, conserva un inclito odor di fango, di fango del Cile.
Mi raccontarono le loceras che per il loro lavoro devono mischiare la creta con erbe, e che quel nero puro e opaco delle terrecotte di Quinchamalí lo ottengono bruciando sterco di vacca. E si lamentarono allora perché il padrone dei fondi faceva pagar caro lo sterco siIvestre. Non ho mai potuto raggiungere tanta influenza da far abbassare il prezzo dello sterco per le scultrici di Quinchamalí. E per quanto sia umilissima questa petizione ai poteri maiuscoli, speriamo che Ia Riforma Agraria regali questo prodotto alle trasformatrici del fango con la stessa semplicità con cui lo farebbe una vacca. La verità è che questa ceramica nostra è la cosa più illustre che abbiamo. L’unico regalo che ho fatto a Picasso è stato un maialino nero, salvadanaio, aroma chillanejo, (1) creazione dell'insigne lacera Praxedes Caro.
Di speroni e di ponchos, di braccialetti di Panimavida, di sirene di Florida, di anforette di Pomaire, si alimenta il nostro orgoglio fannullone. Perché si producono come acqua, si divulgano senza far rumore, sono arti illustri e utilitarie, disinteressate e odorose,
che vivono non si sa come, né si sa di che, ma che ci rappresentano in umiltà, in profondità, in fragranza.
Per questo penso che fra i tristissimi musei di Santiago l'unico incantevole è quello che ostenta i suoi tesori sul Cerro Santa Lucia. Lo creò lo scrittore Tomas Lago, molti anni fa, in un atto d'amore che ha continuato a proliferare in tante belle collezioni riunite. Io stesso sono andato in terre messicane, a cercare col geniale Rodolfo Ayala, quel matto di Ayala, per chiese e mercati, palazzi e rigattieri, oggetti scelti e violenti, che oggi ingrandiscono questo museo della delizia.
Io sono stato appassionato di queste creazioni anonime e mi catalogo, a volte, per quanto riguarda la mia poetica, come vasaio, panettiere o falegname. Senza mani non esiste l'uomo, non c'è stile. Ho sempre preteso che la mia poesia fosse artigianale, antilibresca, perché perfino i sogni nascono dalle mani. E quest'arte popolare, che è stata conservata ed esposta con orgoglio e amore nel nostro migliore museo, rivela, meglio dei musei storici, che le cose più vere sono quelle viventi, e che le opere del popolo hanno un'eternità non meno ardente di quella degli eroi.
La patria viene distrutta costantemente. I distruttori stanno dentro di noi. Ci nutriamo dell'incendio e dell'annientamento. Le foreste caddero bruciate: il meraviglioso bosco cileno è solo una macchia di lacrime nel mio cuore. Gli scogli più belli del mondo vengono fatti saltare con la dinamite sul nostro litorale. Ostricone, cozze, pernici, ricci, sono perseguitati come nemici, per estirparli al più presto, per cancellarli dalla faccia della terra. Gli ignoranti dicono delle nostre depredazioni: « Sono stati gli indios ». Bugie. L'araucano ha nominato il canelo re della terra. E ha combattuto soltanto gli invasori. I cileni combattono tutto ciò che è loro e, per disgrazia, il meglio. Non ho mai provato tanta vergogna come quando ho visto in un libro di ornitologia, dov'è indicato l'habitat di ogni specie, una descrizione del pappagallo cileno: « Tricahue. Specie quasi estinta». Non dico qui il posto dove si nascondono gli ultimi esemplari di questo magnifico uccello, per evitare il suo sterminio.
Adesso mi raccontano che in questi giorni una scintilla della nostra « rivoluzione culturale » è arrivata fino al Museo dell'Arte Popolare e vuole distruggerlo.
Che il canelo araucano, dio delle foreste, ci protegga.

(1) Dalla città di Chillan, famosa per questo tipo di artigianato [N.d.T.]


UN ROMANZO

Ho un libro incartapecorito e ingiallito che mi ha sempre attirato per la sua follia e la sua verità. È la storia degli amori di don Henrique de Castro e l'ha scritta don Francisco de Lamarca, che in realtà si chiamava Loubayssin de La Marque, cavaliere francese di cui sappiamo molto poco, ma che, a quanto pare, fu un guascone che scrisse la narrazione direttamente in lingua spagnola.
Si tratta di amori tanto andati e venuti e consumati dal fuoco cavalleresco di Amadis de Gaule che il filo del romanzo si disperde fra i continenti. E passa dal Ducato di Milano al Regno di Napoli e fino alle isole Molucche fra principesse, ricevimenti, balli e banchetti, in mezzo a turchi, pastori, ciambellani, principi e guerrieri.
Ma la grandezza di questo libro sta nel fatto che la sua azione comincia in piena guerra di Arauco, nella nostra terra. E nella sua profusa galanteria retorica la terra del Cile gli da quella solennità che non avrebbe avuto se fosse stato soltanto il racconto degli amori di don Henrique, di Sicandro, di Leonora, di don Esteban, di don Diego e di donna Elvira.
Così comincia la Historia Tragicomica:

Nella regione Antartica c'è una provincia chiamata Cile, le cui estremità confinano nella parte dell’ovest con il mare Oceano, e dalla banda dell'est con grande e alta terra.

Più avanti traccia il ritratto di Lautaro: « Aveva per paggio Valdivia un figlio di un cacique al quale voleva bene e che amava come uno dei suoi figli ». Quando il giovane guerriero abbandona Valdivia per mettersi alla testa dell'esercito araucano, cambiando il corso della guerra, La Marque lo caratterizza e lo esalta:

Di quale uomo si può leggere una prova di valore così grande? E in quale libro antico o moderno si è mai trovato che essendo uno dalla parte vittoriosa, passi a quella contraria del vinto? E che solo il valore di un barbaro ragazzo abbia potuto strappare con la forza, a una nazione così bellicosa come quella spagnola una così grande e insigne vittoria dalle mani.

Non meno grandiosa è la descrizione della morte di Pedro de Valdivia, sconfitto da Lautaro nel momento culminante della sua impresa.

Nel terminare questi ultimi accenti Valdivia cadde morto fra i piedi dei cavalli, senza che nessuno dei suoi fosse presente per aiutarlo in quel frangente.

E per aver ucciso il conquistador, rimprovera la morte con queste gravi parole:

E perché sei di natura così strana che non dai mai se non per togliere? È testimone questo povero capitan Valdivia che mille volte ti ha invocata quando sudando per il peso delle armi o tormentato dalla fame andava camminando come un povero soldato (senza denaro, senza vestiti e alcune volte ferito), sotto una bandiera. E adesso che la potestà, la ricchezza e la soddisfazione lo avevano posto così in alto, gli pronunci la tua rigorosa sentenza.

Mi sono molto commosso nel trovare attraverso le 880 pagine del dimenticato romanzo il paesaggio e i nomi fragranti del sud del Cile: Penco, Concepción, Imperial, la valle di Tucapel, i fiumi araucani, « la terra del Cile, con più fiamme dell'Etna ».
Il libro finisce raccontando le avventure di don Lorenzo de Castro che, fra i Pizarro e gli Almagro e gli Atabilias, milita nelle legioni degli invasori, senza che manchi, naturalmente, l'eremita delle favole, né lo Zahumerio (1) che incatenerà gli innamorati.
Così, quindi, devono sapere quanti lo ignorano e provarlo gli eruditi, se questo è il primo romanzo cileno scritto da qualcuno che non ha mai conosciuto questa terra e ha visto il suo splendore soltanto attraverso gli adamantini versi de La Araucana. Anche se la cosa certa e importantissima è che i suoi numerosissimi idilli ed episodi si tessono e si sfilano fra il fragore delle guerre del Cile e l'odore del sangue e della pioggia del territorio australe.
Affinchè lo sappiate: questo libro è stato stampato a Parigi, nella tipografia di Adrian Tisseno, il 19 gennaio 1617. °

(1) Zahumerio, sorta di rito magico, simile al vudu [N.d.T.].


LA CACCIATRICE DI RADICI

Ehrenburg, che leggeva e traduceva i miei versi, mi rimproverava: troppa radice, troppe radici nei tuoi versi. Perché tante?
È vero. E questo me lo dicevano molto tempo prima che uscisse dal terreno il quarto tomo del mio Memoriale. Questo si chiama II cacciatore di radici.
Le terre della frontiera hanno messo radici nella mia poesia e non hanno mai potuto uscire da essa. La mia vita è una lunga peregrinazione con tanti giri e rigiri, che ritorna sempre al bosco australe, alla foresta perduta.
Lì i grandi alberi sono stati a volte abbattuti da settecento anni di vita poderosa e sradicati dal pandemonio o bruciati dalla neve o distrutti dall'incendio. Ho sentito cadere nella profondità del bosco gli alberi titanici: il rovere che si svelle con un suono di catastrofe sorda, come se picchiasse con una mano colossale alle porte della terra chiedendo sepoltura.
Ma le radici rimangono allo scoperto, consegnate al tempo nemico, all'umidità, ai licheni, all'annientamento successivo.
Niente è più bello di quelle grandi mani aperte, ferite e bruciate, che passando per un sentiero nel bosco ci dicono il segreto dell'albero sepolto, l'enigma che sosteneva il fogliame, i muscoli profondi della dominazione vegetale. Tragiche e irsute, ci mostrano una nuova bellezza: sono sculture della profondità: opere maestre e segrete della natura.
Tutto questo lo ricordo perché la signora Julia Rogers, come una fata delle foreste, mi ha mandato in regalo una radice di rovere, di cento chili di peso e di cinquecento anni d'età. Immediatamente capii col suo regalo che quelle radici appartenevano ad un mio parente, ad un padre vegetale che in qualche modo si presentava a casa mia. Forse qualche volta devo aver ascoltato il suo consiglio, il suo molteplice mormorio, le sue parole verdi, inmontagna. E forse adesso arrivavano alla mia vita, dopo tanti anni, a comunicarmi il loro silenzio.
Una cacciatrice di radici!

Immaginarla mentre annusa sull'umido humus fra l'intensa fragranza delle tricuspidarias e delle labrinias, lì dove la araucaria imbricata, le cupresinias, il libocendrus o il drimis winterey s'innalzano come torri. Affrontare a cavallo gli aghi della pioggerellina, seppellire i piedi nel fango, udire l'idioma gutturale dei choroyes, (1) spezzarsi le unghie cercando di raggiungere ogni volta una radice più importante, più intrecciata, più laocoontica.
La signora Rogers mi scrive che a volte gli alberi sradicati sono rimasti cent'anni al vento, alle intemperie, al pieno inverno. Questo dà alle opere maestre che lei cerca, strutture graffiate, colori di argenteria cenerognola, e, soprattutto, l'imponente bellezza irsuta e straziante che hanno i piedi degli alberi.
Il grande sud forestale si va estinguendo totalmente, raso, bruciato, combattuto. Il paesaggio si monotonizza e acquista il vestito industriale che serve alla « Papelera ». (2) I boschi finiscono sostituiti dalle pinete con i loro infiniti filari di impermeabili verdi. Forse queste radici cilene che la cacciatrice ha deciso di riservare per noi saranno un giorno reliquie, come le mandibole dei megateri.
Non solo per questo celebro la sua passione, ma anche perché lei ci rivela un complicato mondo di forme segrete, una lezione estetica che ci da ancora una volta la terra.

Anni fa, andavo con Rafael Alberti fra cascate, cespugli e boschi, vicino a Osorno, e lui mi faceva osservare che ogni ramo si differenziava dagli altri, che le foglie sembravano competere nell'infinita varietà dello stile.
« Sì sembrano scelte da un paesaggista botanico per un parco stupendo », mi diceva.
Anche tempo dopo e a Roma Rafael ricordava quella passeggiata e l'opulenza naturale dei nostri boschi.
Così era. Così non è. Penso con malinconia alle mie peripezie di bambino e di giovane fra Boroa e Carahue, o verso Toltén sulle alture della costa. Quante scoperte! La gentilezza del canelo e la sua fragranza dopo la pioggia, i licheni, la cui barba d'inverno pende dai volti innumerevoli del bosco.
Io spingevo i volti caduti, cercando di trovare il lampo di qualche coleottero: gli scarabei dorati, che si erano vestiti di girasole per un minuscolo balletto sotto le radici.

O più tardi, attraversando a cavallo la cordillera verso il lato argentino, sotto la volta verde degli alberi giganti, un ostacolo: la radice di uno di essi, più alta delle nostre cavalcature, che ci sbarrava la strada. Lavoro di forza e d'ascia resero possibile la traversata. Quelle radici erano come cattedrali rovesciate: la vastità scoperta che ci imponeva la sua grandezza.
Tutto questo pensando all'appassionata esistenza di una nuova cacciatrice di radici. Importante missione, come sarebbe quella di far collezione di vulcani o di crepuscoli.
Sta di fatto che le radici, che sono sempre apparse nella mia poesia, sono tornate a stabilirsi in casa mia come se avessero camminato sotto terra, inseguendomi e raggiungendomi.

(1) Specie di minuscoli pappagalli [N.d.T.].
(2) Monopolio privato della carta in Cile di proprietà di Jorge Alessandri, presidente della Repubblica dal 1958 al 1964. Fu il bastione della resistenza della destra al piano di nazionalizzazione del governo di Unidad Popular, che, invero, non riuscì a nazionalizzarlo [N.d.T.]


UNA LETTERA PER VICTOR BIANCHI

II litorale fu scosso dalle mareggiate di luglio. Il mare fece piazza pulita di molte abitazioni sulla riva. I recinti abbattuti rimasero sparsi come fiammiferi di una scatola schiacciata sotto i piedi di una moltitudine. Era fantastico vedere delle imbarcazioni messe per traverso in una strada di Algarrobo.
La grande rupe di Punta de Tralca sopportò tutto l'urto impetuoso del mare. Sembrava un leone dalla criniera bianca. Le immense ondate la superavano e la ricoprivano. Grande avamposto della costa rimase coperto di neve e crepitante sotto il fuoco freddo delle grandi spume. Di fronte al Trueno de Tralca il mare era un esercito di artiglieria infinita, di cosmiche cavallerie. Il grande oceano continuò i suoi assalti per tutta la notte e tutto il giorno splendido e azzurro.
Rimasi estasiato, ansioso, seccato e anelante di fronte al terrorismo della natura.
Non mi parve strano quando mi accorsi, Victor, che stavi accanto a me. Ti stavo aspettando.
Perché sei sempre stato, Victor Bianchi, lo spettatore attivo delle prodezze e dei disastri, della circostanza eccezionale, della commozione misteriosa, dell’ambito più stellato.

Avevi già sperimentato il panico celeste sulla stessa corona dell'Aconcagua, fra morti e sopravvissuti di un viaggio terribile. E poi i grandi fiumi tropicali ti videro passare in piroga. O le isole sconosciute che con la tua piccola statura hai esplorato sprofondando nelle crete sconosciute. Un'altra volta furono le solfatare del deserto. O le miniere geometriche del salgemma. O le segrete cataratte di mercurio colombiano.
Mi sembra che vestito da pinguino imperatore, spinto dalla tua curiosità violenta, scivolasti fra milioni di pinguini nelle pianure antartiche e imparasti segreti e linguaggi che nessuno conobbe più di te.
Avevi la chitarra avventuriera. Né Jorge Bellet né i compagni anonimi della mia traversata poterono stupirsi quando tu legasti alla sella, per attraversare le Ande con me, soltanto una coperta e la tua chitarra. E quanto ci aiutò quella scatola sonora, come cantasti e incantasti a San Martín de Los Andes, dove arrivammo come aeroliti cileni, coperti di polvere andina che è come polvere di stelle.
Ma sei sempre stato chiarissimo e meticoloso: eri una raffica controllata dalla conoscenza. Allo spuntar dell'alba, o addirittura di notte, te ne andavi solitario a esplorare il cammino del mio esilio. Andavi segnando sotto i boschi selvatici, rocce e cespugli, abissi e cascate, la rotta che avremmo dovuto percorrere qualche ora dopo. Ti alzavi presto per tracciare la mappa del cammino nella tua testa. Ti eri imbarcato, senza che ti avessimo chiamato, nell'insolita avventura. Sei sempre arrivato in tempo con la tua saggezza dove ti aspettavano, senza saperlo, quelli che avevano bisogno di te. Questo era il tuo dono. E lo hai prodigato con tale esattezza e con tanta generosità che così hai cambiato di pianeta, forse senza accorgertene, saltando da una strada all'alba verso un altro posto con la tua chitarra in mano.
Per questo quando cadeva sullo scoglio del Trueno il sale e la neve della mareggiata, e il litorale era scosso in piena luce del sole, e cielo e oceano si riunivano
la catastrofe azzurra, sentii un piccolo rumore accanto a me, ed eccoti lì.
È naturale. Quando hai avvertito la mareggiata, avrai pensato: « Qui c’è bisogno dei miei occhi. Bisogna fare qualcosa. Bisogna servire ».
Guardai, eri arrivato con la tua chitarra.
Dinamico e sonoro, servire e cantare furono i poli del tuo destino. E quando mi dissero che ad Antofagasta, nella nebbia dell'alba della pampa, su una strada, un camion ti aveva trascinato all'altro mondo, pensai fra di me: « Che fare! Ancora una volta, Victor Bianchi, mio buon compagno, ci fa una sorpresa. Ancora una volta se ne è andato con la sua musica da un'altra parte ».


LA NOTTE DEGLI SCULTORI

Spiegherò perché, pur avendone l'obbligo, non mi sono presentato una sera alla cerimonia di gala del Gran Teatro di Viareggio. Era una cerimonia d'onore dedicata ai premiati, fra i quali c'ero anch'io. Dato che il mio Premio era quello Internazionale forse era
giusto che mi aspettassero. Il palco dove si sedette Matilde era tutto pieno di ghirlande di fiori, illuminate dalle lampade della televisione. Il fatto risale al 1967. Il peccato mi perseguita ancora.
Marino Marini mi invitò a mangiare quella sera. Questo scultore dei cavalli magici, col pittore Morandi, Beato Angelico delle bottiglie, forma il duo supremo delle arti italiane. Ci dividemmo, e accompagnato dal mio editore mi presentai a casa di Marini, con l'intenzione di andare più tardi a sedermi con Matilde fra le ghirlande di Viareggio. Le cose sono andate diversamente, naturalmente.
Era una festa con pochi amici e signore lungovestite.

Ci sedemmo di fronte al giardino con le coppe di rigore. Lontano, nel fondo, una barriera di alberi oscuri estendeva lo spazio verso la profondità della notte. Marino Marini mi parve più fine e penetrante, più cittadino di strade e di case di quello che pensassi. Quando non si conosce uno, il nome forma l'uomo. E con tanto mare nel nome, lo avevo immaginato più marinaio o più terrestre. La leggerezza agile del suo corpo, la sua cortesia sottile, il tocco sorridente della sua intelligenza, non fecero che sorprendermi per tutta la cena. Cena che consumammo sotto il pergolato. Tutto era buono e bello da mangiare e da ascoltare, da vedere e da bere. Accanto a me si sedette la fiorentina più bella, dai grandi occhi dorati che stavano molto bene con un vestito arabo che la copriva dal mento alle caviglie.
« E pensare », dissi alla mia vicina « che sebbene Marino Marini abbia tutta la mia ammirazione, io dovrei essere adesso a cena da un altro scultore per certi impegni strettamente australi ».
«Come mai? », mi chiese la fiorentina abbagliante. Le raccontai allora che esisteva una città, Valdivia, in un paese lontanissimo, il Cile, e che in quella città, circa centocinquant'anni fa, un Byron del mare, denominato Lord Cochrane, aveva fatto prodezze tali che noi cileni non possiamo dimenticare. Da lì aveva intrapreso la liberazione dell'Oceano. Adesso volevamo innalzare a Valdivia un monumento alla sua memoria. E dato che il navigante era venuto dalla Gran Bretagna, pensavamo che avrebbe dovuto essere un inglese, Henry Moore, lo scultore scelto.
« E così lei vuoi vedere Henry Moore? », mi assestò la bella dagli occhi dorati.
« Non è possibile, vive in Inghilterra — risposi —. Per questa sera è sufficiente per il mio archivio stare fra lei e Marino Marini. Se sopravvivo cercherò l'inglese ».
Lei si alzò, lasciando un vuoto pieno di riverberi. Eravamo già arrivati al caffè. Tornò subito e mi disse all'orecchio:
«L'aspetto nella mia macchina. Potrà vedere Henry Moore. Si congedi senza dire dove andiamo».
Andai dietro al suo splendore. Poi il viaggio attraverso la notte sconosciuta e fiorita. Attraversavamo villaggi, frange luminose, oscurità selvatiche, di nuovo villaggi, strade di asfalto o di terra battuta. Avanti. Lord Cochrane mi aspettava. Cioè, lo scultore per Lord Cochrane.
Arrivammo in una proprietà che mi parve mitica e patriarcale, una specie di Dominio del gran Meaulnes. La fata d'oro superò i portoni. Dieci persone si fecero da parte lasciandomi solo con Henry Moore e i miei funesti presentimenti. Cosa sarebbe successo a Viareggio? E Matilde, la televisione e le ghirlande?
Henry Moore sì che era marinaio d'aspetto. Corto, tozzo, cordiale e poderoso. Naturalmente non aveva mai sentito parlare di Valdivia. Antinaturalmente neppure di Lord Cochrane. Accettò la mia richiesta. La Città dell'Acqua ordinava il monumento. Libertà assoluta. Magari a forma di albero maestro. Oppure a forma d'onda.
Fu eloquente. Mi pare che l'idea gli piacque.

A me piacciono le opere su commissione. L'artista si impegna così alla responsabilità e alla puntualità. È chiaro che non chiederemo allo scultore grandioso
sculture polemiche, né al modesto poeta da trentacinque libri cronache polemiche.
Non so come andammo ad invischiarci in una discussione strana per la mia conversazione. Non tocco mai il tema. Ma sta di fatto che in quella mezz'ora, e non si sa perché, con Henry Moore parlammo soltanto della Morte. Moore rifletteva con grande semplicità. Ebbi la sensazione di stare con un grande spaccapietre che conosce il più in qua e il più in là della durezza: cioè, la pietra infinita. Mi pare che l'idea della morte non lo importunasse: che non si sarebbe mai seccato al pensiero di morire. Su questa maturità eravamo d'accordo. La pienezza della vita rende meno lacerante l'accettazione inevitabile.
La notte si era riempita di suoni: cani e rane, distanti clacson. E mi resi conto che eravamo soli. La nostra conversazione era irresistibile ma interminabile. Cercai gli occhi fosforescenti della mia amica di Firenze. Mi riportarono attraverso stelle e vigneti, strade
oscure, silenzio pieno di musica, fino alla notte di gala di Viareggio.
Quando arrivammo mi sussurrò:
« Adesso è contento della sua Mata-Hari? ».
Anche se lei aveva guidato alla velocità di un astronauta arrivammo tardi alla porta del Gran Teatro. Ormai il sindaco e il suo seguito se ne stavano andando.
II pubblico non mi conosceva probabilmente, però per precauzione rimasi in attesa nell'ombra finchè la gente si disperse. Ristabilita la solitudine andai a cercare Matilde.
È ancora arrabbiata.


CARACAS VIBRATORIA

II Venezuela prende con amore furioso le sue elezioni. Nella sua tormentata storia queste hanno avuto tante eclissi, che adesso brillano con la carta, i bengala, gli aerei e un sacco di rumori infernali.
Caracas si è trasformata in una fiera ricca di colori. Pendono milioni di strisce e di ritratti, di volantini verdi o bianchi o celesti o rossi. Vota per l'Ancora o per la Chiave o per il Cavallo. Vota Giallo, vota Verde, vota Bianco. Vota Burelli, Prieto, Caldera, Gonzalo. E Arturo, Gustavo, Wolfgang, Miguel Otero.
La radio, la televisione, i giornali, i telefoni, assordano con una grande allegria. Escono a ballare Hitler, Bolivar, Fidel Castro, Frei.
Siamo stati alla spiaggia con Innocente Palacios, gran signore delle arti; con Miguel Otero Silva, che, compiva i suoi sessant'anni, e le loro compagne.
Matilde entrò nelle piccole onde tiepide con i venezuelani. Io rimasi a scrivere nella bellissima casa di legno brunito. Quando tornò le chiesi:
« Allora? Avete nuotato? ».
« Io ho fatto una nuotata », mi rispose, « ma loro non han fatto altro che parlare di politica fra un'onda e l’altra ».

L’appuntamento della notte venezuelana col pittore Alejandro Otero produsse un miracolo incendiato, difficilmente descrivibile. Colossali strutture, scale del cielo, torri scintillanti, sfere stellate, popolano un punto di Caracas comunicandoci un fremito diverso, una scossa planetaria.
La cosa fenomenale è che il pittore della purezza geometrica, il vincitore di una linea che sembrava perdersi nell’oscurità individuale, sia rinato in quest'arte pubblica, dal fascino totalitario. Gli immensi oggetti, simili a missili spaziali, ci abbagliano immediatamente.
La Torre Vibrante, alta più di venti metri, ci trasmette il movimento e la luce come se avesse una circolazione misteriosa. Milioni di lucciole, di api d'argento che lavorano nell'alveare verticale. La Fidanzata del Vento oscilla in una rotazione di purezza astronomica, sommandosi al distante ritmo, alla respirazione della notte. Il Rotore o l'Integrale, ciascuno con una sua vita, oscillazioni e splendore differenti, riverberano e
si muovono in modo pigro, come oggetti cosmici, attentamente strutturati, caduti nel cuore di Caracas.

Tutte le rivelazione dell'arte ottica e añetica, (1) arte che in qualche modo deriva dalla luce venezuelana, mi hanno sempre dato il godimento di un gran gioco puro, di una pulizia essenziale. Il piacere deriva da una sorpresa preclara, senza possibile mistificazione. Queste arti della chiarezza non hanno bisogno di teoria: sono la risposta della verità alla fine del labirinto.
Ma bisogna capire che se le splendenti opere di Le Parc o di Soto, a causa della gravitazione del denaro, corrono a nascondersi nelle collezioni o nei musei, un tale isolamento dev'essere superato. È intollerabile l'oscurità per oggetti così attivi, per una coscienza così luminosa.
E questa è la grande avventura: l'inaugurazione spaziale di Alejandro Otero.
Vedo a Brasilia, a Filadelfia, a Santiago del Cile e di Cuba, sulla Piazza Rossa di Mosca, nei parchi di Francia, di fronte alla sfilata della moltitudine, queste stalattiti costruite con passione, che determinano fede del destino dell'uomo attraverso l'allegria creatrice.

(1) Termine intraducibile [N.d.r.].


IN BRASILE

A Rio sono andato a trovare Burle Marx, il Conquistador della flora, Libertador dei giardini, Eroe Verde del Brasile, colui che con Niemayer e Lucio Costa forma la trilogia procreatrice delle città radianti. Mi porta a passeggio sotto foglie immense, mi mostra radici spinose che si difendono sotto la terra, tronchi che fanno le bollicine, impressionanti quermelias marmorate, ilairinas (1) misteriose e specialmente il tesoro delle sue bromelie, raccolte dal Brasile profondo o studiate a Sumatra. Sono chilometri di splendore nei quali
fiorisce lo scarlatto, il giallo, il violetto, finché torniamo a casa con una ninfea purissima che vibra come un fulmine azzurro in mano a Matilde.
Ma Jorge Amado mi chiama da Salvador e voliamo al mercato di Bahìa, a mangiare batapé (2) e bere birra nella città acchiocciolata della magia. Come avevo fatto a Rio, leggo di nuovo i miei versi al pubblico all'aperto, a ragazzi e ragazze, di nuovo concedo centinaia di autografi che mi annoiano.

Percorro con Jorge i vicoli contorti di Salvador, sotto la luce perforante. Saliamo sull'areo saturi del citrico aroma di Bahía, dell'emanazione marina, del fervore studentesco. Lasciamo sotto, sulla pista dell'aeporto, gli Amado: robusto, Jorge, sempredolce Celia, Paloma e Joâo: la mia famiglia in Brasile.
All’aria! Al vastissimo celeste! Dall'alto: la città bianCa, la citta Venere: BRASILIA!
Il deputato Marcio mi apre tutte le porte. Ma BraSilia ha porte: è spazio chiaro, estensione mentale, chiarezza costruita. I settori comuni pullulano di bambini, i loro palazzi danno dignità inedita alle istituzioni. L'architetto Italo, compagno di Niemayer, è a Brasilia ormai da dieci anni e ci indica il nuovo Itamaraty, il Congresso, il Teatro non finito, la Cattedrale, rosa ferrea che apre verso l'alto grandi petali verso l'infinito.
Brasilia, isolata nel suo miracolo umano, in mezzo allo spazio brasiliano, è come un'imposizione della suprema volontà creatrice dell'uomo. Da qui ci sentiremo degni di volare verso i pianeti. Niemayer è il punto finale di una parabola che comincia con Leonardo: l'utilità del pensiero costruttivo: la creazione come dovere sociale: la soddisfazione spaziale dell'intelligenza.

(1) Tipi di piante brasiliane [N.d.T.].
(2) Tipico piatto di Bahia, molto piccante, di origine africana [N.d.T.].


DIARIO DI VIAGGIO

Da Ipanema, con azzurro oceano, isole e penisole, monti con la gobba, trepidazione circolatoria, Vinicius de Moraes mi porta a Belo Horizonte (immensa Antofagasta della meseta), indi a Ouro Preto, coloniale e calcarea, con l'aria più trasparente dell'America del Sud e una basilica su ciascuna delle sue dieci colline
che si elevano come le dita delle mani nella riconcentrata mansuetudine. Qui vive Elisabeth Bishop, grande poetessa nordamericana che ho conosciuto anni fa in
cima ad una piramide di Chichén Itzá. Dato che non era in Brasile, le scrissi un piccolo poema in inglese, una poesia piena di errori, come si deve.
Il liberatore di schiavi e apostolo dell'indipendenza Tiradentes guarda le chiese da un'altissima colonna, nel centro della piazza dove venne squartato. Tiradentes — Cavadenti, perché era dentista — capeggiò una rivoluzione sconfitta nel cuore clericale e schiavista della monarchia. Adesso lo hanno messo, piccolissimo, su questa colonna ridicola, innalzato nella gloria, invece di metterlo in mezzo alla gente bianca e nera che
passeggia per la piazza di Ouro Preto.

Ma a Congonhas, dove siamo andati a vedere le statue dell’Aleijadinho, ci siamo trovati d'un tratto dentro un santuario con quei cantici che, con voce di bronzo, dirige un sacerdote dal tempio, e bambini, donne, venditori ambulanti, la moltitudine, insomma, che cantava e mangiava fritanga, (1) i piccini seduti sui profeti di pietra del nostro Michelangelo americano.
Tagliando il gruppo di povera gente come si taglia un formaggio, ci avvicinammo, e Matilde mi fotografa con Isaia, con Daniele, con Ezechiele, e non mi sento a disagio vicino a ciascuno di loro, solo che loro sono stati poeti migliori di me e ora si fanno vedere, nei
loro ritratti di pietra, poderosi e pensosi, iracondi o addormentati. Gionata ha un pesciolino, del quale riuscimmo a vedere soltanto la coda fra le testoline nere e bianche dei pellegrini del santuario. Mi avvicino per vedere se è una sirena (che bello sarebbe vedere un profeta nella rete di una figlia del mare), ma non lo è. Si tratta soltanto di una balena, della sua balena che l'Aleijadinho gli mise sorridente vicino alla cintola affinché non se la dimentichi nei vagoni ferroviari del cielo.

Più tardi, attraverso il pomeriggio, percorriamo foreste, grandi fiumi, strade attraversate all'improvviso da una farfalla Marpho, che ci da un brivido azzurro, e alberi vicino alla strada, coperti di fuoco scarlatto, di frutti che pendono dai rami come aerei cocomeri, di termitai, di quelle formiche che inventarono i grattacieli, e più tardi, di notte, stanchi di tanto splendore, a dormire a Petropolis, nella città fresca del Brasile, dove Gabriela Mistral ha vissuto forse le ore più felici e più sfortunate della sua esistenza. Buona notte, Gabriela!

(1) Una specie di frittata con pezzi di carne [N.d.T.].


COLOMBIA SMERALDINA

Dal ristorante di un 46° piano, a Sâo Paulo — dove la colazione si svolgeva quasi fra le nuvole — aerei a reazione o zanzare a quattro posti mi scossero, sollevarono e depositarono a Manizales.
Sono passati venticinque anni da quando ho visitato la Colombia.
Riconosco dall'alto il suo lignaggio cordiglierano, l'incrocio di monti e fiumi, di valli e vapori: una geografia di smeraldi bagnati che salgono e scendono dal cielo.
Devo presiedere una Giuria del Teatro Universitario
Latino-americano.
Il piccolo aereo scende su una pista di quattro metri di larghezza, fra due abissi: il filo di un coltello andino.
Manizales era irriconoscibile, moderna, cresciuta, pulita come nessun'altra città.
Mi immersi nello scenario quotidiano con teatro nuovo ogni giorno: del Perù, del Brasile, del Venezuela, dell'Argentina, dell'Ecuador, della Colombia. Teatro lirico o burlone, sperimentale o satanico, popolare o intellettualizzante. Ad ogni modo, vivo e vitale, elaborato meritevole. Trascorsi una settimana dentro la Sala oscura, vivendo con strani personaggi, arlecchini e straccioni, schizofrenici e dinamici papà.

A me piacque soprattutto un'opera brasiliana presa dai teatri di marionette popolari che percorrono il Brasile.
Gli attori fanno rivivere in tre atti i movimenti dei burattini e la vampiressa, il negretto saggio, il proprietario terriero innamorato, arrivano fino al cielo appesi a fili che non esistono.
Freschezza e radici popolari si incontrano in questa unità teatrale che meritò il premio all'unanimità
(Dopo il mio ritorno a Bogotà, una congiura di palazzo diede la « Maschera d'Oro » a un'opera nordamericana, oscena da far vomitare).
La mia vita a Manizales si svolgeva per la strada di giorno, al teatro la sera: perseguitato da moltissimi cacciatori di autografi, entrai a tagliarmi i capelli da un barbiere del posto, e lì mi trovai circondato da cinquanta spettatori e dovetti firmare libri e pezzetti di carta mentre il paziente parrucchiere scansava le teste per metter mano alle forbici.
Tornato a Bogotà, la poesia principale della Colombia, i Rojas, gli Zalameas, Carranzas, De Greiff, Camachos e Castro-Saavedra, mi fanno la guardia per impedire la curiosità e gli album.
Rinuncio a proseguire per il Messico, con tutto l'amore che gli porto e le molte cose che mi aspettano. Però scorre il sangue degli studenti e la Torcia Olimpica si spegne per me.

Proprio in quei giorni muore crivellato di colpi sulle montagne colombiane un guerrigliero solitario: si chiama Ciro. Per la biografia poliziesca è un bandito. Per molti un eroe. Lo accerchiò un battaglione e il ragazzo morì distribuendo pallottole. Grande tristezza fra l'emozione dell'amicizia e della chiarezza poetica della Colombia.
Quando non voglio essere decorato dal signor Lleras Restrepo, non mancano quelli che si danno per offesi.
Rispondo: niente mi separerà dal cuore verde della Colombia. Una medaglia in più o una medaglia in meno significa poca cosa. La mia poesia continuerà a celebrarti, Smeraldo.
Poi il Museo del Oro Precolombino, con le sue maschere, collane, conchiglie, farfalle, piccole rane risplendenti. La nostra America sepolta vive qui accusando i cristiani che l'hanno messa in croce. E la oreficeria miracolosa non ha voce: è un silente lampo d'oro. Dovrebbe esserci, all'uscita dal Museo, un grande catino d'oro per lasciare le acrime.
Domani voleremo in Venezuela.


ADDIO A TALLONE

Da Alpignano, vicino a Torino, mi scrive Bianca: « II nostro Alberto non è riuscito a leggere la tua lettera, né a stampare il tuo nuovo libro. Sono due mesi che ci ha lasciati per sempre ». Alberto Tallone, tipografo, doveva stampare la prosa di Leonardo da Vinci e si recò nella regione di Leonardo, per sentirlo e viverlo. Lì vide passare Bianca, fra i campi e la strada, per un istante la trovò così leonardesca che decise di seguirla immediatamente per esprimerle il suo amore. Si sposarono lì stesso alcuni giorni dopo.
Ho passato giorni felici in quella casa italiana fra Alberto stampatore e Bianca stampatrice.
La tipografia era nello stesso edificio, ampia e chiara, montata come quella di Gutenberg per il lavoro manuale, per la dimostrazione insigne dell'arte tipografica.
lo mi sono sentito onorato e dignificato perché qualcuno dei miei libri è stato stampato da quello che considero un maestro moderno della tipografia. E anche forse perché scelse, per capriccio, la mia poesia: faceva poche eccezioni con gli scrittori contemporanei. Però nella pubblicazione dei classici creò un nuovo giardino spazioso, severo e puro. I caratteri Tallone, da lui disegnati, fioriscono sulla carta Magnani di Pescia.
Le lettere Garamond trionfano sullo splendore della Rives Sgranata o della carta giapponese di Hosho.

La severità si sovrappose alla immacolata bellezza delle sue edizioni. Aveva preso a motto le parole di Charles Péguy: « La vera bellezza di un libro deve provenire dalla bellezza dell'opera scritta, dall'assenza di illustrazioni, dalla bellezza della tipografia, dalla bellezza della stampa, dall'assenza di policromie, dalla bellezza della carta ».
Noi spingiamo il libro di massa che arrivi a tutti GLI occhi, a tutte le mani. Che sia distribuito a milioni di esemplari per città, campagne, fabbriche, miniere e pescherie. Ma noi poeti abbiamo l'obbligo di difendere la perfezione del libro, il suo corpo luminoso. Alcuni piccoli settari hanno indirizzato le loro invettive contro alcuni dei miei libri, perché hanno dimostrato che anche la stampa cilena può competere in decoro con altre più famose. Questi amarissimi rimproveri non mi toccarono: i miei libri si pubblicano anche nelle edizioni più popolari e sicuramente al prezzo più basso possibile. Io favorisco le une e le altre, e per ragioni diverse. Il resto lo dispongono gli editori.

Oltre a stampare i più bei libri della nostra epoca, Tallone aveva la semplicità, la poesia e la picardia degli antichi artigiani, alla cui insigne famiglia apparteneva. La sua conversazione mi entusiasmava. In casa sua c'era, invece della sala da pranzo, una trattoria (1) col banco e i tavoli, come un piccolo ristorante. Mi spiegò che suo padre, pittore ritrattista di Corte, era un bohémien di prima grandezza. Dipingeva i ritratti dei figli del re, ma ci metteva tanto tempo che quando li finiva, i principi erano notevolmente invecchiati. Il denaro che riceveva serviva per acquistare mobili grandi e lussuosi, ma poi il pittore scompariva circondato da amici allegri e la giustizia si portava via tutto il mobilio dei Tallone. Per questo Alberto mangiò poche volte e solo per brevi periodi nella sala da ranzo familiare. Sua madre in quei periodi di smantellamento portava i figli a mangiare a credito nel vicino ristorante. Per questo, da grande e divenuto ormai stampatore famoso, si fece in casa la propria trattoria, nella quale più di una volta abbiamo mangiato allegramente.

Collezionava locomotrici e le amava. Siccome non ne sapevamo niente, una volta io e Matilde ci prendemmo un grande spavento, perché, quando entrammo per il giardino, ci trovammo improvvisamente di fronte a dei binari e più in là a una grande locomotiva che mandava fumo nero in abbondanza. Credemmo di aver sbagliato strada e di essere arrivati alla stazione del paese. Ma apparvero sorridenti Bianca e Alberto Tallone: il fumo era in nostro onore. Io ho Petrarca, le rime di Dante, gli amori di Ronsard, i sonetti di Shakespeare, le rime di Cino da Pistola, Pitagora, Anassagora, Zenone di Elea, Diogene, Empedocle, stampati dalle sue mani meravigliose.
I nuovi originali arrivarono tardi perché lui li potesse elevare all'estesa tipografia. Bianca, eroica e sola mi annuncia che lo farà lei.
Leggo nel mio esemplare di Galeazzo di Tarsia (1520-1553) stampato da Tallone, anno 1950, questi versi splendidi:

...Donna, che viva già portavi i giorni
Chiari negli occhi ed or le notti apporti...

Addio, Alberto Tallone, grande stampatore, buon compagno: prima portavi la luce nei tuoi occhi, ora in essi viaggia la notte. Ma nei tuoi libri, piccoli castelli dell'uomo, sono rimaste vive la bellezza e la chiarezza: da quelle finestre non entrerà la notte.

(1) In italiano nell'originale [N.d.T.].


L'« ESMERALDA » A LENINGRADO

È arrivata l'« Esmeralda »! È arrivata l'« Esmeralda »! (1)
Spuntano le teste dalle finestre delle cucine, i fuochisti affacciano la testa dai loro cantieri, i bambini corrono come se arrivasse la primavera, vecchi signori con barba, bastone e pantaloni a righe si fermano. Tutti guardano verso un punto. Escono dalle loro tane tutti gli abitanti segreti, tutta la gente invisibile, le cinquanta colline del porto guardano verso un solo punto. Tutti gli occhi di Valparaíso, anche quelli che non hanno avuto il tempo di guardare i fiori e le stelle, guardano contemporaneamente: è un punto bianco
che si va ingrandendo, è una colomba che va crescendo, è un veliero come una rosa bianca, è l'« Esmeralda ».
Per capire il mio paese bisogna conoscere l'« Esmeralda ».
Il Cile è un paese montuoso, elevato, pieno di ariste e di abissi vertiginosi. I minerali hanno reso irte di rame e di ferro le alture. Sulle loro cime vive la neve bianca. Il Cile è un balcone titanico e stretto. Le cordigliere ci respingono. Noi cileni ci mettiamo in fila per vedere il nostro mare, lo spazio iracondo, le onde dell'oceano. E in questa dura grandezza, l'« Esmeralda » è il nostro lusso, è la pietra lunare del nostro anello marino.

In passato abbiamo avuto altre navi che portavano questo nome. Sono state navi storiche o di passaggio: il nome continuerà ad esistere non solo per il loro ricordo: continueranno a portarlo le navi più belle, perché è una parola di color verde.
Ma l'ultima è la più bella, la migliore.
Da quando Lord Cochrane, lo scozzese portentoso, liberò con equipaggi cileni questi mari del Sud, i cileni videro aprirsi una grande via: la via del mare. L'impero spagnolo aveva messo i lucchetti alle porte dell’oceano: i catenacci caddero fulminati nelle azioni del Callao e di Valdivia. Il commercio innalzò le sue bandiere di pace. Aspettiamo e salutiamo a Valparaíso tutte le navi del mondo.
Il mar Pacifico! Onore del pianeta! Immensità misteriosa!
Abbiamo voluto che il mare si riempisse di infinite rotte, che fra il benvenuto e gli addii cambiassero di posto fiori e minerali, canzoni e macchinari, speranze e cereali. I fragori della guerra, le battaglie navali, parvero fugaci, scomparvero fra le onde immense. Le scariche atomiche sono rimaste come cicatrici nella nostra coscienza, ma l'oceano stesso finì per sommergerle. Il fatto è che questo oceano è profetico e comunicativo, vuole accorciare le distanze, vuole nuove navi, civiltà, rivoluzioni, idee, linguaggi che comunichino e si moltiplichino.
In questo momento la nostra piccola nave bianca scivola con le vele gonfie dal ferreo vento del Baltico. Si avvicina a Leningrado, la città più bella del Nord, con la statua di Pietro il Grande nella sua piazza centrale e l'immagine di Lenin nel cuore delle fabbriche.
I nostri ragazzi scenderanno verso la Prospettiva Nevsky, fra le ombre di Dostoevskij e di Puskin. Vedranno i più bei quadri del mondo e i gioielli dell'imperatore all'Hermitage. Saliranno su una nave più piccola dell'« Esmeralda » i cui cannoni aiutarono a cambiare la storia del mondo. Si chiama « Aurora » questa navicella, e quando l'ho visitata, molti anni fa, il suo capitano contribuì al mio orgoglio perché conosceva i miei versi.
Celebro questo arrivo dell'« Esmeraldà » nei porti sovietici.
Succederà anche che qualcuno si fermerà per la strada, vecchi abitanti che resistettero al freddo durante l'assedio memorabile, bambini che respirano l'aria spaziosa dell’umanità nascente. Guarderanno e penseranno alla mia patria lontanissima, situata fra i più alti minerali e i più profondi precipizi del mare. Vedranno che tutte le strade finiscono per incontrarsi, e che il fiorito mese di maggio della Russia ha comunicato con noi attraverso la nostra nave primaverile. E quando l'« Esmeralda » ritornerà, Valparaíso si spopolerà di occhi, tutti intenti a scorgere la rosa bianca che ritorna dai mari; allora vedremo sulla sua prua e sui suoi grandi petali bianchi una nuova dimensione dell'amicizia e della conoscenza fra i popoli.

(1) Nave scuola della Marina cilena [N.d.T.].


DUE RITRATTI DI UN VOLTO

II caso ha messo vicini su una parete della mia casa i ritratti di due adolescenti nati in epoche e paesi diversi. I loro destini e le loro lingue si contrappongono. Eppure, i due ritratti provocano in chi li guarda vicini in casa mia la sensazione di una sorprendente somiglianza. Si direbbe la stessa persona. Entrambi hanno una certa qualità indomabile nello sguardo. Entrambi hanno irsute ciocche di capelli sulla testa. Le stesse sopracciglia, lo stesso naso, gli stessi giovani volti di sfida.
Si tratta di una fotografia di Rimbaud, fatta da Carjat, quando il poeta francese aveva diciassette anni, e di un ritratto di Majakovskij, fatto al giovane poeta sovietico nel 1909 quando studiava nella Scuola di Arte Applicata Stroganov.
Queste due immagini adolescenti hanno il carattere comune che diede loro la contraddizione nella prima fase della vita, un segno di sdegno e di durezza: sono due facce di angeli ribelli.
Forse li unisce qualche segno segreto che rivela in qualche modo la sostanza degli scopritori.

Entrambi lo sono. Rimbaud riorganizza la poetica facendole raggiungere la più violenta bellezza. Majakovskij, sovrano costruttore di poesia, inventa un'alleanza
indistruttibile fra la rivoluzione e la tenerezza. E questi due volti di giovani scopritori si unirono per caso su una parete della mia casa, e entrambi mi guardano con gli stessi occhi coi quali esplorarono il mondo e il cuore dell'uomo.
Però parlando di Majakovskij, sappiamo che in questi giorni compirebbe settantacinque anni d'età. Avremmo potuto incontrarlo e parlargli, forse saremmo stati
amici.
Questo pensiero mi provoca una sensazione strana. È quasi come se mi provassero che avrei potuto conoscere Walt Whitman. La gloria e la leggenda del poeta sovietico sono andate così lontano che faccio fatica a vederlo entrare, nell'immaginazione, nel ristorante Aragby di Mosca, o semplicemente a contemplare la sua grande statura su un palcoscenico mentre recita quei versi scaglionati che sembrano reggimenti che assaltano posizioni col ritmo crepitante delle loro ondate successive, avvolte di polvere e passione.
È vero che la sua immagine e la sua poesia sono rimaste come un ramo di fiori di bronzo nelle mani della Rivoluzione e del nuovo stato. Sono fiori indistruttibili, certo, ben armati, metallici e fermi, ma non meno fecondi per questo. Trasportate dal vento della trasformazione le strofe di Majakovskij hanno preso parte alla trasformazione e questa è la grandezza del suo destino.

È una posizione privilegiata: l'integrazione di un cantore vero con la più importante epoca storica della sua patria. In questo la sua poesia è per sempre distinta da quella di Rimbaud. Rimbaud è un grandioso sconfitto, il più glorioso degli insorti perduti. Majakov-
skij, nonostante la sua tragica morte, è elemento sonoro e sensibile di una delle più grandi vittorie dell'uomo. In questo somiglia piuttosto a Whitman. Fanno parte della lotta e dello spazio di grandi epoche. Whitman non è un elemento decorativo della guerra emancipatrice di Lincoln: la sua poesia si sviluppa con le luci e le ombre della battaglia. Majakovskij continua a cantare nel paesaggio urbano di fabbriche, laboratori, scuole e agricolture del suo paese. La sua poesia ha il dinamismo dei grandi missili interspaziali.
Settantacinque anni avrebbe compiuto in questi giorni Vladimir Majakovskij. Che dolore che non sia qui con noi!


LE CASE PERDUTE

Mi spaventano le case che ho abitato: tengono aperta la loro anticamera: vogliono ingoiarti e sommergerti nelle loro stanze, nei loro ricordi. Io sono rimasto vedovo di tante case nella vita e tutte le ricordo teneramente. Non potrei enumerarle e non potrei abitarci di nuovo perché non mi piacciono le resurrezioni. Lo spazio, il tempo, la vita e l'oblio, non solo invadono di ragnatele le case e gli angoli, ma lavorano ad accumulare quello che accadde in certe stanze: amori, malattie, miserie e fortune che non si convincono del loro stato: vogliono esistere ancora.
Non ci sono fantasmi più terribili di quelli degli antichi giardini. Verlaine scrisse un poema saturniano che comincia: « Dans le vieux parc solitaire et glacé... ». (1) Lì due fantasmi sono stati condannati a visitare i propri giardini e il passato risorto li cerca per ucciderli di nuovo.
Non voglio vedere gli alberi che mi conobbero. Non solo crebbero alcuni anni con la mia crescita, ma crebsro soli dopo, perché nessun albero ha un bisogno indispensabile di un uomo. Gli basta la terra, l'acqua, le mubi e la luna. Si è importuni, estranei alla loro atmosfera, agli anelli della loro morfologia, al loro spazio di foglie e radici.

Eppure, quelle radici e quei rami vogliono continuare a crescere nell'anima di uno. Per questo chi ritorna ai vecchi giardini abbandonati è perduto.
Solo una volta ho voluto far ritorno in una casa dov’ero vissuto. Accadde dopo lunghi anni, nell'isoladi Ceylon.
II fatto è che la casa si era smarrita. Sapevo il nome del quartiere: Wellawatha, un sobborgo fra la città di Colombo e Mount Lavinia. Lì, in piena costa riverberante, avevo affittato un povero bungalow. Di fronte a me le scogliere di corallo, sulle quali s'infrangeva la fosforescenza marina. Le barche conoscevano le vie e i canali che dovevano percorrere per superare le fiorite scogliere bianche. La spuma esplodeva nel vicino orizzonte azzurro.
Forse in quella casa, solitaria come nessun'altra, ebbi più tempo di conoscermi. Mi salutavo appena alzato e durante il giorno mi facevo molte domande. Ho avuto sicuramente un'intimità con me stesso che poche volte ho raggiunto. Mi aiutarono in questa comprensione i grandi movimenti dell'oceano torrido, le scosse del tifone che facevano staccare le noci di cocco dalle palme con un rumore di bombardamento verde. E questo conoscermi e riconoscermi, questo lungo immedesimarsi con vento, frutta e mare, è contenuto nel mio piccolo libro Residencia en la tierra, tormentato dizionario delle mie indagini personali.
È vero che lì sono vissuto nella più esagerata povertà: quella di console volontario con 166,66 dollari USA, che non arrivavano mai.
Un console affamato non si usa. Fra gente vestita di etichetta non si può dire: « un sandwich, per favore, che sto per svenire ». Per questo mi viene da ridere quando mi chiamano diplomatico nelle mie cronologie. In alcune, per esempio, nella rivista «Esquire», mi fanno ex ambasciatore. Gli ambasciatori, stando a quello che ho sentito, hanno il nutrimento assicurato e qualcosa di più. Io fui soltanto un console perduto nelle sue povertà.

Trovai la strada. Non aveva nome, ma un numero nient'affatto romantico: 42th Lane. Forse per questo l'avevo dimenticato. Percorsi con Matilde la stradicciola, la stessa che quarant'anni prima mi portava ogni giorno verso Colombo.
Strano: tutte le case erano uguali, piccole costruzioni di una o due stanze e quel giardino suburbano dei tropici che si vergogna della sua piccolezza di fronte alla giardineria generale, di colore e splendore.
E cosa ancora più strana: il giorno dopo dovevano abbattere la casa, la mia casa.
Ecco quindi, che quelle stanze avevano continuato a dirigermi senza che io lo sapessi. Mi avevano dato appuntamento e senza saperlo io accorrevo puntualmente l'ultimo giorno della loro vita.
Entrai: la piccola sala e poi quella stretta stanza da letto dove tenni soltanto una branda da campo per tanti anni della mia residenza sulla terra. Poi, forse, in fondo, l'ombra di Brampy, il mio servitore, e quella di Kiria, la mia mangusta.
Uscii in fretta dai ricordi verso il sole, verso la vita.
La mia esperienza era stata mortale. Ero caduto nella trappola che mi aveva teso la casa in cui ero vissuto, la casa che voleva morire. Perché mi aveva chiamato?
Queste cose rimarranno nel mistero finché esisteranno le case e gli uomini.

(1) « Nel vecchio parco solitario e gelido... » [N.d.T.].


I GIORNI DI CAPRI

Luogo prediletto per il mio lavoro furono quei giorni di Capri. L'isola ha due facce ben brunite e delineate.
L'estate di Capri è turistenziale, sovrappopolata e piena di luoghi di perdizione che, sfortunatamente, non ho mai conosciuto. Non erano fuori della mia portata, ma di quella del mio portafogli.
Per l'inverno Capri conserva il suo lato migliore: la sua faccia povera, di gente che lavora, ospitale e sottile. Inoltre, d'inverno, le alture di Anacapri si tingono di violetto di sera. La vegetazione, cespugli, erbai, graminacee, esce dappertutto a salutare l'amico fedele che è rimasto d'inverno a vivere con l'altra isola, l'isola vera, pietra semplice circondata dalla spuma del Tirreno. Lì ho scritto gran parte di uno dei miei libri più sconosciuti: Las uvas y el viento.
Veniva molto presto la mattina la signora campestre che ci faceva da mangiare e puliva la casa. Vestita di grigio, di età indefinibile, minuta e rapida. La battezzai « Olivito », perché sembrava un piccolo olivo che si spostava nelle stanze come mossa dal vento invisibile che soffiava dalla Marina Maggiore. .
Tutto era a posto in casa e poco dopo mezzogiorno scompariva col suo vestito di olivo.
« Perché va via così presto? », le chiedeva Matilde.
« Sto costruendo la mia casa, signora», rispondeva.
« Una donna senza proprietà non vale niente ». (1)

Con le proprie mani, fragili e formidabili, stava elevando una casetta (1) di pietra. Una volta ci invitò e vedere la sua costruzione. Non era una casetta. Era un edificio di pietra a due piani, con archi e balconi. Quando arrivammo a vederla aveva appena terminato i muri perimetrali. Ci salutò allegramente, con le mani piene di fango e cemento.
Io scrivevo tutte le mattine su fogli sciolti. Quella volta il mio tema era « Il Vento dell'Asia », un lungo poema sulla Cina, sulla rivoluzione, su Mao, che mi sembrava allora grandioso. C'erano anche capitoli sulle cicale, cicale cinesi che si vendono in minuscole
sabbie fino a formare grattacieli.
Il caso è che una volta mi accorsi che il mio lavoro era scomparso. Vicino al tavolo c'era il cestino della carta dove a volte cadevano i miei originali. L'efficienza di Olivito non poteva arrivare alla divinazione: le mie carte sul tavolo erano lavoro, quelle dentro il cestino erano immondizia.
Facemmo il diavolo a quattro. Con Olivito e un ispettore municipale, designato specialmente per razzolare, ci trasferimmo all'immondezzaio di Capri. Orrore! Le immondizie non formavano solo promontori, ma cordigliere. Il funzionario indicò vagamente una montagna sotto la quale potevano giacere le mie ardenti strofe.
Ma quel vulcano continuava ad essere spento. Nessuna combustione interna rivelò l'esistenza di buoni o cattivi versi.
E dovetti ricostruire il lungo poema che era stato inghiottito dall'immondizia.
Ne valeva la pena? mi sono chiesto molte volte dopo, ma non per ragioni poetiche.

Fino alla mia casa di Capri veniva da Napoli il focoso, eloquente ed energetico Mario Alicata e Sarah, sua moglie.
Allcata seppe un giorno del mio entusiasmo per la cipolla da lui condiviso. Mentre io parlavo dei diversi modi di prepararla, dei sapori e degli odori, più andavo avanti e più s'inarcavano le sopracciglia sporgenti di Mario Alicata, finché non riuscendo a trattenersi mi interruppe con una cascata di eloquenza.
«Come osi tu, appena arrivato all'uso e al culto della cipolla, dare a me una lezione su questo elemento fondamentale della cucina mediterranea? Noialtri, fenici, etruschi, levantini, romani, abbiamo elaborato mille piatti con la cipolla prima che voi foste scoperti e molti secoli prima che capiste cos'è una cipolla ».
Gli risposi con altrettanto brio:
« Non sempre si tratta di invenzione. Il Nuovo Mondo ha dato grandezza, pluralità e vigore alla cipolla. L'ha resa più potente ed estesa, le ha consegnato regni inesplorati. La cipolla, grata, divenne più succosa, più trasparente e più essenziale che in qualsiasi altra
parte. Noi americani non possiamo vivere senza di essa e essa non può vivere senza di noi ».

Ci sfidammo a che successivamente a casa mia e a casa sua, in compagnia di giudici inesorabili, dirimessimo una controversia così importante, presentando ciascuno il proprio menù a base di cipolla.
Arrivò puntualmente con i giudici. Matilde e io avevamo preparato cipolle marinate al vino rosso, insalata alla piuma cipollina, pasticcio fritto incipollatissimo e seviche (2) di gamberi di Capri carichi di cipolla violetta.
Prima di finire la cipollata, Mario, con gli occhi fuori dalle orbite e le mani in alto, proruppe: « Basta, Basta! Il mio pranzo è inutile. Ti proclamo vincitore. È umiliante riconoscerlo, ma voi ne sapete più dei fenici. E potreste insegnare a mangiare cipolle ai romani ».
Ma, in realtà, la vincitrice fu Matilde. La battaglia della cipolla le fece versare calde lacrime.
Da lì, da Capri, uscirono anche Los Versos del Capitan, libro segreto che Paolo Ricci, pittore napoletano, amico intimo e giudice della cipolla, pubblicò in una bellissima edizione di 50 esemplari.
Il primo a sottoscrivere fu il grande Togliatti. Il libro circolò senza che ne fosse conosciuto il padre per molti anni. Lottò per conto suo finché divenne uomo. Lo riconobbi quando aveva già molte edizioni. Aveva l'età matura per uscire dall'oscurità e nascere di nuovo. .
Quei giorni di Capri furono fecondi, amorosi e profumati dalla dolce cipolla mediterranea.

(1) In italiano nel testo originale [N.d.T.].
(2) Piatto di gamberi crudi, conditi col limone [N.d.T.].


UNA GAMBA PER FERNAND LÉGER

II Generale Santa Anna, messicano, fu un guerriero fortunato, un soldato del popolo.
Gli toccò guerreggiare in quelle interminabili scaramucce, cavalcate, ammutinamenti, scannamenti, che accompagnano la storia del Messico. Al generale toccarono combattimenti in terre secche e spinose della frontiera. Molte delle sue azioni sono miracolo, sangue e leggenda, perché il Messico dà un tale splendore alla sua storia che i taumaturghi e i minotauri spuntano come apparizioni vulcaniche che poi si trasformano in raffinate medaglie.
Quel che è certo è che Santa Anna partecipò ai combattimenti fra messicani e gringos e a quelli in cui invasori e invasi arrivarono ad avere pari vittorie. Però alla fine la boccaccia nordamericana finì per ingoiare in diversi bocconi grandi pezzi di territorio del
Messico bello e coraggioso.
Orbene, una palla di cannone, di quelle grosse palle antiche che si sparavano con la dedica, fece a pezzi in piena battaglia un ginocchio del generale. Il cerusico militare dispose l'amputazione della gamba. E bisogna pensare a quelle guerre del secolo scorso, a quei climi divoratori, al generale febbricitante alla luce delle candele, mentre gli segavano le ossa sotto la trasparenza delle stelle, in mezzo al coro selvatico diretto dalle cicale esorbitanti e tracciato dalle fosforiche lucciole.
Il Generale .Santa Anna, a forza di forza e per sorte della sorte si trovava al colmo del suo destino. E su questo colmo prometeico il destino gli strappava una gamba con una sola beccata. Le sue armi lo avevano fatto dittatore e gli adulatori che come funghi spuntavano sotto gli ahuehuetes di Chapultepec gli conferirono il titolo di Altezza Serenissima. Ho visto dei ritratti di quell'epoca, ritratti in cui Sua Altezza mostra una nazarenica barba e uno sguardo dagli occhi oscuri di corvo. In lui brillava senz'altro quella maestà che i fautori del culto conferiscono in ogni epoca alla personalità di rapina che comanda più degli altri. Lì, poi, in quelle circostanze, ai piedi di montagne crudeli, fra l'odore del sangue appena versato e della polvere bruciata, a Sua Altezza Serenissima e per mano del chirurgo fu tagliata una gamba che cominciava ad andare in cancrena. È quasi sicuro che senza anestesia resistette e sopravvisse all'amputazione quel soldato colossale. E quando ormai si scartava il pericolo di morte, sopraggiunse una battaglia inattesa e insolita.
Il chirurgo stava per buttare nel secchio dell'immondizia quel membro tagliato quando qualcuno, un politico, glielo impedì, dicendogli: « Come, lei butta via così come niente questo frammento del corpo di Sua Altezza? » II medico deve avergli risposto: « Cosa vuole che ne faccia? » « La cosa merita riflessione », risposero in coro gli accoliti. « Questa gamba ha fatto innumerevoli prodezze, è entrata nel territorio nemico e ha conquistato tanti allori come il resto del corpo del generale. Bisogna avere più rispetto ».
Dato che la discussione fra scienziati e cortigiani si prolungava e pareva non avere termine, il chirurgo decise di mettere la gamba sotto alcool in un recipiente, in attesa che la luce del nuovo giorno mettesse d'accordo i litiganti.

Ma le cose si complicarono.
Le notizie propagate con eccessiva rapidità divisero a quanto pare i cittadini. Si formò il partito della gamba e un antipartito più sensato, ma meno entusiasta. Editoriali di giornali di Chihuahua e di Tehuantepec chiamavano i patrioti a impedire l’irriverenza: quella estremità era sacra, sacra quanto la barba o il pensiero militare del dittatore. Gli antigamba, da parte loro, avevano perduto la fede nelle barbe dal momento in cui il generale aveva imposto alle sue guardie di Palazzo l'uniforme medievale delle Guardie Svizzere del Vaticano. Dato che queste nuove guardie svizzere erano indios imberbi, con le uniformi furono importate anche delle abbondanti barbe. Forse quelle barbe introdussero nuovi motivi di scherzo e di sfiducia fra gli iconoclasti. Quel che è certo è che il partito antigamba parve guadagnare terreno in alcune province. .
Eppure, prevalse l’ortodossia, la scienza venne sconfitta e venne ordinato il primo monumento funebre a una gamba.
Stupendi artigiani fecero in ceramica la storia e le imprese dell'estremità del generale. Il mosaico così prodotto ricoprì il monumento piramidale. E giunti il giorno e l'ora della sepoltura, un imponente corteo avanzò per le strade della città.

Sette bande con tromboni e trombette precedevano le esequie. Subito dopo i dragoni montati su corsieri bianchi, su un affusto rivestito di broccato e oro, andava l'augusta gamba. Più indietro, in silenzio, la carrozza di Sua Altezza Serenissima precedeva i gruppi ministeriali, diplomatici, clericali, dei sindaci e fiscali che obbligatoriamente partecipavano alla cerimonia.
Parlò il Ministro della Guerra per fare il panegirico della gamba. Indi il decano del Corpo Diplomatico; l'Ambasciatore d'Inghilterra disse alcune brevi parole senza far riferimento al pezzo anatomico che veniva immortalato. Fu un esempio di sobrietà.
Ventuno cannonate e marce militari posero fine
al singolare funerale. Il popolo, dagli occhi scuri, senza
voce né voto, si disperse senza partecipare a giubili,
lutti o cerimonie. Tutto tornò alla normale anormalità.
Passò il tempo e il popolo dagli occhi scuri recuperò
l’impeto messicano. Si accese la sua fiamma iraconda e
una rivoluzione come un fiume in piena inondò, an-
cora una volta, la vita del Messico. Stanco della tirannia,
della miseria e della farsa, irruppe con violenza
dappertutto. Gli spari risuonavano per la capitale e per le province. I cavalieri cingevano le cartuccere e pativano veloci.
Per dove? Sfortunatamente, la moltitudine che si era sbagliata tante volte, sbagliò anche questa volta. Grandi valanghe si precipitarono verso l'antico cimitero, dove sbatterono e distrussero l'unico e meraviglioso monumento eseguito in ceramica azteca a onore e gloria di una gamba.
Nel frattempo, Sua Altezza Serenissima ebbe il tempo di scappare, forse a Miami, dove visse lunghi e felici anni senza una battaglia in più e con una gamba in meno.

* * *

Questo racconto piaceva molto a Fernand Léger. Dappertutto mi chiedeva: « Maintenant raconte-nous cette histoire de la jambe ». (1)
Voleva che la scrivessi e se ne facesse un balletto. Lui era disposto a concepire la coreografia e i vestiti per questa storia fantastica. Non l'ho mai scritta, ma adesso che lo faccio, dopo che è ormai morto il mio grande amico e grande pittore di Francia, la dedico alla sua memoria.

(1) « Adesso raccontaci quella storia della gamba » In francese nel testo originale N.d.T.].


RAMÓN

Scrivo a Isla Negra
costruisco
carta e canto.
Il giorno era rotto
come l'antica statua
di una divinità marina
appena tolta dal suo letto freddo
con lacrime e fanghiglia,
e assieme al movimento
scopritore
del mare e delle sue sabbie,
ricordai i lavori
del Poeta,
l'insistenza radiante della sua spuma,
il venturo vento delle sue onde.
E a Ramón
dedicai
i miei inni mattutini,
la serpe
della mia calligrafia
affinché quando
uscirà
dalla sua prolissa torre di carpincho (1)
riceva la serena
grandezza di una raffica di Cile
e che brilli al mago il cappello conico
e si versino tutte le sue stelle.

Da Navegaciones y regresos, 1959.
(Frammento)

La Spagna è un paese di scopritori perduti, di inventori ignorati. Lo spagnolo non nasce che in Spagna, e questo per ragioni prenatali, di volontà anteriore, o perché lo respinsero da tutte le terre e non trovò altra soluzione che quella di arrangiarsi per nascere lì. Ci sono pochi spagnoli che si sono sbagliati di nascita e uno di loro è stato lo spagnolo don Cristoforo, che non riuscì ad arrivare al Levante spagnolo, dove era previsto che nascesse. Deciso quindi questo punto, lo spagnolo si impegna nella difficile professione di esserlo, con tutti i pori, con l'allegria tragica che ha retto la Spagna.
Così, dunque, questo paese così serio non prende sul serio i suoi rappresentanti, e questi fanno il giro del mondo finché dopo morti gli indicano da fuori la loro statura.
Penso che come nel caso di Gaudì e di Picasso, senza andare più lontano nella storia del pentimento, ci troviamo di nuovo di fronte alla stessa situazione con il poderoso ingegno chiamato Ramón Gómez de la Sema.
Ci sono degli uccelli che depositano le loro uova in lontani nidi, e i movimenti della cultura assumono talvolta questo aspetto demoniaco. Della commozione dadaista è rimasta solo una grande opera. L'uovo da cui uscì a volare l'Ulysses si aprì a Dublino, lontano da Zurigo e da Parigi, e l'uccello grandioso inzuppò le sue ali nelle nebbie stagnanti, nei vicoli e nei dedali di strade irlandesi.
Così anche la grande figura del surrealismo, fra tutti i paesi, è stato Ramón. È vero che supera quella scuola, perché è anteriore e posteriore, e perché la sua dimensione feconda non entra neppure in una scuola a tanti piani.
Questo spagnolo, neppure lui preso sul serio, è quello che sbaraglia senza acredine il Parnaso repubblicano così pieno di scrittori raffinati.
La rivoluzione ramoniana non è una scaramuccia, una battaglia a fondo che ci rivela il valore vero, l’erario dell'idioma. Con quella salute di contadino ha dato tali palettate nell'alba oscura che tutto cominciò a luccicare, e io sono convinto che è oro tutto quello che riluce e anche quello che non riluce in Ramón.
Tutta la sua opera è la sua automoribundia. (2) Nonostante sembri così disarticolata, va ferreamente unita dalla luce spettrale dell'inventario. Ramón aprì i cassetti del mondo e si mise a catalogare le cose e gli esseri più straccioni e i più eminenti, e con la sua tinta battesimale inaugurò di nuovo il mondo. Ma questo mondo, che sembrava intrasferibile dallo spagnolo e dal personale, si è visto che è ereditario, come il regno di un grande re.
La nostra lingua continuerà a fare affidamento sulle sue invenzioni e i suoi baccani, sulle sue invocazioni a lutto, le uniche cui ricorre el Greco, quella ginnastica atletica con la quale ha asciugato l'ossatura grammaticale affinché la lingua assumesse gli autentici colori del delirio.
Attenzione, però! Perché c'è tanta verità e tanta ragione nell'affaticamento monumentale di Ramón, che a poco a poco si andranno scoprendo le sue verità e le sue ragioni.
Come poeta americano, abitante di altre terre dove ci sono più fiumi e più alberi che persone e personaggi io mi concedo l'onore di parlare di Ramón per incitare alla sua continua scoperta, a convivere con i suoi doni favolosi.
Non so perché lo faccio. Forse per un appassionato dovere.

(1) Roditore anfibio, argentino [N.d.T.].
(2) Parola, immagino, inventata da Neruda; intraducibile, può significare la contemplazione della propria morte [N.d.T.].


SI E SMARRITO UN CABALLO VERDE

La Casa editrice Aguilar, di Madrid, prepara un'antologia di Julio Herrera y Reissig, il poeta della decadenza e della grandezza poetica uruguayana. Per questo c'è bisogno di un numero della mia rivista « Caballo Verde para la Poesìa ». Questo numero era completamente dedicato all'uruguayano. Ma la rivista non si trova da nessuna parte. Racconterò quello che è successo e quello che non è successo.
Io portai la passione herrerayrreissighiana (1) a Madrid, alla mia generazione. È vero che qualche brillante erudito si era preoccupato qualche volta di lui: c'era l'erudiziene, ma non la passione. Non c'è niente di più appassionato della poesia di questo uruguayano fondamentale, di questo classico di tutta la poesia. Fu così che io lessi a Vicente Aleixandre, e poi a Federico, a Alberti, a Altolaguirre, a Cernuda, a Miguel Hernández e ad alcuni altri, le decime gotiche di Herrera y Reissig. Io contrapposi l'esagerato criollo, con il suo scintillio di immagini conturbanti, all'altrettanto uruguayano Lautréamont, il cui delirio continua a incendiare la poesia del mondo.
Herrera y Reissig sublima la goffaggine di un epoca, arroventandola a forza di figurazioni vulcaniche. Lo si potrebbe paragonare soltanto all'architetto Gaudì, che fa scoppiare l'arte del 900 col suo sistematico parossismo, necessario come una grotta manna per la riproduzione della bellezza. Lautréarnont taglia a freddo rospi sauri e risentimenti, con crudele premeditazione. I Canti di Maldoror sono il delitto più perfetto della poesia universale.
Volli onorare di preferenza Herrera y Reissig, perché fra i modernisti ha una fosforescenza propria, da lucciola. Se Rubén Darío è il re indiscutibile della marmoreria modernista, Julio dell'Uruguay arde in un fuoco sotterraneo e sottomarino e la sua follia verbale non ha confronto nella nostra lingua. A Rubén Darío venne pagata in Spagna la moneta discepolaria del riconoscimento, ma l'immortale uruguayano passò inavvertito: non ebbe corifei, né fu imitato con l'intensità creatrice dei seguaci di Rubén.
Herrera y Reissig è vertebrato e fatidico e la sua arte è un'orologeria di conseguenze esatte, un turbinio con i lampi dell'esattezza. Assume in questo modo il
grande sproposito poetico che non ha paura di nulla ed è difficile andar oltre nell'assurdo:

...Divenne un arco lo scatenarsi
di quel quadrupede erroneo...

Quando leggevo ai miei compagni spagnoli La tertulia lunatica uscivano delle scintille verdi, diamanti solforici e più aumentavano d'intensità le sorprendenti equazioni delle decime juliane, più intensamente si comunicava il potere poetico dell'uruguayano.

Allora decisi di pubblicare un numero doppio — 5 e 6 — alla mia rivista « Caballo Verde » e di dedicarlo integralmente a Herrera y Reissig. Ricordo che Ramon Gómez de la Sema scrisse, col suo stile egregio, una pagina e mezzo in cui tracciava il profilo del grandioso poeta. Vicente Aleixandre mi consegnò un omaggio: un poema dalla lunga capigliatura. Miguel Hernández e altri scrissero i loro ditirambi magnifici. Féderico lo fece con maggiore conoscenza di tutti, dato che, già a Buenos Aires avevamo confrontato le nostre preferenze e avevamo deciso di andare insieme alla tomba uruguayana del poeta a portare una corona. Io scrissi il mio poema « L'uomo sepolto nella Pampa ».
Manual Altolaguirre stampò il numero doppio della rivista in quei grandi caratteri bodoni nei quali la poesia sembra risplendere. Tutto era pronto e avremmo dovuto cucire i quartini il giorno dopo quando scoppiò la Guerra Civile. Questa veniva dall'Africa e la Spagna si riempì di fucili. Non ci fu ormai più tempo per i libri. Cominciarono i primi bombardamenti. Poi il disastro.
E, dappertutto, la morte dei poeti. Federico a Granada, Machado sulla frontiera francese, Miguel Hernández in una prigione. r'

Ed ecco, la guerra si porta via uomini e finestre, muri e donne, e lascia tombe e lascia ferite. Ma si porta via anche nel suo sanguinario ventaccio, libri, fogli di carta che non vogliono tornare.
Così può essere accaduto, così sarà accaduto col mio « Caballo Verde ».
I collezionisti mi scrivono da Chicago, dalle Filippine. Vogliono leggere quest'ultimo numero, questi onori reissighiani.
La tipografia funzionava nella casa stessa di Altolaguirre. Tutti entravamo nella bottega, nella cucina, nei versi, nell'intimità del mio compagno ammirevole. Tutti uscimmo da lì scaraventati dalla guerra, esiliati, gravemente feriti.
Altolaguirre si dedicò alla cinematografia. Tornò in Spagna a far vedere il suo primo film e uscendo da Burgos la macchina da lui guidata andò a fracassarsi con lui in un incidente mortale.
Il mistero di « Caballo Verde », della sua ultima puntata, continua forse ad aggirarsi per la via ViriatO, a Madrid, città che, da allora, da quella guerra, non sono tornato a vedere né a vivere.
Sarà in qualche cantina, inanimata e ingiallita, la mia migliore rivista di poesia? Fino ad ora nessuno ha potuto saperlo. Non solo i collezionisti che mi scrivono sanno che è introvabile, ma io stesso ho il presentimento che sia incorporea, vestita con le sue pagine
da fantasma che attraversa la notte della guerra e la notte della pace.

(1) Aggettivo da Herrera y Reissig [N.d.T.].


ERRATAS Y ERRATONES

II mio prossimo libro entra e esce dalle tipografie senza decidersi a mostrarmi la faccia. Si è trovato coinvolto nell'antica guerra dei refusi. Questo è il sanguinoso campo di battaglia in cui i libri di poesia cominciano a far male al poeta. Gli errori di stampa sono le carie delle righe e fanno male in profondità quando i versi prendono l'aria fredda della pubblicazione.
Ci sono erratas e erratones. (1) Le erratas si rannicchiano nella boscaglia delle consonanti e delle vocali, si vestono di verde e di grigio, sono difficili da scoprire come insetti o rettili armati di pungiglione nascosti sotto il verde della tipografia. Gli erratones, invece, non fanno mistero dei loro denti di roditori furiosi.
Nel mio libro su nominato mi attaccò un erraton abbastanza sanguinario. Dove dico l'acqua verde dell’idioma la macchina si guastò e apparve l'acqua verde dell'idiota. Sentii il morso nell'anima. Perché per me, la lingua, la lingua spagnola, è una sorgente popolata da infinite gocce e sillabe, è una corrente irrefrenabile che scende dalle cordigliere di Góngora fino al linguaggio popolare dei ciechi che cantano agli angoli delle strade. Ma quell'« idiota » che sta al posto di « idioma » è come una scarpa rotta in mezzo alle acque
del fiume.
Il romanzo può anche passar sopra agli irrequieti errori di composizione e della linotipia. Ma la poesia è sensibile e inciampa nei lancinanti ostacoli. La poesia si risente spesso del rumore dei cucchiaini da caffè, dei passi della gente che entra e esce, della risatina fuori tempo. Il romanzo ha una geografia più montagnosa e dei sotterranei dove sono conservati dei vestiti preistorici e degli equivoci artificiali.

Il mio grandissimo amico Manuel Altolaguirre, poeta gentile di Spagna, che stampava la mia rivista poetica a Madrid, era uno stampatore glorioso, che con le sue stesse mani formava le casse con stupendi caratteri Bodoni. Manolito faceva onore alla poesia con la sua e con le sue mani di arcangelo lavoratore. Fu lui a tradurre e a stampare con singolare bellezza l'Adonais, di Shelley, elegia in morte del giovane Keats. Quanto splendore emanava dalle strofe auree e smaltate del poema nella maestosa tipografia che faceva risaltare ogni parola come se si stesse formando di nuovo nel crogiuolo.
Eppure, Altolaguirre procreava erratas e erratones, e arrivò perfino a metterli in copertina, dove furono notati dopo che i libri erano stati distribuiti in libreria. A lui, al mio carissimo Manuel Altolaguirre, appartiene quella prodezza nel campo degli errori che adesso vi racconto. Perché si trattava di un rimbombante e mellifluo rimatore cubano, brioso come solo lui poteva essere, per il quale e in pochissimi esemplari il mio amico stampò una piccola opera maestra tipografica.
« Errori? », chiese il poeta.
« Nessuno, naturalmente », rispose Altolaguirre.
Ma quando aprì l'elegantissimo stampato, si scoprì che laddove il rimatore aveva scritto: « Yo siento un fuego atroz que me devora », lo stampatore aveva collocato il suo erraton: « Yo siento un fuego atràs que me devora ». (2)
Brioso autore e colpevole stampatore presero assieme una lancia e seppellirono gli esemplari in mezzo alle acque della baia dell'Avana.
Non ho potuto fare lo stesso io quando una tipografia, nel mio Crepuscolario, invece di besos, lecho y pan mise besos, leche y pan. (3) Molte volte ho visto tradotto in altre lingue quell'errore madornale e quel milk mi costava lacrime. Ma l'edizione in spagnolo, dove apparve per la prima volta, era un'edizione pirata e io non ho potuto mandare a cercare l'editore per farlo sbarcare con me su una lancia e andare a buttare nella baia l’erraton.
Certi refusi del passato mi fanno sentire nostalgia di strade e vie che non esistono più. Si tratta di quelli che si conservano anche nelle ristampe del mio libro Tentativo del hombre infinito.
A quell'epoca abolivamo, come si fa di nuovo adesso segni e punteggiatura. Volevamo, nella nostra poesia, una purezza irriducibile, il più vicino possibile alla nudità del pensiero, all'intimo travaglio dell'anima.
Così, quando ebbi nelle mie mani le prime bozze di quel piccolo libro edito da don Carlos Nascimento, scoprii con piacere un ammasso di refusi che palpitavano fra i miei versi. Invece di correggerli restituii intatte le bozze a don Carlos, che, meravigliato, mi
disse:
« Nessun errata? ».
« Ce ne sono e ce li lascio », gli risposi con superbia.

Il mio primo editore era abituato ai miei sgarbi, che non facevano più un grande effetto su di lui. Fu così che si tenne in tasca i versi e gli errata. La mia gioventù trovava nei funesti errori una fonte spontanea che aiutava la mia creazione rendendo enigmatici i
miei versi. Pensai addirittura di pubblicare un libro in cui ogni parola fosse errata o erraton.
Ormai sono molto lontano da quel romanticismo e li perseguito con forbici per potare, insetticida e schioppo.
Ma, sempre, imboscato in una strofa, come dietro un albero, l'errata o erraton mi mostrerà le sue orecchie.
Ma noi scrittori dobbiamo anche riconoscere che la brusca interruzione dell'errore altrui in una riga ci porta anche ad una verità sconosciuta: all'intestino della tipografia, alle sue viscere di ferro, alle sue membrane, al suo succo gastrico nero. Gli errata ci portano diritto al nostro lavoro umano. Dobbiamo scendere dal nostro castello verbale e capire l'infinito lavoro che sta nascosto sotto ogni riga: movimenti di occhi e mani: i soci anonimi del pensiero: i lavoratori che da Gutenberg in poi continuano a far parte dell'esercito che combatte con noi.

(1) Refusi grossi e piccoli. Gioco di parole con er-ratas, er-ratones, la cui traduzione suonerebbe « tope e toponi ». Lascio nell'originale: diversamente andrebbe perso tutto il gioco ironico di suoni e significati [N.d.T.].
(2) Atroz = atroce, atrás = di dietro: «Sento un fuoco atroce che mi divora», corretto; «Sento un fuoco di dietro che mi divora», errato [N.d.T.].
(3) «Baci, letto e pane», corretto; «baci, latte e pane», errato [N.d.T.].


NELLA NOTTE DI TUTTO IL MONDO

Più di trent'anni fa mi è capitato di arrivare a Saigon in una automobile — una limousine nera — di suprema eleganza, verniciata come una cassa da morto. Mi portava un impeccabile autista francese con tanto di uniforme. Giunti nel centro della città, gli
chiesi:
« Qual è il migliore albergo della città? ».
« II Grand Hotel », mi rispose.
« E qual è il peggiore? », continuai a chiedergli. Mi guardò sorpreso.
« Uno che conosco nel quartiere cinese », mi disse. « Ha tutti gli inconvenienti ».
« Mi porti in quello lì », gli risposi.
Di malavoglia cambiò dirEzione verso la città cinese e lì, davanti a una porta, lasciò cadere la mia polverosa. valigia. La mollò dall'alto in basso, mostrandomi il suo sdegno. Mi aveva preso, per sbaglio, per un signore.
Comunque, la stanza, anche se disordinata, era spaziosa e piacevole. C'era un letto coperto da una zanzariera, un candeliere. All'altra estremità si trovava una pedana di legno con un poggiatesta di porcellana.
« E quello a cosa serve? », chiesi al cameriere cinese
« Per fumare oppio », mi rispose. « Ti porto una pIpa? ».
« Per ora no », gli risposi, per dargli qualche speranza di aumentare la sua clientela.
Mi trovavo, dunque, nel cuore della cineseria. Le città dell'Oriente, da Calcutta a Singapore, da Penang a Batavia, erano vaghi e ufficiali insediamenti europei dei colonizzatori, circondati da immensi quartieri cinesi, bancari, artigianali, multitudinari.
È un principio sacro per me, ogni volta che mi trovo in una città nuova, andare per le strade, per i mercati per i vicoli assolati o oscuri dove splende la vita. Però quella volta, troppo stanco, mi stesi sotto la garza della zanzariera protettrice e mi addormentai.

Il viaggio era stato duro in un povero autobus traballante che aveva scosso le mie ossa attraverso la penisola indocinese. Alla fine la carretta non volle andare più avanti, si bloccò in mezzo alla foresta e lì, senza dormire, nella strana oscurità, mi raccolse un'automobile che passava. La sorte volle che si trattasse nientemeno che della macchina del governatore francese. Così si spiega il mio arrivo a Saigon in gloria e maestà.
In quel letto cinese dormii infinitamente, perduto nei sogni, affacciandomi attraverso le loro finestre ai fiumi del sud, alla pioggia di Borea, alle mie scarse ossessioni. D'un tratto mi svegliò una cannonata. Un odore di polvere colò attraverso la zanzariera. Tuonò un'altra cannonata, e un'altra ancora, diecimila detonazioni. Cornette, campanelli, trombe, scampanio, fanfare, urla. Una rivoluzione? La fine del mondo?
Era qualcosa di molto più semplice: era il Capodanno cinese.
Tonnellate di polvere assordavano e accecavano. Uscii in strada. I fuochi d'artificio, i razzi e i bengala diffondevano stelle azzurre, gialle, amaranto. La cosa che mi impressionò fu una torre dalla quale cadevano cascate di fuoco multicolore, finché, staccandosi, si vide in alto un acrobata che ballava circondato dal fuoco sferico di una gabbia accesa. L'acrobata si contorceva danzando nel crepitio a trentacinque metri di altezza.

Alcuni anni dopo mi capitò di andare pericolosamente nella notte di Capodanno per le strade di Napoli. Da ogni finestra, da ognuna delle finestre di ogni casa napoletana scaturivano i fuochi d'artificio, i bengala e i razzi. Che gara senza pari nella follia fosforica! La cosa grave per me, passante perduto in quelle strade, fu che quando si rifece silenzio e si furono spenti i bagliori della luce cominciarono a cadere attorno a me ogni tipo di oggetti indescrivibili. Tavoli zoppi, libroni e bottiglie, sgangherati sofà, cornici sbrindellate con fotografie baffute, casseruole bucate. I napoletani buttano dal balcone la loro povertà dell'anno. Si staccano con allegria delle cose inutili e assumono in ogni resurrezione del tempo l'impegno della pulizia senza mezzi termini.
Ma per vivere la notte di Capodanno, il posto migliore è Valparaíso. Lo spettacolo è luminoso e navale. Fra le navi pavesate e illuminate a giorno, la piccola « Esmeralda » è il veliero gioiello: i suoi alberi sono croci di diamante e stanno molto bene al collo celeste della notte di festa. Tutte le imbarcazioni ci danno in quella notte non solo l'esaltazione del fuoco, ma anche alcune voci recondite: tutte le trombe di Nettuno, riservate ai pericoli dell'oceano, in quella notte si dispongono a suonare con allegria.
Eppure, la meraviglia sono le colline, che spengono e accendono la zona circostante illuminata, dando una replica di luce e d'ombra all'entusiasmo dell'illuminazione marina. È commovente vedere questa pulsazione delle colline che rispondono con tutti i loro occhi al saluto delle navi.
L'abbraccio dell'Anno Nuovo a Valparaíso rimarrà indimenticabile. Anche lì, in un certo modo, bruciamo le nostre povertà e a colpi di luce e di fuoco aspettiamo puliti i giorni a venire.


UN LIBRO DI SETTE COLORI

Due libri ho ricevuto da Elsa Triolet, quasi contemporaneamente. Un romanzo: El ruiseñor se calla al amanecer. (1) L'altro è La mise en mots.
Non so come tradurre questo titolo. L'adattamento, la presentazione delle parole? È qualcosa di più, questo libro. È il processo intimo, l'ordinamento del pensiero scritto. È il dramma dello scrittore, la fortuna dello scrittore. È il dramma e la fortuna di Elsa Triolet, scrittrice bilingue, russa e francese, scrittrice in carne e ossa, con l'anima divisa in due idiomi, in due patrie. « Essere bilingue è come essere bigama », confessa Elsa Triolet. La portentosa Elsa: chiaroveggente, dagli occhi incomparabili, che le vengono dall'Est e in seguito educati nella luce di Francia.
Ma il libro delle parole, stampato da Skira, è non solo testualmente impressionante, ma anche editorialmente magico: è bianco come una colomba bianca; è liscio, come un corpo di marmo, e vola, come una farfalla dai sette colori. Vola con le parole di Elsa Triolet, vola incontro al tempo, con ali dure, impeccabili e durevoli.
« Si capisce, mi sono sbagliata spesso nella vita. O meglio, non mi sono sbagliata, mi hanno ingannata. Accecata dal sole della fiducia, non vedevo che il fuoco, il sole. Ma questo non è mai entrato a far parte dei miei scritti. Mi sono attenuta a quello che potevo toccare. Ho camminato con le mani tese come una cieca cercando di riconoscere la mia strada », dice l'autrice.
In questo libro si incrociano le esistenze vitali di Elsa, il suo esame condotto con la massima rettitudine sulla propria condizione, fino ai dipinti di Francis Bacon e di Paul Klee. D'un tratto un cielo di Nicolas de Stael, con tutti gli azzurri dell'azzurro, porta un Brasile luminoso alle sue pagine, come un frammento di Piero di Cosimo o del Greco portano il sussurro delle età.

Invidio i libri bellissimi e questo è uno di quelli che mi piacerebbe fosse mio affinché le mie dita potessero toccare la mia stessa poesia.
Per i nostri deserti, per il nostro grande suburbio americano, non circolano come dovrebbero i libri che formano l'opera lunga e bella di Elsa Triolet. E questo non riguarda soltanto gli editori: il rimprovero va al silenzio delle nostre riviste, che dedicano spazio soltanto alle mode più passeggere. A partire da Bon soir Thérèse, continuando coi Caballo Blanco e Rojo, passando per le Rosas a Crédito, il Luna-Park, la Cita de los extranjeros, (2) Elsa Triolet è una scia energica di riflessione e di emozione: nel cielo di Francia, una Via Lattea di scintillanti stelle. Tanto peggio per noi se non la conosciamo.
Difendendo la vita di Majakovski, ha assunto anche la difesa della sua eredità, non solo della sua poesia, ma anche dei suoi amori, della sua verità. Nessuno quanto lei ci ha rivelato la turbolenta intimità del grande poeta della Rivoluzione, e nessuno ha avuto parole più giuste e taglienti di lei quando gli impostori, come fanno ancora oggi, hanno voluto ferire colei che il poeta più amò. Si direbbe che la proiezione majakovskiana, la sua scossa poetica integrale, sarebbe bastata a mettere a tacere per sempre gli invidiosi. Ma l'invidia acquista forze inumane. Dobbiamo ringraziare Elsa per la sua coraggiosa e giusta posizione. .
Elsa Triolet è qualcosa di più. Aragon sostiene che Elsa, sua moglie, gli permise di staccarsi dalle sue chimere, dagli impedimenti che portava con sé, dalle ragioni negative che lo perseguitavano. Lei, dice Argon, mi ha restituito il valore di essere e, in più, la forza di arrivare ad essere.
Molte volte sono passato e ho visto vivere o son vissuto con gli Aragon. È naturale che l'intelligenza creativa, l'arguzia e l'allegria, la passione e la verità, ci lascino sempre una lezione. A me, per lo meno, mi fanno riconoscere i miei esasperanti limiti.
Ma quello che ho ammirato di più in questa coppia di lavoratori è stato il lavoro. Il lavoro costante, appassionato, ininterrotto, fecondo, illimitato, inesauribile, come se traesse forza dalla sua stessa funzione. Il lavoro come il dovere più grande dell'amore e della coscienza.
Il grande poeta Reverdy, poco prima di morire, parlandomi degli inizi di un'altra illustre coppia di scrittori, Sartre e Simone de Beauvoir, mi raccontava come li vedeva entrare, sconosciuti allora, al caffè Les Deux Magots. (3) Ciascuno portava un rotolo di carca bianca sotto il braccio, mi diceva. Ciascuno usciva con un rotolo di carta nera d'inchiostro sotto il braccio, dopo alcune ore.
Sia Aragon che Elsa Triolet ci hanno dato su carta nera d'inchiostro abbagliante poesia, speranza nei giorni più ostili, fiducia nel destino dell'uomo.
In questo libro Elsa Triolet si lamenta di non poter dire di più di quanto è possibile dire con le parole. Ciononostante, ha impregnato le parole di un'avventura infinitamente espressiva. Questa donna bilingue ha parlato per tutte le latitudini, per tutti gli esseri.


(1) L’usignolo tace all’alba [N.d.T.].
(2) Buona sera, Teresa, Cavallo Bianco, Rosso, Rose a credito, Luna-Park , L'appuntamento degli stranieri [N.d.T.].
(3) Oggi, sul menù di questo famoso caffè parigino, situato di fronte alla chiesa di Saint-Germain-des-Prés, ma divenuto più un'attrazione turistica che in ritrovo di intellettuali di valore, c'è scritto: « II caffè dell'élite intellettuale ». L’élite intellettuale parigina pare che si ritrovi a poca distanza, dall’altro lato del Bouluevard Saint-Germain, alla « Brasserie Lipp ».


CON CORTÁZAR E CON ARGUEDAS

Non sta bene che l'irritazione arrivi a prendere il posto della meditazione nella mischia fra Cortázar e Arguedas. Si tratta di un dibattito tanto profondo quanto interminabile, ed è difficile dar ragione o toglierla ai nostri due egregi contendenti.
Io ho sempre sostenuto che lo scrittore nei nostri paesi abbandonati deve rimanerci, per difenderli. I formidabili libri della costa del Pacifico che denunciano il martirio degli indios sarebbero stati forse
impossibili da concepire dall'esilio, senza quello sbattere la testa contro i dolori di ogni giorno di questi popoli. Per questo forse la mia vita è stata un partire e ritornare, un partire per tornare. Avrei potuto rimanere in molti posti. Ma rimango qui.
Nei libri di Cortázar, di Vargas Llosa, di Fuentes e di Garcia Márquez c'è una costantissima preoccupazione americana, un accento tonico tematico radicato nelle nostre verità, un ambito che ci appartiene e che essi ci hanno restituito in forma varie volte grandiosa. È questo che bisogna prendere in considerazione. Sono da lontano, esiliati o no, più americani di molti dei loro compatrioti che vivono da questa parte del mare.

Io ho diffidato di una generazione precedente e aristocratizzante che dimenticava facilmente in Europa la nostra culla di fango. Quegli scrittori facevano le valigie, partivano alla conquista di Parigi e, poi, con difficoltà o senza, si mettevano a scrivere in francese. Io
ho combattuto acerbamente e in modo settario questo sdoppiamento culturale. Tuttavia, ancor oggi mi commuovono molti versi di Huidobro scritti in francese, e che dire del meraviglioso e dimenticato poeta equatoriano Gangotena, scomparso nel pieno della gioventù che non scrisse in altra lingua.
D'altra parte, non si può sottovalutare l'esistenza di quelli fra i nostri scrittori che sopportarono tanta durezza penurie, invidie e offensive che costituiscono il pane quotidiano in ciascuno dei nostri provinciali paesi. A me mi ha preso molte volte un prurito nell'anima e un desiderio di andarmene lontano. La guerriglia letteraria in America latina fa parte dell'atmosfera e in essa si addestrano i professionisti dell'oltraggio. Io ho avuto fin da giovanissimo intere famiglie letterarie che da padre a nipote si sono dedicate ad attaccarmi.
D'altra parte, l'invidia è riproduttiva, endemica e immortale in terre letterarie semicoloniali. Possiede un tale potere di resurrezione che spunta assumendo configurazioni diverse senza prender mai, naturalmente la forma di spiga o la condizione di pane.

Se sono stati grandi i romanzieri come Arguedas, Ciro Alegría, Icaza e altri che sono rimasti arrangiandosi in questo aspro territorio, assume un nuovo significato territoriale il fatto che una nuova formazione di scrittori ci rappresenti da lontano con la verità luminosa o la fantasia terrestre di Garcia Márquez. Lo stesso posso dire di quelli che conosco, come il magico Cortázar o lo straordinario Vargas Llosa.
Perché la cosa importante sono le essenze. E questi scrittori ci hanno dato un contributo essemiale: que-sto è quello che conta. Per questo il dibattito può e deve allargarsi riducendo, naturalmente, i personalismi produttivi o che stanno per prodursi. La dignità di chi ha sollevato queste tesi è troppo seria perché possa sfociare nella camorra letteraria che tanti cultori ha avuto nel continente.
L'argomento nella sua profondità ha un'implicazione più complessa.
« La tentazione del mondo », definì Erenburg la mia inclinazione all'universale in contrapposizione a un poeta folkloristico cubano.

Questa tentazione del mondo verso l'integrazione che attinge al classicismo antico e al nuovo esperimento può anche portarci al cosmopolitismo ambientale. Ci può trascinare verso la superficialità passeggera. È un pericolo.
Ma, come slegarci dall'imperiosa e tantalizzante Europa? Perché tagliare i nodi dell'eleganza che ci legano ad essa?
E poi, è facile per il criollista, (1) anche per l'americano viscerale, immergersi non nell'oceano, ma nello stagno e limitarsi alla forma fino a ripetere senza rimorsi l'itinerario del passato. È un altro pericolo.
Questo pericolo non taglierà le nostre radici. Capita che quando più sprofondiamo più ci rinnoviamo, e quanto più locali siamo più possiamo essere universali. Un piccolo grande libro non si preoccupò se non di una piccolissima regione della Spagna, chiamata la Mancha. E riuscì ad essere il romanzo più spazioso che sia stato scritto sul nostro pianeta.
Tutti hanno ragione. E da queste ragioni ne nasceranno altre nuove. L'umanesimo antico e moderno si rafforzò e proliferò nella contesa, quando le battaglie mantennero la dignità e frugarono in profondità.
Sono sicuro che lo scontro fra Cortázar e Arguedas non solo ci darà nuovi grandi libri, ma ci aprirà anche nuove grandi vie.

(1) Sta per purista dell'America latina, nell'espressione datane dai criollos [N.d.T.].


DISTRUZIONI A CANTALAO

Nel corso di grandi anni ho diviso la mia vita con il mare. Non sono stato un navigante, ma un osservatore intransigente delle alternative dell'oceano. Mi hanno
appassionato le onde in se stesse, mi atterrirono e mi insuperbirono i caparbi maremoti e le mareggiate dell'oceano cileno. Sono diventato esperto in cetacei, in conchiglie, in maree, in zoofiti, in meduse, in pesci di tutta la pesceria marina. Ho ammirato la tridacna gigante, ostrica divoratrice e ho raccolto in California gli spondylus, gotici e bianchi come la neve, o l'orecchio del mare che ha tutto l'arcobaleno nel suo guscio di madreperla. Sono vissuto a lungo vicino al mare a Ceylon e ho tirato su con i pescatori gli elementi marini più strani e fosforescenti. Infine, sono venuto a vivere sulla costa del mio paese, di fronte alle grandi spume di Isla Negra. Qui gli inverni passano con uno spazio popolato fino all'infinito dal ferreo mare e dalle nubi che lo coprono.
Il mare mi è sembrato più pulito della terra. Non assistiamo in esso ai crimini diabolici delle grandi città, né alla preparazione del genocidio. In riva al mare non arriva lo smog pustoloso, né si accumula la cenere delle sigarette defunte. Il mondo si ossigena vicino all'igiene azzurra delle onde.
Per il fatto di aver goduto tanto del riposo e del lavoro nella solitudine marina, mi prese un vago rimorso. E i miei compagni? I miei amici e nemici scrittori? Avranno anche loro questo lusso creativo di lavorare e di riposare di fronte all'oceano?
Per questo, quando vicino a Isla Negra misero in rendita alcuni terreni costieri, ne prenotai forse il più bello per fondarvi una colonia di scrittori. L'ho pagato a poco a poco per anni col mio lavoro di fronte al mare pensando di restituire così con quest'opera qualcosa di quello che debbo all'intemperie marina.
Ho battezzato questo territorio letterario con il nome di Cantalao. Così si chiamava un villaggio immaginario in uno dei miei primi libri. E proprio quest'anno 1970, ho finito di pagare le rate del debito, non senza aver prima perso del terreno a causa di delimitazioni
difettose. In questioni di limiti la poesia perde sempre.
Prima di consegnare la fondazione agli scrittori, ho costruito una capanna col duplice scopo di conservare i materiali, chiodi, tavole, cemento, e di rifugiarmici di tanto in tanto. La feci di solidi tronchi e fragili finestre, finestre di vecchie chiese. Alcune di esse avevano i vetri verdi, rossi e azzurri, con stelle e croci. Di una sola stanza, senza acqua né luce, questa capanna si staglia sulla scogliera. Verso nord la sua vicina è l'imponente massa rocciosa di Punta de Tralca, che significa Punta del Tuono in lingua araucana. Lì le onde raggiungono i cento metri di altezza quando colpiscono e cantano sviluppate dalla tempesta.

Questa mattina sono andato a lasciare un'ancora da poco comprata nel porto di San Antonio. Con serie difficoltà e con l'aiuto di un trattore ho potuto depositarla su un'altura del terreno. Niente è più fondatore di un'ancora. Ogni fondazione dev'essere così preceduta. Per lo meno, sulla costa, una costruzione non dovrebbe cominciare dalla prima pietra, ma dall'ancora primaria.
Scomparve il trattore, se ne andarono i trattoristi. Rimasi solo e aprii le porte della capanna. Erano due mesi che non ci entravo.
Lì avevo scritto in precedenza quasi tutto il mio nuovo libro di poesia, un poema lungo e tempestoso che ancora non do alle stampe. L'ultima volta notai con un sorriso, certamente amaro, che la capanna aveva subito un’invasione. Dato che non c'era mai stato quasi niente dentro, ben poco poterono portar via i ladri. Mancava una vecchia amaca rotta, due bicchieri e tre libri, gli unici che avevo lì. Uno di essi erano i racconti
e le poesie di Melville. L'altro un libro di poesia inglese sulla cui prima pagina avevo scritto un poema che adesso leggeranno solo i ladri. Il terzo era uno dei miei tesori: il piccolissimo libro, l'edizione aldina di Shakespeare, pubblicato nel 1897, a Londra, che avevo comnerato a Colombo nel 1930. Addio libri compagni di tanti anni.
Ma la mia visita di oggi e stata più tormentata. Nuovi vandali avevano approfittato del fatto che gli scuri erano chiusi male per rompere i cristalli. A gran fatica avevano introdotto cunei e punzoni per spezzare i vecchi e nobili finestroni. Frammenti azzurri, verdi, rossi, tappezzavano il suolo. Sparpagliati sul pavimento sembravano il ritratto parlante dei predoni. Vetri tagliati, crudeli e sanguinosi, occhi dell'aggressività mutile, dita mozze, volti spezzettati della cattiveria.

E si badi che si tratta di una capanna anonima, fin'ora senza padrone, senza abitanti, in attesa di quelli che la popoleranno domani coi loro lavori e i loro sogni.
Forse non arriverò a conoscere i creatori che ci vivranno domani.
E forse alcuni dei sofisticati distruttori diranno, ricordando: « Cantalao... Cantalao... Questo nome mi dice qualcosa. Non è quel posto dove feci le mie prime imprese rubando libri e spaccando finestre destinate all'allegria della luce? ».


FAZZOLETTI NERI PER DON JAIME

Don Jaime fece molta fatica a entrare in questa Isla Negra. Gli isolani non erano tanti in quegli anni. Erano arrivati da punti lontanissimi, dai confini della medicina, dalle latitudini della musica, dai monti della poesia. Erano terribili. Usavano delle lampade alla paraffina e tiravano su l'acqua dalle noire con sudore proprio o altrui. Una HOSTERIA in questa ansa incantevole? Che sproposito!
Avevamo paura delle code di automobili, del tetro rumore delle fiches di Viña del Mar. Sarebbero arrivate, probabilmente, motociclette e bikini, farandole e rumbe. Forse avremmo dovuto sentire tutta la notte gli altoparlanti sbraitare con l'ossessiva ripetizione delle canzoni da quattro soldi.
Fu un'opposizione chiusa che don Jaime andò aprendo a poco a poco fino ad affermare la sua bontà, la sua serietà e la sua maestria.
La mia vita è stata tutta una lode per coloro che fanno le cose che io non ho saputo fare e che mi sono sempre sembrate superiori a quelle che faccio io. Adesso che don Jaime ci ha lasciati, è mio dovere celebrare il suo lungo lavoro.

Ai villeggianti di Santiago che d'estate aspettano che i piatti sian pronti e il vino ghiacciato o fresco, le tovaglie dal bianco brillante e i camerieri che corrono fra i tavoli del ristorante, non gli passa per la testa quanto sia duro cominciare, stabilire e edificare le località spaziali dell'estate sulla costa.
Per esempio a casa mia, dobbiamo fare quaranta chilometri per comperare un merluzzo, percorrerne cen-toquaranta per comperare una buona serratura, ottantacinque per far incorniciare un quadro. E a volte i problemi sollevati da una vite che manca o da un vetro rotto, per non parlare del disco della frizione, sono insolubili nonostante i cinquanta viaggi di seguito alle città circostanti. Una grondaia che fa acqua è una tragedia in vari atti. Un assedio che viene messo dal mare merita, per essere levato, un poema epico. E per più della metà dell'anno non c'è anima viva che entri per le porte delle osterie.
Gli stabilimenti del litorale soffrono la solitudine, aspettano nel deserto. Gli unici che entrano d'inverno, d'autunno e anche in primavera sono le gabelle, gli ispettori, gli avvisi tributari, le mandibole del fisco.

Don Jaime conosceva il suo mestiere al dritto e al rovescio, e il suo buon umore era persistente come la sua pazienza. La sua osteria nacque dal nulla e arrivò ad essere il più importante locale della costa. In qualsiasi ora dell'inverno il viaggiatore trovava il camino acceso con giganteschi tronchi che sembravano aspettarlo. Il fuoco, la fragranza delle casseruole, i camerieri come sentinelle appostate: questo fu il sistema impeccabile da lui imposto. Nessuno potrà dimenticare neppure quei panini caldi dentro il tovagliolo bianco,
che sembravano uscire da un nido. Don Jaime, bonaccione e saggio, divenne parte istituzionale di Isla Negra, trionfando sui pregiudizi della gente del posto e lasciò impiantata, in una zona vergine, la scienza della buona accoglienza.
Chiedevo a Camillo, il suo migliore discepolo, anche lui oste, qual era il segreto di don Jaime Ferrer, a parte, naturalmente, la sua saggezza ed energia.
Curiosamente Camillo cominciò stando zitto, riflettendo. Poi mi raccontò alcune cose.
« Pare che comprasse sempre troppo, troppo di tutto. Troppe tovaglie, troppe cipolle, troppo prosciutto, troppi filetti e pesce corvo. All'inizio glielo rimproveravano come uno spreco, ma ci si accorse che si consumava sempre tutto ».
Così, dunque, uno dei segreti del grande oste fu l'abbondanza. Quello che sembrava eccesso risultò sempre strettamente necessario.
Mi raccontò anche che una volta nel suo entusiasmo acquistò un'incredibile quantità di fazzoletti. La cosa incredibile è che la metà erano bianchi e l'altra metà
neri.
« Anche in questo ebbe ragione », mi dice Camillo. « Perché adesso che tanta gente lo ha pianto, sono serviti anche i fazzoletti neri ».
Così, dunque, don Jaime Ferrer ci ha lasciati dopo aver creato una rispettabile e difficile impresa. Come patriota di Isla Negra, chiede di essere sepolto nel piccolissimo cimitero più prossimo, sulle colline di Totoral. Io non sono potuto arrivare in tempo a salutarlo e questo silenzio mi è stato penoso. Questa osteria con i grandi tronchi odorosi che bruciavano nel camino mi ha sempre ricordato le taverne inglesi della costa e delle campagne che amava Robert Louis Stevenson. Lì rimangono adesso la famiglia e lo spirito familiare, l'accoglienza, il fuoco e il vino. Ma don Jaime, il fondatore, continuerà a mancarci, a noi, isolani di Isla Negra.


65

Di Parral non ho ricordi d'infanzia. È chiaro che mi portarono quasi appena nato verso la Frontera.
Un giornalista americano racconta che ha cercato a lungo il posto dove sono nato, senza trovarlo. Non la casa, beninteso, dato che se l'era portata via un terremoto. Domandò dappertutto, ma nessuno lo sapeva. Neanch'io lo so.
Il buon sindaco di Parrai, Enrique Asterga, mi ha nazionalizzato, parralizado di nuovo. La città mi accolse con affetto, ma senza conoscermi abbastanza, dato che la mia vita trascorse in altri climi. Ma lì c'è la tomba di mia madre, e la mia prolifica famiglia, i Reyes, continua a spuntare da ogni parte. Fino ad ora non è uscito un altro Reyes poeta.
I miei ricordi principali sono di Temuco nel sud. Di quel paesaggio è rimasta impregnata la mia poesia. Il mare, le montagne e i fiumi di quella regione mi sono
rimasti aggrovigliati nell'anima. Dentro di me continua a piovere come sessant'anni fa a Temuco.
La casa del manovratore Reyes, mio padre, era sgangherata e piuttosto povera. In questo mese di luglio uccidevano il maiale laggiù in fondo al cortile. Io me ne scappavo allora per sfuggire alle grida spaventose. Sugli altri non produceva nessun effetto, ma io lo presi come un'altra delle tante atrocità dell'esistenza.
Il liceo andò cambiando a poco a poco la mia solitaria condizione. Mi sembrava come una grande città quella moltitudine di ragazzi di tutti i colori e dai nomi strani, quei professori coi baffoni che mi infondevano un terrore che conservo ancora vagamente nascosto.

Il professore di matematica mi distinse sempre con la sua simpatia e il suo disprezzo. Di tanto in tanto mi regalava una caramella durante la lezione. Non mi rivolse mai la parola per chiedermi qualcosa. Si dava per scontato che io non avrei mai saputo niente. Giunto il mese di dicembre mi imponeva le tre insufficienze regolamentari. (1) Sembrava un rito e fu compiuto per sei dicembri successivi.
La cosa curiosa è che io per il signor Peña, che così si chiamava il mio professore, ho sempre nutrito della stima. Non mi è mai capitato di odiarlo. Ma era naturale che ci sentissimo inconciliabili.
Forse ho già raccontato che il liceo aveva certe catacombe, o sotterranei dove scendevamo in tanti. La mia immaginazione popolava quei locali sotterranei di fantasmi, di tesori, di possibili sorprese infernali. Tutto era buio. A volte, nei nostri giochi, dimenticavamo qualcuno dei ragazzi che avevamo lasciato lì sotto, in castigo, legato a una colonna. Dovevamo tornare spaventati a liberarlo.
Ma il posto dei sogni era per me Puerto Saavedra, con l'immensa foce del fiume Cautin, l'oceano terrorista dalle onde alte come montagne, le docas (2) insabbiate che io non conoscevo e che mangiavamo con entusiasmo. Lì ebbi nei miei occhi i primi pinguini e i primi cigni selvatici del bei lago Budi. Sulle rive del lago pescavano o cacciavano lisas (3) con arpioni e tridenti. Era un'ossessione guardare quei pescatori in agguato immobili con le lance in alto e vedere come le lasciavano cadere sollevando poi un pesce palpitante.
Ancora lì ho visto anche molte volte il volo roseo di stormi di fenicotteri che andavano e venivano per il territorio vergine.
A Puerto Saavedra c'era anche un piccolo stregone dalla barba bianca e basso di statura. Era il poeta don Augusto Winter. Lui veniva dal nord. Le sue sorelle fabbricavano quelle conserve fatte in casa che abbondavano nel sud. Don Augusto era il bibliotecario della miglior biblioteca che ho visto. Era piccina, ma imbottita di Giulio Verne e di Salgari. C'era una stufa a segatura al centro, e io mi stabilivo lì come se mi avessero condannato a leggermi in tre mesi d'estate tutti i libri che erano stati scritti nei lunghi inverni del mondo.
Puerto Saavedra era profumato di onde marine e di madreselva. Dietro ogni casa c'erano giardini con pergolato e i rampicanti profumavano la solitudine di quei giorni trasparenti.
Lì poi mi sorpresero gli occhi neri e repentini di Maria Parodi. Ci scambiavamo dei bigliettini piegati tante volte affinché scomparissero nella mano. Più tardi ho scritto per lei il numero diciassette dei miei Veinte Poemas. Puerto Saavedra è presente anche in tutto il
resto del libro, con i suoi moli, i suoi pini e il suo inesauribile batter d'ali dei gabbiani.
Adesso mi rendo conto che mi sono messo a raccontare cose senza importanza. Quei sotterranei e quei libri e quegli occhi neri forse se li è portati il vento.

Ma perché ho raccontato tutte queste sciocchezze? Forse sarà perché in questo mese di luglio sto compiendo i miei sessantacinque anni di vita in questo unico e fuggitivo mondo.
Nello spazio di questi ricordi, fra Parral e la Frontera, fra le madreselva e la foce, io sono stato un testimone remoto, timido e solitario, appiccicato al muro come i licheni. Capita che nessuno mi abbia sentito e che ben pochi mi videro. Non sono stati molti quelli
che mi han conosciuto allora.
Adesso, dovunque vado, la gente che non conosco mi dice: « Sì, don Pablo ».
Ho guadagnato qualcosa in questa vita. In sessantacinque anni sono arrivato a Don.

(1) All'epoca, in Cile, i voti andavano dell'1 al 7 e venivano indicati anche con colori diversi: da 1 a 3 erano neri, ad indicare insufficienza, il 4 era bianco, dal 5 al 7 rossi. L'originale reca: las tres negras reglamentares [N.d.T.].
(2) Frutti commestibili di piante che crescono sulle dune [N.d.T.].
(3) Pesce d'acqua dolce senza squame, liscio [N.d.T.].


SENZA DEI E SENZA IDOLI

Uno studio di Viviane Lerner: Realtà profana, realtà sacra nelle "Odi Elementari", pubblicato dall'Università di Strasburgo, cerca identità religiose nella mia poesia.
Non è la prima volta che suonano queste campane. Nel mese di giugno, in un Congresso di teologia, a Bogotà, un teologo dell'Istituto Vaticano mi ha considerato teologo o teologico. Per mancanza di conoscenze non posso rispondere a questi interrogativi, né orientare queste lusinghiere ricerche.
Capisco che dappertutto l'uomo abbia cercato delle comunicazioni trasmigratorie e che le religioni abbiano postulato i loro cifrari paralleri per intendersi con l'inaccessibile. Poi, la necessità di santi, di eroi e di dei, ha stimolato la loro fabbricazione perfino nei territori più isolati e nelle epoche più vicine, scientifiche e razionali.
Nei miei anni asiatici mi sorprese la proliferazione delle forme divine nelle chiese orientali. Le immagini erotiche del Nepal avevano più di sei, più di dieci; più di quaranta braccia di bronzo e forme di donne incastonate nell'orgasmo dall'abbraccio tentacolare. Ganesha, dio della sapienza, con la testa di elefante, aveva la mia predilezione per la sua tromba attorcigliata e i suoi minuscoli occhietti. La dea Kalì non era un'invenzione del nostro adoratissimo Salgari, bensì mi aspettava a Calcutta con un'immensa collana di crani umani e una lingua scarlatta di tre metri di lunghezza.
D'altra parte, i Cristi spagnoli della mia infanzia sono stati per me visioni di orrore. Poi li ho visti in altri posti rispettabili, pustolosi con Grünewaid, bei grossi fino all'incubo nei primitivi toscani.
Neppure le bambole rosa e celeste che rappresentano la Madonna mi hanno mai entusiasmato. Quello che invece mi è piaciuto è stato l'ambiente di alcune vecchie cattedrali — senz'altro non quello di San Pietro — e quello di alcune moschee. Forse ho trovato lì la solennità mentale e naturale che ho conosciuto nei boschi di Cautín.
L'anticlericalismo se n'è andato col macfarlan e l'anarchia. È cambiata la società, è cambiata l'epoca e la moda. Le fabbriche si sono trasformate in divinità. Gli dei associati hanno prodotto salsicce, armamenti, automobili. Le guerre sante di questa epoca sono state quelle del petrolio. Gli eretici che non si sono prosternati davanti alle pagode petrolifere sono stati sterminati, non dalla scimitarra ardente, né dalla croce piena di chiodi, ma dai colpi della polizia, dalla tortura o dalle prigioni.
Ciononostante l'uomo non ha smesso di innalzare i suoi dei piccoli o barbuti, ridicoli o misteriosi.
Mi ha raccontato un francese coloniale che durante l'ultima guerra una nave nordamericana dovette sbarcare a Madagascar, per una settimana, una jeep con un osservatore militare. Questa jeep recava sopra il tetto il segno della Croce Rossa Internazionale. Incaricato di questa missione era un nero di Harlem. Salì pendii, traversò valli, giunse a montagne inesplorate. Visitò tribù sconosciute. Era un nero giocondo, dai
grandi denti bianchi, pieno di braccialetti dorati, dal riso stentoreo e dalla poderosa voce. I primitivi lo guardavano e lo ammiravano. Di tanto in tanto, dalla jeep, lui comunicava via radio con aerei o navi. Partì da quelle regioni incoronato di fiori. Allora il suo ricordo cominciò a trasformarsi a poco a poco in una grande religione che adesso ha più adepti del culto protestante e di quello cattolico. Sui più alti macigni del Madagascar gli indigeni dipingono immense croci rosse affinchè lui le veda e si degni di ritornare dal cielo. Nel frattempo, quest'uomo, ormai vecchio e stanco, che non sa cos'è Dio, starà lucidando pavimenti a New York.
Quando a Kingston, in Giamaica, mi sono fermato per qualche giorno, proprio perché non avevo niente da fare lì, ho letto un poema del più importante poeta locale, dedicato ad Hailé Selassié. Uscì sul Jamaica Times il giorno del mio arrivo. Nel leggerlo mi resi conto che si trattava dell'imperatore abissino non in quanto monarca, ma in quanto Dio. Una nuova religione, con milioni di adepti, con un'infinità di templi e di credenti, ha designato Dio il minuscolo Negus. Il nuovo culto sostiene che il suo arrivo in Giamaica, dove i suoi fedeli lo aspettano, provocherà un cambiamento cosmico e l'inizio di una nuova era.
Esce il sole, leone ancestrale, viscera centrale e paternale del nostro universo. La notte popola di squame d'argento gli spazi oceanici. Le meteore scatenano il fosforo celeste. Il sole, l'acqua, la primavera, preparano il pane quotidiano. È nata una preghiera. È nato un poema.
Le religioni sono state la culla della poesia e questa si annodò a quelle fertilizzando i miti, collaborando come l'incenso nei pomeriggi delle basiliche. Gli indumenti delle divinità sono stati tessuti d'oro e di poesia. Gli occhi immobili delle immagini non hanno trapassato il mistero: le parole poetiche hanno fatto retrocedere le tenebre cercando, come un dovere comune, l'esaltazione della bellezza e la comunicazione col popolo.
È stata più difficile l'intesa fra la scienza e la poesia: fra il tempo sociale e il canto del poeta. I miti si sono rivelati più raggiungibili dal linguaggio del peso delle scoperte e della verità. La poesia continua ancora a lottare per rendersi indipendente dalla sua antica e misteriosa servitù.


ROBERT FROST
E LA PROSA DEI POETI

Qualcuno mi ha mandato un libro ben tradotto con la prosa di Robert Frost, mirabile poeta.
Scorrendolo si è riaperto in un certo modo un dialogo o una discussione invisibile che per un certo periodo di tempo ho sostenuto con me stesso.
La cosa che mi ha sempre attirato nella poesia di Frost è stata la sua verità privata, la sua organizzazione naturale. È stato il poeta della conversazione. Contava e cantava ballate su esseri mai interamente reali, mai interamente immaginari.
Ricordo quella poesia su un uomo di moltissimi anni, un vecchio accanto al fuoco del suo camino e accanto alla sua morte ormai molto vicina:

Era una luce solo per se stesso.
Seduto lì sa di che si tratta;
una luce quieta, e poi neppure questa luce.
Mi sono rimasti nella memoria i versi di « Colui che calpesta le foglie » e anche quelli de « La vacca in tempi di mele ». Insomma un poeta campestre, che sta più a nord di Boston, del Vermont, delle strade piene di fango e di foglie cadute, un poeta con le scarpe da viandante e un dono trasparente di cantare, un poeta di quelli che a me piacciono.
Il libro di prosa di Robert Frost mi ha sorpreso. È un razionalista con una biblioteca quadrata, un umanista. Ma anche col virtuosismo delle idee, di quelle idee sulla poesia e la metafora che non approdano a nulla. Ho sempre pensato che questo esame della poesia da parte dei poeti è pura cenere. Può anche essere bellissima spuma cenerognola, ma il vento la porterà via.
Forse mi piace, forse, che il critico s'immischi e si affaccendi in ciò che lo interessa, e in ciò che non lo riguarda. Per me lo spirito critico, quando è troppo aguzzo, giunge all'oscenità intellettuale, all'impudenza sanguinosa. Non sono le viscere del poeta quelle che rivela il pugnale analitico, ma le proprie intimità viscerali di chi ha impugnato l'armamento.
La prosa di Robert Frost imbocca le strade della metafora e anche se Frost è per me un'eminenza, continuerò a ritenere impudica la rivelazione che uccide la cosa rivelata, per luminose che siano le parole e insospettabile la condotta.
Ad ogni modo voglio che sia esplicita la mia adesione al poeta Frost nella sua poesia naturale e nella sua prosa mentale.

Per quanto riguarda me sono acerrimo nemico della mia prosa. Ma che farci. Se parliamo in prosa dovremo anche scriverla. Juan Ramón Jiménez, quel povero grande poeta abbastanza consumato dall'invidia, pare che abbia detto una volta che io non sarei stato capace neppure di scrivere una lettera. In questo credo che non si sbagliasse.
Anche Robert Frost mi ha impressionato per il suo vago liberalismo borghese. Ho conosciuto a New York, in congressi di lotta sociale, sua figlia, ragazza antibellica e antimperialista. Pensai che tali cose venissero dal suo eccelso padre. Ma qui mi trovo che quando parla della protesta nella poesia lo fa dal punto di vista dell’establishment.

Non mi piacciono le proteste. Ogni volta che si pubblicano scopro che le metto da parte. Quello che mi piace sono i dolori, e mi piacciono con un profondo senso robinsoniano. Suppongo che non valga la pena di domandare, ma si dovrebbe pensare che potrebbero gratificarci al punto da restringere le proteste alla prosa, se la prosa accetta l’imposizione, e di lasciare la poesia libera di proseguire la sua strada di lacrime.

Queste parole di Frost sono belle, ma sono piuttosto degne di un grande romantico vittoriano. Non sfigurerebbero in Lord Tennyson, il bardo di In Memoriam, pura poesia e lacrima pura.
Io vorrei chiedere al grande poeta:
« Ma, Frost, chi accompagniamo col pianto? Quelli che muoiono o quelli che nascono? Non è come avvolgere nello stesso lenzuolo mortuario la vita e la morte? ».
Io sono un uomo di lacrime e di proteste. Non posso destinare la prosa alla lotta e la poesia alla sofferenza. Mi pare che possano avere lo stesso destino e lo stesso fremito. A volte penso che la Marsigliese è un'opera corale di poesia, ineguagliata nella sua bellezza. E penso anche a volte che l'Ode a un usignolo, di Keats, o il canto all'Urna Greca siano rimasti dall'imbalsamatore o nel British Museum.
Per fortuna Frost è più ampio della sua prosa, più ricco della sua analisi. E malgrado lui, o forse con suo compiacimento, circola nella sua poesia quell'antica nazione, spaziosa e libera, gli Stati Uniti di una volta, con le loro montagne benemerite, i loro fiumi inesauribili e, cosa che pare sia scomparsa, la loro capacità di bastare a se stessi senza insanguinare il mondo.


NOI, GLI INDIOS

L'inventore del Cile, don Alonso de Arcilla, (1) illuminò di magnifici diamanti non solo un territorio sconosciuto. Mise anche in luce i fatti e gli uomini della nostra Araucania. Noi cileni, a quanto pare, ci siamo dati da fare per diminuire fino a spegnerlo il fulgore adamantino dell'Epopea. L'epica grandezza, che come una cappa reale Ercilla lasciò cadere sulle spalle del Cile, è andata nascondendosi e scemando progressivamente. Ai nostri fantastici eroi abbiamo continuato a rubare la mitologica vestitura fino a lasciarli con un poncho indiano logoro, rattoppato, schizzato dal fango delle brutte strade, inzuppato dall'acquazzone antartico.
I nostri governanti arrivati di fresco si sono proposti di decretare che non siamo un paese di indios. Questo decreto profumato non ha avuto espressione parlamentare, ma è vero che circola tacitamente in certi ambienti di rappresentanza nazionale. La Araucana va bene, ha un buon profumo. Gli araucani non van bene, puzzano. Puzzano di razza vinta. E gli usurpatori sono ansiosi di dimenticare e di dimenticarsi. Di fatto, la grande maggioranza dei cileni rispettano le disposizioni e i decreti signorili: come arrivisti frenetici ci vergogniamo degli araucani. Contribuiamo, gli uni, a estirparli e, gli altri, a seppellirli nell'abbandono e nell'oblio. Tutt'insieme abbiamo cancellato La Araucana, spegnendo i diamanti dello spagnolo Ercilla.
La superiorità razziale potè essere un elemento bellico e unitario fra i conquistadores, ma la maggiore superiorità fu probabilmente quella del cavallo. Siqueiros
ha rappresentato la Conquista nella figura di un grande centauro. Ercilla ha mostrato il centauro crivellato dalle frecce della nostra Araucania natale. Il risorgimento invasore ha proposto un nuovo establishment: quello degli eroi. E questa categoria l'ha concessa agli spagnoli e agli indios, ai suoi e ai nostri. Ma il suo cuore è stato con gli indomabili.
Quando arrivai in Messico fiammante Console Generale fondai una rivista per far conoscere la patria. Il primo numero fu stampato in impeccabile rotocalco. Collaboravano ad essa dal Presidente dell'Accademia fino a don Alfonso Reyes, maestro essenziale della
lingua. Dato che la rivista non costava niente al mio governo, mi sentii molto orgoglioso di quel primo numero miracoloso, fatto col sudore delle nostre penne (la mia e quella di Luis Enriques Delano). Ma col titolo commettemmo un piccolo errore. Piccolo errore madornale
per la testa dei nostri governanti.
Devo spiegare che la parola Chile ha in Messico due o tre accezioni non tutte molto rispettabili. Chiamare la rivista « Republica de Chile » sarebbe stato come dichiararla non nata. La battezzammo Araucania. E riempiva la copertina il sorriso più bello del mondo: una araucana che mostrava tutti i suoi denti. Spendendo più di quello che potevo, mandai in Cile per via aerea (allora costava più di adesso) esemplari separati e raccomandati al Presidente, al Ministro, al Direttore Consolare, a quelli che mi dovevano, per lo meno, una congratulazione di protocollo. Passarono le settimane e non ricevetti risposta.
Ma questa arrivò. Fu il funerale della rivista. Diceva solamente: « Le cambi il titolo o la sospenda. Non siamo un paese di indios ».
« No, signore, non abbiamo nulla di indio », mi disse il nostro ambasciatore in Messico (che sembrava un Caupolican redivivo) che mi trasmise il messaggio supremo.
« Sono ordini della Presidenza della Repubblica ».
Il nostro presidente di allora, forse il migliore che subiamo mai avuto, don Pedro Aguirre Cerda, era il ritratto vivente di Michimalonco.

L'esposizione fotografica « II volto del Cile », opera del grande e modesto Antonio Quintana, andò in giro per l'Europa mostrando le grandezze naturali della patria: la famiglia dell'uomo cileno, le sue montagne, le sue città, e le sue isole, e i suoi raccolti e i suoi mari. Ma a Parigi, per opera e grazia diplomatica, soppressero i ritratti araucani: « Attenzione! Non siamo indios! »
Ci si mettono d'impegno a imbiancarci a tutti i costi, a cancellare le scritture che ci han dato la nascita: le pagine di Ercilla: le chiarissime strofe che hanno dato alla Spagna epica e umanesimo.
Piantiamola con tanta goffaggine!
Il Dr. Rodolfo Oroz, che possiede l'esemplare del Diccionario Araucano corretto dalla mano maestra del suo autore, don Rodolfo Lenz, mi dice che non trova un editore per quest'opera esaurita da moltissimi anni.
Signora Università del Cile: Pubblichi quest'opera classica.
Signor Ministro: Stampi di nuovo La Araucana. La regali a tutti i bambini cileni in questo Natale (e anche a me).
Signor Governo: Fondi finalmente l'Università Araucana.
Compagno Alonso de Arcilla: La Araucana non è solo un poema: è una strada.

(1) II nome di don Alonso de Ercilla viene, qui e nell'ultima riga di questo brano, storpiato: diventa, don Alonso de Ardila. Ritengo, infatti, che non si tratti di un refuso, ma di un gioco di parole: arcilla significa argilla, materiale fragile, non paragonabile ai « diamanti dello spagnolo Ercilla ». [N.d.T.].


IL « WINNIPEG » E ALTRI POEMI

Mi è piaciuta fin dall'inizio la parola Winnipeg. Le parole hanno le ali o non le hanno. Quelle aspre rimangono appiccicate alla carta, al tavolo, alla terra. La parola Winnipeg è alata. La vidi volare per la prima volta in un molo, vicino a Burdeos. Era una bella nave vecchia, con quella dignità che danno i sette mari nel corso del tempo. È certo che quella nave non ha mai portato più di settanta o ottanta persone a bordo. Il resto era cacao, copra, sacchi di caffè e di riso, minerali. Adesso le era stato affidato un carico più importante: la speranza.
Alla mia vista, sotto la mia direzione, la nave doveva riempirsi di duemila uomini e donne. Venivano dai campi di concentramento, da regioni inospitali, dal deserto, dall'Africa. Venivano dall'angoscia, dalla sconfitta, e questa nave doveva riempirsi di loro per portarli alle coste del Cile, al mio mondo che li avrebbe accolti. Erano i combattenti spagnoli che avevano attraversato il confine della Francia per un esilio che dura da trenta
anni.
La guerra civile — e incivile — di Spagna agonizzava in questo modo: con gente semiprigioniera, raggruppata di qua e di là, messa nelle fortezze, ammucchiata a dormire per terra sulla sabbia. L'esodo spezzò il cuore del massimo poeta don Antonio Machado. Appena passò la frontiera finì la sua vita. Ancora coi resti delle loro uniformi, i soldati della Repubblica portarono la sua bara al cimitero di Collioure. Lì è ancora sepolto quell'andaluso che cantò come nessuno i campi di Castiglia.

Non avevo pensato, quando ero partito dal Cile per la mancia, agli imprevisti, alle difficoltà e alle avversità che avrei incontrato nella mia missione. Il mio paese aveva bisogno di capacità qualificate, uomini dalla volontà creatrice. Avevano bisogno di specialisti. Il mare cileno mi aveva chiesto pescatori. Le miniere mi chiedevano ingegneri. I campi trattoristi. I primi motori Diesel mi avevano detto di cercare meccanici di precisione.
Raccogliere questi esseri dispersi, sceglierli nei più remoti accampamenti e portarli fino a quel giorno azzurro, di fronte al mare di Francia, dove si dondolava placidamente la nave « Winnipeg », fu una cosa grave, una faccenda aggrovigliata, fu un lavoro di devozione e di disperazione.
Fu organizzato il SERE, organismo di aiuto solidale. Gli aiuti venivano, da una parte dagli ultimi denari del governo repubblicano e, dall'altra, da quella che per me continua ad essere un'istituzione misteriosa: quella dei quaccheri.
Mi dichiaro abominevolmente ignorante su ciò che si riferisce alle religioni. Quella lotta contro il peccato in cui queste si specializzano mi ha allontanato in gioventù da tutti i credi e queste atteggiamento superficiale, di indifferenza, mi è rimasto per tutta la vita. La verità è che nel porto d'imbarco comparvero questi magnifici settari che pagavano la metà di ogni biglietto spagnolo verso la libertà senza discriminare fra atei e credenti, fra peccatori e pescatori. Da allora quando da qualche parte leggo la parola quacchero gli faccio una riverenza mentale.

I treni arrivavano di continuo fino al molo. Le mogli riconoscevano i mariti attraverso i finestrini dei vagoni. Erano state ad aspettare dalla fine della guerra. E lì si vedevano per la prima volta davanti alla nave che li aspettava. Non mi era mai capitato di essere presente ad abbracci, singhiozzi, baci, strette di siano, risate di tensione drammatica così delirante.
Poi c'erano lunghi tavoli per la documentazione, identificazione, sanità. I miei collaboratori, segretari, consoli, amici, lungo il tavolo erano una specie di tribunale del purgatorio. E io, per la prima e l'ultima volta, devo essere sembrato Giove agli emigrati. Io decretavo l’ultimo SI o l'ultimo NO. Però io sono più SI che NO, di modo che dissi sempre di SI.
Ma, si badi bene, sono stato sul punto di mettere un timbro negativo. Per fortuna capii a tempo e mi liberai di quel NO.
Accade che si presentò davanti a me un castigliano, con un pastrano di lana nera, con le maniche rigonfie. Questa giubba era una specie di uniforme dei contadini della Mancha. Ecco quindi quell'uomo maturo, dalle rughe profondissime sul volto arso, con sua moglie e sette figli.
Dopo aver esaminato la scheda con i suoi dati, gli chiesi sorpreso:
« Ma lei è un lavoratore del sughero? ».
« Sissignore », mi rispose severamente.
« Qui c'è un errore », replicai. « In Cile non ci sono querce da sughero. Cosa ci farà lei laggiù? ».
« Be', se non ci sono ci saranno », mi rispose il contadino.
«Salga sulla nave», gli dissi: « È di uomini come lei che abbiamo bisogno ».
E lui, con lo stesso orgoglio della sua risposta e seguito dai suoi sette figli, cominciò a salire le scale della nave « Winnipeg ». Molto tempo dopo fu provato che quello spagnolo incrollabile aveva avuto ragione: ci sono state delle querce da sughero e, pertanto, adesso in Cile il sughero c'è.

Ormai erano quasi tutti a bordo i miei buoni nipoti, pellegrini verso terre sconosciute, e io mi preparavo a riposarmi dopo il duro lavoro, ma le mie emozioni sembravano non aver mai fine. Il governo cileno, sottoposto a pressioni e combattuto, mi indirizzava un messaggio: « INFORMAZIONI DELLA STAMPA SOSTENGONO CHE LEI
EFFETTUA UN'IMMIGRAZIONE MASSICCIA DI SPAGNOLI. PREGHIAMOLA SMENTIRE LA NOTIZIA O CANCELLARE IL VIAGGIO DEGLI SPAGNOLI ».
Che fare?
Una soluzione: chiamare la stampa, mostrare la nave stracolma di duemila spagnoli, leggere il telegramma con voce solenne e subito dopo spararmi una revolverata alla testa.
Altra soluzione: partire anch'io sulla nave con i miei emigranti e sbarcare in Cile con la ragione o con la poesia.
Prima di prendere qualsiasi decisione andai al telefono e parlai col Ministero degli Affari Esteri del mio paese. Era difficile parlare a grande distanza nel 1939. Ma la mia indignazione e la mia angoscia furono udite attraverso oceani e cordigliere e il Ministro fu solidale con me. Dopo un'incruenta crisi di gabinetto, il « Winnipeg », col suo carico di duemila spagnoli che cantavano e piangevano, levò l'ancora e fece rotta per Valparaíso.
La critica può cancellare tutta la mia poesia, se vuole. Ma questo poema, che oggi ricordo, non potrà cancellarlo nessuno.


IL BARONE DI MELIPILLA (I)

Sul « Times », di Londra, nei mesi di luglio e agosto del 1865 venne pubblicato il seguente annuncio:

Verrà data una buona ricompensa a chi possa dare qualche notizia che serva a scoprire il destino di Roger Charles Tichborne. È partito dal porto di Rio de Janeiro il 20 aprile del 1854, sulla nave «Bella» e da allora non si è saputo più nulla di lui. Ma si è venuti a sapere in Inghilterra che una parte dell'equipaggio e dei passeggeri di quella nave è stata raccolta da una nave diretta in Australia. Non sappiamo se Roger Charles Tichborne era fra gli affogati o fra i salvati. Adesso avrebbe circa trentadue anni d'età. È piuttosto alto, capelli castani, occhi azzurri. Il signor Tichborne è figlio di Sir James Tichborne, ormai defunto, e suo erede.

In questo modo si cercava un giovane barone per consegnargli lire sterline e terreni.
Si sapeva della sua permanenza a Valparaíso e a Santiago, dove era stato fotografato da Heisby, elegante fotografo dell'epoca. Ma il posto del Cile dove trascorse più tempo fu Melipilla. Lì era vissuto per un periodo di un anno e mezzo ed era conosciuto da mezzo mondo.
A quei tempi non era ancora l'erede che si stava cercando, ma un rampollo dell'antica famiglia dei Tichborne. Suo padre era il decimo barone di questo nome e la
rendita delle sue proprietà superava le quarantamila sterline all'anno.
È curioso vedere il dagherrotipo che lo ritraeva a quei tempi. Ci presenta un ragazzo dallo sguardo vagamente romantico e con un cappello di Cordoba. Un volto piuttosto debole, nel quale i grandi occhi chiari sembrano perdersi nel tempo o nel mare.
Il caso volle che la sua scomparsa fu all'origine di un processo tanto lungo e che fece tanto scalpore da scuotere la grande società vittoriana, lasciando insoluto un enigma per decifrare il quale venne turbata addirittura la tranquillità di Londra e di Melipilla.
Non sono solo i poeti che si interessano agli enigmi. Veniamo e ce ne andiamo dentro il mistero fondamentale. La scienza e le religioni si danno di gomito nell'ombra buttandosi negli occhi la bellezza, le probabilità i miti lontani e la verità approssimativa.
Io, cacciatore di enigmi, non pretendo risolverne un altro. A questo mi lega soltanto la mia condizione di passante per Melipilla. Mi fa piacere pensare che in questo paese di terreno seccagno, fra coltivatori di ortaggi e vigneti dal contenuto ardente, si annidasse la prima pagina di una storia inaudita.
Per quale ragione giunse a Melipilla, nella casa di don Tomas Castro, Roger Charles Tichborne, che non arrivò ad essere l'undicesimo dei baroni Tichborne?

Quando dopo un soggiorno di un anno e mezzo uscì da quel paese polveroso e attraversò, a dorso di mula, le nostre cordigliere, Roger non sapeva di essere erede e, quando scomparve nel naufragio della « Bella », in Atlantico, ignorava anche che lo avrebbero cercato per cielo e per terra per strapparlo alle sue peripezie.
Ho visto il ritratto di Lady Tichborne. È il ritratto di una speranza. Sotto il suo cappellino a lutto e sopra le sue mani incrociate, il volto scarno, dal tristissimo sorriso, era diventato nell'attesa soltanto due occhi vaghi che cercano un figlio perduto in mare per dargli la resurrezione.
A Melipilla non seppero niente, né il dottore inglese Juan Halley, né Clara, né Jesusa, né don Raimundo Alcalde, né don José Toro, né la signora Hurlano, né donna Natalia Salmento, quando il giovane inglese fu ingoiato dal mare o dalla terra.
Tuttavia, l'eredità, con le sue cifre colossali, giunse poi a turbare le vite di questi melipillesi che poi dovettero viaggiare fino all'Inghilterra per prender parte alla più burrascosa contesa di interessi e passioni.
Verso il mese di ottobre del 1865 venne scoperto a Waga Waga (Australia) un uomo di professione macellaio, conosciuto come Tom o Thomas Castro, presumibilmente di nazionalità cilena. Parlando con la gente del posto aveva detto in più occasioni che né il suo nome né la sua nazionalità erano tali. Disse di essere inglese e naufrago raccolto nell'Atlantico da una nave che lo aveva portato in Australia.
Qualcuno che aveva sentito queste confidenze le comunicò alla madre del barone smarrito. E Tom Castro venne da lei chiamato.

Immediatamente tutti ebbero molti dubbi. Intanto l'uomo sembrava illetterato e soffriva di una malattia nervosa, analoga al ballo di San Vito, che Roger non aveva mai avuto. Appariva, inoltre, straordinariamente obeso, però erano passati più di dieci anni e il suo fisico poteva essere cambiato. Non era molto sicuro di alcuni dati della famiglia. Ma tutto questo può accadere a un naufrago che viene trasportato da un mondo all'altro e poi abbandonato alla sua sorte in terre aspre e sconosciute.
Perché si faceva chiamare Tomas Castro?
Lo spiegò: Non voleva che l'umile mestiere che svolgeva danneggiasse gli illustri titoli della famiglia Tichborne.
Bisogna immaginare il momento in cui quest'uomo singolare, arrivato da Waga Waga, da Melipilla e da un naufragio, passò i cancelli della casa signorile. Gli abitanti di Tichborne e di Airesford erano convenuti ad attenderlo.
La storia era solo all'inizio. Vedremo cosa riservava il destino all'uomo che sembrava resuscitato.


IL BARONE DI MELIPILLA (II)

Era veramente Roger Charles Tichborne colui che entrava quel giorno nel castello dei Tichborne, o si trattava semplicemente di un impostore che pretendeva di soppiantarlo?
Lady Tichborne scese le scale per vederlo. Gli aprì le braccia: era suo figlio. Il maggiordomo negro, che lo aveva cresciuto, lo riconobbe anche lui.
Ma la famiglia Arundell, alla quale sarebbe spettata la fortuna dei Tichborne se si fosse riuscito a provare che quell'uomo mentiva, non volle riconoscerlo e gli fece immediatamente causa.
Quando questo litigio cominciò nessuno poteva sapere come sarebbe andato a finire. Il clamoroso scandalo si trascinò dietro perfino degli esploratori come Richard
Burton, il traduttore delle Mille e una Notte, e molti sacerdoti gesuiti che presero apertamente parte contro le pretese di quell'uomo dallo stranissimo aspetto.
Uno dei Tichborne, Everardo, era entrato nel noviziato della Compagnia di Gesù e la Chiesa accampava delle pretese nella eredità. Per cui la diatriba si trasformò anche in guerra religiosa nella quale intervennero vescovi cattolici e dignitari protestanti e da ambo le parti si tirarono delle sassate nient'affatto celestiali.
A complicare ancora di più le cose il presunto erede diede risposte sbagliate o confuse alle domande degli inquirenti. Da parte loro, i giudici, in quel lungo processo inquisitorio, non mostravano un grande interesse nel dargli ragione. Ma il barone di Melipilla non si diede mai per vinto e lo sconcerto della società inglese continuò ad aumentare. La gente si precipitava alle udienze, nelle quali circolavano le bottigliette di
jerez e le gallette sociali come se si trattasse di un grande picnic. La voluminosa figura del pretendente, la sua aria esotica, il mistero che sembrava avvolgerlo e trascinarlo da lontane terre fino all'Australia e da lì a questa contesa campale, suscitarono una curiosità disperata.
Subito la lunga mano dei suoi contendenti arrivò fino a Melipilla e fece viaggiare molti testimoni che dalla lontana città cilena arrivarono fino a Londra, convenientemente curati e custoditi, a testimoniare contro il pretendente.
Così dal Cile partirono don Pedro Pablo Toro, di Cuncumen, donna Mercedes, Azócar, donna Lorenza Hurtado, bottegaia di Melipilla, Eudocia y Juana, sue figlie. Partirono anche donna Francisca Ahumada, che aveva tagliato un ricciolo del nostro barone; donna Teresa Hurtado Toro e don José Maria Serrano. Allo stesso modo arrivarono a Londra, da Melipilla, donna Manuela González, don Pedro Castro, il giudice don Vicente Vial e don José Agustin Guzmán.

Tutti questi melipillesi, ad eccezione di don Pedro Castro, testimoniarono contro l'uomo misterioso. Quanto denaro costò alla famiglia contendente portare questi cileni per i mari, su navi a vela, accoglierli a Londra e rispedirli alla loro Melipilla natale?
Un fatto grave accadde durante il processo. Un uomo di coscienza, padre Meyrick, un sacerdote che era stato professore di Roger Tichborne, sostenne con energia che quell'immenso uomo obeso era lo stesso che era stato suo discepolo nella scuola di Stonyhurst. Le sue parole, che suscitarono emozione, furono udite con voce alta e chiara nell'aula della Corte: « Mi dispiace molto dirlo, ma niente potrà togliermi dalla coscienza
che l'accusato sia il vero sir Roger ».
Pochi giorni dopo alla vigilia di essere chiamato nuovamente a deporre, padre Meyrick venne sequestrato e rinchiuso per sempre in un lontano e sconosciuto stabilimento della Compagnia di Gesù.
La Società Protestante esclamò irosamente: « In che paese siamo? Siamo nell'Inquisizione e in Spagna? Do’è il reverendo padre Meyrick? ».
La Corte respinse queste proteste e decise di non intervenire. La sorte dell'aspirante erede era ormai segnata. Venne condannato come impostore a quattordici
anni di prigione e i discendenti di Lord Arundell, avuta ragione dell'ultimo Tichborne, gesuita professo, vinsero la battaglia legale e ricevettero l'immensa fortuna.
Il coraggioso sacerdote Meyrick morì in seguito nella sua prigione.
Il processato, quattordici anni dopo, percorreva l'Inghilterra tenendo conferenze sui suoi diritti calpestati e sull'ingiustizia della sua lunga condanna. La morte lo sorprese mentre cercava di attirare l'attenzione di un pubblico che si assottigliava sempre più fino a disinteressarsi completamente della sua causa.
Ma il misterioso caso del barone di Melipilla, polverosa città del Cile, è ancora aperto. Era morto nel naufragio della « Bella » o si era salvato? Ed era questi e non altri quell'uomo sfortunato che nelle aule dei tribunali londinesi domandò inutilmente i suoi titoli e la sua eredità quale undicesimo barone di Tichborne?
Io sono un umile collezionista di enigmi. Questo dovete risolverlo voi.

(Questi 33 articoli sono stati pubblicati dalla rivista « Ercilla » di Santiago del Cile fra il marzo 1968 e il gennaio 1970).




Quaderno 6
Lotta per la giustizia


LA CRISI DEMOCRATICA DEL CILE
È UN DRAMMATICO AVVERTIMENTO
PER IL NOSTRO CONTINENTE

Voglio informare tutti i miei amici del continente sui disgraziati avvenimenti verificatisi in Cile. Mi rendo conto che la maggior parte dell'opinione pubblica si sentirà disorientata e sorpresa, dato che i monopoli nordamericani che controllano le notizie avranno attuato, sicuramente (in questo caso come in altri), lo stesso piano che hanno sempre messo in pratica dappertutto: falsificare la verità e alterare la realtà dei fatti.
Ho il dovere inevitabile, in questi tragici momenti, di chiarire per quanto è possibile la situazione del Cile perché, nel corso dei miei viaggi in quasi tutti i paesi d'America, ho potuto verificare su me stesso, l'immenso affetto che sentivano verso la mia patria i democratici delle nostre nazioni. Tale affetto era dovuto fondamentalmente al profondo rispetto per i diritti dell'uomo, radicato nella mia terra come forse in nessuna altra terra americana. Orbene, tale tradizione democratica, patrimonio centrale dei cileni e orgoglio del continente, viene oggi ad essere schiacciata e distrutta dall'azione congiunta della pressione straniera e dal tradimento politico di un presidente eletto dal popolo.

1. LA PRESSIONE STRANIERA

Vi esporrò brevemente i fatti.
L'attuale campione dell'anticomunismo e presidente della Nazione portò nel suo primo gabinetto tre ministri comunisti. Dichiarò al Partito Comunista del Cile, per
obbligarlo a designare questi ministri, che se il Partito Comunista non avesse accettato questa partecipazione al suo Governo lui si sarebbe dimesso dalla presidenza della Repubblica.
I comunisti nel Governo furono dei veri e propri crociati per ottenere il mantenimento delle promesse fatte al popolo cileno. Dimostrarono un dinamismo mai
visto prima nella storia politica del Cile. Affrontarono apertamente innumerevoli problemi, risolvendone molti. Si recarono in tutte le zone del paese e presero contatto direttamente con le masse. Dopo che erano trascorse soltanto alcune settimane dal loro ingresso nel
Governo in manifestazioni pubbliche di straordinaria grandezza resero conto al paese dell'andamento delle loro attività, facendo una politica aperta e popolare. Combatterono pubblicamente i progetti relativi all'aumento del costo della vita, progetti caldeggiati da elementi conservatori annidati nel Governo.
Tutta questa politica di tipo nuovo, attivo e popolare, non fu affatto gradita alla vecchia oligarchia feudale del Cile che influenzò e accerchiò a poco a poco il Presidente della Repubblica. D'altra parte gli agenti dello imperialismo nordamericano di compagnie così potenti, o per meglio dire onnipotenti, in Cile, come Guggenheim, la Chile Exploration Corp., la Anaconda Copper, la Anglo Chilean Nitrate, la Braden Copper Co., la Bethlehem Steel, ecc. non perdevano tempo. Gli agenti di queste organizzazioni tentacolari che posseggono tutti i depositi di minerale del Cile, si muovevano accerchiando il presidente appena eletto. Questi cominciò a cambiare atteggiamento nei riguardi dei suoi ministri
comunisti, a crear degli ostacoli, ad aizzare contro di loro altri partiti in reiterati tentativi di machiavellismo provinciale. I ministri comunisti accettavano questa lotta sotterranea nella speranza che il proprio sacrificio personale potesse servire alla soluzione dei problemi più importanti del paese. Ma tutto fu inutile.
Con un pretesto qualsiasi, e fra gli abbracci e le lettere di ringraziamento appassionato ai suoi collaboratori comunisti il Presidente li allontanò dal suo Gabinetto. Questo fu il primo passo del suo servilismo. La vera ragione dell'uscita dei comunisti, che oggi calunnia e fa perseguitare dalla polizia, la diede per l'estero in forma così categorica da non aver bisogno di ulteriori spiegazioni per essere giudicata.
In effetti il signor González Videla concesse il giorno 18 giugno del 1947 un'intervista al corrispondente del giornale «New Chronicle» di Londra. Quella che segue è la traduzione letterale del dispaccio del corrispondente:

II Presidente González Videla ritiene che la guerra fra la Russia e gli Stati Uniti comincerà prima che passino tre mesi, e che le presenti condizioni politiche interne ed esterne del Cile sono basate su questa teoria.
Il Presidente ha rilasciato questa dichiarazione nel corso di un'intervista esclusiva al corrispondente del «New Chronicle» e ha precisato che la sua prossima visita in Brasile non è in relazione con la politica nordamericana e argentina ma sarà circoscritta ai problemi cileno-brasiliani. Queste due dichiarazioni sono contraddittorie perché è logico presumere che l'atteggiamento che dovessero prendere i due più importanti paesi sudamericani e il Cile in caso di guerra, dovrebbe essere discusso nell'incontro dei due presidenti.
Il Presidente ha affermato che l'imminenza della guerra spiega il suo attuale atteggiamento nei confronti dei comunisti cileni, contro i quali non ha delle obiezioni specifiche da fare. Ha assicurato: « II Cile deve cooperare con il suo potente vicino, gli USA, e se dovesse cominciare la guerra il Cile appoggerà gli USA contro la Russia ».

Poco prima che si verificassero i fatti recentemente accaduti, dagli Stati Uniti arrivarono espressamente diversi messaggeri, specialmente addestrati dal Dipartimento di Stato, a soffiare all'orecchio del frivolo Presidente del Cile, tetri messaggi che oscillavano fra l'alternativa della resa senza condizioni o il disastro economico. Ebbero un ruolo decisivo in queste operazioni don Felix Nieto del Rio, Ambasciatore del Cile a Washington,
ex nazista e diplomatico accomodaticcio, e il generale Barrios Tirado, ospite festeggiato in modo straordinario dall'alta combriccola militare che difende gli interessi monopolistici yankee. Oltre a questi messaggeri di malaugurio, sul Cile si abbatterono, durante un periodo di diversi mesi e in viaggi semisegreti, i grandi capitalisti dell'industria e della Banca nordamericana, tra cui spiccava il Re Mondiale del rame Mr. Standard accompagnato dai suoi esperti in terrore finanziario, Mr, Higgins e Mr. Hobbins.
Detti magnati e i loro battistrada criollos, ottennero dal signor González Videla la consegna del mio paese ai disegni della dominazione nordamericana, sulla base dell'immediata persecuzione anticomunista e dell'arretramento di tutto il movimento sindacale cileno, progredito attraverso una delle più lunghe, eroiche e dure lotte della classe operaia del continente.

2. IL TRADIMENTO DI GONZÁLEZ VIDELA

Voglio dire a tutti voi, amici conosciuti e sconosciuti, in questa lettera intima per milioni di uomini, che il caso dell'attuale Presidente del Cile lo conosco a fondo e dal di dentro. I nostri rapporti personali datano da lungo tempo, e, su sua richiesta, sono stato per di più il Capo Nazionale della Propaganda nella sua campagna elettorale.
Un contatto del genere mi ha permesso di conoscere quel poco che c'è da conoscere di uomini come lui, infatti, fra la sua più profonda intimità e il suo esterno,
non c'erano che spazi vuoti occupati da meschine aspirazioni. Tutto l'ideale del signor González Videla può essere riassunto in questa frase: « Voglio essere Presidente ». In altri posti della terra americana, i politici superficiali e frivoli di questo tipo, per arrivare al
potere, si imbarcano in qualsiasi avventura o colpo di stato, il che non è stato possibile in Cile. La sedimentazione democratica della nostra nazione fece sì che il signor González Videla, per raggiungere il suo obiettivo, indossasse i panni della demagogia utilizzando il profondo e organizzato movimento popolare. Questa fu la via da lui scelta per arrivare al potere. Combattuto ostinatamente dal proprio partito — diviso ancora oggi a causa della sua candidatura — l'attuale Presidente fece della sua amicizia con i comunisti la base fondamentale della sua carriera presidenziale. I comunisti, però, d'accordo con le altre forze democratiche, chiesero, prima della sua scelta come candidato, la formulazione di un Programma di Governo che contenesse le riforme sostanziali necessarie al progresso del Cile. Queste riforme furono discusse in un'ampia Convenzione delle forze democratiche organizzate e il Programma del 4 Settembre — come si chiamò questo documento fondamentale — fu giurato e firmato dal signor González Videla, in una delle cerimonie più solenni della vita politica del paese.

3. IL PROGRAMMA DEL 4 SETTEMBRE

Questo documento non contiene cambiamenti rivoluzionari di nessun genere. I suoi punti principali sono: la Riforma Agraria sulla base dell'esproprio delle terre incolte e della loro consegna ai contadini, la creazione di una Banca di Stato, l'uguaglianza salariale fra
uomini e donne; ma per maggiore chiarezza inserisco una parte del programma stesso. Noterete il profondo sentimento nazionale di questo piano di organizzazione civile ed economica di uno Stato e le linee pacifiche del suo sviluppo. La sua realizzazione avrebbe significato la trasformazione progressiva del paese e l'uscita, oggi molto più difficile, dalla crisi economica.

RIFORMA COSTITUZIONALE
PER STABILIRE IL REGIME PARLAMENTARE

Completo riconoscimento dei diritti civili e politici della donna.
Abrogazione delle Leggi che attentano ai diritti individuali. Promulgazione della Legge sulla Probità Amministrativa.
Politica internazionale del Cile orientata al mantenimento della pace mondiale. Creazione della Cittadinanza Americana.
Censimento nazionale degli articoli di prima necessità. Acquisto da parte dello Stato di prodotti d'importazione come zucchero, tè, caffè, ecc. Regolamentazione e riduzione dei canoni d'affitto.
Nazionalizzazione delle assicurazioni, del petrolio, del gas, dell'energia elettrica, ecc.
Creazione della Banca di Stato. – Realizzazione di una politica monetaria che tenda a rivalutare e stabilizzare il valore della moneta. Ricovero ospedaliere e distribuzione delle medicine a carico dello Stato.
Creazione di una moderna industria siderurgica. Creazione dell'industria del rame (fusione, laminazione, trafileria e manifattura industriale)..
Riforma Agraria che consiste in: suddivisione dei grandi latifondi e delle terre incolte fra gli inquilinos e i lavoratori agricoli. Meccanizzazione dell'agricoltura. Aumento delle aree a coltivo.
Piano nazionale per la costruzione di alloggi popolari.
Sindacalizzazione obbligatoria. Salvaguardia dell'organizzazione sindacale e delle conquiste ottenute dai lavoratori sulla base del riconoscimento del diritto di unirsi nella loro Centrale Sindacale, la Confederazione dei Lavoratori del Cile, e di una Centrale Unica degli Impiegati. Perfezionamento della legislazione sociale vigente. Diritto a esser dirigente sindacale a partire dai 18 anni d'età. Discussione immediata dei progetti di legge sull'indennità per anni di servizio. Abrogazione immediata della circolare illegale che proibisce l'organizzazione di sindacati di lavoratori agricoli. Piano Nazionale di Previdenza e Assistenza Sociale a carico dello Stato. Politica immediata di protezione dell'infanzia. Uguale possibilità per impieghi e promozioni fra uomini e donne nella Pubblica Amministrazione e nei servizi parastatali. Attuazione effettiva della disposizione del Codice del Lavoro che prevede la parità di salario fra uomini e donne a parità di lavoro. Creazione di una Assicurazione di Maternità. Protezione statale del lavoro e dei salari dei minori.
Rafforzamento del principio dello Stato docente, quale mezzo più adeguato per assicurare l'orientamento democratico dell'educazione nazionale. Educazione dell'infanzia indigente o abbandonata. Eliminazione dell'analfabetismo e del semianalfabetismo. Formazione tecnica della popolazione adulta. Riforma del sistema educativo, d'accordo con le esigenze dell'ordine sociale ed economico. Rispetto della dignità del Magistero nel suo aspetto sociale, politico, economico e professionale, riconoscendo specialmente la più ampia libertà ideologica del maestro e assicurando il normale sviluppo della sua carriera.

L'allora candidato signor González Videla distribuì a milioni questo programma col suo giuramento prestato nella Convenzione Democratica e la sua firma in fac-simile in calce al programma. Trascrivo, come nota curiosa, questo giuramento:

Giuro davanti a voi, rappresentanti del popolo del Cile, che saprò condurvi alla Vittoria, e che, con l'aiuto del popolo, realizzerò il Programma di bene pubblico che questa grande Convenzione ci ha dato per il bene del Cile e la grandezza della nostra Democrazia.

Santiago, 21 luglio 1946

4. OSTACOLI ALLA REALIZZAZIONE DEL PROGRAMMA

Poco dopo esser stato eletto il signor González Videla diede sua figlia in sposa ad un giovane avvoto membro di una delle famiglie più in vista dell'oligarchia criolla. Le nomine diplomatiche furono fatte dal Presidente al gruppo reazionario che ha diretto gli
affari esteri del Cile in questi ultimi anni. Quando i ministri comunisti proposero, obiettivamente, le soluzioni per risolvere i problemi in base al programma, furono criticati, ostacolati o mandati da Erode a Pilato dal Presidente della Repubblica. Le riunioni di Gabinetto autorizzavano aumenti del costo della vita che rappresentavano delle vere e proprie estorsioni per i lavoratori salariati. I ministri comunisti, fedeli al programma politico di Governo, resero pubblica la loro disapprovazione a queste misure prese dal Gabinetto, votando contro di esse. Nel frattempo, uno spesso strato di gestori e di agenti delle grandi compagnie imperialiste facevano sentire ogni giorno con maggior peso la loro influenza decisiva. Il ministro comunista delle Terre, il giorno prima della sua partenza per un viaggio nella zona dello stretto di Magellano, dove lo chiamavano gli interessi di migliaia di piccoli coloni che reclamavano per la scandalosa concessione di immensi terreni a società straniere, in cambio di somme irrisorie pagate allo Stato, fu costretto dal Presidente a rinviare a tempo indeterminato il suo viaggio. Le proteste pubbliche che il Partito Comunista fece di questo tipo di situazioni, furono chiamate più tardi dal signor González Videla, « tentativi di proselitismo politico ».

5. ABBANDONO DEL PROGRAMMA

Con l'uscita dei ministri comunisti, su richiesta del Governo e dei monopoli nordamericani, l'attuazione del programma popolare giurato dal signor González Videla
venne definitivamente abbandonata. Al momento presente nella censura ufficiale che l'esecutivo esercita su diversi giornali cileni, uno dei limiti costanti che vengono imposti è quello di non parlare del Programma del 4 Settembre. Intanto dominano con un'influenza onnipotente sulle decisioni del Governo, l'insaziabile oligarchia criolla composta da retrogradi proprietari di latifondi feudali e da voraci banchieri, e gli ambienti tentacolari delle società nordamericane ACM, Ch.E., Anglo Chilean N., Braden Cooper, Compañía Chilena de Electricidad, Cía. de Teléfonos de Chile e altre. I politici legati a questi interessi stranieri sono gli unici attualmente ascoltati dal capo dello Stato.
A completamento di queste influenze, il signor González Videla ha autorizzato la consegna della carta topografica della linea costiera — vale a dire, i segreti militari della difesa — allo Stato Maggiore nordamericano; e nuove e nutrite missioni militari e poliziesche di quella nazione operano, senza alcun controllo da parte del Governo cileno, all'interno del territorio nazionale.

6. LA SITUAZIONE ECONOMICA

Intanto la situazione economica del paese si avvicina alla catastrofe. Le società imperialiste hanno dovuto fornire segretamente al signor González Videla il denaro per pagare gli impiegati pubblici, chiedendo, naturalmente, misure repressive contro i lavoratori indigeni. La moneta si è svalutata in modo violento e l'inflazione continua ad aumentare vertiginosamente. Naturalmente gli stipendi e i salari della classe media e del popolo, diventano ogni giorno insufficienti.
Il Partito Comunista ha dichiarato insistentemente al Presidente che le risorse per modificare questa situazione dovevano venire da dentro lo Stato e non dall'estero. Modifiche fondamentali della nostra struttura economica potevano portarci all'aumento della produzione che avrebbe frenato questa crisi profonda. In questo paese di latifondisti, i signori feudali non sono obbligati a tenere registri di contabilità delle loro aziende, di modo che il peso della legge ricade tutto sui piccoli commercianti, che hanno invece l'obbligo di registrare le loro operazioni. Enormi estensioni di terra fertile vengono tenute incolte allo scopo di far rincarare i prodotti agricoli ad ogni raccolto, ottenendo così i profitti
necessari al mantenimento della classe feudale, a costo della tragedia sociale cilena: fame, denutrizione, tubercolosi.
La grande organizzazione sindacale, la CTCH (Confederazione dei Lavoratori del Cile), ha proposto al Governo la creazione del Consiglio Nazionale per l'Economia con la partecipazione delle principali istituzioni finanziarie e della classe operaia organizzata. Nella sua svolta il signor González Videla si è servito anche di questo ente — costituito su richiesta dei lavoratori — per dare sempre maggiore influenza ai capitalisti, scartando alla fine i rappresentanti operai con un semplice decreto di questa corporazione. La CTCH nazionale ha proposto anche un ampio piano per l'aumento della produzione e per la formazione in ogni industria di comitati di operai e di padroni per studiare e promuovere questo aumento. Il signor González Videla non rispettò né mise in pratica nulla di tutto ciò, anzi trovò che era più facile — per dare soddisfazione ai suoi nuovi amici reazionari — accusare la classe operaia di « scarso rendimento », definizione calunniosa inventata dagli agenti provocatori nordamericani, allo scopo di basare su di essa i loro piani repressivi.

7. INSOLENZA DELL’OLIGARCHIA

II signor González Videla prima della sua elezione fu a capo di numerosi comitati di azione democratica antifascista e antifranchista, allo scopo di rendersi popolare nell'elettorato. Una volta giunto al potere, lungi dal perseguitare i gruppi fascisti nazionali e internazionali, ha perseguitato con rancore quegli stessi gruppi liberatori di cui aveva fatto parte e questa condotta mostruosa è giunta al limite, con l'arresto e il confino di rifugiati spagnoli, amici personali del Presidente, della Repubblica che lavorarono ai suoi ordini quando lui presiedeva il Comitato Ispano-Cileno Antifranchista.
È stato inutile chiedere al Governo del signor González Videla qualsiasi azione contro i gruppi provocatori fascisti del mio paese. Anzi, dietro suo mandato, questi gruppi hanno prosperato e ne sono nati addirittura di nuovi. Il più importante, diretto dall'agente nazista Arturo Olavarria, sotto il suggestivo norme di « Acha » (1) (Azione Cilena Anticomunista) dispone di milizie armate che con tanto di Horst Wessel Lied (2) come inno ufficiale, fanno esercizi militari pubblici tutte le settimane, con la acquiescenza e protezione dell'ex caudillo antifascista Gabriel González Videla.
Organizzazioni di questo tipo e pubblicazioni periodiche dello stesso orientamento sono alimentate dall'oligarchia reazionaria cilena, la stessa che, influenzando il governo precedente, è stata l'unica a sostenere fino all'ultimo la causa dell'Asse in America del Sud. Oggi queste cricche naziste sono strettamente legate in Cile agli agenti militaristi nordamericani.

(1) Che vuole vuoi dire ascia [N.d.T.].
(2) Inno nazista [N.d.T.].

8. UN PIANO SOVVERSIVO
DEL SIGNOR GONZÀLEZ VIDELA

Poco prima che precipitassero gli ultimi avvenimenti, che hanno coperto di vergogna l'onore del mio paese, il signor González Videla chiamò alla Moneda la direzione centrale del Partito Comunista per proporle un piano sovversivo che venne spiegato con dovizia di particolari dal Presidente della Repubblica, e che tendeva alla creazione di un governo militare senza la partecipazione di partito alcuno. Il signor González Videla, con l'aiuto delle forze armate, avrebbe sciolto il parlamento. Poi avrebbe soddisfatto, ci disse, una vecchia aspirazione dei comunisti cileni, convocando un'Assemblea Costituente. In seguito i comunisti avrebbero potuto entrare nel Governo della Repubblica. Per intanto il Presidente chiedeva, attraverso il mio partito, l'appoggio popolare al suo colpo di stato. Se tale appoggio gli fosse stato negato, il suo piano sarebbe stato eseguito nonostante tutto, anche contro la volontà popolare.
In quell'incontro il Partito Comunista del Cile respinse decisamente queste proposte sediziose e si disse preoccupato del pericolo che esse costituivano per lo stato di diritto nella nostra Repubblica. I comunisti dissero inoltre che un tentativo del genere li avrebbe visti all'opposizione, alla testa di una corrente democratica nazionale contro l'imposizione armata.
Il Presidente mise fine all'incontro dicendo che, se le cose stavano così, i comunisti ne avrebbero pagate le conseguenze.

9. LO SCIOPERO DEL CARBONE

In questa situazione caotica, prodotta dall’incoerenza morale e politica del signor González Videla, ebbe luogo uno sciopero legale, vale a dire, nel rispetto delle norme
indicate dal Codice Nazionale del Lavoro, nella zona carbonifera del Cile, Lota y Coronel. Detto sciopero, al quale presero parte diciannovemila operai, fu liberamente votato dagli stessi con lo straordinario risultato di 15 voti contrari soltanto.
Il signor González Videla trovò in questo sciopero il pretesto per il suo tradimento definitivo, per dare inizio ad una provocazione internazionale su grande scala e scatenare una persecuzione antioperaia come non se n'erano mai viste prima nella mia patria.

10. CHE COSA SIGNIFICA LOTA Y CORONEL?

Fuori dal Cile nessuno può avere un'idea di quello che significa la vita nelle miniere di carbone. Nel duro clima freddo del Cile australe le gallerie si estendono sotto il mare fino a otto chilometri. I minatori devono lavorare semisdraiati, minacciati eternamente dal grisù che periodicamente li uccide ad una velocità maggiore del lavoro.
Perfino quattro ore impiegano ad arrivare sulla linea del loro lavoro, e questo tempo non gli viene pagato. Migliaia di operai guadagnano lì meno di cinquanta centesimi di dollaro per queste dodici ore di lavoro. Sono contati quelli che hanno un salario di due dollari al giorno. Orbene, dalle loro caverne escono ad una nuova tragedia, quella dell'alloggio e dell'alimentazione; le statistiche ufficiali sciorinano la raccapricciante cifra
di sei persone per letto. Nella località detta Puchoco Rojas esiste il sistema del « letto caldo ». Detto sistema — che rivela la tragedia terribile del popolo cileno — consiste nel fatto che il letto è usato a turno, ma appena un minatore si alza un altro lo occupa, col risultato che questo letto non si raffredda per anni interi. L'alimentazione, con i salari miserabili, è al di sotto del normale. Ogni uomo, secondo l'esperto nordamericano, signor Bloomfield, consuma duemila calorie al giorno di meno di quelle di cui ha bisogno. L'anchilostomasi, malattia terribile, da una percentuale elevatissima di morti che vanno ad aggiungersi a quelli provocati dalla tubercolosi endemica e dagli incidenti.
È naturale che in un'atmosfera del genere si siano sviluppati sempre eroici movimenti di resistenza operaia che sono riusciti a migliorare di poco tanto pessime condizioni di vita. Eppure, adesso e per la prima volta un Presidente eletto proprio da quegli operai — affinché qualche volta fosse ascoltato il clamore che sale dal loro inferno — ha dichiarato in pubblico che il movimento di lotta non è dovuto alle spaventose condizioni esistenti nella zona del carbone ma a complotti internazionali. E in questa catena di falsità ha trattato gli scioperanti con una crudeltà e un accanimento riscontrabili
soltanto nei sistemi nazisti di schiavitù e di oppressione. II signor González Videla rifiutò di risolvere questo conflitto nonostante le richieste dei sindacati e delle stesse società interessate, dichiarando cinicamente ai rappresentanti capitalisti che « non capivano e non cercassero di risolvere il conflitto; che si trattava della prima mossa della nuova guerra mondiale ». E trattando questo dramma dello sfruttamento e del dolore in questo modo, inviò immensi contingenti di forze armate comprendenti l'aviazione, la marina da guerra, la fanteria e la cavalleria, per schiacciare uno sciopero legale. Subito dopo, gli agenti del signor González Videla, d'intesa con la polizia nordamericana, falsificarono e fabbricarono
dei documenti allo scopo di accusare il lontano governo della Jugoslavia di avere istigato le richieste di miglioramenti avanzate dagli operai. Richieste che il signor González Videla aveva trovato del tutto giustificate un anno prima, quando era candidato alla presidenza. Quella volta aveva versato lacrime di commozione davanti a diecimila minatori nel vedere il fervore con cui essi lo acclamavano come possibile realizzatore delle loro speranze.

11. SI PREPARA IL CLIMA DI REPRESSIONE

Poco prima il Presidente della Repubblica aveva ottenuto, dai settori più reazionari del Congresso, l'emanazione di una Legge di Facoltà Straordinarie, che gli dà praticamente poteri dittatoriali.
Il signor Gonzàiez Videla sta facendo pieno uso di questi poteri e li ha estesi anche oltre le indicazioni della legge.
Gli operai del carbone sono stati barbaramente maltrattati. Due ore prima che venisse proclamato lo sciopero, l'esercito circondò la zona carbonifera come se si trattasse di una zona nemica. Né parlamentari né giornalisti vi furono ammessi da quel momento. Il silenzio si addensò su una popolazione operaia di straordinario significato. Tutti i dirigenti sindacali furono arrestati e rinchiusi in navi da guerra, o portati su isole inospitali per essere poi confinati vicino al Polo. Le porte delle sedi sindacali, che erano state sempre rispettate da tutte le amministrazioni, anche sotto i governi di detra furono distrutte a colpi d'ascia, con le bande militari che suonavano inni marziali per rallegrare lo spettacolo. Casa per casa, di notte, gli occupanti armati andarono a cercare i minatori che venivano fatti scendere nelle gallerie senza avere il tempo di vestirsi, con la forza, se non riuscivano a sparire prima in direzione dei boschi. Di giorno le mogli dei lavoratori più in vista venivano fatte girare con le manette ai polsi e a volte con la testa rapata. Ai bambini si puntava la pistola al petto perché dicessero dove erano nascosti i loro genitori. Hanno riempito treni interi — simili a quelli che trasportavano i deportati dai nazisti — di famiglie e di operai che vivevano nella zona da oltre quarant'anni, allo scopo di espellerli in massa dal territorio. Questi treni sono stati delle specie di carceri che per giorni interi, e senza che nessuno potesse accorrere a soccorrere le vittime, sono stati tenuti isolati e senza viveri. Bambini e adulti sono morti in conseguenza di questo trattamento. Fra le colline sono stati trovati cadaveri di minatori senza che si potesse indagare su questi fatti dato che nessuno poteva entrare nella zona.
E mentre alle Nazioni Unite si discute il crimine del genocidio e il delegato del Cile farà — sicuramente — alcuni commoventi discorsi in proposito, il signor González Videla si rende nel frattempo responsabile di questo crimine, perpetrato contro i suoi stessi compatrioti.

12. IL CASO DI JULIETA CAMPUSANO

In questi giorni migliaia di uomini accusati di essere comunisti sono stati arrestati in tutto il Cile. Gli arresti sono stati effettuati simultaneamente accerchiando con le forze armate intere zone e trasferendo in massa i cittadini in località desolate del paese, scelte in base al capriccio del sadico collaboratore del signor González Videla, il capo della polizia Luis Brun D'Avoglio.
Il caso della signora Julieta Campusano è estremamente patetico.
Julieta Campusano è la prima Regidora di Santiago del Cile, essa cioè, ha ottenuto il maggior numero di voti fra tutti i membri del Consiglio dell'Illustre Municipalità della capitale cilena.
Importante dirigente femminile, donna di bontà e di abnegazione senza pari, è stata l'unica ad accompagnare nella sua campagna presidenziale il signor González Videla, instancabile, in tutte le località del paese. In conseguenza di questo sforzo durissimo, la salute della signora Campusano ne risentì gravemente.
Orbene, la polizia del signor González Videla, eseguendo un ordine di cattura contro di lei, è entrata di sorpresa nella stanza da letto della signora Campusano alle quattro del mattino, e l'ha trascinata in una cella nonostante fosse in avanzato stato di gravidanza.
Alcune ore dopo, detenuta dalla polizia, la dirigente femminile, che con tanta generosità e con tutti gli sforzi aveva accompagnato l'attuale Presidente della nazione nella sua campagna elettorale, partorì prematuramente a causa della violenta emozione, il che avrebbe potuto avere conseguenze fatali per la madre e per il neonato.
Credo che per descrivere la levatura morale dell'attuale Presidente del Cile, sia sufficiente questo esempio doloroso e ogni commento è superfluo.

13. UN PAESE SOTTO IL TERRORE

Tutta la stampa del mio paese è censurata. Ma per imposizione dell'autorità non può informare il pubblico che le sue pubblicazioni sono state brutalmente eliminate. Lo scopo del Governo è di simulare uno stato di normalità che non esiste.
Altre province sono state dichiarate zone di emergenza e assediate nello stesso modo brutale delle province carbonifere.
Intanto, il Presidente della Repubblica ha invitato la polizia straniera e il Presidente Perón a intervenire negli affari del Cile. Le conversazioni telefoniche di entrambi i presidenti, che durano a volte delle ore. sono state ufficialmente rese pubbliche dal Governo.
Tre aerei carichi di poliziotti argentini sono stati ricevuti con tutti gli onori dal Presidente della Repubblica, che fino al giorno stesso della sua elezione è stato presidente del più forte centro antiperonista dell’America del Sud.
Il capo della polizia nordamericana, Warren Robms, ha popolato il paese di altri agenti del FBI assegnando loro il compito speciale di dirigere la repressione operaia nella zona del carbone.

14. EMIGRATI SPAGNOLI

II signor González Videla ha occupato per diversi anni il prestigioso posto di Presidente dell'Associazione Ispano-Cilena Antifranchista. Occupando quel posto si è trovato in stretta intimità con i rifugiati spagnoli, persone di notevole levatura intellettuale e politica. Come ha utilizzato questo rapporto e questa onorevole convivenza?
Incarcerando questi patrioti repubblicani, mediante ordini direttamente emanati da lui, facendo uso delle conoscenze che lui stesso, personalmente, ottenne da essi nell'intima fraternità della lotta antifranchista. Solo la mia denuncia in Senato ha impedito, fino ad ora, che comincino a deportare in massa i profughi spagnoli fatti venire dal Governo del Presidente Aguirre Cerda, la cui pace e tranquillità sono un impegno d'onore basato sul diritto d'asilo. Niente garantisce, nell'attuale stato di colpevole disordine della vita pubblica cilena, che domani non vengano attuati i propositi della polizia nordamericana, e questi profughi politici vengano consegnati ai loro boia della penisola iberica.

15. CAMPI DI CONCENTRAMENTO

Due campi di concentramento sono in funzione permanentemente in questa guerra contro il popolo cileno.
Il1 primo è stato fondato sull'isola Santa Maria, un’isola scoscesa dal clima durissimo. La popolazione penale che si trovava sull'isola — composta da criminali irriducibili — è stata evacuata. Al suo posto oggi vengono tenuti più detenuti politici di quelli che gli stabilimenti di pena possono contenere. Centinaia di detenuti senza letto né alloggio si ammucchiano su quest'isola.
Un altro campo di concentramento è stato aperto a Pisagua, sulle rovine di un insediamento minerario fra il deserto ed il mare. Fili spinati di stile nazista circondano questo stabilimento situato in una delle regioni più incredibilmente inospitali del pianeta. Numerosi intellettuali e centinaia di dirigenti operai stanno rinchiusi lì dentro, ogni giorno arrivano nuovi contingenti di prigionieri.
I sindaci di Iquique, Antofagasta, Calama, Tocopilla, Coronel, Lota, sono stati trasferiti in questo campo di concentramento senza alcun rispetto per la loro investitura emanata dalla volontà popolare. I consigli municipali della maggior parte di queste località sono stati sciolti, e al loro posto sono state nominate, delle raccogliticce giunte di vicini formate da agenti di polizia e da alcuni spagnoli franchisti.

16. IL LAVORO FORZATO

II nuovo regime del lavoro in Cile, nella maggior parte delle sue industrie di base, è un regime di schiavitù e di lavoro forzato. Gli operai sono costretti militarmente a presentarsi ai loro posti di lavoro.
Trascrivo il documento militare corrispondente affinché sia conosciuto in tutta l'America:

Citazione per.................. Domiciliato in...........
perché si presenti al suo lavoro abituale il giorno 10 ottobre alle 8 del mattino, sotto sanzione, in caso non lo facesse, di essere considerato trasgressore della Legge di Reclutamento dell'Esercito e punito con una pena di tre anni e un giorno di prigione minore al suo grado massimo. Un timbro. Il Comando Militare.

È necessario che tutti i democratici d'America conoscano questo documento vergognoso, che non reca nessuna offesa alla dignità del popolo cileno, ma che definisce per sempre nella Storia la sinistra figura di un tristo demagogo diventato boia.

17. LE ROTTURE

Vi chiederete: quali motivi ha addotto il Governo del Cile per giustificare la sua inattesa decisione di rottura dei rapporti diplomatici con la Jugoslavia, e poi con l'URSS e con la Repubblica Cecoslovacca?
Ha accusato questi lontani paesi di fomentare scioperi nel settore del minerale di carbone allo scopo di paralizzare l'industria bellica nordamericana in una guerra che, secondo il Presidente della Repubblica del Cile è scoppiata fra quei paesi e gli Stati Uniti. In altri termini, ha approfittato di un fatto economico e locale per mandare in porto una provocazione internazionale.
Nel caso della Jugoslavia ha proceduto ad espellere l'ex Console monarchico jugoslavo e un diplomatico accreditato in Argentina, in visita in Cile, che aveva invitato per una conversazione cordiale al Ministero degli Esteri. Oltre a notificare la rottura, con una villania e grossolanità senza pari, li fece arrestare sulla porta del suo ufficio dopo averli accompagnati, salutati e sorriso loro amichevolmente. Dalla Cancelleria li portarono all'estero in stato di fermo. Questa azione venne eseguita per saccheggiare impunemente l'ufficio dei rappresentanti jugoslavi, da dove portarono via alcuni documenti che alterarono e falsificarono per giustificare i loro bassi disegni.
Per quanto riguarda l'URSS, dall'arrivo al potere del signor González Videla, e ad onta del fatto che questi era presidente onorario dell'Istituto Sovietico di Cultura, il Governo, senza tenere in alcun conto le proteste fatte dalle istituzioni culturali e dai partiti popolari, ha autorizzato una campagna di bassezze e malignità contro l'URSS fatta da tutti i settori fascisti della popolazione.
Un simile stato di cose giunse al colmo quando poco prima della rottura, da un'automobile, furono sparati dei colpi di pistola mitragliatrice contro la sede dell’Ambasciata Sovietica. Il governo non fece nulla per individuare i colpevoli, i quali — ringalluzziti dal successo del loro vile attentato — in presenza del signor González Videla, e autorizzati da un discorso della prima autorità, di carattere provocatorio, attuarono un’aggressione organizzata arrivando quasi alle vie di fatto contro l'Ambasciatore sovietico quando lo trovarono in una mostra alla quale era presente anche il primo magistrato del paese.
Invece di presentare delle scuse che qualsiasi Governo — perfino il capo di una tribù primitiva — avrebbe presentato per mantenere separati questi fatti dall'azione ufficiale, il ministro degli Affari Esteri su ordine del Presidente della Repubblica, da un giorno all'altro, ruppe le relazioni diplomatiche con l'URSS estendendo questa rottura anche alla Repubblica Cecoslovacca. Questo accadeva nel preciso momento in cui
quel paese portava a termine un negoziato per dotarci di macchine agricole e per impiantare una fabbrica per la trasformazione della barbabietola da zucchero allo scopo di produrre zucchero in Cile: colpo cinicamente premeditato per legarci ai monopoli nordamericani rispettivi.
Tutto questo è stato detto all'estero, diffuso dalle agenzie di stampa nordamericane e dai rappresentanti ufficiali del Cile, circa un preteso intervento di questi rappresentanti stranieri negli affari interni del paese, è una grossolana calunnia, ed è il piatto di menzogne preparato dal Governo della nazione, condito dall'esperto del Dipartimento di Stato nordamericano, Mr. Kennan, e offerto ai reazionari filofascisti e imperialisti
dell'America intera come opera di provocazione audace e ripugnante. A Rio de Janeiro, in alcune riunioni segrete con il Generale Marshall, venne deciso che il Cile, in quanto paese di tradizione democratica, iniziasse questa manovra per influire così sulle altre cancellerie
americane.
González Videla ha svenduto e negoziato, quindi, il patrimonio storico, giuridico e morale del Cile. E lo ha fatto freddamente, senza pudore. Non si può interpretare in altro modo la sua risposta negativa alla proposta di nominare una commissione d'inchiesta -— composta da personalità di tutti i partiti — che accertasse i fatti relativi alla denuncia del Governo a proposito del preteso « piano sovversivo » di paesi stranieri legati all'Unione Sovietica.
La commissione proposta dal Partito Comunista era composta dalle seguenti personalità:
Arturo Alessandri Palma, Presidente del Senato, senatore liberale; Eduardo Cruz Coke, Senatore conservatore; Salvador Allende, Senatore socialista; Gustavv Girón, Senatore radicale; Eduardo Frei, Deputato falangista; Pablo Neruda, Senatore comunista.

18. LA SITUAZIONE ATTUALE

II popolo della mia patria non può mostrare in nessun posto il disprezzo che questi atteggiamenti e questi tradimenti meritano. Il terrore, l'indignazione, la censura della stampa e della radio, la delegazione su istigazione del Governo in questo momento.
Non esistono garanzie individuali, nessuna libertà è rispettata dallo Stato di polizia di González Videla. Le case vengono perquisite di notte e la gente gettata in prigione o trasferita in zone inclementi, senza essere interrogata e senza che venga neppure incriminata. La stampa è costretta a mentire quotidianamente e una atmosfera di avvilimento di uomini e partiti si addensa sempre più negli ambienti che circondano il Governo della Repubblica.

19. LA RESISTENZA

Tuttavia, un profondo malessere, un sentimento unanime di repulsione esiste in tutti gli strati sociali del Cile, appena coperto dalla propaganda e dalla menzogna della Presidenza.
Il Cile ha già conosciuto altri regimi dittatoriali militaristi e reazionari, non si può ingannare tanto facilmente un popolo con una così elevata coscienza civica come il nostro.
Gli strati superiori dell'oligarchia agraria e bancaria applaudono ogni giorno ufficialmente gli atti del Governo, ma anche ogni giorno molti dei suoi rappresentanti ci esprimono, individualmente, il loro schifo per una mancanza di lealtà così grande e la loro preoccupazione per il pericolo comune che minaccia le antiche e tradizionali istituzioni democratiche del Cile. In questo momento vi scrivo queste righe per dirvi quanto incerta sia la situazione, che per la sua stessa artificialità può raggiungere uno stato di violenza maggiore. Il popolo cileno, però, aspetta tranquillamente e il suo senso civico gli fa rifiutare le provocazioni cui lo espone giorno per giorno il Governo.
Per quanto mi riguarda, e personalmente, a tanti tanti amici fraterni di tutti i paesi americani voglio dire che nessuna di queste macchie cadute sull'onore del mio paese è incancellabile. Conservo fermo, deciso e accresciuto l'amore indistruttibile per la mia patria
e la fiducia assoluta nel mio popolo.
Questo non è un appello né una richiesta di aiuto. È semplicemente una lettera intima per milioni di uomini che vogliano conoscere il dramma di un paese che è stato orgoglioso fra i campioni della libertà americana.
Gli istigatori di questi crimini minacciano non solo la libertà cilena ma anche l'ordine e il decoro della nostra abbandonata America Latina.
Questi governi continueranno questi tradimenti e queste debolezze. I dittatori crudeli e sanguinari di alcuni paesi fratelli si sentono, oggi più fermi e più risoluti a stringere la corda al collo dei loro popoli. Franco si è congratulato attraverso i suoi organi di stampa col signor González Videla, ex presidente delle attività antifranchiste.
Il piano di dominazione brutale del nostro continente si sta compiendo in modo implacabile attraverso l'intervento diretto del governo nordamericano e per mezzo dei suoi servitori.
Questi fantocci renderanno conto a Bogotà di come hanno eseguito i loro incarichi rispettivi. Lì stringeranno l'accerchiamento di schiavitù tenebrosa per i nostri paesi. E ciascuno di questi pupazzi avrà per Bibbia il Reader's Digest e un codice poliziesco di torture, prigioni ed esili.
Ma prima o poi dovranno render conto alla Storia e ai popoli di tanta ignominia.
Ripeto che non chiedo alcun aiuto per il Cile. Abbiamo coscienza dei nostri doveri e lotteremo nel nostro paese affinché questo stato di violenza abbia fine e la vita normale di rispetto e di decenza torni nei vecchi argini che pongono il mio popolo fra i primi dell'America.

MESSAGGIO PERSONALE

Perdonatemi se termino aggiungendo qualche nota personale. Per me è finito definitivamente il tempo disponibile per rispondere per lettera agli innumerevoli ed eccellenti amici che mi scrivono.
Questi anni di parlamentare e di scrittore errante mi hanno insegnato ad informarmi sulla dolorosa vita del popolo e ho portato in tutti gli angoli della mia patria, pampa e cordigliera, mare e pianura, una voce attiva di esame e di aiuto. Ma proprio due mesi fa la direzione del Partito Comunista cileno mi chiamava per dirmi di dare più tempo e più attenzione alla mia opera poetica. A tale scopo mi ha offerto l'isolamento e la solitudine necessari per un anno per portare avanti specialmente il mio Canto General.
Vi renderete conto del senso di magnanimità e di affetto che era espresso da questa richiesta, e su quale terreno di legalità e di tranquillità si vedevano venire le lotte dei lavoratori, poiché il Partito Comunista potesse fare a meno per tanto tempo di uno dei suoi senatori.
Mi accingevo ad intessere di nuovo il ritmo e il suono della mia poesia, mi preparavo a cantare di nuovo concentrandomi nella profondità della mia terra e nelle sue radici più segrete, quando il dramma che vi ho raccontato a grandi linee, ha cominciato a gravitare su tutte le vite cilene.
Questo tradimento e questi dolori del mio popolo mi hanno colmato di angoscia. Per fortuna un gruppo di patrioti cristiani: il Partito della Falange Nazionale del Cile, perseguitato attualmente dal Governo quasi allo stesso modo dei comunisti, mi ha dato la
consolazione di condividere con un altro gruppo umano la gravità di questa ora del Cile. Il crescente malcontento del popolo si manifesta dappertutto. È, sempre più chiaro il ricatto che si serve della guerra come pretesto per terrorizzare i nostri cittadini e por fine alla nostra vita indipendente. Intanto i problemi nazionali si aggravano ogni giorno, lo sfruttamento, la osculazione, l'ingiustizia e l'abuso fermentano. E in questo clima di tirannia e di corruzione, la delazione corre di pari passo con gli intrallazzi di personaggi
vicini al Governo. Ma non è solo la tragedia a crescere, bensì anche la speranza del popolo di chiarire in modo definitivo la vita democratica del Cile con questo smascherarnento immediato di demagoghi e arrivisti.
Tuttavia dall'esame di questi antecedenti che espongo alla coscienza americana risulta chiaro quanto sia imprevedibile una situazione portata a questo punto di caos da governanti isterici, irresponsabili e antipatriottici.
Personalmente mi sono affrettato ad uscire dal mio ritiro sulla costa del Cile per prendere il mio posto nella prima linea delle difese della libertà minacciata. Affronto, quindi, ogni giorno i doveri che mi impone la mia condizione di scrittore e di patriota.
Se nell'adempimento di questi elevati doveri dovesse accadermi qualcosa, mi sento orgoglioso in anticipo di qualsiasi rischio personale affrontato in questa lotta per la dignità, la cultura e la libertà, lotta quanto mai essenziale perché va unita ai destini del Cile e all'amore senza limiti che sento per la mia patria tante volte cantata nella mia poesia.
Per questo, attraverso questo documento, e in forma solenne, rendo responsabile di qualsiasi azione contro di me, nello stato di repressione nel quale viviamo, l'attuale Governo della Repubblica, e in modo diretto e speciale il Presidente Gabriel González Videla.

(Santiago, novembre 1947).

(Pubblichiamo questo scritto per il suo indubbio valore storico. La sua pubblicazione sul giornale El Nacional di Caracas il 27 novembre 1947, fece sì che il Presidente della Repubblica del Cile, Gabriel González Videla, iniziasse un'azione davanti al Tribunale di Giustizia chiedendo l'espulsione di Pablo Neruda dal Senato. Il discorso pronunciato da Neruda davanti al Senato del Cile in risposta a questa azione del Presidente González
Videla viene pubblicato qui di seguito).


IO ACCUSO

PER IL PRESTIGIO DEL CILE

Torno ad occupare l'attenzione del Senato, nei drammatici momenti che vive il nostro paese, per trattare del documento inviato da me a diverse personalità americane, a difesa del prestigio del Cile e in cui si fa una rapida storia del nostro oscuro panorama politico.
Il Presidente della Repubblica ha fatto un altro passo nella sfrenata persecuzione che lo farà ricordare nella triste storia del nostro tempo, iniziando un'azione davanti ai Tribunali di Giustizia, per chiedere la mia espulsione affinchè da questo emiciclo non si possa più ascoltare la critica alle misure di repressione che costituiranno l'unico ricordo del suo passaggio per la Storia del Cile.

LE QUATTRO LIBERTÀ

Nel parlare davanti a questo Rispettabile Senato in questo giorno, mi sento assistito da un ricordo di grandezza straordinaria.
Infatti, un 6 gennaio come questo, il 6 gennaio 1941, un titano delle lotte, delle libertà, un Presidente gigantesco, Franklin Delano Rooseveit, diede al mondo il suo messaggio, nel quale si stabilivano le quattro libertà, fondamenti del futuro per il quale si lottava e si insanguinava il mondo.
Esse furono:

1- DIRITTO ALLA LIBERTÀ DI PAROLA;

2. DIRITTO ALLA LIBERTÀ DI CULTO;

3. DIRITTO A VIVERE LIBERI DALLA MISERIA;

4- DIRITTO A VIVERE LIBERI DALLA PAURA.

Questo era il mondo promesso da Roosevelt.
Altro è il mondo che vogliono il Presidente Truman e i Trujillo, Moriñigo, González Videla e Somoza.
In Cile non c'è libertà di parola, né si vive liberi dalla paura. Centinaia di uomini che lottano perché la nostra patria viva libera dalla miseria sono perseguitati, maltrattati, offesi, condannati.
In questo 6 gennaio 1948, sette anni dopo quella dichiarazione rooseveltiana, sono perseguitato per essere rimasto fedele a queste alte aspirazioni umane, e ho dovuto sedermi per la prima volta davanti a un tribunale, per aver denunciato davanti all'America la violazione indegna di quelle libertà nell'ultimo posto del mondo in cui una cosa simile poteva capitare: il CILE.

UNA VECCHIA STORIA

Questa accusa di cui sono fatto oggetto è storia vecchia: non c'è paese, non c'è epoca in cui il mio caso non abbia illustri e ben noti precedenti. Sarà dovuto forse al fatto che nei paesi si ripetono periodicamente i fenomeni di tradimento e di antipatriottismo? Non credo. I nomi di quelli che sono stati accusati alla leggera sono nomi che oggigiorno tutti rispettano; essi sono stati, passata la persecuzione e la perfidia, perfino massimi dirigenti dei loro paesi e i loro compatrioti hanno avuto fiducia nella loro onestà e nella loro
intelligenza per dirigere il destino delle loro patrie. E essi hanno portato sempre, come un titolo di onore, il massimo titolo di onore, la persecuzione di cui erano stati oggetto.
No; la causa dev'essere un'altra. Essa è stata studiata ed esposta lucidamente da Guizot, uno storico monarchico francese. Ministro di Luigi Filippo d'Orléans. Ecco cosa dice nella sua opera Delle cospirazioni e della giustizia politica, p. 166:

Cosa farà il Governo che vede agitarsi sotto la sua mano la società male amministrata? Incapace di governarla, cercherà di punirla. Il Governo non ha saputo svolgere le sue funzioni, impiegare le sue forze. Allora chiederà che altri poteri svolgano un compito che non è loro, gli prestino la loro forza per un uso alla quale non è destinata. E dato che il potere giudiziario si trova vincolato alla società molto più intimamente di qualsiasi altro, dato che tutto finisce o può finire in giudizio, tale potere dovrà uscire dalla sua sfera legittima per esercitarsi in quella in cui il Governo non ha potuto bastare a se stesso.
In tutti quei posti in cui la politica è stata falsa, incapace e cattiva, si è fatto ricorso alla giustizia perché agisse al suo posto, affinchè si comportasse secondo motivi derivanti dalla sfera del Governo e non dalle leggi, affinchè abbandonasse infine la sua sublime sede e scendesse fino alla palestra dei partiti. Cosa diventerebbe il dispotismo, se non governasse in modo assoluto la società, se soltanto tollerasse qualche resistenza? Dove andrebbe a parare, se non facesse tollerare la sua politica ai tribunali e non li prendesse come strumenti? Se non regna in tutte le parti non sarà sicuro in nessuna. È per natura così debole, che il minimo attacco lo mette in pericolo. La presenza del più piccolo diritto lo turba e lo minaccia.

Ecco qui, esposta da un francese della prima metà del secolo scorso, l'esatta situazione del Governo cileno nell'anno 1948. Ecco spiegato perché è stata chiesta la mia espulsione e perché vengo ingiuriato approfittando della censura fatta dal sud al nord del paese da giornalisti bene e mal pagati.
Nell'accusarmi di aver ferito il prestigio della mia patria per avere pubblicato all'estero la verità, che nella mia patria un regime di Facoltà Straordinarie e di censura non mi permette di far sapere, non ne deriva un insulto, a me, ma ai più grandi uomini dell'umanità e ai Padri della Patria. È curioso vedersi accusato di antipatriottismo per aver fatto la stessa cosa che fecero all'estero quelli che ci han dato l'indipendenza e che hanno gettato le basi di quella che avrebbe dovuto essere sempre una nazione libera e emocratica. Quando mi si dice che sono un traditore antipatriottico, non mi si rivolge forse la stessa accusa che gli Osorio, San Bruno, i Marcos del Pont rivolgevano contro O’Higgins, contro i Carrera, contro tutti i cileni espatriati a Mendoza o a Buenos Aires, che dopo aver lottato a Roncagua combattevano con la penna gli invasori che più tardi avrebbero vinto con la spada?

IL TIRANNO ROSAS CONTRO SARMIENTO

La stessa accusa che è stata fatta contro di me venne fatta dal Governo tirannico di Juan Manuel Rosa che si autodefiniva Illustre Restauratore delle Leggi. Il tiranno chiese anche al Governo del Cile l'estradizione di Sarmiento per sottoporlo a giudizio per tradimenti e mancanza di patriottismo. Ho a portata di mano un paragrafo dell'altera lettera che Sarmiento indirizzò in quell'occasione, al Presidente del Cile. Dice così:

La cospirazione attraverso la parola, attraverso la stampa, attraverso lo studio delle necessità del nostro popolo; la cospirazione attraverso l'esempio e la persuasione; la cospirazione attraverso i princìpi e le idee diffuse dalla stampa e dall'insegnamento; questa nuova cospirazione sarà. Eccellentissimo signore, da parte mia, eterna, costante, infaticabile, di tutti gli istanti; finché un sentimento morale vivrà nella mia coscienza, finché la libertà di pensare e di esprimere il pensiero esisterà in qualche angolo della terra.

Da parte sua Juan Bautista Alberdi, anch'egli esiliato nella nostra patria, scriveva:

Non tiranni né tirannie. Se l'argentino è tiranno e ha idee arretrate, muoia l'argentino. Se lo straniero è liberale e ha idee progressiste, viva lo straniero.

Rosas non riuscì ad avere nelle sue mani Sarmento né Alberdi. E, caduto il tiranno, Sarmiento fu Presidente della sua patria.
Non finirebbe mai di contarli chi volesse elencare tutti gli uomini liberi che si videro costretti a criticare i regimi tirannici che soggiogavano la loro patria e contro i quali venne mossa l'accusa di tradimento e di antipatriottismo. Victor Hugo, implacabile fustigatore di
Napoleone III, dal suo esilio di Guernesey; Victor Hugo, il poeta immenso e il patriota ostinato, anche lui fu accusato di tradimento da parte di Napoleone il Piccolo e dai suoi seguaci, che preparavano per la Francia l'umiliazione e la sconfitta di Sedan.

BILBAO

Questo fatto indiscusso, questa sensazione che fa che il perseguitato senta anche nei momenti del tormento un'nfinita superiorità che lo distingue dal suo persecutore; quella sensazione di stare lottando per la buona causa che fece esclamare Giordano Bruno quando venne condannato al rogo: « Sono più tranquillo io su questo banco che voi — e indicò i giudici ecclesiastici — che mi condannate a morte »; quella fiducia in una giustizia che divide la buona dalla malafede, e la causa giusta dall’ingiusta, venne espressa anche dal nostro compatriota Francisco Bilbao, in modo magistrale, nel corso del suo processo; egli disse:

Ecco, due nomi, quello dell'accusatore e quello dell'accusato. Due nomi intrecciati dalla fatalità della storia, e che resteranno nella storia della mia patria. Allora vedremo, Signor Giudice, quale dei due riceverà la benedizione della posterità. Anche la filosofia ha il suo codice e questo Codice è eterno. La filosofia le assegna il nome di retrogrado. Ebbene, innovatore, ecco cosa sono; retrogrado, ecco cos'è lei.

Dice José Victorino Lastarria a questo proposito:

II vaticinio non poteva non avverarsi, poiché gli iracondi scoppi di odio dei servitori dell'antico regime hanno sempre preparato la gloria futura delle loro vittime e hanno contribuito al trionfo della verità e della libertà con un'efficacia che è quasi superiore agli sforzi di quelli che la sostengono. La posterità onora e gloria l'autore della Sociabilidad
chilena.

Tuttavia, Francisco Bilbao venne condannato, sotto l'imputazione di immoralità e blasfemia, a vedere la sua opera bruciata per mano del boia. Non aspiro a meriti né a ricompensa. Ma ho la certezza assoluta che prima o poi, piuttosto prima che poi, l'iniquo processo politico al quale sono stato sottoposto verrà giudicato come merita e i suoi ispiratori e fautori riceveranno il nome che si meritano per liberare il Governo dal
risultato degli errori commessi e cui non sa come porre rimedio.

UN GIURISTA CONTRO LA SUA OPERA

Desidero esaminare le osservazioni che la mia persona, la mia opera e il mio comportamento nelle presenti circostanze hanno meritato da parte dell'Onorevole senatore don Miguel Cruchaga Tocornal, nella sessione del 23 dicembre dell'anno scorso. L'Onorevole signor Cruchaga non è solo un membro di questo alto consesso, ma è anche un illustre figlio del Cile; la sua opera di trattatista, di diplomatico e di ministro, gli hanno fatto acquistare un'illustre posizione all'estero. II suo nome viene citato come un'autorità indiscutibile in affari internazionali e i suoi giudizi vengono usati come argomenti di grande valore e peso. Per quanto riguarda il suo prestigio all'interno, è inutile che vi faccia riferimento, poiché è a tutti noto. Mi basterà ricordare che il signor Cruchaga Tocornal, dopo aver brillantemente svolto le sue alte funzioni di Cancelliere della Repubblica, ha assunto, in tempi difficili, la presidenza di questa Assemblea.
È, pertanto, con una certa preoccupazione che noto nelle osservazioni che l'Onorevole senatore ha rivolto a me, una certa mancanza di chiarezza, non solo nei giudizi, ma, anche, nelle basi strettamente giuridiche delle sue argomentazioni. E mi spiacerebbe se il suo chiaro prestigio di giurista che non ha mai dovuto essede offuscato, dovesse soffrire gli attacchi di colui dal quale c'era meno da aspettarselo: da lui stesso, che potrebbe essere entrato in aperta contraddizione, non solo con la generosità e l'equità con cui dovrebbe trattare un compatriota e collega suo; non solo con i principi cristiani, che dovrebbero costringerlo a studiare, analizzare e approfondire una questione, prima di pronunciare sul suo prossimo un giudizio di quelli che la Bibbia definisce « temerari »; non solo con la serenità e l'imparzialità che devono dirigere l'azione di qualsiasi giureconsulto per non cadere in affermazioni avventate, ma anche, il che è gravissimo, se le sue arfermazioni fossero entrate in una contraddizione insanabile con quanto egli ha sostenuto nel suo trattato universalmente conosciuto; in una parola, se si fosse trasformato da un giorno all'altro, nel detrattore e impugnatore della sua stessa opera sulla quale poggia la sua fama internazionale.
Chiedo venia all'Onorevole Cruchaga e a questo alto Consesso per questi dubbi irriverenti. Ma, in verità, non riesco a spiegarmi nell'ambito delle norme universamente conosciute di diritto pubblico, la grave affermazione contro di me, emessa dell'Onorevole signor Cruhaga, quando sostiene quanto segue:

II Senato ha avuto il triste privilegio di assistere a uno dei fatti più insoliti della storia del Cile. Verificatosi un conflitto diplomatico fra la Repubblica e un governo straniero, un membro di questo Consesso non ha esitato a rivolgersi contro la sua stessa patria, attaccando l'Esecutivo e diventando un ardente difensore, non del Cile, ma appunto di detto Governo straniero.

Non desidero, per il momento, riferirmi alla parte personale, appassionata e soggettiva della frase che ho citato. Il dispiacere che essa può causarmi, soprattutto perché è avventata e ingiusta, è superato dalla sensazione di malessere che avverto quando penso alla faccia di meraviglia e di incredulità che avranno fatto gli ammiratori cileni e stranieri del signor Tocornal e da cui non sono ancora riusciti a liberarsi:
Non è possibile — devono pensare — che il sereno e circospetto trattatista abbia abbandonato lo scrupoloso uso del vocabolario tecnico giuridico, per cadere in una confusione così arbitraria e popolaresca di termini che hanno ciascuno un significato preciso; e tutto questo perché? Per arrivare ad una conclusione che non fa onore a un trattatista. Non è possibile che il signor Cruchaga Tocornal, nel suo ruolo di senatore,
si dedichi a distruggere il signor Cruchaga, esperto di diritto internazionale.
E neppure questo è l'aspetto più grave. Come cittadino cileno, vale a dire, come figlio di una paese che ha lottato e continuerà a lottare per imporre la democrazia e la libertà nell'ambito del suo territorio, del continente e del mondo, e come senatore, vale a dire, come membro di un ramo del Congresso che è uno dei Poteri dello Stato, non posso fare a meno di richiamare l'attenzione sugli estremi cui può fare arrivare Ia passione politica, anche in un uomo dell'età e della fama dell'Onorevole signor Cruchaga Tocornal; e mi sento costretto a protestare energicamente contro lo scadente, sordido e indegno ruolo che, secondo il si"nor Cruchaga, dovrebbe svolgere il Senato. Questo elevato Consesso ha avuto, in effetti, per servirmi delle parole dell'Onorevole signor Cruchaga, «un triste privilegio»; ma non si tratta di quello indicato da lui, bensì di un altro; quello di vedere come veniva denigrato, come veniva insultato il prestigio, come si accusava
ingiustamente, con evidente ignoranza della storia, e come si cercava di zittire e di infamare un senatore che svolgeva, alla luce del sole, l'esercizio del suo mandato di rappresentante del popolo nell'adempimento della sua missione di senatore. Questo sì che è triste e denigrante; di questo sì che dobbiamo essere dispiaciuti è questo che offusca la nostra fama di paese democratico. L'Onorevole signor Cruchaga Tocornal è padrone di pronunciarsi a favore o contro l'Esecutivo, è padrone di giudicarmi con acrimonia o con benevolenza; è padrone di tutto; ma non di sminuire in questo modo
la funzione di uno dei rami di poteri dello Stato; non di rimpicciolire arbitrariamente le alte funzioni che spettano al senatore, non di condannare un membro di questa Camera come antipatriota, proprio perché si sta comportando come cileno leale, come patriota effettivo e come senatore che tiene alta l'indipendenza del più alto dei tre poteri: il Potere Legislativo.
Ho detto che ammiro la fama internazionale del signor Cruchaga; ma ricordo che, per una ragione o per l'altra, molti altri uomini sono stati famosi prima di lui; fra di essi, lo storico Paolo Giovio, richiesto e adulato dai monarchi europei. Giovio diceva di avere due
penne per scrivere le sue storie: una d'oro per i suoi sostenitori; l'altra di ferro contro coloro che non lo erano. È spiacevole che l'Onorevole senatore abbia usato nel suo discorso, le due penne: una d'oro per il Potere Esecutivo: DA LUI ARBITRARIAMENTE CONFUSO CON LA PATRIA, COSA PER CUI PROTESTO COME CITTADINO, COME SENATORE E ANCHE IN NOME DEL DIRITTO, DELLE CUI PREROGATIVE L'ONOREVOLE SIGNOR CRUCHAGA DOVREBBE ESSERE IL PIÙ GELOSO DIFENSORE, e l'altra di ferro contro di me e, cosa ancora più strana, contro se stesso e la sua massima opera.

L'ESECUTIVO NON È LA PATRIA

Credo che nessuno in questo alto Consesso, credo che neppure lo stesso Onorevole senatore a sangue freddo oserebbe adesso sostenere che io, nel criticar
l'operato dell'Esecutivo, alla luce del giorno, in questa aula, e per l'adempimento della missione affidatami da una parte del popolo della mia patria, nell'agire in accordo con le norme della Costituzione Politica, a manifestare le mie opinioni e ad esporre fatti che sono
nn relazione con materie sulle quali il Senato deve pronunciarsi, Mi SIA RIVOLTATO CONTRO LA MIA PATRIA. L'Esecutivo non è la patria, e criticare il suo operato o dissentire da esso, non significa RIVOLTARSI CONTRO LA PATRIA.
Agire contro la patria è agire supinamente, tacere o difendere cose indifendibili. È accettare senza proteste che, nell'attuazione di una politica personalistica che non ha potuto essere giustificata né spiegata, nonostante i lunghi discorsi e le farraginose citazioni, si commettano ingiustizie ed errori che ci copriranno di vergogna di fronte al mondo civile.

CHI È CONTRO IL CILE

È accettare che l'intrallazzo politico interno abbia la meglio sulle iniziative internazionali. Se la patria non è un concetto immaginario e interessato, se è qualcosa di puro non legato a interessi materiali, di giusto e di bello, i suoi interessi si confondono con quelli della Verità, della Giustizia e della Libertà. Si difendono anche quei concetti per i quali tanti uomini attraverso tanti secoli si sono sacrificati e sono morti; e li si attacca quando la si vuole trasformare in un utile dell'intrallazzo politico personalistico; quando la si vuole confondere, essa che è la somma di tutti i cileni presenti, passati e futuri, con una sola persona. Peggio ancora: con l'atteggiamento transitorio di una sola persona che ha dimostrato, nella sua carriera politica, di avere un eccesso di atteggiamenti contraddittori e una mancanza totale di linea politica onesta e conseguente.

LA PAROLA E LA VERITÀ

Respingo, pertanto, non per ciò che mi riguarda personalmente, bensì nella mia qualità di senatore, il giudizio inaccettabile, vessatorio per la nostra dignità di rappresentanti del popolo, secondo cui ci rivoltiamo contro la patria, se critichiamo, qui in Senato, apertamente, l’operato dell'Esecutivo. Deploro questo affronto che è stato fatto nella mia persona al Senato del Cile, senza che questo mi spinga a qualificare l'Onorevole senatore nel modo arbitrario e ingiusto in cui lo ha fatto nei miei confronti. C'è una differenza fra noi due: per lui non sembra che abbia significato gran cosa presentare dal Senato uno dei suoi colleghi come colui che « si rivolta contro la patria ». Sapeva bene che nel dire questo sosteneva una vergogna per il Senato e per il Cile, oltre a significare un affronto per la giustizia, perché questo non è vero. Eppure l'ha fatto e ha dimostrato di avere più interesse e adesione per la parola patria che per la patria stessa. Io, invece, deploro profondamente l'indebita macchia che è stata fatta alla nostra Assemblea e alla nostra democrazia, e lo deploro perché, forse a causa del materialismo che tanto disprezzo suscita nell'Onorevole senatore, preferisco sacrificarmi e dare tutto me stesso alla patria, così com'è in realtà, invece di subordinarla alla mera parola. Non è la prima volta che gli idealisti, antimaterialisti, come l'Onorevole senatore, dimostrano quello che potrebbe sembrare un paradosso: essi, esseri dagli elevati e nobili sentimenti, disinteressati cavalieri di un ideale, confondono in ultima istanza una mera autorità politica e transitoria, com'è il capo dell'Esecutivo, con la patria che ci supera nel tempo e nello spazio, e subordinano gli alti principi della Giustizia e della Costituzione alle mere consegne politiche dettate dagli interessi del momento.

TRADIMENTO POLITICO

Nella lettera ai miei amici d'America, è stato probabilmente qualificata come un insulto la mia definizione degli atti dell'Esecutivo, che il Regolamento mi impedisce di chiamare col loro vero nome: tradimento politico; abbandono del programma del 4 settembre, giurato e sottoscritto con solennità il 21 luglio 1946, lo stesso giorno in cui l'eroico popolo di La Paz appese ad un lampione il tiranno Villaroel e il Segretario Generale di Governo, Roberto Hinojosa; guerra al Partito Comunista, che è stato il fattore decisivo nella sua campagna presidenziale, quando vide levarsi contro di lui eminenti suoi correligionari che formano adesso la « Corte dei Miracoli »; mancanza di lealtà nei confronti del popolo cileno che aveva votato per lui convinto che avrebbe portato ad una fase superiore il corso politico sociale iniziato dal Presidente Pedro Aguirre Cerda nel 1938 e che nelle linee fondamentali non venne modificato da Juan Antonio Rios, suo successore; disprezzo sfrontato nei confronti dei popoli che hanno sempre visto nel Cile l'avanguardia di tutti loro, diserzione, infine, dai grandi ideali che l'umanità progressista desidera plasmare in questo periodo del dopoguerra, così pieno di speranze come di ostacoli, di affermazioni come di apostasie, di lezioni di eroismo civico, come dei più ripugnanti opportunismi personalistici.

ABBIAMO VOTATO PER UN PROGRAMMA

Non si sarà mai ripetuto abbastanza che nell'ultima elezione presidenziale il popolo del Cile ha votato per un programma e non per un caudillo; ha votato per dei princìpi non per delle bandiere macchiate dall'intrigo elettorale, ha votato per la sovranità della patria e per l'indipendenza economica e non per la sottomissione e la dipendenza dall'imperialismo straniero.

LE SUE STESSE PAROLE LO ACCUSERANNO

Per dimostrare con maggior forza la distruttiva azione politica di cui ho accusato il Primo Magistrato della Repubblica, mi richiamerò alle sue stesse parole e dichiarazioni. Riportando le sue parole intendo provare che non ho scagliato insulti e calunnie contro di lui, che non mi interessa la sua privata vita personale, bensì la sua categoria di politico e i suoi atti di governo, e stabilirò, inoltre, l'incoerenza fra i suoi giuramenti da candidato e la sua condotta da Presidente.
Uno dei suoi biografi, il suo correligionario Januario Espinoza, ricorre a concetti presenti nel discorso che, esattamente un mese dopo il trionfo del Fronte Popolare, aveva espresso nella manifestazione politica in onore del Presidente eletto don Pedro Aguirre Cerda, organizzata dal Partito Radicale, nel Teatro Municipal di Santiago. In quell'occasione il signor González Videla disse:

Noi non vogliamo partecipare al Governo né all'amministrazione pubblica con i Giuda che ci vendono, né con i traditori che nella tremenda lotta di interessi servano clandestinamente l'imperialismo i monopoli, quella politica economica che ha permesso che i tributi venissero tolti dalle spalle dei ricchi per essere accollati sulle spalle dei poveri.

E aggiunse, rivolgendosi al signor Aguirre Cerda, che avrebbe assunto il Governo un mese dopo:

Come tutti i sovrani, c'è l'adulazione di tanti filistei che, come uccelli dalle piume sgargianti, si intrufolano furtivamente per intonare, nei momenti difficili e di esitazione, il disprezzo e l'abbandono degli uomini e dei partiti che lo unsero prima candidato e poi Presidente della Repubblica. Quando questi uccelli dai colori inverosimili e cangianti
dovessero annidarsi sotto la grondaia di quel vecchio palazzo dove tanto si soffre, io chiedo a Sua Eccellenza don Pedro Aguirre Cerda, in questa notte solenne in cui vivono e sono presenti gli spiriti di Matta, di Gallo, di Mac Iver e di Letelier, che ricordi il dolore di un popolo, che, malgrado abbia sofferto tanti tradimenti, con una fede e una lealtà che non hanno confronto nella storia dell'America, l'ha designato come Deputato dei poveri, dell'oscura casa popolare, della carne da ospedale.

Pochi anni dopo, e prima di partire per il viaggio obbligato che i candidati alla Presidenza sono soliti fare negli Stati Uniti, alla fine di ottobre del 1945, dichiarò al giornale di sua proprietà, l'ABC di Antofagasta:

Un governo di sinistra deve avere una visione e una responsabilità sufficiente per non lasciarsi trascinare dai settori antioperai del nostro paese, che stanno complottando con successo contro l'unità della sinistra e, il cui successo più sensazionale sarebbe stato quello di utilizzare dei ministri radicali come strumenti di repressione contro la classe operaia.
Le compagnie straniere stanno sostituendo i loro vecchi dirigenti e avvocati che avevano influenza nella destra, con personalità elette intelligentemente nelle file della sinistra e che continuano ancora ad essere attivi e ad intervenire dentro di essa e in permanente contatto con membri del Parlamento e del Governo.

COSÌ PARLAVA

Nella sessione del 2 febbraio del 1946, a seguito degli avvenimenti della Plaza Bulnes, il signor González Videla, fra gli altri giudizi lapidari, espresse i seguenti:

Io, a nome del radicalismo cileno, voglio mettere bene in chiaro che queste responsabilità, qualunque esse siano, non possono compromettere il Partito Radicale, dato che i suoi princìpi, la sua tradizione e la sua dottrina, espressi chiaramente nella Convenzione di Valdivia, ripudiarne qualsiasi atto di violenza e di repressione nella soluzione dei problemi sociali.

E, per chi avesse avuto dei dubbi, aggiunse:

Disgraziatamente, la negazione dei diritti sociali del popolo e la repressione con le armi delle sue manifestazioni civiche, fino al punto di trasformarle in massacro, compromettono la stessa stabilità del regime democratico, in un'epoca come questa di dopoguerra, in cui nasce un mondo in piena rivoluzione.

E in anticipo sui fatti futuri che lo avrebbero visto come protagonista, in quello stesso discorso, affermò: « Sono i pigmei della politica che si arrampicano al potere quelli che producono queste calamità pubbliche. Nessuno più di loro è responsabile di questi sconvolgimenti politici e sociali che oggi commuovono il paese ».
Non vorrei stancare il Senato citando dei brani dei discorsi che ha pronunciato come candidato alla Presidenza della Repubblica o di quelli che come Presidente eletto ha rivolto specialmente al Partito Comunista, spergiurando che non ci sarebbe stato nessun tradimento; ma non resisto alla tentazione di ricordare ancora una volta dei passaggi di quel discorso che ha pronunciato nella Plaza Constitución, per mettere in guardia contro i pericoli verso cui suole portare l'anticomunismo:
È proprio quello che vogliono, signori, i fascisti camuffati che tutti conosciamo in questo paese. E io temo molto di più — perché li ho visti in azione nella nobile Francia — i neri Lavalle della sinistra che gli uomini di destra.
Il movimento anticomunista, in fondo, è la persecuzione, la liquidazione della classe operaia.
Quando le forze del signor Hitler penetrarono in Francia e si impadronirono di Parigi, i soldati nazisti non andavano in giro a chiedere agli operai la tessera del partito comunista; era sufficiente che aderissero a un sindacato, bastava che appartenessero a un'organizzazione sindacale perché fossero perseguitati e condannati ai lavori forzati.
È questo che vogliono, non è solo la paura del comunismo che questa gente sfrutta per intimidire le classi produttrici di questo paese, ma in fondo quello che vogliono è perseguitare la classe operaia sciogliere i sindacati, non vogliono che gli operai siano associati né che godano dei diritti sociali che io sono disposto a rispettare come ho sempre rispettato.

ADESSO GIUDICATE

C'è qualcuno che potrebbe affermare che non c'è tradimento politico o, per lo meno, incoerenza fra i giuramenti e l'applicazione reale che ne è stata fatta?
La politica importa sia per i fatti stessi che per le sue conseguenze. Ebbene, quali conseguenze ha avuto per la democrazia cilena la politica del signor Gonzàiez?
Facciamo rispondere al suo posto il deputato conservatore, signor Enrique Cañas Flores, che recentemente è stato ospite di Franco, il quale, secondo i dispacci di agenzia, come esponente del governo cileno, ha dichiarato Che: « IL CILE STA FACENDO LA STESSA COSA CHE HA FATTO LA SPAGNA CON IL COMUNISMO ». Cioè, il nostro
paese è diventato ormai un satellite dell'Asse fascista e una minaccia alla pace e alla democrazia internazionali!
Quali aggettivi merita questa condotta? Chi si stupirebbe per la triste fama che andiamo acquistando all'estero, partecipando al campionato anticomunista e antisovietico, trasformati in una colonia dell'imperialismo e in un focolaio di intrighi internazionali?
Non è il popolo cileno, che continua ad essere fedele al programma e ai principi e alla sua migliore tradizione democratica e antimperialista, che è cambiato; è il Presidente del paese che ha fatto una svolta così brusca, adorando adesso quello che prima aveva bruciato.
Alle mie serene osservazioni basate sui fatti CHE NON SONO STATE CONTESTATE NÉ SMENTITE, si è preferito opporre la diatriba e l'accusa altisonante, al ragionamento e alla discussione. In tutto il paese, la stampa e la radio si sono dedicate ad un'accesa campagna diffamatoria contro di me.

I SALVATORI SI VERGOGNANO

L'Onorevole Senato sa benissimo che, a causa delle Facoltà Straordinarie, concesse con eccessiva larghezza ed esercitate in modo tale che non se ne ricordano
di simili fra di noi, non esiste attualmente in Cile libertà di parola né di stampa. La stampa che potrebbe mantenere le prerogative della verità, l'unica stampa che ha appoggiato l'attuale Presidente della Repubblica nella sua campagna presidenziale è stata soppressa o censurata. È stata ridotta al silenzio perfino una trasmissione umoristica perché aveva paragonato le attività turistiche e i viaggi del Primo Magistrato a quelle dell'Ebreo Errante, e perché aveva affermato che « il tonico della speranza, unico rimedio commestibile che
sia offerto al popolo del Cile per compensare l'aumento del costo della vita, è esaurito perfino nelle farmacie ». Dei cittadini sono stati arrestati, confinati e dispersi sul territorio nazionale. Il Presidente della Repubblica, in una dichiarazione rilasciata ai dirigenti delle ferrovie e ampiamente diffusa dalla stampa e dalla radio, HA RIVELATO L'ESISTENZA DI UNA PERSECUZIONE INCOSTITUZIONALE E IDEOLOGICA, QUANDO HA AFFERMATO CHE I MEMBRI DEL PERSONALE DELLE FERROVIE CHE SONO STATI
ALLONTANATI DAL LORO POSTO, LO SONO STATI NON PERCHÉ ABBIANO COMMESSO QUALCHE REATO, MA PERCHÉ SONO COMUNISTI. In questo modo, l'uguaglianza di tutti i cileni di fronte alle leggi e la libertà di credenza, di associazione,
ecc. sono state abolite. Per mettere a tacere i parlamentari che osino dissentire dal Governo e far conoscere i ratti che si vogliono mantenere nel più stretto mistero, è stata avanzata, adesso, una richiesta di espulsione contro di me. Essa non è giustificata in base alle accuse che mi sono state rivolte, MA IN BASE AL FATTO IMPERDONABILE PER IL GOVERNO DI AVER FATTO SAPERE AL PAESE E AL MONDO LA VERITÀ SUL SUO OPERATO CHE ESSO AVREBBE VOLUTO MANTENERE NELL'OMBRA PIÙ SPESSA, MENTRE IL PAESE È INCATENATO DALLE FACOLTÀ STRAORDINARIE, DALLA CENSURA SULLA STAMPA E DAGLI ARRESTI. In questo modo, l'Esecutivo ci si presenta in una curiosa situazione. Da un lato dice che saIva il paese, la tranquillità e i cittadini per mezzo della stretta osservanza delle leggi; dice che arresta soltanto gli elementi eversivi e i cattivi patrioti; afferma di aver liberato il Cile da gravissimi pericoli internazionali. Ma, dall'altro, si offende e si irrita, fino ad arrivare ad epici scoppi d'ira, tutte le volte che le sue attività « salvatrici » vengono fatte conoscere. Il paese, in realtà, non si spiega come il Presidente della Repubblica possa essere al tempo stesso tanto orgoglioso delle sue misure e avere tanta vengogna e tanta paura che queste siano conosciute.

PERÒ LA VERITÀ SI FA STRADA

Con questa campagna di diffamazione che una stampa completamente venduta ha intrapreso contro un membro di questo Onorevole Senato, ci strappano i mezzi per difenderci, vogliono metterci a tacere perfino in questo posto che alcuni chiamano tribuna, però, di bocca in bocca, la verità si manifesta e tutti sanno cosa pensare. Inoltre, voglio far notare come l'irragionevolezza e l'ingiustizia siano solite portare gli uomini, anche i più equilibrati, a schierarsi in una fazione troppo stretta e a perdere di vista gli alti interessi nazionali e umani. I concetti di patria e di nazione non possono essere avulsi dai concetti fondamentali su cui si basa la libera e democratica convivenza umana. Quando essi si contrappongono, allora non c'è alcun dubbio: il problema è stato mal posto e gente interessata sta indebitamente usando i concetti sacri di patria e di patriottismo per mascherare con ciò gli intrallazzi che non resistono alla luce del sole; quando non si mantiene la parola data; quando si governa solo per conto di pochi, quando si affama il
popolo; quando si sopprime la libertà, quando si censura la stampa; quando si ha paura di far conoscere il nostro operato; quando si agisce contro tutto quello che si sostiene; quando si abbandonano gli amici; quando si è inferiori, molto inferiori al compito di governare che ci si è assunti; quando si creano campi di concentramento e si consegna pezzo per pezzo la patria allo straniero; quando si tollera l'invasione sicura e ogni giorno crescente di funzionari tecnici, in realtà membri del FBI, che s'immischiano sempre di più nella nostra vita interna, allora la parola patria è deformata, ed è necessario levarsi virilmente, senza paura, per rimettere le cose al loro posto e restituire a questa parola il suo vero significato.

E ALLORA?

Sono in stato d'accusa per aver fatto conoscere quello che accade in Cile sotto il Governo con facoltà straordinarie e con la censura sulla stampa, del signor Gabriel González Videla; mi si accusa di essermi rivoltato contro la patria, per non essermi trovato d'accordo con le decisioni prese da questo stesso Eccellentissimo signore. In realtà, quest'argomentazione è deplorevole. Se non essere d'accordo con l'Eccellentissimo signor González Videla vuoi dire essere contro la patria, cosa dovremmo dire rispetto a questo stesso caso, se ricordassimo che il signor González Videla, come Presidente del Comitato di Aiuto al Popolo Spagnolo, ha appoggiato e difeso il DIRITTO DEGLI SPAGNOLI ESPATRIATI, DI ATTACCARE DALL'ESTERO IL GOVERNO DI FRANCO COL QUALE È ADESSO IN COSÌ BUONI RAPPORTI? Non riconosceva a questi spagnoli, che chiamava suoi amici e di cui implorò l'aiuto, quella libertà che adesso, attraverso la richiesta di espulsione, pretende di non riconoscere a me, ex capo della sua campagna presidenziale e senatore della Repubblica?

LA VERITÀ NON È UN INSULTO

Voglio riferirmi all'accusa secondo la quale avrei offeso il Presidente della Repubblica. L'avvocato Carlos Vicuña, nella brillante difesa che nella mia causa ha
fatto davanti alla Corte d'Appello in seduta plenaria, ha sostenuto che io ho fatto delle critiche politiche al Presidente della Repubblica, critiche che non possono essere considerate insulti perché, tra l'altro, sono assolutamente vere e sono nella coscienza di tutti gli abitanti del paese e di tutti gli stranieri che si preoccupano delle nostre cose. Nella lettera confidenziale a milioni di uomini di cui vengo incriminato, nessuno, neppure un giudice del vecchio Sant'Uffizio, potrebbe notare altro se non un puro e grande amore verso la mia terfa, alla quale, per quanto mi è stato possibile, ho anche dato un po' di fama e rinomanza, più pure, più disinteressate, più nobili e di migliore qualità, lo affermo senza falsa modestia, di quelle che può avergli dato con le sue attività politiche e diplomatiche l'Eccellentissimo signor González.

ANNO NUOVO! UN'ECCEZIONE!

Proprio in occasione dell'anno nuovo ho voluto confrontare i messaggi che hanno rivolto ai loro popoli tutti i capi di stato americani. In tutti quanti, anche in quelli conosciuti per i loro regimi tirannici, ingiusti, ho trovato parole di fraternità, di pace e di speranza per i loro compatrioti. In tutti, questo giorno solenne che forse inizia un ciclo storico per l'umanità è stato accolto con parole augurali di concordia e di rispetto.
C'è stata una sola eccezione. È stata la parola dell'Eccellentissimo signor González Videla, impregnata di odio e intesa a fomentare la divisione e la persecuzione nel nostro popolo.

SONO ORGOGLIOSO

Sono orgoglioso del fatto che questa persecuzione si voglia concentrare sulla mia testa. Sono orgoglioso perché il popolo che soffre e lotta ha così una prospettiva aperta per vedere chi è rimasto leale verso i suoi doveri pubblici e chi lo ha tradito.

SOLO IL CILE

In questo momento storico, in questo nuovo anno così carico di presagi, il Cile è l'unico paese del continente con centinaia di prigionieri politici e di arrestati, con migliala di esseri allontanati dai loro focolari, condannati alla disoccupazione, alla miseria e all'angoscia. Il Cile è l'unico paese, in questo momento, con la stampa e la radio imbavagliate. Il Cile è l'unico paese del continente in cui gli scioperi si risolvono calpestando il Codice del Lavoro e con l'immediato licenziamento in massa dei presunti oppositori politici del Governo.
Io accuso l'Eccellentissimo signor González Videla di essere colpevole di questi procedimenti disonorevoli ner la nostra democrazia.

CHI CI DENIGRA?

Nelle versioni della stampa servile e nelle accuse del Presidente della Repubblica, si ha la pretesa di accusarmi di danneggiare il prestigio del mio Paese. Coloro che commettono queste azioni riprovevoli, coloro che hanno macchiato brutalmente il prestigio del Cile in America, hanno la pretesa di accusare assumendo il ruolo di difensori del prestigio nazionale.
Coloro che tengono il nostro paese in catene, calpestato, imbavagliato e diviso, hanno la facciatosta di prendere la bandiera del prestigio che essi hanno buttato nella polvere.
Quando sono cominciate le persecuzioni e i licenziamenti in massa degli operai del salnitro, le imprese avevano già preparato le loro liste in base al piano di repressione che già conoscevano.

A PISAGUA

C'è una donna detenuta a Pisagua per aver iniziato nell'anno 1941 uno sciopero delle cucine spente. Questo atto magnifico di questa donna, per reclamare migliori generi alimentari nei negozi, è stato l'unico atto politico della sua vita. Accadde nel 1941. Adesso sta a Pisagua.
Un repubblicano spagnolo di Casablanca che è stato confinato ci raccontava che l'unico atto politico della sua vita in Cile era stato contribuire con la modesta somma di 100 pesos alla campagna del signor González Videla.

NON FATE FIGLI

Nelle liste nreparate dalle società del rame e del salnitro per i licenziamenti, gli arresti e le reclusioni di massa, sono stati selezionati gli operai con famiglie numerose per risparmiare qualche migliaio di pesos di assegni familiari.
Gli operai cileni, più figli avevano, più comunisti erano, secondo questi profittatori del terrore.
E così è successo che, quando i treni e i camion venivano aperti a destinazione con quell'immenso carico di angoscia umana, si udiva un solo rumore. Era il pianto di centinaia e centinaia di bambini che, stretti alle loro madri, niangevano e si lamentavano al tempo stesso, e in quel pianto era concentrato tutto il dolore della persecuzione e dell'abbandono.

LA MIA SENTENZA

Per il momento non ci sarà nessun tribunale che esautori il Presidente della Repubblica per i fatti e le sventure della nostra patria.
Ma io gli lascio come una sentenza implacabile, sentenza che sentirà tutta la vita, il pianto straziante di quei bambini.

IO ACCUSO il Presidente della Repubblica da questa tribuna di far ricorso alla violenza per distruggere le organizzazioni sindacali.

IO ACCUSO il Presidente della Repubblica, presidente delle associazioni antifranchiste in Cile, durante la sua candidatura, di aver ordinato, come Presidente
della Repubblica, di votare contro la rottura delle relazioni diplomatiche con Franco alla nostra delegazione alle Nazioni Unite, mentre in Cile venivano incarcerati e arrestati i repubblicani che facevano parte di quelle organizzazioni che lui aveva presieduto.

IO ACCUSO il signor González Videla di essere stato, durante la sua candidatura, vicepresidente dell'organizzazione mondiale per la Palestina Ebrea e presidente di quella Associazione in Cile, e di aver ordinato come Presidente della Repubblica alla nostra delegazione all'ONU di astenersi e di far tacere la voce del Cile a favore della creazione di uno Stato Ebreo.
IO ACCUSO il signor González Videla di essere stato alla testa delle organizzazioni antiperoniste in Cile durante la sua candidatura, e poi come presidente, di essersi consultato in lunghe conversazioni col signor Perón, annunciate dalla Segreteria Generale del Governo sulle misure repressive contro le organizzazioni popolari del Cile e dell'Argentina.

IO ACCUSO il Presidente della Repubblica di aver denunciato al governo argentino un complotto jugoslavo e comunista, le cui basi sarebbero state, secondo lui, in Cile e nella città di Rosario, in Argentina. La fantasia di queste affermazioni viene messa in risalto dal caloroso telegramma in cui il Generale Perón saluta cordialmente il Maresciallo Tito della Jugoslavia, e auspica un'amicizia sempre più stretta fra i due popoli.

IO ACCUSO il signor González Videla della cattiva condotta dei nostri affari esteri che sono arrivati al punto di essere presi ad esempio continentale di frivolezza e di incoerenza.

IO ACCUSO il Presidente della Repubblica della disorganizzazione e della diminuzione della produzione, a seguito dell'evacuazione in massa di migliala d'i lavoratori esperti nei compiti più duri della nostra industria.

IO ACCUSO il Presidente della Repubblica di costringere le forze armate ad impegnarsi in funzioni di polizia e a schierarsi contro il popolo lavoratore. Io lo accuso di spendere in queste iniziative, estranee all'Esercito, centinaia di milioni di pesos che potrebbero servire a migliorare l'armamento arretrato e ad acquistare armi moderne, specialmente nel ramo dell'Aviazione. Questi concetti sono stati pubblicati sulle stesse riviste dell'Esercito e hanno provocato il brutale esonero di alti ufficiali.

IO ACCUSO il Presidente della Repubblica di ospitare in tempo di pace basi militari straniere sul nostro territorio, con ufficiali e truppe in uniforme.

IO ACCUSO il Presidente della Repubblica di autorizzare, proprio mentre io sto parlando, la fotografia aerea del nostro territorio da parte di aviatori militari stranieri.

IO ACCUSO il signor González Videla di impegnarsi in una guerra inutile e sterile contro il popolo e il pensiero popolare del Cile, e di voler dividere artificialmente i cileni.

IO ACCUSO il signor Gonzàiez Videla di prendere misure contro la libertà di opinione, come nel caso del mio processo di espulsione, e di cercare di mettere a tacere attraverso la più brutale censura, i mezzi polizieschi e finanziari, il giornale « El Siglo », l'organo ufficiale della sua candidatura e il frutto di molti anni di lotta del popolo cileno, «El Popular» e altri sei giornali.

IO ACCUSO il Presidente della Repubblica di non aver fede nel suo paese, lo accuso di chiedere e di sognare prestiti stranieri, di sognare la « chimera dell'oro », anche a costo di sottoporre il paese alle peggiori umiliazioni, invece di formulare una politica grande, degna e ampia che dia lavoro agli operai cileni e iniziative agli industriali del nostro paese. È dalla profondità della patria che bisogna tirar fuori le risorse; il Cile non vuole essere un paese mendicante.

Io chiedo all'Onorevole Senato, dove andremo a finire? È possibile che continui lo stato anormale e di angoscia in cui vive il nostro paese; i pennivendoli di una certa stampa applaudono ogni giorno quello che essi chiamano questo regno di « pace sociale ». Ma non c'è nessuno che abbia un po' di sale in zucca che si renda conto che, giustamente, la pace sociale non c'è, che stiamo vivendo su un vulcano, che quest'odio alimentato ogni giorno dalla Presidenza della Repubblica non costituisce nessuna base possibile per l'at-
tività della nazione?

Dove ci vuole portare il signor González Videla? Continueranno le Facoltà Straordinarie, continueranno le espulsioni, continueranno i licenziamenti in massa, la legge del bastone, che ha preso il posto della legge del lavoro, continuerà ad imperare la censura, continueranno ad essere distrutti i sindacati, continueranno i campi di concentramento di Pisagua, il servilismo dei giornali vicini al Governo? Continuerà l'aumento del costo della vita, gli sfratti, gli intrallazzi di cui non ci parla la stampa, se non in sordina, il cammino incontrollato verso la dittatura non solo contro i comunisti, falangisti e i democratici, ma anche contro nuovi lettori, mentre si accusa di tradimento chi, come me, spiega al paese e all'estero che questi fatti non toccano la dignità della nostra patria, ma riguardano bensì dei governanti incapaci?
Fino a quando, si chiedono tutti i cileni, in questo Senato e ben oltre esso, in tutti gli ambienti, in tutti gli angoli del nostro paese? Fino a quando durerà quest'incubo, pensano operai, professionisti, intellettuali, industriali, politici, uomini della città e della campagna?
Non è necessario arrestare questa corsa sfrenata, questo sfascio della nostra vita pubblica e politica? Non sarebbe evidente per milioni di cileni la necessità di tornare all'equità e alla decenza?
L'Onorevole Senato deve sapere in quale rispetto devono essere tenute dalle autorità le residenze dei senatori. La notte scorsa hanno tentato di appiccare il fuoco alla mia casa. Il fuoco è riuscito a distruggere una parte della porta d'ingresso. Dato che il mio telefono è controllato dal Governo, non ho potuto comunicare con la polizia, il che, oltre tutto, sarebbe stato inutile.
La mia casa è stata costruita con grandi difficoltà, e l'unica cosa dolorosa sarebbe vedere bruciare le raccolte di libri antichi e d'arte, che ho destinato, già da tempo, ai musei del mio paese.
È facile vedere la marca di questo oltraggio. Viene dalla stessa sentina dalla quale sono uscite le criminali persecuzioni a Julieta Campusano, da dove sono usciti coloro che rubarono e distrussero carte e macchine da scrivere nel Comitato di Difesa delle Libertà Pubbliche.
Se questo attentato dovesse riuscire e io e la mia famiglia dovessimo scampare alle fiamme, non andrò in cerca della giustizia, ma lascerò sulle rovine dei miei libri bruciati questo cartello: « Esempio di democrazia durante la Presidenza di González Videla».

UN GIUDIZIO POLITICO

Sono stato accusato di calunniare e di offendere il Presidente della Repubblica.
Respingo e respingerò queste accuse fino alla fine della mia vita.
Ho dato il giudizio politico e storico di un politico che si è seduto accanto a me in questo Consesso, che è stato eletto dagli stessi voti che hanno eletto me. Quando è uscito da quest'aula per arrivare alla Presidenza, il paese sa lo sforzo fatto dal mio partito per dargli una vittoria che portasse libertà, onore e progresso alla nostra patria.
Se volessi insultare il Presidente della Repubblica lo farei nella mia opera letteraria. Ma se sarò costretto a trattare il suo caso nel vasto poema intitolato Canto general de Chile, che sto attualmente scrivendo, dove canto la terra e gli episodi della nostra patria, lo farò con la stessa onestà e purezza che ho posto nella mia azione politica.
Il Presidente della Repubblica, nel suo scritto, che non voglio definire, sostiene che la mia lettera confidenziale è l'opera satanica del Partito Comunista e che è stata scelta una persona politicamente innocua per firmarla. La mia innocuità politica è stata provata quando ho diretto la sua campagna di propaganda presidenziale.
Assumo la responsabilità delle mie parole, ma non c'è dubbio che la chiarezza, la verità con cui sono state dette, contengono lo spirito militante del grande, dell'eroico partito di Recabarren.
A tutti i comunisti del Cile, alle donne e agli uomini maltrattati, offesi e perseguitati, porgo il mio saluto e dico: « II nostro partito è immortale. È nato con le sofferenze del popolo e questi attacchi non fanno che innalzarlo e moltiplicarlo ».
Ieri sera ho ascoltato la sentenza in cui si concedeva la mia espulsione che ha dato una triste vittoria all'Esecutivo emessa dalla Corte d'Appello. Sono state fatte delle pressioni sulla giustizia, e si è arrivati a darle minuziose istruzioni dalle colonne a pagamento de « El Mercurio» e di tutta la stampa e radio mercenarie.
La Corte d'Appello ha dimenticato, con l'onorevole eccezione di alcuni ministri, che in essa non deve imperare la passione politica, e che il suo dovere non è di dare una copertura agli arbitri del Presidente della Repubblica, ma di proteggere i cittadini dall'oppressione e dall'abuso.
Ma chi si ricorda adesso delle sentenze della Corte, sul processo dei sovversivi del 1920, quando si arrivò a sentenziare nei particolari sull'oro peruviano? Dove sta oggi l'oro peruviano? Questi giudici hanno la memoria corta.
Così sarà sepolta nell'oblìo, ne sono sicuro, questa sentenza della Corte d'Appello.
A me non mi espelle nessuno, se non il popolo.
Poi andrò, quando saranno passati questi momenti di obbrobrio per la nostra patria nella pampa del salnitro. E dirò agli uomini e alle donne che hanno visto tanto sfruttamento, tanti martiri e tanti tradimenti:

Eccomi qua, vi avevo promesso di essere leale alla vostra vita dolorosa, vi avevo promesso di difendervi con la mia intelligenza e con la mia vita se fosse stato necessario. Ditemi se sono stato di parola, e datemi o toglietemi l'unica autorizzazione di cui ho bisogno per vivere onestamente, quella della vostra fiducia, della vostra speranza, del vostro amore.

E canterò con loro ancora una volta sotto il sole della pampa, sotto il sole di Recabarren, il nostro Inno Nazionale, perché solo le sue parole e la lotta del popolo potranno cancellare le ignominie di questo tempo:

DULCE PATRIA, RECIBE LOS VOTOS
CON QUE CHILE EN TUS ARAS JURO
QUE O LA TUMBA SERA DE LOS LIBRES
O EL ASILO CONTRA LA OPRESIÓN.

(Dolce patria, ricevi i voti
con cui il Cile sui tuoi altari giurò
che o la tomba sarà dei liberi
o l'asilo contro l'oppressione).

(Discorso pronunciato al Senato della Repubblica del Cile, il 6 gennaio del 1948).


LETTERA A S. E. DON CARLOS IBÁÑEZ DEL CAMPO

Nella mia qualità di presidente dell'Associazione degli Scrittori Cileni e a difesa degli interessi e dei diritti dei creatori e dei continuatori della cultura cilena, ho avuto il sommo piacere di accompagnare la Direzione dell'Associazione degli Scrittori Cileni per esporre a Sua Eccellenza alcuni dei nostri problemi di categoria. Ho avuto in anticipo la sicurezza di vedere accolte quelle iniziative che, negli aspetti pratici, difendano la dignità della vita degli scrittori nella patria di Gabriela Mistral.
Ma ho tralasciato di trattare, davanti al signor Presidente della Repubblica, un problema politico e personale che mi ha preoccupato gravemente prima di parlare con un'autorità di tanta importanza e responsabilità. Ho fatto attenzione a non trattare questa materia politica per tenerla strettamente separata dalla mia attività di presidente dell'Associazione degli Scrittori Cileni, i cui scopi sono esclusivamente culturali.
Si da il caso, signor Presidente, che non mi considero né sono praticamente un cittadino della Repubblica del Cile, e pertanto, non avrei dovuto avere alcun incontro né con sua Eccellenza né con altre autorità. Devo essere considerato come un uomo invisibile. Sono stato cancellato dalle liste elettorali. Pertanto, ho dei seri dubbi sulla mia esistenza civica. Se non mi si riconosce il diritto che hanno nel mio paese anche i peggiori delinquenti, per non parlare dei più abili sfruttatori, come posso presentarmi di fronte ai governanti. E questi governanti, possono prendere in considerazione le richieste di un uomo al quale viene negato l'esercizio della cittadinanza, rispettato e sacro anche nelle nazioni più arretrate?
Signor Presidente, sono stato onorato in tutti i paesi in cui mi sono recato, e non vorrei ricordare questi onori, se non li ritenessi direttamente concessi al mio popolo e alla mia patria. Quando Maria Casares e Jean Louis Barrault recitavano commossi i miei versi alla Sorbonne di Francia, o quando le Municipalità di Venezia, di Torino, di Genova, di Napoli e di Firenze mi accoglievano al gran completo, ho pensato che questi stimoli facevano brillare il nome lontano del mio paese. Quando il Premio Mondiale della Pace e il Premio Nazionale per la Letteratura furono assegnati alla mia persona, ho pensato che questi riconoscimenti appartenevano al mio popolo. Quando i miei libri sono stati tradotti in quasi tutte le lingue che si parlano e si scrivono nel mondo, ho pensato con orgoglio che attraverso di essi sarebbero state conosciute la storia, le lotte, il pensiero e la bellezza della nostra patria.
Ma tutto ciò, signor Presidente, non mi è servito neppure ad avere diritto di voto in Cile. E una delegazione degli uomini che nel nostro paese rappresentano il ritardo coloniale e l'iniqua cupidigia ha osato presentarsi davanti a sua Eccellenza per chiederle che io e alcune migliala di cittadini continuiamo a stare nel Limbo, nell'oscurità che loro vorrebbero, nelle tenebre medievali che loro auspicano per tutti i cileni. Questi antichi usurpatori hanno deciso che non dobbiamo partecipare alle prossime elezioni, e pretendono di rendere loro vassallo il Governo della Repubblica per recuperare e prolungare in qualche modo il loro regno di ignoranza e di miseria.
Naturalmente, Eccellentissimo signore, io non voglio trovarmi in una situazione privilegiata e non accetterò una riabilitazione personale dei miei diritti di cittadinanza. Non è questo l'argomento della mia lettera né lo scopo delle mie intenzioni.
Ho l'ardire di chiedere a sua Eccellenza che a tutti i cileni che sono stati arbitrariamente cancellati dai Registri Elettorali siano restituiti i diritti di cittadini e di cileni. Siamo stati privati di questo aspetto della vita patria da un magistrato che abbiamo contribuito molto ad eleggere e che ha tradito tutti i suoi principi, causando il più grave torto alla libertà e alla dignità del Cile in tutta la sua storia.
Mi tocca chiedere a un Presidente, alla cui elezione non ho contribuito, di rettificare quegli errori mostruosi. Tanto intricato è il corso della Storia. Ma nonostante ciò non può esserci niente di più mostruoso di questa odiosa discriminazione sul diritto di cittadinanza messa in atto in questo caso per separare i cileni, per dividerli e quindi sfruttare la nazione intera.
E non potrebbe esserci niente di più confortante per la continuità della democrazia e della libertà del nostro paese che l'azione immediata, oggi nelle sue mani, affinchè vengano ripristinati i diritti inalienabili di migliala di patrioti, fra i quali ho l'onore e l'orgoglio ddi contarmi.
Rinnova i suoi cordiali saluti al signor Presidente della Repubblica.

PABLO NERUDA

(Lettera spedita nel 1958).


CON L'ACCADEMIA SÌ,
CON L'IMPERIALISMO NO

Caro signor Neruda:
Ho l'onore di informarla che i membri dell'Accademia Statunitense di Lettere e Arti e i membri dell'Istituto Nazionale di Lettere e Arti l'hanno eletta membro onorario, sia dell'Accademia che dell'Istituto. A norma di statuto, la distinzione di membri onorari di entrambe le organizzazioni viene conferita ad artisti, scrittori e compositori che non sono cittadini degli Stati Uniti, i cui servizi all'arte sono riconosciuti con gratitudine dai loro colleghi di questa Repubblica. Spero che potremo avere il piacere di comunicare ai membri di entrambe queste istituzioni che lei accetta questo invito.
Per posta le inviarne una copia degli Annali dell'Accademia e dell'Istituto e un opuscolo in cui si spiegano la funzione e gli obiettivi di questi organismi e i diritti e i privilegi dei loro membri.
L'Accademia e l'Istituto, ricevuta la sua accettazione, faranno in modo, attraverso il Dipartimento di Stato, che l'Ambasciata degli Stati Uniti le consegni il distintivo e il diploma di membro onorario.
Rispettosamente suo

GEORGE F. KENNAN

Egregio signor Kennan,
Rispondo con molto ritardo alla sua lettera del 15 gennaio di quest'anno e la prego di credere che mi dispiace molto di questo ritardo. Ho trascorso fuori dal Cile tutto il mese di febbraio e proprio in questi giorni appena tornato mi devo occupare delle sue importanti
comunicazioni.
Lei mi informa che l'Accademia Americana di Lettere e Arti e l'Istituto Nazionale di Lettere e Arti mi hanno eletto membro onorario di entrambe le organizzazioni. Ho capito che questo riconoscimento, riservato ad artisti, scrittori e compositori stranieri, fa molto
onore a chi lo riceve. Basta leggere alcuni nomi di vecchi e recenti membri onorari per rendersi conto di ciò. Mi sentirei, infatti, a disagio e onorato al tempo stesso a figurare con la mia modesta opera di poeta fra personalità così illustri del passato e del presente, come Braque, Chagall, Isak Dinesen, T.S. Eliot, Gide, Malraux, Matisse, Mirò, Henry Moore, Nehru, Orozco, Bertrand Russell, Bernard Shaw, Schweitzer, Sciostakovic. Villa Lobos e H.G. Wells.
Ritengo, inoltre, che la vostra decisione di distinguermi in questo modo va per estensione al mio paese, alla sua cultura e al suo popolo. Penso, altresì, che l'ampiezza di criterio con cui l'Accademia e l'Istituto scelgono i loro membri stranieri hanno un alto significato in questo momento. Vedo in ciò l'unità del pensiero nordamericano, manifestato in questi ultimi tempi contro la guerra del Vietnam per gli alti valori culturali del suo paese, che fanno parte di queste istituzioni.
Nell'accettare questa distinzione, sento il bisogno di esprimere con chiarezza la mia adesione alla protesta di tanti intellettuali nordamericani, e mi unisco anche alla loro opposizione e al loro atteggiamento, interpretando in ouesto modo il pensiero degli scrittori, degli artisti e dei compositori del continente latino-americano.
Gli avvenimenti sconvolgenti della nostra epoca si collegano alle nostre preoccupazioni morali ed estetiche, dando un colore scuro ai nostri giorni e alle nostre notti, ma anche il sentimento del fatto che la dignità e l'intelligenza si levano contro l'aggressione nel posto stesso in cui questa nasce, non può essere che uno stimolo per quanti come noi sostengono la ragione e l'umanesimo contro l'ingiustizia e la violenza.
Così, quindi, nell'accettare il nobile riconoscimento di cui mi insigniscono l'Accademia e l'Istituto Americani, desidero farle presente che non potrei ricevere né l'insegna né il diploma relativi dalle mani di nessun ambasciatore degli Stati Uniti, né in alcun ufficio che rappresenti il suo governo.
Sarei molto onorato di poter ricevere il titolo ufficiale dalle mani del presidente di codesta istituzione o di uno qualsiasi dei suoi membri, fra i quali figurano rispettabili amici miei, come Malcom Cowley, Arthur Miller, Robert Lowell e tanti altri. Ma se questo cambiamento negli usi stabiliti di cedeste istituzioni dovesse dare adito a difficoltà nel loro seno, accetterò anche di buon grado, se fosse così deciso, che in un'altra occasione più favorevole si pensasse al mio nome per una designazione tanto onorifica.
Intanto, ringrazio commosso il signor Presidente e i membri dell'Accademia Americana e dell'Istituto Nazionale di Lettere e Arti per la loro generosa proposta.
La saluto rispettosamente

PABLO NERUDA

L'Accademia di Lettere e Arti Nordamericana in una delle sue sessioni a New York ratificò la designazione di Pablo Neruda a membro onorario dichiarando che il fatto che il poeta avesse rifiutato di ricevere il diploma dalle mani dell'Ambasciatore degli Stati Uniti in Cile, Edward Korry, non interferiva nella sua elezione.
Felicia Geffen, portavoce ufficiale dell'Accademia Nordamericana, disse che «sarebbero stati presi accordi che soddisfacessero Pablo Neruda» e che «il diploma avrebbe potuto essergli inviato per posta o consegnato personalmente in occasione di una sua visita negli Stati Uniti».

George F. Kennan scrisse a Neruda:

Ho avuto il piacere di ricevere la sua lettera con la quale accetta la nomina a membro onorario dell'Accademia e dell'Istituto Nazionale di Lettere e Arti.
Tuttavia capisco e rispetto i sentimenti per i quali non vuole accettare la nomina e il diploma dalle mani del nostro Ambasciatore in Cile. Questo non impedisce, in alcun modo, la sua elezione.
Se lei ha in programma di venire negli Stati Uniti in futuro sarebbe un piacere per me consegnarle il diploma e l'insegna.
Se, d'altra parte, le dovesse capitare di trovarsi in un paese vicino, come il Messico, per esempio, io potrei raggiungerla per consegnarle personalmente quanto sopra.
In una riunione dell'Accademia che avrà luogo il 23 maggio, leggeremo un Verbale dell'elezione di Pablo Neruda, nominato Membro Onorario per il suo valore di poeta.

(Corrispondenza con George P. Kennan, presidente dell'Accademia Statunitense di Lettere e Arti, nel gennaio-marzo 1969).


OH, PRIMAVERA,
RESTITUISCIMI AL MIO POPOLO!

Cari compatrioti:
Comincerò col parlarvi dei miei ultimi viaggi.
L'Europa è una costruzione contraddittoria e la sua cultura sembra aver vinto il tempo e la guerra. La Francia fra tutte le nazioni mi ha accolto con la sua eterna lezione di ragione e bellezza. Ho provato, naturalmente, un'emozione che mi ha fatto inumidire gli occhi quando il sovrano di Svezia, il saggio re che ha compiuto 90 anni, mi ha consegnato un saluto d'oro, una medaglia destinata a voi, a tutti i cileni. Perché la mia poesia è proprietà della mia patria.
Ma nonostante questo viaggio prolungato, qui, fra la moltitudine dei cileni voglio dichiarare la mia confessione che è ad un tempo anche la mia confusione.
Col vostro aiuto proverò a decifrare la mia confusione. Qui si suppone che voi mi stiate ricevendo, dandomi il benvenuto o accogliendomi. Ebbene, molte grazie, molte volte molte grazie. Ma in realtà a me sembra di non esser mai andato via di qui, di non essere mai stato fuori, che non mi sia successo nulla da nessuna parte, bensì qui, in questa terra. Le mie gioie e i miei dolori vengono da qui e qui sono rimasti. O piuttosto, il vento della patria, il vino della patria, la lotta e i sogni della patria, sono arrivati fino al mio posto di lavoro a Parigi e lì mi hanno avvolto di notte e di giorno, Più belli delle cattedrali, più alti della Torre Eiffel, più abbondanti delle acque della Senna. In altre parole, ecco che mi vedete di ritorno senza che io mi sia allontanato dal Cile.
C'è di tutto a questo mondo. C'è chi rimane e chi se ne va. Alcuni se ne vanno perché hanno un amore laggiù lontano, o perché gli piace una strada, una biblioteca, un laboratorio, in qualche altro punto della terra. Io non li disapprovo. Ci sono di quelli che hanno sentito in pericolo i loro portafogli, hanno creduto in un terremoto per i loro conti in banca, e se la sono squagliata. Io non li disapprovo. Non sentiamo molto la loro mancanza.
Però, per una ragione o per l'altra, in un modo o nell'altro io viaggio col nostro territorio e continuano a vivere con me, laggiù, le essenze longitudinali della mia patria.
Sono nato nel centro del Cile, sono cresciuto alla Frontera, ho cominciato la mia gioventù a Santiago, mi conquistò Valparaíso, mi si aprì la pampa e il deserto, dandomi l'ossigeno e lo spazio di cui la mia anima aveva bisogno, ho percorso le vigne della valle
centrale, gli arenili di Iquique, le praterie della Patagonia, la costa selvaggia del solitario Aysen, e non hanno segreti per me le illustri città come Chillon, Valdivia, Talca, Osorno, Iquique, Antofagasta, o i paesini chiusi in se stessi come Chanco o Quitratué o Taltal o Villarica o Lonquimay o El Quisco. Conoscendola o cantandola, percorrendola e lottando, mi sono diviso e mi sono moltiplicato consegnando la mia poesia a tutta la mia patria nella sua estensione, nella sua elevazione, nella sua profondità, nel suo passato e nel futuro che stiamo costruendo.
Grandi e piccole cose mi arrivavano dal Cile durante questi due anni di assenza. Fra le grandi, i problemi del debito estero che abbiamo ereditato dai governi precedenti come una croce opprimente. E poi, la difesa del nostro rame che mi è toccato dirigere, dall'Ambasciata di Parigi, contro i pirati internazionali che vogliono continuare il saccheggio delle nostre ricchezze.
Ma non solo queste grandi cause, queste grandi cose colpiscono il cuore dell'assente. Anche altre: i messaggi di centinaia di amici, conosciuti e sconosciuti, che si congratulavano con me. È stato un mucchio talmente grande di dispacci e di telegrammi, che finora non ho potuto rispondere a tutti. Un'altra volta è stato un pacco che ho ricevuto dal Cile, da una donna del popolo, per me sconosciuta e che conteneva una zucca per il mate, quattro paltas (1) e una mezza dozzina di peperoncini verdi.
Al tempo stesso, il nome del Cile si è ingrandito in questo periodo in modo straordinario. Siamo diventati agli occhi del mondo un paese che esiste. Prima passavamo inosservati in mezzo alla massa dei sottosviluppati. Per la prima volta abbiamo una nostra fisionomia e non c'è nessuno al mondo che osi disconoscere la grandezza della nostra lotta nella costruzione di un destino nazionale.
Tutto quello che succede nella nostra patria appassiona la Francia e l'Europa intera. Riunioni popolari, assemblee di studenti, libri che si pubblicano ogni settimana in tutte le lingue, ci studiano, ci esaminano, ci ritraggono. Io devo contenere i giornalisti che ogni giorno, com'è loro dovere, vogliono sapere tutto o molto più di tutto. Il Presidente Allende è un uomo universale. La disciplina e la fermezza della nostra classe operaia viene elogiata e ammirata. Le nostre Forze Armate, col loro chiarissimo senso del dovere, impressionano gli osservatori del panorama latinoamericano.
Quest'ardente simpatia verso il Cile all'estero è stata moltiplicata in occasione dei conflitti che la nazionalizzazione dei nostri giacimenti di rame ha suscitato. All'estero hanno capito che questo è un passo gigantesco della nuova indipendenza del Cile. Tutti si chiedevano come un paese sovrano potesse affidare a mani straniere lo sfruttamento delle sue ricchezze naturali.
Senza sotterfugi di nessuna specie, il Governo Popolare ha reso definitiva la nostra sovranità riconquistando alla nostra patria il rame.
Quando la compagnia nordamericana ebbe la pretesa di sottoporre ad embargo il rame cileno, un'ondata di emozione percorse l'Europa intera. Non solo la stampa, le televisioni, le radio, si sono occupate di questa faccenda dandoci il loro appoggio, ma ancora una volta siamo stati difesi da una coscienza maggioritaria e popolare.
Molte sono state le testimonianze di adesione che abbiamo ricevuto in queste dolorose circostanze. Lasciate che vi parli di tre di esse, che dimostrano in modo commovente da che parte sta battendo il cuore europeo. Sapete già che i portuali di Francia e Olanda si rifiutarono di scaricare il rame nei loro porti per esprimere il loro ripudio dell'aggressione. Questo gesto meraviglioso commosse tutto il mondo. In verità,
oneste azioni di solidarietà insegnano di più sulla storia del nostro tempo delle lezioni di un'università: sono i popoli che comunicano fra di loro, si conoscono e si difendono. Questa difesa raggiunse anche situazioni ancora più commoventi: al secondo giorno dell'embargo una modesta signora francese ci mandò un biglietto da 100 franchi, frutto dei suoi risparmi, per contribuire alla difesa del rame cileno. E in una lettera inviata da una piccola città della Francia era impressa la più calorosa adesione alla causa del Cile. La lettera era firmata da tutti gli abitanti del paese, dal sindaco al parroco, da tutti gli operai, gli sportivi e gli studenti di quella località.
Così, dunque, lo splendore del Cile mi ha seguito, mi ha avvolto, mi ha circondato. Non mi sono mai sentito timido né orgoglioso dei danni o dei premi che ho avuto nel corso della mia vita. Ma il timore e l'orgoglio l'ho sempre avvertito quando riguardavano l'immagine della mia patria. E come mi sono sentito orgoglioso, laggiù, dell'importanza che andavamo assumendo agli occhi degli europei, così ho avuto timore di fronte all'incomprensione o alla minaccia che ci assediano all'interno e dall'esterno.
Mi sono reso conto che ci sono alcuni cileni che vogliono trascinarci ad uno scontro, verso una guerra civile. E anche se non mi propongo, in questo luogo e in questa occasione, di entrare nel dibattito politico, ho il dovere poetico, politico e patriottico, di proteggere il Cile intero da questo pericolo. Il mio ruolo di cittadino è sempre stato quello di unire i cileni. Ma adesso soffro il grave dolore di vederli impegnati a ferirsi. Le ferite del Cile, del corpo del Cile, farebbero dissanguare la mia poesia. Non può essere.
Laggiù ho letto su un giornale che un signore politico, ardente sostenitore della guerra civile, aveva pronunciato Questa frase celebre: « Non importa se dobbiamo ricostruire il Cile partendo da zero ». Sicuramente questo strano personaggio ha previsto nei suoi piani che venga sparso il sangue di tutti, il sangue di tutti i cileni, di tutti i cileni, meno lui, per partire da zero perché gli altri, e non lui, ricostruiscano il suo benessere personale. Ma la guerra civile è una cosa molto seria. E bisogna prendere delle misure affinché queste incitazioni fratricide non allignino né prosperino. La legalità ci impone molte volte sacrifici molto gravi: ma questa è la via tradizionale e anche rivoluzionaria della nostra storia, e la percorreremo. La lotta per la giustizia non ha ragione di insanguinare la nostra bandiera.
Io ho assistito ad una guerra civile e fu una lotta così crudele e dolorosa, che ha segnato per sempre la mia vita e la mia poesia. Più di un milione di morti! E il sangue macchiò i muri della mia casa e vidi cadere gli edifici bombardati e vidi dalle finestre sfasciate uomini donne e bambini fatti a pezzi dalla mitraglia. Ho visto, dunque, sterminarsi gli uomini nati per essere fratelli, proprio quelli che parlavano la stessa lingua ed eran figli della stessa terra. Non voglio per la mia patria un simile destino.
Per questo, voglio chiedere ai cileni più saggi e più umani che si aiutino l'un l'altro per mettere la camicia di forza ai folli e agli inumani che vogliono trascinarci ad una guerra civile.
Avete visto come i grandi interessi stranieri intrigano e facciano pressioni all'estero per distruggere le conquiste nazionali instaurate dal nostro Governo Popolare. Ma i cileni devono rendersi conto che le file di un complotto internazionale di questi grandi interessi
passano anche per il nostro territorio. È già risultato evidente, dopo l'assassinio di un soldato glorioso, il Generale Schneider, che questo delitto era stato ordito all'estero. A nostra vergogna, le mani degli assassini furono mani cilene.
Ottant'anni fa, potenti compagnie europee, che all'epoca dominavano in Cile, scatenarono una guerra civile fra cileni. Esse portarono al parossismo le divergenze fra il Parlamento e il Presidente. Fra i morti di quella guerra civile si conta un Presidente grandioso e generoso. Si chiamava José Manuel Balmaceda. Si presero gioco di lui, lo minacciarono, lo schernirono e lo insultarono fino a portarlo al suicidio. Anche se la
storia la scrissero allora i nemici di Balmaceda, in seguito il suo nome fu lavato da ogni offesa dal popolo del Cile e restituito al suo posto di governante patriota e lungimirante.
Io credo che questa fase della nostra vita storica somigli a molte altre del passato. Vivremo ore dure in Cile, ha detto il Presidente Allende, partendo per un viaggio massacrante, per affermare nel mondo intero la nostra sovranità e i nostri princìpi.
Anche dopo il 1810, dopo la proclamazione della nostra indipendenza nazionale, il Cile dovette affrontare difficoltà grandi e piccole e l'attacco di quelli che volevano farci ritornare sotto il colonialismo spagnolo. Ma la Repubblica si consolidò nelle mani di O'Higgins, di Carrera, di Manuel Rodriguez, di Freire, di Camino Henriquez e dei patrioti laceri e scalzi che combatterono a Rancagua, a Chacabuco, a Maipo, sulle strade sul mare e sulle cordigliere del Cile.
La storia ci insegna che stiamo andando avanti e che la liberazione dei popoli sta avvenendo, nonostante tutto.
Vorrei, per concludere, ringraziare il Vice Presidente della Repubblica per le sue parole e per la sua presenza accanto a me. Il Generale Prats mi ha conferito un grande onore. Per me non è strano che un soldato e un poeta presenzino ad una cerimonia a campo aperto, di fronte al popolo. In Cile, e fuori del Cile, si sa che il nostro Vice Presidente è una garanzia per la nostra costituzione politica e per il nostro onore nazionale. (2) Ma la sua fermezza e la sua nobiltà vanno ben oltre questi concetti: egli è il centro morale del nostro affetto nei confronti delle Forze Armate del Cile, verso coloro che in terra, nel mare e nell'aria, portano, con i colori violenti della nostra bandiera, la tranquilla continuità di una gloriosa tradizione.
Io ho celebrato nelle mie canzoni gli eroi che hanno intessuto con vimini insanguinati la culla della patria. Io ho cantato le loro gesta, le loro appassionate esistenze, le loro vite, spesso dolorose. Si confondono nella mia poesia l'amore per la nostra terra e il sentimento di rispetto verso coloro che hanno fondato, con coraggio e sacrificio, le basi della nostra vita repubblicana. E riconosco in questo Generale Capo della Repubblica, come in tutte le Forze Armate del Cile, la grandezza del passato storico e l'incorruttibile lealtà con cui hanno difeso le prerogative della nostra sovranità e della nostra democrazia. (3)
Sono presenti in questo grande stadio i Carabineros del Cile. Sappiamo bene che, tutt'uno con la geografia del Cile, per monti e per strade, nelle città e alle frontiere, nella pioggia, nella sabbia, nel deserto, nel pericolo, essi proteggono in qualsiasi ora il lavoro e il riposo dei cileni.
Son qui presenti le delegazioni del popolo. Le saluto ad una ad una, i lavoratori petroliferi di Magallanes gli operai edili di Santiago, quelli del salnitro di Tarapaca, i pirquineros (4) di Coquimbo, i lavoratori del rame di Antofagasta, i tessili di Concepción, i mercanti di Valparaíso, i coltivatori di vigne di Curico, gli operai dello zucchero di Linares, i pescatori di Chiloé, i barcaioli di Maule, i lavoratori del latte di Osorno, i compagni di Polpaico.
Le donne che hanno portato qui la testimonianza della loro tenerezza, ricevano l'omaggio di un poeta che deve loro l'ispirazione di ciascuno dei suoi libri.
Alla gioventù che ha dato colore, movimento e allegria a questa festa meravigliosa, invio questo messaggio: io ho lodato e cantato la nostra patria. Il vostro compito è continuarla e ingrandirla, renderla ogni giorno più giusta, più generosa e più bella.
Ai bambini che a centinaia sono venuti allo stadio, poiché non gli posso regalare una stella, mando un bacio ad ognuno.
Non sono stati pochi i poeti che han ricevuto dei riconoscimenti come i Premi Nazionali o lo stesso Premio Nobel. Ma, forse, nessuno ha ricevuto questo alloro supremo, questa corona del lavoro che esprimono le delegazioni di tutto un paese, di tutto un popolo. Questa presenza non solo scuote le radici della mia anima, ma sta anche ad indicare che forse non mi sono sbagliato nella direzione della mia poesia.
Anni fa, in un esilio obbligato, molto lontano dal Cile, disperato di sentirmi così lontano e senza speranza di tornare, scrissi questi versi:

Oh Cile, lungo petalo
di mare e vino e neve,
ahi quando
ahi quando e quando
ahi quando
mi troverò con te
avvolgerai il tuo nastro
di spuma bianca e nera alla mia cintura,
scatenerò la mia poesia
sul tuo territorio.

Popolo mio, è vero che a primavera
suona il mio nome nelle tue orecchie
e tu mi riconosci
come se fossi un fiume
che passa per la tua porta?

Sono un fiume. Se ascolti
lentamente sotto i salares (5)
di Antofagasta, oppure
a sud di Osorno
o verso la cordigliera, a Melipilla,
o a Temuco, nella notte
di astri bagnati e alloro sonoro,
appoggia sulla terra le tue orecchie,
sentirai che corro,
sommerso, cantando.
Ottobre, oh primavera,
restituiscimi al mio popolo!

Cosa farò senza vedere mille uomini,
mille ragazze,
che farò senza portare sulle mie spalle
una parte della speranza?
Che farò senza camminare con la bandiera
che di mano in mano nella fila
della nostra lunga lotta
è arrivata alle mie mani?

Ahi patria, patria,
Ahi patria, quando
Ahi quando e quando,
quando
mi troverò con te?

Lontano da te
metà di terra tua e uomo tuo
ho continuato ad essere,
e di nuovo oggi la primavera passa.
Ma io mi son riempito dei tuoi fiori,
con la tua vittoria vado sulla fronte
e in te continuano a vivere le mie radici.

Ahi Quando
mi toglierà dal sonno un tuono verde
del tuo manto marino.
Ahi quando, patria, nelle elezioni
andrò di casa in casa raccogliendo
la libertà timorosa
affinchè gridi in mezzo alla strada.
Ahi quando, patria,
ti sposerai con me
con occhi verdemare e vestito di neve
e avremo milioni di figli nuovi
che daranno la terra agli affamati.

Ahi patria senza stracci,
ahi primavera mia,
ahi quando e quando
mi sveglierò fra le tue braccia
inzuppato di mare e di rugiada.
Ahi quando sarò vicino
a te, ti prenderò per la vita,
nessuno potrà toccarti,
io potrò difenderti
cantando,
quando
andrò con te, quando
andrai con me, quando,
ahi quando.

Bene, compatrioti, amici, compagni miei, tutto si è avverato, il ritorno è avvenuto, i versi del « Quando » si sono avverati. .
Andrò di casa in casa nelle elezioni di marzo.
Questa mattina mi ha svegliato il tuono marino di Isla Negra.
La terra è già passata dalla mani dei sazi a quelle degli affamati.
In questa cerimonia con flauti e tamburi mi sembra di essermi sposato un'altra volta con la mia patria. E non pensate che questo possa essere un matrimonio di interesse. Si tratta solo di amore, del grande amore della mia vita.
Salute, cilene e cileni, compagne e compagni, amici e amiche, grazie per l'amicizia, per l'affetto, per il riconoscimento che altri nuovi poeti riceveranno col tempo da voi.
Perché la vita, la lotta, la poesia, continueranno a vivere quando io sarò soltanto un piccolo ricordo nel luminoso cammino del Cile.
Grazie perché voi siete il popolo, il meglio della terra il sale del mondo.
SALVE.

(1) Avocados [N.d.T.].
(2) La fiducia di Pablo Neruda nell'atteggiamento di rispetto verso le istituzioni da parte del generale Carlos Prats fu confermata in seguito dalla storia. Alla vigilia del colpo di stato militare contro il Governo costituzionale di Salvador AIlende, il generale Prats si dimise dal suo incarico in seguito alle pressioni dei congiurati. In quella occasione Neruda gli scrisse
la lettera che qui riportiamo:

ISLA NEGRA, 31 agosto 1973.

Signor
Generale, don Carlos Prats,
SANTIAGO.

Mio stimato Generale:
Lei può anche aver dato le dimissioni, ma continuerà ad essere per i cileni, la grande maggioranza di noi, il Generale in Capo e un cittadino esemplare.
In realtà, l'incitamento all'offesa e alla sedizione vengono da molto lontano nella storia del Cile. Quando la Repubblica era ancora in fasce, nell'anno 1811, il traditore Tomas de Figueroa si levò in armi contro la nostra Repubblica appena nata. Niente di più naturale che lo stesso gruppo di un tempo, attraverso i suoi discendenti, coltivi la sua memoria: una strada di Santiago, a Las Condes, porta il suo nome. E questo dice tutto.
È impossibile assistere senza angoscia all'impegno cieco di coloro che vogliono trascinarci alla sventura di una guerra fratricida, senz'altro ideale che la conservazione di antichi privilegi resi caduchi dalla storia, dal cammino irreversibile della società umana. E questo vale per il Cile e per il mondo.
Nell'affrontare, col sacrificio della sua brillante carriera, le possibilità di uno scontro civile, lei ha messo in rilievo, non solo la nobiltà del suo carattere, ma anche la profondità del suo patriottismo.
Riceva il saluto, l'ammirazione e la solidarietà di
PABLO NERUDA

II generale Prats, a sua volta, rispose al poeta, in questo modo:

SANTIAGO, 4 settembre 1973.

Signor
Pablo Neruda
ISLA NEGRA

Egregio don Pablo:
Mille grazie per gli stimolanti concetti che Lei espone nella sua lettera del 31 agosto e che rafforzano la tranquillità di coscienza che realmente sento — adesso — diventato un cittadino qualsiasi, dopo la decisione che ho preso di fronte alla bassezza e alla viltà morale, che, disgraziatamente, sono state fattore comune dell'azione di coloro che vorrebbero far rivivere in Cile la storia de Il Gattopardo.
Ricorderò, come uno dei momenti più edificanti che le circostanze del destino mi abbiano riservato, l'occasione offertami dal Signor Presidente della Repubblica di rappresentare il sentimento nazionale, nel rendere omaggio al grande poeta cileno, insignito con il Premio Nobel per la Letteratura.
Formulo i miei migliori auguri di pronto ristabilimento della sua salute perché il Cile ha bisogno — al di sopra delle trincee politiche — dell'esistenza di valori intellettuali, come quelli di cui Lei è simbolo, affinchè tornino a prevalere la ragione e il buon senso in questo bel paese, affinchè il suo popolo ottenga la giustizia sociale che tanto si merita.
Oltre a ribadirle la mia riconoscenza, per la sua solidarietà, le esprimo il mio personale apprezzamento.
CARLOS PRATS GONZALEZ

Dopo il sollevamento militare, il generale Prats fu costretto a lasciare il Cile e venne assassinato a Buenos Aires il 30 settembre 1974.

(3) II riconoscimento di Neruda dell'« incorruttibile lealtà » delle forze annate del Cile, prima del colpo di stato dell'I 1 settembre del 1973, era condiviso dall'immensa maggioranza della popolazione, dati i precedenti storici del paese.
(4) Piccoli proprietari di miniere che lavorano in proprio [N.d.T.].
(5) Miniere di salnitro [N.d.T.].

(Discorso pronunciato allo Stadio Nazionale, al suo ritorno in Cile dopo il Premio Nobel, novembre 1972).


DISCORSO DELL'INTIMITÀ

Caro candidato del popolo:
Ho fatto molti discorsi a nord e a sud, a est e a ovest in Cile per questa candidatura, per le idee e gli ideali che le danno significato, dirczione e levatura. Ho parlato ai minatori, ai contadini, ai cittadini di tutti i tipi umani.
Oggi vorrei fare il discorso dell'intimità, quattro chiacchiere in famiglia.
Per la prima volta noi scrittori e artisti avremo un vero amico o, meglio, un parente prossimo al Moneda. Lì circola, nella propaganda dell'altro candidato alla Presidenza, un seggio vuoto, una specie di trono che, secondo la sua propaganda, sta aspettando quel
signore. In genere, noi scrittori e artisti, i cosiddetti intellettuali, siamo vissuti lontani dalla Presidenza della Repubblica, l'abbiamo sentita come un trono vuoto, come un seggio senza uomo. A volte ci pareva di vedere un essere umano, un cileno con vere profonde preoccupazioni per la vita del Cile. Ma d'un tratto non vedevamo altro che il vecchio volto dell'indifferenza, della frivolezza e della crudeltà. Non voglio far nomi. Non si tratta di nominare il vuoto, ma di chiamare alla speranza.
Questa speranza non è calpestata, non è cieca, né minacciosa. Chiediamo solo di essere presi in considerazione, che ci sia riconosciuto il diritto all'esistenza, alla crescita e alla creazione. I paesi piccoli, scagliati dalla geografia fra le più lontane pieghe del pianeta,
hanno un solo destino per combattere l'avversità e questo destino sta in rapporto con la loro creazione spirituale, col potere della loro cultura. Questa è la loro grande lotta.
In questi giorni si sta smantellando un'immensa mole di ferro e di acciaio che non ha mai avuto bisogno di sparare, né di sterminare nessuno in difesa della nostra bandiera. Ma l'arma più potente che ha avuto il Cile nel corso della sua esistenza non era così costosa, né tanto pesante: era una piccola e fragile donna, oppressa da tutte le preoccupazioni dell'intelligenza e dell'esistenza: si chiamava Gabriela Mistral.
Mi consta che Gabriela, anche dopo il Premio Nobel, viveva tremando per il suo posto, terrorizzata dal Ministero, aspettando in qualche modo la zampata, l'attacco, la rappresaglia. Questa diffidenza permanente alterò molto il suo carattere, la trasformò, lasciandola scontrosa, come quei pini della Patagonia minacciati dal vento, pini che lei cantò, facendone un po' il proprio autoritratto.
È chiaro che non pensiamo ad un trattamento eccezionale. Non si creda che ci aspettiamo una corte di pensatori coronati, favoriti da un dinamico potere intellettuale. Pienamente coscienti dell'apporto che danno gli artisti e gli scrittori allo sviluppo e all'onore
della nostra patria, chiediamo attenzione alle nostre vite e ai nostri problemi, sicurezza affinchè i giovani continuino senza tormenti il loro sviluppo creativo. Ma sappiamo, ed è per questo che siamo qui, che prima di tutto bisogna elevare il nostro popolo alla dignità umana che gli spetta. E in questa lotta, in questa convinzione combattente, ci sentiamo rappresentati da Salvador Allende.
Salvador, ti ho accompagnato nel tuo giro in tutti gli angoli del Norte Chico. Insieme abbiamo mangiato il miglior pane impastato dalle contadine di Paihuano. Poi siamo stati insieme a Monte Grande. Lì le valli dell'Elqui s'incontrano. Sopra è pietra irta, pareti di roccia e di spine. Sotto cantano le acque e cominciano a muoversi i germogli.
Ma più imponente della natura, più promettente delle valli verdi, silenziosa e ardente, è la nostra gente, i nostri cileni e cilene, i nostri abbandonati contadini e minatori del Norte Chico. Mai potrai dimenticare, Salvador, né io potrò dimenticare quelli che scendevano dai monti con una bandierina a salutarti, le migliala di donne che riempivano la piazza di Vicuña quella notte, attorniate dai loro bambini scalzi. Erano venute da tutti gli angoli, e stavano lì, sicure, ferme, protagoniste dell'abbandono e della speranza del popolo. Erano solenni come statue che rappresentassero lì, sotto gli alberi della piazza di Vicuña, la forza e ad un tempo la tenerezza del Cile.
Ci chiedemmo quella notte, guardando quelle ragazzine scalze nella loro terra natale, quante Gabriela, quante, andranno scalze per questa o quella città, paesi, montagne e porti della patria?
Noi artisti e scrittori abbiamo molto da chiedere, molto da dire, molto su cui lavorare col nuovo Presidente del Cile. Non vogliamo lasciarlo solo, né che ci lasci soli. Ma ci sono problemi vitali per noi, problemi della coscienza ferita. Sono problemi del nostro paese
preso nel suo insieme e, pertanto, vengono prima dei nostri problemi professionali.
Primo: non più analfabeti! Non vogliamo continuare ad essere scrittori di un popolo che non sa leggere. Non vogliamo sentire la vergogna, l'ignominia di un passato statico e lebbroso. Vogliamo più scuole, più maestri, più giornali, più libri, più riviste, più cultura.
Questo regime di signori circondati da servitori e letterati e di straccioni non può continuare. È già in crisi, è già finito nel mondo. Comprendiamo che ci sono dei partiti che vorrebbero conservarlo e per questo si chiamano, cinicamente, conservatori, o, per ingannare, liberali. Ma per noi va bene una battaglia a morte col passato, non col passato illustre di cui siamo i continuatori, no, continueremo il meglio del passato, ma uccideremo il verme del passato, e questo verme si chiama ignoranza, arretratezza, abbandono.
Noi crediamo, e nel dire noi intendo tutte le forze che nutrono questa speranza, crediamo, con appassionata credenza, nelle possibilità creatrici del popolo cileno. Crediamo nell'intelligenza del popolo, nella sua destrezza, nella sua rettitudine, nel suo coraggio. Il popolo del Cile rappresenta un terreno inesauribile, e noi abbiamo il compito di affrettarne la sua fecondità e fioritura.

Futuro Presidente del Cile:

Spero che chiamerai molte volte gli scrittori e gli artisti, e che quando sarai al Governo ci parlerai e ci ascolterai. Troverai sempre in noi la massima fedeltà al destino della nostra patria e anche il massimo disinteresse.
Abbiamo solo un interesse che tu condividi: restituire dignità al nostro popolo. In questo senso vogliamo dirti che questa lotta, di cui oggi sei a capo, è la più antica del Cile: è il glorioso combattimento dell'Araucania contro i suoi invasori, è il pensiero che fece
sorgere le bandiere, i battaglioni e i proclami dell'Indipendenza, lo stesso contenuto di avanzata popolare che ebbe il movimento di Francisco Bilbao. È già molto vicino a noi, Recabarren non solo diede il suo contributo di maggiore dirigente proletario delle Americhe, ma anche quello di scrittore di drammi e di opuscoli popolari.
Il pensiero del Cile e stato presentato drammaticamente a tutte le ansie, a tutte le tragedie e le vittorie del nostro popolo.
Ti siamo accanto in questa occasione e ti proclamiamo candidato alla Presidenza della Repubblica del Cile perché crediamo con fermezza e allegria che non abbandonerai questa strada.
Nella vittoria ti sono vicini tutti quelli che sono caduti, infiniti sacrifici e sangue versato, agonie e dolori che non sono riusciti a fermare la nostra lotta. Ti è vicino anche il presente, una coscienza più vasta e più sicura della verità e della storia.
E, infine, ti sono vicine anche le immense vittorie ottenute e la liberazione indifferibile di tutti i popoli.

(Scritto durante la campagna elettorale di Salvador Allende).




Quaderno 7
Pablo Neruda parla


IL POETA NON È UNA PIETRA PERDUTA

II Rettore ha avuto parole magnifiche. Di esse voglio sottolineare quelle che nel suo discorso si riferiscono al poeta e al suo popolo.
Io sono, ancora una volta, quel poeta.
Dico ancora una volta, perché è stato dovere di tutti, nel corso della storia, realizzare questo rapporto. Realizzarlo con devozione, con sofferenza e con allegria.
La prima età di un poeta deve raccogliere con attenzione appassionata le essenze della sua patria, e poi deve restituirle. Deve reintegrarle, deve donarle. Il suo canto e la sua azione devono contribuire alla maturità e alla crescita del suo popolo.
Il poeta non può essere sradicato, se non con la forza. Anche in quelle circostanze le sue radici devono attraversare il fondo del mare, i suoi semi seguire il volo del vento, per incarnarsi, ancora una volta, nella sua terra. Dev'essere deliberatamente nazionale, riflessivamente nazionale, maturamente patrio.
Il poeta non è una pietra perduta. Ha due, obblighi sacri : partire e ritornare.
Il poeta che parte e non ritorna è un cosmopolita. Un cosmopolita è a malapena un uomo, è appena un riflesso della luce moribonda. Soprattutto in queste patrie solitarie, isolate fra le rughe del pianeta, testimoni integrali dei primi segni del nostro popolo, tutti, tutti, dai più umili ai più orgogliosi, abbiamo la fortuna di andar creando la nostra patria, di essere tutti un po' padri di essa.
Io sono andato raccogliendo questi libri della cultura universale, queste conchiglie di tutti gli oceani, e questa spuma dei sette mari la consegno all'Università per dovere di coscienza e per pagare, in minima parte, quanto ho ricevuto dal mio popolo. Questa Università non è nata per decreto, ma dalle lotte degli uomini, e la sua tradizione progressista, oggi rinnovata dal Rettore Gomez Millas, viene dalle scosse della nostra storia ed è la stella della nostra bandiera. Non si fermerà per strada. Un giorno sarà l'Università futura più ampia e popolare, coerente con le trasformazioni profonde che aspettiamo. Questi libri li ho raccolti un po' dovunque. Hanno viaggiato quanto me, ma molti hanno quattro o cinque secoli in più dei miei attuali cinquant'anni. Alcuni mi sono stati regalati in Cina, altri li ho comperati in Messico. A Parigi ne ho trovati centinaia. Dall'Unione Sovietica ne ho portati alcuni dei più preziosi. Fanno tutti parte della mia vita, della mia geografia personale. Ho avuto tanta pazienza a cercarli, piaceri indescrivibili a scoprirli e mi sono serviti con la loro saggezza e la loro bellezza. D'ora in poi serviranno più estesamente, continuando la generosa vita dei libri.
Quando qualcuno nel corso del tempo scorrerà questi titoli non saprà cosa pensare di chi li ha riuniti, né si spiegherà perché molti di essi sono stati messi assieme.
Ecco qui un piccolo almanacco Gotha dell'anno 1838. Questi almanacchi Gotha recavano aggiornati i titoli delle aristocrazie caduche, i nomi delle famiglie regnanti. Erano il catalogo della fiera delle vanità.
Lo tengo perché c'è una riga perduta nella sua minuscola ortografia che dice quanto segue :
« II giorno 12 febbraio 1837, muore in seguito a un dolore il poeta russo Aleksandr Puskin ».
Questa riga per me è come una pugnalata. La poesia universale sanguina ancora per questa ferita.
Ecco il Romancero Gitano con la dedica di un altro poeta assassinato. Federico scrisse davanti a me questa magnifica dedica e Paul Éluard, anche lui scomparso, mi lasciò la sua firma sulla prima pagina del suo libro.
Mi sembravano eterni. Mi sembrano eterni. Ma se ne sono già andati.
Una sera a Parigi i miei amici mi festeggiavano. Arrivò il grande poeta francese alla festa portandomi un pugno di tesori. Era un'edizione clandestina di Victor Hugo, perseguitato a suo tempo da un piccolo tiranno. Mi portò anche un'altra cosa, forse la cosa più preziosa che io abbia. Sono le due lettere in cui Isabelle Rimbaud, dall'ospedale di Marsiglia, racconta a sua madre l'agonia del fratello.
Sono la testimonianza più straziante che si conosca. Paul nel regalarmi queste lettere mi diceva : « Guarda come si interrompe alla fine, arriva a dire : "Quello che
Arthur vuole"... e il frammento seguente non è mai stato trovato. Questo era Rimbaud. Nessuno saprà mai cosa voleva ».
Ecco le due lettere.
Ecco anche il mio primo Garcilaso che comperai per cinque pesetas con un'emozione che ancora ricordo. È dell'anno 1549. Ecco la magnifica edizione di Góngora
dell'editore fiammingo Foppens, stampata nel XVII secolo quando i libri dei poeti avevano una maestà senza pari. Anche se costava solo cento pesetas nella Libreria di García Rico, a Madrid, io ottenni di pagarlo a rate. Pagavo dieci pesetas al mese. Ricordo ancora la faccia meravigliata di Garcia Rico, quel prodigioso libraio che sembrava un contadino di Castiglia, quando gli chiesi di vendermelo a rate.
Ci sono anche, nelle loro edizioni originali, due dei miei poeti preferiti del Siglo de Oro. Sono El detengaño de amar en rimas di Pedro Soto de Rojas e le poesie notturne di Francisco de Latorre:

...Chiari lumi del cielo, e occhi chiari
dello spaventoso volto della notte,
corona chiara e chiara Cassiopea,
Andromeda e Perseo...

Tanti libri! Tante cose! Il tempo qui continuerà ad esser vivo.
Ricordo quando, a Parigi, vivevo vicino alla Senna con Rafael Alberti. Io e Rafael sostenevamo che la nostra è l'epoca del realismo, l'epoca dei poeti grassi.
«Basta coi poeti magri!», mi diceva Rafael, con la sua allegra voce di Cadice. «Sono stati già abbastanza magri quelli del Romanticismo».
Volevamo essere grassi come Balzac e non magri come Bécquer. A pianterreno della nostra casa c'era una libreria e lì, accanto alla vetrina, c'erano tutte le opere di Victor Hugo. Uscendo ci fermavamo davanti e ci misuravamo:
« Quanto sei largo? ».
« Fino ai Lavoratori del mare. E tu? ».
« Io solo fino a Notre Dame de Paris ».
Forse vi domanderete anche perché ci sono tanti libri sugli animali e sulle piante. La risposta sta nella mia poesia.
Ma, poi, questi libri zoologici e botanici mi hanno sempre appassionato. Continuavano la mia infanzia. Mi portavano il mondo infinito, il labirinto inesauribile della morte. Questi libri di esplorazione terrestre sono stati i miei favoriti e rare volte mi addormento senza guardare le immagini di uccelli adorabili o di insetti luccicanti e complicati come orologi.
Infine, è poco quello che do, quello che rendo, quello che metto nelle mani del Rettore e attraverso di lui nel patrimonio della patria. Sono, in ultima analisi, frammenti intimi e universali della conoscenza acchiappati nel viaggio per il mondo. Eccoli qua. Non appartengo a quelle famiglie che predicano l'orgoglio di casta per quattro quarti e poi vendono all'asta il loro passato.
Lo splendore di questi libri, la flora oceanica di queste conchiglie, quanto ho raccolto nel corso della vita, malgrado la povertà e nell'esercizio costante del lavoro,
lo consegno all'Università, cioè, lo do a tutti.
Ancora una parola.
La mia generazione è stata antilibresca e antiletteraria per reazione alla squisitezza decadente del momento. Eravamo nemici giurati del vampirismo, della notturnità, dell'alcaloide spirituale. Siamo stati figli naturali della vita.
Tuttavia, l'unità della conoscenza continua la natura, l'intelligenza rivela i rapporti più remoti e più semplici fra le cose, e allora unità e rapporto, natura e uomo si traducono in libri.
Io non sono un pensatore, e questi libri messi insieme sono più reverenti che indagatori. Ecco qui riunita la bellezza che mi ha illuminato e il lavoro sotterraneo della coscienza che mi ha condotto alla ragione, ma ho anche amato questi libri come oggetti preziosi, spuma sacra del tempo lungo il suo corso, frutti essenziali dell'uomo. Appartengono d'ora in poi a innumerevoli occhi nuovi.
Così si adempie il loro destino di dare e ricevere la luce.

(Letto all'inaugurazione della « Fondazione Pablo Neruda, per lo studio della poesia », il 20 giugno 1954).


È VALSA LA PENA DI ESSER VISSUTO
SE L'AMORE MI ACCOMPAGNA

Andando molti anni fa per il lago Ranco verso l'interno mi è parso di trovare la fonte della patria o la culla silvestre della poesia, attaccata e difesa da tutta la natura.
Il cielo si stagliava fra le superbe cime dei cipressi, l'aria asportava le sostanze balsamiche dal folto degli alberi, tutto aveva voce ed era silenzio, il sussurrio degli uccelli nascosti, i frutti e i tronchi che cadendo sfioravano il fogliame, tutto era fisso in un istante di solennità segreta, tutto nella foresta sembrava aspettare. Era imminente una nascita e quello che nasceva era un fiume. Non so come si chiama, ma le sue primea acque, vergini e oscure, erano quasi invisibili, deboli e silenziose, mentre cercavano un'uscita fra i grandi
tronchi morti e le pietre colossali.
Mille anni di foglie cadute sulla sua sorgente, tutto il passato voleva trattenerlo, ma non faceva che rendere profumato il suo percorso. Il giovane fiume distruggeva le vecchie foglie morte e si impregnava di freschezza nutriente che avrebbe distribuito poi lungo il suo corso.
Pensai: ecco come nasce la poesia. Viene da alture invisibili, è segreta e oscura nelle sue origini, solitaria e fragrante, e, come il fiume, dissolverà tutto ciò che cade nella sua corrente, cercando di aprirsi un varco fra i monti e scuoterà il suo canto cristallino nelle praterie.
Irrigherà i campi, darà pane all'affamato. Camminerà fra le spighe. Alla sua acqua sazieranno la loro sete i viandanti e canterà quando lottano o riposano gli uomini.
E li unirà allora e fra di loro passerà fondando popoli. Taglierà le valli portando alle radici la moltiplicazione della vita.
Canto e fecondazione è la poesia.
Ha lasciato le sue viscere segrete e corre fecondando e cantando. Accende l'energia col suo movimento accresciuto, lavora facendo farina, conciando il cuoio,
tagliando il legno, dando luce alle città. È utile e si alza al mattino con le bandiere alle sue sponde. Le feste si celebrano vicino all'acqua che canta.
Mi ricordo di un giorno in cui sono andato a visitare una fabbrica a Firenze. Lì lessi le mie poesie agli operai riuniti in assemblea, le lessi con tutto il pudore che un uomo del giovane continente può sentire parlando vicino all'ombra sacra che lì sopravvive. Gli operai della fabbrica mi consegnarono poi un dono. Lo conservo ancora. È un'edizione di Petrarca dell'anno 1484.
La poesia era passata con le sue acque, aveva cantato in quella fabbrica e aveva vissuto con quei lavoratori per secoli. Quel Petrarca che avevo sempre visto imbaccuccato sotto un cappuccio di frate, era uno di quei semplici italiani e quel libro, che presi nelle mie mani con adorazione, ebbe un nuovo prestigio per me, era soltanto un attrezzo divino nelle mani dell'uomo.
Io penso che se molti dei miei compatrioti e alcuni uomini e donne illustri di altre nazioni sono intervenuti a queste celebrazioni, lo han fatto per celebrare nella mia persona la responsabilità dei poeti e la crescita universale della poesia.
Se questo ci ha fatti incontrare qui sono contento. Penso con gioia che quanto ho vissuto e scritto è servito per avvicinarci. È il primo dovere dell'umanista e il compito fondamentale dell'intelligenza quello di assicurare la conoscenza e l'intendimento fra tutti gli uomini. È valsa la pena aver lottato e cantato, è valsa la pena essere vissuto se l'amore mi accompagna.
So che qui, in questa patria isolata dall'immenso mare e dalle nevi immense non state festeggiando me, ma una vittoria dell'uomo. Perché se queste montagne, le più alte, se queste onde del Pacifico, le più ostinate, avessero voluto impedire che la mia patria parlasse nel mondo, si sarebbero opposte alla lotta dei popoli e alla unità universale della cultura, sono state vinte queste montagne e vinto questo grande oceano.
In questo remoto paese, il mio popolo e il mio canto hanno lottato per la comunicazione e per l'amicizia.
E questa Università che ci accoglie assolvendo ai suoi compiti intellettuali celebra una vittoria della comunità umana e riafferma l'onore della stella del Cile.
Sotto la nostra stella antartica visse Rubén Darío. Veniva dal meraviglioso tropico della nostra America. Forse giunse in un inverno bianco e celeste come quello di oggi, a Valparaíso, a fondare di nuovo la poesia di lingua spagnola.
In questo giorno il mio pensiero e la mia riverenza vanno alla sua stellata grandezza, al sortilegio cristallino che continua ad illuminarci.
Ieri sera, fra i primi regali. Laura Rodig mi ha portato un tesoro che ho scartato con la più intensa emozione. Sono le prime stesure scritte a matita e piene di correzioni dei Sonetos de la muerte, di Gabriela Mistral. Sono stati scritti nel 1914. Il manoscritto reca ancora le caratteristiche della sua poderosa calligrafia.
Penso che questi sonetti abbiano raggiunto un'altezza di nevi eterne e una trepidazione sotterranea quevedesca.
Io ricordo Gabriela Mistral e Rubén Darío come poeti cileni e nel compiere cinquant'anni da poeta, voglio riconoscere in loro l'età eterna della vera poesia.
Sono loro debitore, come di tutti coloro che hanno scritto prima di me, in tutte le lingue. Enumerarli sarebbe troppo lungo, la loro costellazione abbraccia tutto il cielo.

(Discorso pronunciato all'Università del Cile, nel 50° compleanno del poeta).


SALUTE E CHE COMINCI IL BALLO

Cari giovani di tutti i paesi:
Permettetemi di presentarvi i giochi, i balli, le canzoni tristi e allegre, la picardia e l'essenza dei popoli americani.

Gli aztechi ci han lasciato il loro seme, i loro canti del raccolto, i loro inni di guerra, i loro riti di pace. I Maya stabilirono il loro fuoco fiorito nella delicata cintura dell'America Centrale.
Gli araucani ballarono sotto i loro alberi tutelari.
Gli spagnoli lasciarono un nastro di sospiri, l'aria allegra delle zone di montagna e il linguaggio nel quale per secoli si sono succedute lotte, illusioni, oscuri drammi del popolo, storie incredibili.
In Brasile tremarono i fiumi più possenti della terra, contando e cantando storie. Gli uomini e le donne si sussurrarono dolci parole e ballarono sotto le palme. Dal Portogallo arrivarono i suoni più dolci, e la voce del Brasile assorbì le sue profondità selvatiche e le zagare marine.
Queste sono le canzoni e i balli dell'America.
In questo continente, il sangue e l'ombra hanno sommerso molte volte la speranza, i popoli sembravano essersi dissanguati, un'ondata di terrore annientò i cuori: eppure cantiamo.
Lincoln fu assassinato, sembrò che morisse anche la liberazione, tuttavia, lungo le rive del Mississippi cantarono i neri. Era un canto di dolore che non si spegne ancora, era un canto profondo, un canto con le radici.
Nel Sud, nelle grandi pampas, soltanto la luna illuminò la solitudine delle praterie, la luna e le chitarre.
Nell'alto Perù cantarono gli indios come le sorgenti sulla cordigliera.
In tutto il continente l'uomo ha conservato le sue canzoni, ha protetto, con le sue braccia e la sua forza, la pace dei suoi piaceri, ha sviluppato la sua antica tradizione, lo splendore e la dolcezza delle sue feste, la testimonianza dei suoi dolori.
Vi presento il tesoro dei nostri popoli, la loro grazia, ciò che hanno conservato, abbandonati e martirizzati, attraverso avvenimenti terribili.
Che l'allegria, le canzoni e i balli delle terre americane brillino in questa festa della gioventù e della pace, assieme ad altre allegrie, altre canzoni e altre danze.
Dal più lontano dei paesi d'America, dal Cile, separato dal mondo dalla cordigliera andina e unito a tutti i popoli dal suo oceano e dalla sua storia di lotte, io saluto i giovani del festival e dico loro:
Più alte delle nostre montagne sono state le nostre canzoni, ammesso che qui si possano ascoltare, più insistenti delle onde dell'oceano sono state le nostre danze, ammesso che qui mostreranno la loro allegria. Difendiamo tutta questa forza delicata, difendiamo uniti l'amore e la pace che le ha conservate. Questo è il compito di tutti gli uomini, il tesoro centrale dei popoli e la luce di questo festival.
Salute e che cominci il ballo.

(Messaggio inviato ad un festival della gioventù a Varsavia, il 22 luglio del 1955).


OSPITE DI CARACAS

Non ho mai pensato che un onore così grande dovesse toccare alla mia poesia, all'azione errante dei miei canti. Mi lusinga ricevere questa distinzione nel momento in cui vengono concessi i premi della cultura venezuelana. Quest'onore viene ad essere esaltato dalle parole del chiarissimo poeta Juan Liscano. Non solleverò proteste per il suo fraterno ditirambo. Lo conserverò per esaminarmi davanti a quello specchio e per continuare ad essere fedele alla dignità della poesia e alle inseparabili lotte del popolo.
Stamattina sono sceso da monte Avila. Lassù Caracas ha la sua corona verde, i suoi smeraldi bagnati, ma la città era scappata via. Il suo posto era stato occupato da una congiura di farina, di vapore, di fazzoletti celesti, e bisognava cercare la città smarrita, entrare in essa dal cielo e trovarla alla fine nella nebbia legata alle sue cordigliere, eretta, intricata, tentacolare e sonora, come un alveare traboccante eretto per volontà dell'uomo. I fondatori scelsero con occhi d'aquila questa valle rugosa per stabilirvi la primavera di Caracas. E poi, il tempo fece ugualmente la bellezza di case circondate da inferriate che proteggono il silenzio, e edifici di pura geometria e luce, dove prende posto il futuro. Come americano essenziale, saluto in primo luogo la città abbagliante, e inoltre le sue colline popolari, le sue strade colorite come bandiere, i suoi viali aperti a tutte le vie del mondo. Ma saluto anche la sua storia, senza dimenticare che da questa città matrice sgorgò come un ramo torrenziale di acque eroiche il fiume dell'indipendenza americana.
Salve, città di lignaggio così resistente che sopravvive fino ad ora, di eredità così possenti che continuano ancora a germogliare, città di liberazioni e di intelligenza, città di Bolivar e di Bello, città di martiri e di nascite, città che il 23 gennaio appena sgranato nel grano del tempo hai dato uno splendore di aurora al Caribe e a tutta la nostra America amata e dolorosa!
Ma tutta questa bellezza e la storia stessa, l'alloro e gli archivi, le finestre e i bambini, gli edifici azzurri, il sorriso color ciliegia della bella città, tutto questo può sparire. Un pugno di essenza infernale, di energia scatenata può ridurre in cenere e sterminare le costruzioni e le vite, un solo pugno di atomi può metter fine a Caracas e a Buenos Aires, a Lima e a Santiago, alla possente New York e all'argentea Leningrado.
Mentre scendevo dalle cime e contemplavo la palpitante bellezza della città che ora mi conferisce l'onore di essere suo amico, ho pensato alla distruzione che ci minaccia. Che minaccia tutto quanto è stato creato dall'uomo e perseguita con uno stigma maledetto i suoi discendenti, perciò ho pensato che come i cabildos (1) americani sono stati la culla della nostra libertà, essi possono nel presente e nel futuro elevare l'ammonimento contro la morte nucleare, e così proteggere, non solo la nostra città, ma tutte le città, non solo la nostra vita, ma l'esistenza dell'uomo sulla terra.
Ancora una volta rendo grazie alla fraternità con cui mi accoglie il Consiglio Municipale della città di Caracas. Grazie, perché così mi sento autorizzato a continuare sulla mia strada difendendo l'amore, la chiarezza, la giustizia, l'allegria e la pace, vale a dire, la poesia.

(1) Primi municìpi indipendenti con partecipazione popolare [N.d.T.].

(Discorso pronunciato nel Consiglio Municipale di Caracas, il 4 febbraio del 1959).


LAVANDAIA NOTTURNA

Forse sto avverando il sogno di tutti i poeti di tutti i tempi. Loro hanno voluto unirsi e riunirsi, abbracciare e rivolgersi a più donne che uomini.
Questo han cercato di fare i poeti greci, italiani, tedeschi, norvegesi e persiani, spagnoli e francesi. E la vita ha disposto che io, umile poeta del primo angolo del mondo, mi riunisca in un solo giorno, in una sola ora, con un numero di donne superiore a quelle che hanno sognato tutti quei poeti messi assieme.
Morite pure d'invidia, compagni!
Soprattutto perché si tratta di donne cilene, di intelligenti, graziose, sofferte, coraggiose e belle compatriote. E se mi hanno fatto l'onore di venire ad ascoltare i miei versi e le mie parole, mi dichiaro favorito dalla sorte, ma non indegno di essa.
Accetto l'onore di essere profeta nella mia terra, anche se ho voluto che il mio destino fosse di essere poeta della mia terra e del mio popolo.
Però io, sinceramente, non sono capace di fare questo miracolo: lo fa la storia, il cambio delle epoche, l'incessante progresso dell'umanità. Questo appuntamento di un poeta con le donne del Cile non ha potuto aver luogo prima. È un segno dei tempi.
Fin dalle età più antiche, le donne hanno ascoltato i segreti degli uomini: dei guerrieri, dei governanti, degli insorti, dei grandi e tormentati artisti, dei conquistatori e dei conquistati, degli eroi e dei criminali. Le preghiere dei sacerdoti hanno assunto la forma di una donna per arrivare al cielo. I musicisti, gli scultori, i pittori e gli scrittori crearono l'incomparabile bellezza, la sublime maternità, l'amore, il dolore o l'eroismo della compagna amata. Però, nel corso di tanti secoli di elogi, la donna è rimasta in un'età oscura, sfruttata, martirizzata e dimenticata da una società aspra e brutale, che è arrivata a discutere in un Concilio se la donna aveva un'anima o meno.
La verità è che l'anima della donna già illuminava il mondo.
Era un'epoca tragica di sangue e di violenza, di incenso nelle basiliche, di guerre in cui gli uomini combattevano come larve. La conquista, l'invasione, l'incendio riempirono di sé il Medioevo. I romanzi della cavalleria fecero della donna un mito dorato, una stella intoccabile che i cavalieri erranti dovevano conquistare con la spada e la poesia. La donna doveva apparire irraggiungibile, estranea alla realtà e alla verità.
Secoli durò questo rinvio e venne superato soltanto nella misura in cui la donna prese parte alle lotte dell'uomo, mettendosi alla sua altezza e superandolo in abnegazione, in coraggio e grandezza.
La storia ha dimostrato che la lotta è uguale per uomini e donne, per bianchi e neri, per credenti e non credenti. È una lotta universale per cambiare la condizione umana, affinchè la giustizia raggiunga allo stesso modo tutti gli sfruttati. Si tratta, quindi, di far si che la donna partecipi a questa lotta universale.
La madre è il primo passo nel futuro del figlio. Madre e luce sono, all'inizio, una sola entità. La vita del figlio la vita dell'uomo è solo la continuazione della luce.
Io ho avuto non solo madre, ma anche mamadre. (1) Ho raccontato altre volte come mia madre si spense poco dopo avermi dato la vita. Morì a Parral, di tubercolosi. Era maestra. Mio padre, ferroviere, si sposò in seguito. Così ho avuto madre e mamadre.

Ma il mondo in cui viviamo non richiede soltanto donne generose e spente, come quella che ho tirato fuori dal mio vecchio cuore perché fosse presente in questa sala.
L'importante è la donna che non ha avuto un nome, se non per pochi e quasi per nessun altro. È sconosciuta, ma si chiama «madre». Continua nel silenzio e si chiama «sposa», per poi chiamarsi «nonna», senza che la conoscessero né l'amassero, se non alcuni che ebbero quell'onore e quell'amore, quell'onore sconosciuto e quell'amore tante volte malpagato. Perché le donne conoscono l'ingratitudine, come il marinaio conosce il mare, come il contadino la terra. E come il mare e come la terra, l'ingratitudine è sempre inattesa: quando tutto era previsto c'è ancora un altro colpo, tempesta o terremoto.
Anni fa, quando vivevamo a Santiago, io e Matilde ci sedevamo di notte a guardare la città dall'alto. Sotto casa nostra, in una strada vicina che si vedeva perpendicolarmente dall'alto, sempre, come in un rito, apparivano due candele e una lavandaia con la sua cesta. Puntualmente, dalle nove fino a notte inoltrata, quella donna sfregava e sfregava la roba della cesta. Non siamo mai riusciti a scorgere il suo volto. Era un profilo incurvato sotto la notte, sotto il peso della notte, fra le due luci minime e tremanti delle candele. Se fossi stato di quegli antichi poeti che amavano la bellezza per la bellezza e l'arte per l'arte, avrei celebrato quella lavandaia rituale, che come una sacerdotessa operava nel suo tabernacolo con spuma, zendali e veli religiosi.
Ma io, poeta di quest'epoca, vidi in quella lavandaia non un rito, ma una dolorosa realtà e la vita di milioni di donne di quest'America immensa e abbandonata. Quelle candele, a quell'ora, d'inverno o d'estate, forse stavano illuminando anche il duro lavoro di una madre dell'Ecuador, della Bolivia, del Venezuela. Dall'Orinoco alla Patagonia, dai vulcani di lusso che ci ha dato la natura, fino ai giganteschi cactus spinosi della meseta
messicana, quella lavandaia, quella donna notturna che lavava la roba, mentre i suoi figli dormivano, è stata per me l'eroina oscura dei nostri popoli. Non l'ho mai vista, e forse lei non ha mai saputo che io la guardavo dall'oscurità della mia casa. A lei ho dedicato questi
versi:

ODE A UNA LAVANDAIA NOTTURNA

Dal giardino, in alto,
guardai la lavandaia.
Era di notte.
Lavava, sfregava,
scuoteva,
un secondo le sue mani
brillavano nella schiuma,
poi
cadevano nell'ombra.
Dall'alto
al lume della candela
era nella notte l’unica
vivente,
l'unica cosa che viveva:
quello
che si scuoteva
nella schiuma,
le braccia nella roba,
il movimento,
che cadeva e si levava
con precisione celeste,
vanno e vengono
le mani sommerse,
le mani, vecchie mani
che lavano nella notte,
fino a tardi, nella notte,
che lavano
roba altrui,
che tiran via nell'acqua
le tracce
del lavoro,
la macchia
dei corpi,
il ricordo impregnato
dei piedi che camminarono,
le camicie
stanche,
le mutande
sciupate,
lava
e lava,
di notte.

La notturna
lavandaia
a volte
sollevava
la testa
e ardevano sui suoi capelli
le stelle
perché
l'ombra
confondeva
la sua testa
ed era la notte, il cielo
della notte
la capigliatura
della lavandaia,
e la sua candela
un astro
minuto
che accendeva
le sue mani
che alzavano
e muovevano
la roba
salendo
e
scendendo,
inalberando
l'aria, l'acqua,
il sapone vivo,
la magnetica schiuma.

Io non sentivo,
non sentivo
il sussurro
della roba nelle sue mani.
I miei occhi
nella notte
la guardavano
sola
come un pianeta.
Ardeva
la notturna
lavandaia
lavando,
strofinando
la roba,
lavorando,
al freddo,
sul duro,
lavorando nel silenzio notturno dell'inverno,
lava e lava
la povera
lavandaia.

(1) Alla lettera: « matrigna ». Preferiamo mantenere, con l'originale, la dolcezza del suono [N.d.T.].

(Discorso pronunciato ad un congresso di donne nel teatro Caupolicán, di Santiago del Cile).


LA POESIA È UN'INSURREZIONE

Non ho mai saputo, signor Rettore, ringraziare con eloquenza. La cosa più ampia del mondo, la conoscenza, il riconoscimento, l'allegria che ci lascia un regalo, come una soavissima cometa, tutto questo e molto di più stanno nell'estensione di una parola. Quando si dice grazie, si dicono molte altre cose, che vengono da molto lontano e da molto vicino, da tanto lontano come l'origine dell'individuo umano, da tanto vicino come il
battito segreto del cuore.
Così, quindi, con questo grazie voglio esprimere e abbracciare movimento, circostanze, strade indefinibili, forse l'inevitabile che ritorna senza sosta nella mia vita e nella mia poesia fino a queste frontiere del sud piovoso, a questi grandi fiumi natii, al generoso silenzio di queste terre e di questi uomini.
Se ho appreso una poetica, se ho studiato una retorica, i miei testi sono stati le solitudini montuose, l'acre aroma delle stoppie, la pullulante vita degli scarabei dorati sotto i tronchi abbattuti della foresta, il folto degli alberi da dove pende la capsula di giada dei
frutti del copihue, il colpo di lancia nei raulì, (1) lo stillicidio di gocce che caddero sulla mia povera infanzia, l'amore pieno di luna, le lacrime e i gelsomini dell'adolescenza stellata.
Ma la vita e i libri, i viaggi e la guerra, la bontà e la crudeltà, l'amicizia e la minaccia, fecero cambiare cento volte il vestito della mia poesia. Mi è toccato vivere in tutte le distanze e in tutti i climi, mi è toccato soffrire e amare come un uomo qualsiasi del nostro
tempo, amare e difendere cause profonde, soffrire i dolori miei e per la condizione umiliata dei popoli.
Forse, i doveri del poeta sono stati sempre gli stessi nella storia. L'onore della poesia è stato uscire in strada, prender parte a questa e a quella lotta. Il poeta non si spaventò quando lo chiamarono ribelle. La poesia è un'insurrezione. Il poeta non si offende perché lo chiamano sovversivo. La vita supera le strutture e ci sono nuovi codici per l'anima. I semi schizzano da ogni parte, tutte le idee sono esotiche, aspettiamo ogni giorno immensi cambiamenti, viviamo con entusiasmo il mutamento dell'ordine umano: la primavera è insurrezionale.
Noi poeti odiamo l'odio e facciamo guerra alla guerra.
Solo qualche settimana fa iniziai il mio recital nel
cuore di New York con alcuni versi di Walt Whitman.
Proprio quella mattina avevo comperato, ancora una
volta, una copia delle sue Foglie d'erba. Quando l'aprii
nella mia stanza d'albergo, nella Quinta Strada, la pri-
ma cosa che ho letto sono state queste righe alle quali
prima non avevo mai fatto attenzione:

Away with themes of war!
(Away with war itself!)
Hence from my shuddering
sight to never more return
that show blacken'd mutilateci corpses!
That hell unpent and rair
of blood, fit for wild
tigers or for lop-tongued
wolves, not reasoning men.

Via i temi della guerra,
via la guerra stessa,
da qui vedo la mia vista che trema.
Non guardiamo più
questi neri corpi mutilati.
L'inferno e il re del sangue,
fatto per tigri assetate di sangue,
o per lupi dalla lingua lunga,
non per uomini che ragionano.

...Questi versi suscitarono un'immediata risposta. Il pubblico che affollava le sale scattò in piedi in un applauso fragoroso. Senza saperlo, con le parole del bardo Walt Whitman, avevo toccato il cuore angosciato del popolo nordamericano. La distruzione dei villaggi indifesi, il napalm che bruciava le genti vietnamite, tutto ciò per la virtù di un poeta vissuto cent'anni fa, un poeta che malediceva con la sua poesia l'ingiustizia, fu palpabile e visibile per quelli che mi ascoltavano. Speriamo che siano altrettanto duraturi i miei versi, la poesia che esiste e quella che aspettiamo.
Non ricordo qual era il titolo dei primi versi miei che pubblicò questa nobile rivista Atenea. Mentre ricordo perfettamente, nonostante gli anni, l'emozione di vedere le mie strofe nere occupare le pagine bianche di Atenea. Ricordo lo spessore e l'aroma della carta, e come me ne andai via con quel quaderno sotto il braccio per mostrarlo orgoglioso a tutti i miei amici. Mi sembrava che la fragranza dei boschi del sud che si sprigionava da quei fogli fosse la mia origine australe che mi riconosceva come figlio e mi dava, come oggi, la parola.
Signor Rettore: quell'orgoglioso adolescente mi sta ancora accanto, e la mia riconoscenza mi ha portato di nuovo a queste rive, dove il grande fiume sereno porta nel suo specchio che cammina l'immagine creatrice della storia e dell'intelligenza.
E per questi onori che l'Università mi concede, l'onore di nominarmi e l'onore di ricordarmi, signor Rettore, compagni, professori, e studenti, compagni poeti, compagno Bio-Bio, una sola parola, che per quanto ripetuta non è meno estesa, meno vera. Una sola parola consumata, ma lucente come una vecchia moneta: Grazie!

(1) Specie di faggio cileno [N.d.T.].

(Cerimonia di omaggio dell'Università di Concepción, svoltasi nel 1968; discorso di ringraziamento).


LATORRE, PRADO E LA MIA PROPRIA OMBRA

Poco abituato alle cerimonie accademiche ho voluto conoscere il tema del mio discorso e fra i suggerimenti dei miei amici sono spuntati due nomi di illustri scrittori, entrambi ex membri di questa Facoltà, entrambi definitivamente assenti dalle nostre umane preoccupazioni: Pedro Prado e Mariano Latorre.
Questi due uomini risvegliarono echi differenti e contrari nella mia memoria.
Non sono mai stato in rapporto con Mariano Latorre ed è a forza di ragionamento e di intendimento che ho apprezzato le sue qualità di grande scrittore, legato alla descrizione e alla costruzione della nostra patria. Un vero scrittore nazionale è un eroe purissimo che nessun popolo può prendersi il lusso di ignorare. Questi resta ai margini degli accidenti contemporanei, del tanto per cento che dev'essere pagato per il suo lavoro, del disinteresse affrettato e obbligatorio delle nuove generazioni, o della malevolenza, del personalismo o della superficialità della critica.
L'unica cosa che ho conosciuto bene di Latorre è stata la sua faccia secca e affilata e non credo di essere stato risparmiato dal suo instancabile pungiglione. Ma solo il contumace pieno di rancore prenderà sul serio la piccola cronaca, i dimmi che ti dirò, le chiacchiere dell'angolo della strada e dei caffè nel fare la somma delle azioni di un uomo grande. E uomo grande fu Latorre. C'era bisogno di un ampio petto per scriverci sopra
tutto il rumoroso nome e la diversità fragrante del nostro territorio.
La chiarezza di Mariano Latorre è stata un grande tentativo di riportarci all'antica essenza della nostra terra. Situato in un altro punto della prospettiva sociale e in un altro orientamento della parola e dell'anima, molto lontano io stesso dal metodo e all'espressione di Mariano Latorre, non posso fare a meno di riverire la sua opera che non ha misteri, ma che continuerà ad essere ombra cristallina del nostro natalizio, vimine patrizio della culla nazionale.
Una cosa diversa e molto più profonda è stato Pedro Prado per me. Prado è stato il primo cileno in cui ho visto il lavoro della conoscenza senza il pudore provinciale al quale ero abituato. Da un filo all'altro, da un'allusione a una presenza, persona, costumi, relazioni, paesaggi, riflessioni, tutto andava annodandosi nella conversazione di Prado in una relazione senza ambagi in cui la sensibilità e la profondità costruivano con misterioso incanto un magico castello, mai finito, sempre interminabile.
Io arrivavo dalla pioggia meridionale e dalla monosillabica relazione delle terre fredde. In questo tacito apprendistato a cui si era adattata la mia adolescenza, la conversazione di Prado, la gioiosa maturità della sua infinita comprensione della natura, la sua perenne divagazione fìlosofica, mi fecero capire le possibilità di associazione o società, la comunicazione dell'intelligenza.
Perché la mia timidezza australe era basata sul fatto che solitudine e espressione erano inseparabili. La mia gente, genitori, vicini, zii e compagni, si esprimevano appena. La mia poesia doveva rimanere segreta, separata in modo ferreo dalle proprie origini. Al di fuori della vita esigente e immediata di ogni giorno i giovani del sud non potevano fare allusione nella loro conversazione a nessuna possibile ombra, a nessun misterioso tremore, né aroma sconfitto. Tutto questo io lo lasciavo in un compartimento chiuso destinato alla mia trasmigrazione, vale a dire, alla mia poesia, sempre che io potessi sostenerla in quegli scompartimenti letali, senza comunicazione umana. Naturalmente in me e nel mio pessimo sviluppo verbale, non c'era soltanto colpa di clima o peso regionale, di distese spopolate, ma anche il peso demolitore delle differenze di classe. È possibile che in Prado si mescolasse il sortilegio di un attivo e originale meditatore alla naturalezza sociale della grande borghesia. Ciò che è sicuro è che Pedro Prado, capostipite di una straordinaria generazione, è stato, per me, molto più giovane di lui, una persona importantissima nel mettere in contatto la mia caparbia solitudine con l'inaudito godimento dell'intelligenza che la sua personalità esprimeva a qualsiasi ora e dovunque.
Tuttavia, non tutti gli aspetti della creazione di Prado né della sua polivalente personalità, erano di mio gradimento. Né i miei compagni letterari, né io stesso, abbiamo mai voluto svolgere il facile ruolo di sbudellatori letterari. Nella mia epoca prima l'iconoclasta era passato di moda. Non c'è dubbio che risusciterà molte volte. Il ruolo di strangolatore sarà sempre gradito all'avvolgente vanità collettiva degli scrittori. Ogni scrittore vorrebbe rimanere, unico rispettato sopravvissuto, al centro dell'assemblea della dea Kalì e dei suoi adepti strangolatori.
Gli scrittori della mia generazione avevano nei confronti dei maestri precedenti debiti contanti e sonanti, perché allora si praticava una generosità indivisibile. A registrarle nel mio libro dei conti non sono cifre dappoco quelle che metterò a credito di tre grandi della nostra letteratura. Pedro Prado scrisse prima di chiunque altro sul mio primo libro Crepuscolario una pacata pagina maestra, carica di senso e di presentimento come un'aurora marina. Il nostro maestro nazionale di critica, Alone, che è anche un maestro di contraddizioni, mi prestò quasi senza conoscermi del denaro per sottrarre quello stesso mio primo libro alle grinfie dello stampatore. Per quanto riguarda i miei Veinte poemas de amor, dirò ancora una volta che è stato Eduardo Barrios a consegnarlo e a raccomandarlo con tanto ardore a don Carlos George Nascimento che questi mi chiamò per proclamarmi poeta pubblicabile con queste sobrie parole: «Benissimo, pubblicheremo la sua operuccia».
La mia divergenza con Prado era basata quasi sempre su un'altra concezione della vita e su piani extraletterari che per me hanno avuto molta più importanza di questo o quel problema estetico. La maggior parte della gente della mia generazione situò i veri valori più in là o più in qua della letteratura, lasciando stare i libri al loro posto. Preferivamo le strade o la natura, i tuguri pieni di fumo, il porto di Valparaiso col suo fascino straziante, le turbolente assemblee sindacali della IWW. (1)
I difetti di Prado erano, secondo noi, quella mancanza di passione per la vita, un'elucubrazione interminabile attorno all'essenza della vita senza vedere né afferrare la vita immediata e palpitante.
La mia gioventù amò lo spreco e detestò l'austerità obbligatoria della povertà. Ma presentivamo in Prado una crisi fra questo equilibrio austero e l'allettante tentazione del mondo. Se qualcuno esercitò un sacerdozio di tipo elevato della vita spirituale questi fu, senza dubbio, Pedro Prado. E dato che non conosciamo abbastanza l'intimità della sua vita, e non vogliamo tanto meno toccare la sua segreta esistenza, non possiamo immaginarci i suoi tormenti segreti.
La sua insoddisfazione letteraria ebbe molta inquietudine passiva e si diresse quasi sempre verso un costante interrogativo metafisico. A quei tempi, influenzati da Apollinaire, e ancora dall'esempio precedente del poeta da salotto Stéphane Mallarmé, pubblicavamo i nostri libri senza maiuscole e senza punteggiatura. Perfino le nostre lettere le scrivevamo senza alcun segno d'interpunzione per superare la moda di Francia: ancora si può vedere il mio vecchio libro Tentativo del hombre infinita senza un punto né una virgola. Per di più, sono rimasto di stucco nel vedere che molti giovani poeti nel 1961 continuano a ripetere questa vecchia moda affrancesata. Per punire il mio passato cosmopolita, mi propongo di pubblicare un libro di poesia sopprimendo le parole e lasciando soltanto la punteggiatura.
Ad ogni modo, le nuove correnti letterarie passano senza scuotere la torre di Pedro Prado, torre degli anni venti, che aggiunge il suo valore a quello degli altri, perché ormai si sa che lui valeva per dieci. C'è una specie di freddezza interiore, di anacoretismo che non lo porta lontano, ma che lo impoverisce.
Ramón Gómez de la Sema, il Picasso della nostra prosa materna, mette sottosopra tutta la penisola iberica e assume l'aspetto di una specie di corrente amazzonica in cui città intere passano in direzione del mare, con scorie, mortori, preamboli, antiquati corsetti, barbe patrizie, atteggiamenti istantanei che il mago capta nel suo fulminante minuto.
Poi, dalla Francia, arriva il surrealismo. È vero che questo non ci da nessun poeta completo, ma ci rivela l'ululato di Lautréamont nelle strade ostili di Parigi. Il surrealismo è fecondo e degno delle più sollecite riverenze, in quanto con un valore catastrofico cambia posto alle statue, fa buchi nei brutti quadri e mette i baffi a Monna Lisa che, come tutti sanno, ne aveva bisogno.
Prado non si lascia sciogliere dal surrealismo. Lui continua a perforare il suo pozzo e le sue acque diventano sempre più scure. Nel fondo del pozzo non troverà il cielo, né le fulgide stelle, ma di nuovo la terra. Nel fondo di tutti i pozzi c'è la terra, come anche alla fine del viaggio dell'astronauta che deve far ritorno alla sua terra e alla sua casa per continuare ad essere uomo.
Gli ultimi capitoli del suo grande libro Un juez rural si sono già infilati in questo pozzo e sono offuscati non tanto dall'acqua che scorre, ma dalla terra notturna.
Pensando in modo più generalizzato, si vede che nella nostra poesia c'è una tendenza metafisica, non la nego né le do importanza. Non parto da un punto di vista critico estetico, ma piuttosto dal mio piano creativo e geografico.
Vediamo questa solitudine emisferica in molti altri dei nostri poeti. In Pedro Antonio González, in Mondaca, in Max Jara, in Jorge Hubner Bezanilla, in Gabriela Mistral.
Se si tratti o meno di una scappatoia dalla realtà, della ripetizione retrospettiva di temi già elaborati, o della dominante influenza della nostra geologia, della nostra configurazione vulcanica turbolenta e oceanica, sarà tutto analizzato e discusso, poiché i trattatisti aspettano tutti i poeti coi loro telescopi e le loro doppiette.
Ma non c'è dubbio che siamo dei protagonisti semisolitari, orientati o disorientati, di vasti terreni appena coltivati, di raggruppamenti semicoloniali, assordati dalla tremenda vitalità della nostra natura e dall'antico isolamento a cui ci condannano le metropoli di ieri
e di oggi.
Questo linguaggio e questa posizione sono espressi anche da coloro che esprimono i più alti valori della nostra terra, ad intermittenza regolare, con una specie di ira, di tristezza, o di furore senza scampo.
Se questa espressione non risolve la grandezza dei conflitti è perché non li affronta, e non lo fa perché li ignora. Da dove un'inquietudine piuttosto formale in Pedro Prado, incantevolmente efficace in Vicente Huidobro, aspro e cordiglieresco in Gabriella Mistral.
Da tutti questi difetti, con tutte queste contraddizioni, tentativi e oscurità, aggiungendo all'amalgama l'infinita e necessaria chiarezza, si forma una letteratura nazionale. A Mariano Latorre, maestro delle nostre lettere, spetta questo ingrato compito di crivellarci con i colpi della sua chiarezza.
In un paese in cui persistono tutti i tratti del colonialismo, in cui l'insieme della cultura respira e traspira attraverso pori europei sia nelle arti plastiche che nella letteratura, dev'essere così. Ogni tentativo di esaltazione nazionale è un processo di ribellione anticoloniale e deve dispiacere a quegli strati che tenacemente e inconsciamente preservano la dipendenza storica.
Il nostro primo romanziere criollo è stato un poeta: don Alonso Ercilla. Ercilla è un raffinato poeta d'amore, un rinascimentale legato con tutto il suo essere alla trepida spuma mediterranea dove è appena rinata Afrodite. Ma la sua testa, innamorata del grande tesoro risorto, della luce zenitale che è riuscita a risplendere vittoriosamente contro le tenebre e le pietre di Spagna, trova in Cile, non solo alimento per la sua ardente nobiltà, ma anche godimento per i suoi estatici occhi.
Nella Araucana non vediamo soltanto l'epico svolgimento di uomini allacciati in una lotta mortale, non solo il valore e l'agonia dei nostri padri abbracciati nel comune sterminio, ma anche la palpitante catalogazione forestale e naturale del nostro patrimonio. Uccelli e piante, acque e volatili, costumi e cerimonie, lingue e capigliature, frecce e fragranze, neve e maree che ci appartengono, tutto ciò ebbe nome, infine, in La Araucana e per grazia del verbo cominciò a vivere. E ciò che abbiamo rivissuto come un'eredità sonora era la nostra esistenza che dovevamo preservare e difendere.
Che abbiamo fatto?
Ci siamo persi nell'incursione universale, nei misteri di tutto il mondo, e quel getto compatto che ci aveva rivelato il giovane castigliano è andato scemando nella realtà e morendo nell'espressione. I boschi sono stati incendiati, gli uccelli hanno abbandonato le regioni originali del canto, la lingua è andata riempiendosi di suoni stranieri, i vestiti si nascosero negli armadi, il ballo fu sostituito.
All'improvviso, un pomeriggio d'estate sentii la necessità della conversazione di Prado. Sono stato sempre accattivato da quell'andare e venire delle sue ragioni, alle quali si attaccava a malapena un po' di pulviscolo di interesse personale. Era prodigioso il suo
scaffale di osservazioni dirette degli esseri e della natura. Forse questo è quello che si chiama la saggezza e Prado è quanto ci sia di più vicino a ciò che nella mia adolescenza ho potuto chiamare « un saggio ». Forse in questo c'è più superstizione che verità, dato che in seguito ho conosciuto più di un saggio, gente quasi sempre carica di specialità e di passione, tinti dalla ribellione, riscaldati nel forno dell'umana lotta. Ma quella sensazione di potere supremo dell'intelligenza avuta nella mia giovane età non me l'ha data nessuno in seguito. Neppure André Malraux, che percorse con me, in viaggi interminabili, le strade fra la Francia e la Spagna facendo crepitare gli elettrici doni del suo cartesianesimo estremista.
Un altro dei miei saggi amici è stato molto tempo dopo il grande Ilya Erenburg, anche lui abbagliante nella sua corrosiva conoscenza delle cause e degli esseri, ardente e inamovibile nella difesa della patria sovietica e della pace mondiale.
Un altro di questi grandi signori della conoscenza, la cui intima amicizia mi ha concesso la vita, è stato Aragon, francese. Anche qui lo stesso torrente discorsivo, l'analisi più minuziosa e furente, il volo della profonda cultura e dell'audace intelligenza: tradizione e rivoluzione. In un modo o nell'altro, ma sempre all'improvviso Aragon scoppia, e la sua esplosione mette allo scoperto la sua belligeranza spaziale. La collera repentina di Aragon lo trasforma in un polo magnetico carico della più pericolosa tempesta elettrica.
Così, dunque, fra i miei saggi amici questo Pedro Prado della mia gioventù è rimasto nel mio ricordo come l'immagine pacata di un grande specchio azzurro in cui si sarebbe riflesso, in modo esteso, un paesaggio essenziale fatto di riflessione e di luce, serena coppa sempre abbondante di ragionamento e di equilibrio.
Quel pomeriggio attraversai la via Matucana e presi lo sgangherato tram del polveroso suburbio in cui l'annosa casa avita dello scrittore era l'unica cosa decorosa. Tutto il resto era povertà. Nell'attraversare il parco e nel vedere la fontana centrale che accoglieva le foglie cadute, mi sentii avvolgere da quella atmosfera allegorica, da quella chiarezza abbandonata del maestro. Si aggiungeva, e mi impregnava, un aroma sulle cui origini Prado conservò per me un sorridente mistero, e che poi scoprii essere prodotto dall'erba chiamata « del varraco », pianta odorosa dei burroni cileni che avrebbe perso il suo profumo se l'avessimo chiamata « del verraco », e si sarebbe seccata immediatamente. Già confuso e divorato dall'atmosfera, bussai alla porta. La casa sembrava disabitata tanto era silenziosa.
La pesante porta si aprì. Non distinsi nessuno nella penembra dell'atrio, ma mi parve di udire un patente o peregrino rumore di catene trascinate. Allora, dall'ombra, apparve uno mascherato che levò verso la mia fronte un lungo dito minaccioso, con cui mi intimava di camminare verso la grande stanza o salotto dei Prado, che conoscevo già, ma che ora mi si presentava totalmente cambiato. Mentre camminavo, un essere molto più piccolo, con una tunica e una maschera che lo coprivano completamente e curvato dal peso di una pala piena di terra, mi seguiva, gettando terra sulle mie orme. In mezzo alla stanza mi fermai. Attraverso le finestre, la sera lasciava cadere lo strano crepuscolo di quel parco sperduto nella periferia fatiscente di Santiago.
Nella sala quasi vuota, potei distinguere, addossati ai muri, una dozzina e più di seggioloni o di seggi e su di loro, accovacciati, altrettanti enigmatici personaggi con turbanti e tuniche che mi guardavano senza dire una parola, da dietro le loro maschere immobili. I minuti passavano e quel silenzio fantastico mi fece pensare che stavo sognando o che mi ero sbagliato di casa o che tutto si sarebbe spiegato.
Cominciai a retrocedere, impaurito, ma alla fine scoprii un volto che conoscevo. Era quello del sempre irrequieto poeta Diego Dublé Urrutia, che senza maschera che lo nascondesse, mi guardava, con i lineamenti tesi in una smorfia che lui aiutava sollevando il naso con l'indice della mano destra.
Mi resi conto di essere arrivato nel bei mezzo di una di quelle cerimonie segrete che dovevano aver luogo sempre da qualche parte e dappertutto.
Era naturale che la magia esistesse e che adepti e sognatori si riunissero in fondo a parchi abbandonati per praticarla.
Mi ritirai impaurito. Gli astanti, sicuramente pieni di orgoglio per essere rimasti nelle loro singolari posizioni, mi lasciarono andare, mentre quel folletto rotondo, che in seguito conobbi come Acario Cotapos, mi seguì con la sua pala fino alla porta, coprendo di terra le
mie orme di fuggitivo.
Non potrei parlare di Prado senza ricordare quella impressionante cerimonia.
Per piacere e fortuna della sua creazione, l'amara lotta per il pane non fu conosciuta dall'illustre Pedro Prado, grazie alla sua condizione ereditaria, membro di
una classe esclusiva che fino ad allora, durante la vita del nostro compagno e maestro, non ebbe a soffrire sussulti. E la polverosa strada che conduceva all'antica casa di Pedro Prado avrebbe continuato ad esistere per molti anni senza superare il vallo di quell'elevato pensiero.
Ma forse a recondita e repressa soddisfazione del poeta, nei miei rari ritorni per quei luoghi fuori mano ho visto che erano scomparse le cancellate e che centinaia di bambini poveri delle strade vicine avevano fatto irruzione nelle stanze avite trasformate oggi in una scuola. Non si dimentichi che Pedro Prado, irremovibile tradizionalista, si era inchinato davanti alla tomba di Luis Emilio Recabarren lasciando come un'ulteriore corona del suo abbondante pensiero un deciso omaggio alle idee che lui ritenne, e definì con innocenza conserva-trice, come irraggiungibili utopie.
Una terza possibilità di questo discorso avrebbe potuto essere un esame autocritico di questi quarant'anni di vita letteraria, un incontro con la mia ombra. In effetti, questi li ho compiuti nella primavera appena trascorsa, assieme all'odore dei lillà, delle madreselva del 1921, e della tipografia Selecta, di via San Diego, il cui penetrante odore d'inchiostro mi impregnò quando entrai e uscii col mio primo piccolo libro, o libretto, la Canción de la fiesta, che lì venne stampato nell'ottobre di quell'anno.
Se cercassi di classificarmi nell'ambito della nostra fauna e flora letteraria o di altre faune e flore extraterritoriali, dovrei dichiarare in questa ispezione doganale e precisamente in questo Salone Centrale dell'educazione la mia indeclinabile deficienza dogmatica, la mia precaria condizione di maestro.
Nella letteratura e nelle arti si producono spesso i maestri. Alcuni che hanno molto da insegnare e alcuni che muoiono dalla voglia di ammaestrare, cioè, dalla voglia di dirigere. Credo di sapere, di quel poco che so di me stesso, che non appartengo né agli uni né agli altri, bensì semplicemente a quella gregaria moltitudine sempre assetata di coloro che vogliono sapere.
Non dico questo facendo appello ad un sentimento di umiltà che non posseggo, ma alle lente condizioni che hanno determinato la mia evoluzione in questi anni sui quali devo dare in questa occasione qualche testimonianza.
C'è forse qualcuno che dubita del fatto che il sentimento della supremazia e il prurito dell'originalità svolgono un ruolo decisivo nell'espressione?
Questi sentimenti che non esistettero nella laboriosa ascensione della cultura, quando le tribù sollevavano pietre sacre nella nostra America e in Occidente e in Oriente le guglie delle pagode e le frecce gotiche delle basiliche volevano raggiungere Dio senza che nessuno firmasse con nome e cognome, si sono esacerbati sempre di più ai nostri giorni.
Ho conosciuto non solo degli uomini ma anche delle nazioni che prima di elaborare il prodotto, prima che le uve maturassero, prima che i tini fossero pieni e quando le bottiglie vuote aspettavano, avevano già il nome, le conseguenze, e l'ubriachezza di quel vino invisibile.
Lo scrittore inascoltato e messo con le spalle al muro dalle condizioni mercantili di un'epoca crudele è spesso uscito in piazza a competere con la sua mercanzia, lasciando libere le sue colombe nel mezzo della vociferante riunione. Una luce di agonia fra crepuscolo della notte e alba sanguinosa lo fece rimanere disperato e lui volle rompere in qualche modo il silenzio minaccioso. « Sono il primo », gridò: « Sono l'unico », continuò a ripetere con incessante e amara egolatria.
Si vestì da principe come D'Annunzio e continuò imperterrito ad incitare lo stupefatto ammasso elegante delle spiagge questo sfrontato falsificatore dell'audacia. Nelle nostre Americhe selvatiche si levò contro l'irsuta mazurca di dittatori senza legge e di brutali encomenderos (2) l'elegante Vargas Vila, che coprì col suo coraggio e con la sua corruscante prosa poetica tutta un'epoca autunnale della nostra cultura.
E altri, tanti tanti altri hanno continuato a proclamarsi.
In realtà, non si può dire che questa tradizione egocentrica con la sua caotica formulazione vada al di là delle parole. Si tratta soltanto, e in modo straziante, del povero scrittore angosciato dal muro della città che non lo ascolta e che lui deve abbattere con la sua tromba per vedere coronati gli angeli della luce. E affinchè questa luce arrivi non solo alla delirante superbia della sua opera che si ribella contro l'eternità, ma attiri in modo doloroso, e a volte col fragore finale del suicidio l'attenzione verso l'azione dello spirito, ferita da una società di cuori duri.
Molti scrittori di grande talento, anche nella mia generazione, dovettero scegliere questa strada dei tormenti, in cui si crocifigge il poeta bruciato dalla sua stessa vita messianica.
In piena ricezione atmosferica di quello che veniva e di quello che se ne andava, io sentii pesare sulla mia testa queste raffiche della nostra inumana condizione. Dovevamo scegliere fra apparire maestri di quanto non conoscevamo per essere creduti, o condannarci ad una perpetua e oscurissima situazione di contadini, di fecondatori del fango. Questo bivio della creazione poetica ci condusse ai peggiori disorientamenti. E forse continuerà ad essere così per quanti cominciano ad essere perplessi fra le fiamme e il freddo della vera creazione poetica.
Solo Apollinaire col suo genio telegrafico ha detto la parola giusta:

Entre nous et pour nous, mes amis,
Je juge cette longue querelle de la tradition et de l'invention
De l'Ordre et de l'Aventure
Vous dont la bouche est faite à l'image de celle de Dieu
Bouche qui est l'ordre même
Soyez indulgents quand vous nous comparez
à ceux qui furent la perfection de l'ordre
Nous qui quêtons partout l'aventure
Nous ne sommes pas vos ennemis
Nous voulons vous donner de vastes et d'étranges domaines
où le mystère en fleurs s'offre a qui veut le cueillir
II y a là des feux nouveaux des couleurs jamais vues
Mille phantasmes impondérables
Auxquels il faut donner la réalité
Nous voulons explorer la bonté contrée énorme où tout se tait
II y a aussi le temps qu'on peut chasser ou faire revenir
Pitié pour nous qui combattons toujours aux frontières de l’illimité
et de l'avenir
Pitié pour nos erreurs pitié pour nos péchés. (3)

Quanto a me, mi rannicchiai nei miei significati e sicuramente mi disposi ad accumulare e a pesare i miei materiali, per una costruzione che forse pensai, e che
ora confermo, sarebbe durata fino alla fine della mia vita. Dico sicuramente perché non è possibile predire se stesso e chi lo fa è già condannato e pubblicato nella sua insincerità. Sincerità, in questa parola così modesta, così arretrata, così calpestata e disprezzata dallo splendente seguito che accompagna eroticamente l'estetica, è forse definita la mia costante azione. Ma sincerità non significa una semplicistica consegna dell'emozione o della conoscenza.
Quando rifuggii dapprima per vocazione e poi per decisione da ogni posizione di maestro letterario, da ogni ambiguità esteriore che mi avrebbe posto in perpetuo sul punto di esteriorizzare, e non di costruire, mi resi conto in modo vago che il mio lavoro doveva avvenire in modo così organico e totale che la mia poesia fosse come il mio respiro, prodotto esatto della mia esistenza, risultato della mia crescita naturale.
Pertanto, se qualche lezione derivava da un'opera così intimamente e così oscuramente legata al mio essere, questa lezione si sarebbe potuta utilizzare più in là della mia azione, più in là della mia attività, e soltanto attraverso il mio silenzio.
Sono sceso in strada in tutti questi anni, disposto a difendere principi di solidarietà con uomini e popoli, ma la mia poesia non potè essere insegnata a nessuno. Ho voluto che si diluisse sulla mia terra, come le piogge delle mie latitudini natali. Non l'ho richiesta in cenacoli né in accademie, non l'ho imposta a giovani trasmigranti, l'ho concentrata come prodotto vitale della mia esperienza, dei miei significati, che hanno continuato ad
essere aperti all'estensione dell'ardente amore e dello spazioso mondo.
Non chiedo per me alcun privilegio di solitudine: non l'ho avuta se non quando mi si è imposta come condizione terribile della mia vita. E allora scrissi i miei libri come li scrissi, circondato dall'adorabile moltitudine, dall'infinita e ricca moltitudine dell'uomo. Né la solitudine, né la società possono alterare i requisiti del poeta, e chi si richiama all'una o all'altra esclusivamente falsifica la sua condizione di ape che da secoli costruisce la stessa colletta fragrante, con lo stesso alimento di cui ha bisogno il cuore umano. Ma non condanno né i poeti della solitudine né gli altoparlanti del grido collettivo: il silenzio, il suono, la separazione e la integrazione degli uomini, tutto è materiale perché le sillabe della poesia si aggreghino precipitando la combustione di un fuoco incancellabile, di una comunicazione inerente, di una sacra eredità che da migliala di anni si traduce nella parola e si eleva nel canto.

Federico García Lorca, quel grande incantatore incantato che abbiamo perduto, mi mostrò sempre una grande curiosità per quanto io lavoravo, per quanto io ero sul punto di scrivere o di finire di scrivere. La stessa cosa succedeva a me, lo stesso interesse io ebbi per la sua straordinaria creazione. Ma quando ero nel bel mezzo della lettura di qualcuna delle mie poesie, lui alzava le braccia, gesticolava con la testa e con gli occhi, si tappava le orecchie, e mi diceva: « Ferma, ferma! Smettila di leggere, smetti, che mi influenzi! ».
Educato anch'io a questa scuola di vanità delle nostre lettere americane, in cui ci combattiamo gli uni contro gli altri con rocce andine o si galvanizzano gli scrittori con un semplice ditirambo, mi fu gradita questa modestia del grande poeta. Ricordo anche che mi
portava interi capitoli dei suoi libri, estesi rami della sua flora singolare, affinchè io su di essi scrivessi un titolo. Cosa che feci più di una volta. D'altra parte, Manuel Altolaguirre, poeta e persona di grazia celestiale, tutt'a un tratto mi tirava fuori un sonetto non finito dalle sue tasche di tipografo e mi chiedeva: « Scrivimi questo verso finale che non mi viene ». E se ne andava molto pieno di sé con quel verso che mi soffiava. Era lui il generoso. Il mondo delle arti è un grande laboratorio in cui tutti lavorano e si aiutano, anche senza saperlo e senza crederlo. E, in primo luogo, siamo aiutati dal lavoro di chi ci ha preceduti e si sa bene che non esiste Rubén Darío senza Góngora, né Apollinaire senza Rimbaud, né Baudelaire senza Lamartine, né Pablo Neruda senza tutti loro messi assieme. Ed è per orgoglio e non per modestia che proclamo tutti i poeti miei maestri,
infatti, che ne sarebbe di me senza le mie lunghe letture di quanto è stato scritto nella mia patria e in tutti gli universi della poesia?
Ricordo, come se l'avessi ancora in mano, il libro di Daniel de la Vega, dalla copertina bianca e i titoli color ocra, che qualcuno aveva portato alla villa di mia zia Telésfora un'estate di molti anni fa, nelle campagne di Quepe.

Mi portai quel libro sotto il pergolato profumato. Lì divorai Las montanas ardientes, come si intitolava il libro. Un ampio ruscello colpiva le grandi pietre rotonde sulle quali mi ero seduto per leggere. Salivano intrecciati gli allori possenti e i coihues (4) attorcigliati. Tutto
era aroma verde e acqua segreta. In quel posto, in piena profondità della natura, quella cristallina poesia scorreva scintillando con le acque.
Sono sicuro che qualche goccia di quei versi continua a scorrere nel mio corso, al quale sarebbero giunte poi anche altre gocce dell'infinito torrente, elettrizzate da più importanti scoperte, da insolite rivelazioni, ma non ho il diritto di staccare dalla mia memoria quella festa di solitudine, di acqua e di poesia.
Siamo arrivati, nell'ambito di un certo intellettualismo militante, a scegliere all'indietro, a scegliere quelli che hanno previsto i cambiamenti e hanno definito nuove dimensioni. Questo è falsificare se stessi falsificando gli antenati. A leggere molte riviste letterarie di adesso, si nota che alcune si sono scelte come zii o nonni Rilke o Kafka, cioè coloro che hanno già il loro segreto ben pulito e con buoni titoli e fanno parte di ciò che è già pienamente visibile.
Quanto a me, ho subito l'impatto di libri adesso screditati, come quelli di Felipe Trigo, carnali e lugubri con quella lussuria oscura che pare abbia sempre abitato il passato della Spagna, popolandolo di fattucchiere e di bestemmie. I fioretti di Paul Feval, quelli spadaccini che facevano brillare le loro armi sotto la luna feudale, o l'inclito mondo di Emilio Salgari, la malinconia fuggitiva di Albert Samain, il delirante amore di Paolo e Virginia, le sonagliere tripentaliche che alzò Pedro Antonio González dando alla nostra poesia un accompagnamento orientale che trasformò, per un minuto, la nostra povera patria cordiglieresca in un grande salotto tappezzato e dorato, tutto il mondo delle tentazioni, di tutti i libri, di tutti i ritmi, di tutte le lingue, di tutte le api, di tutte le ombre, il mondo, infine, di tutta l'affermazione poetica, mi ha impregnato in modo tale che in seguito sono stato la voce di quanti mi avevano insegnato una particella, passeggera o eterna della bellezza.
Ma il mio libro più grande, più esteso, è stato questo libro che chiamiamo Cile. Non ho mai smesso di leggere la patria, non ho mai distratto gli occhi dal lungo territorio.
Per virtuale incapacità mi è rimasto sempre molto da amare, o molto da capire, in altre terre.
Nei miei viaggi per l'Oriente estremo ho capito solo alcune cose. Il violento colore, il sordido atavismo, la emanazione dei boschi intrecciati le cui bestie e i cui vegetali mi minacciavano in qualche modo. Erano luoghi reconditi che continuavano ad essere, per me, indecifrabili. Per il resto non ho neanche capito bene le riarse colline del Perù misterioso e metallico, né l'estensione argentina delle pampas. Forse nonostante abbia
amato tanto il Messico non sono stato capace di comprenderlo. Mi sono sentito un estraneo sui Monti Urali, nonostante che lì si praticasse la giustizia e la verità del nostro tempo. In qualche strada di Parigi, circondato dall'immenso ambito della cultura più universale e dalla straordinaria moltitudine, mi son sentito solo come quegli alberelli del sud che si levano mezzo bruciacchiati sulle ceneri. Qui mi è successa sempre una cosa
diversa. Si commuove ancora il mio cuore — per cui è passato tanto tempo — davanti a queste case di legno, a queste strade sconnesse che cominciano a Victoria e finiscono a Puerto Montt, e che i venti impetuosi fanno suonare come chitarre. Case su cui l'inverno e la povertà hanno lasciato una scrittura a geroglifici che io capisco, come capisco nella pampa grande del nord, vista da Huantajaya, il tramonto del sole sulle vette arenose
che prendono allora i colori intermittenti, affascinanti, folgoranti, risplendenti e cenerognoli del collo della colomba silvestre.
Io ho imparato fin da molto piccolo a leggere il dorsochi tronchi marci della foresta del sud, e la mia prima lezione dell'intelligenza costruttiva dell'uomo non ho ancora potuto dimenticarla. È il viadotto o ponte a immensa altezza sul fiume Malleco, tessuto in ferro fino, svelto e sonoro come il più bello strumento musicale, che fa risaltare ciascuna delle sue corde nell'odorosa solitudine di quella regione trasparente.
Io sono un patriota poetico, un nazionalista delle crete del Cile. La nostra patria commovente! Si fa un po' fatica a intravvederla nei libri, tante ramaglie militari ne hanno sfigurata l'immagine di neve e acqua marina. Un'aureola agguerrita cui dette inizio il nostro Alonso de Ercilla, quel padre adamantino che ci cadde dalla luna; ci ha impedito di vedere la nostra intima e umile struttura. Con tante storie in cinquanta tomi ci siamo dimenticati di guardare la nostra maiolica nera, figlia del fango e delle mani di Quinchamalí, i canestri che a volte sono intrecciati con i gambi di copihues. Con tanta leggenda o verità eroica e con quei pesanti centauri che arrivarono dalla Spagna a ferirci gravemente ci siamo dimenticati che, nonostante La Araucana e il suo doloroso orgoglio, i nostri indios vanno ancor oggi senza alfabeto, senza terra e a piedi nudi. Questa patria dai pantaloni rotti e coperta di cicatrici, questa infinita latitudine che ci limita da tutte le parti con la povertà, ha una fecondità di creazione, una piovosa mitologia e possibilità di granaio numeroso e genesico.
Ho parlato con la gente nei negozi di San Fernando, di Rengo, di Parral, di Chance, dove le dune avanzano fino a ricoprire a poco a poco le abitazioni, ho parlato di ortaggi con gli ortolani della valle di Santiago e ho recitato i miei poemi nella Vega Central, al Sindacato degli Scaricatori, dove ad ascoltarmi c'erano uomini che usano come vestito un sacco legato alla cintura.
Nessuno conosce meglio di me l'emozione di dire i miei versi nella più abbandonata fucina del salnitro e di vedere che mi ascoltavano, come statue tostate ferme nella sabbia, sotto il sole debordante, uomini che indossavano l'antica « cotona » o camicetta salnitriera. Nei tuguri del porto di Valparaíso, come a Puerto Natales o a Puerto Montt, o nelle fabbriche dei sobborghi di Santiago, o nelle miniere di Coronel, di Lota, di Curanilahue, mi hanno visto entrare e uscire, riflettere e star zitto.
Questa è una professione errante e si sa ormai che dappertutto mi prendono, e me ne vanto, non solo come un altro cileno, che non è poco, ma come un buon compagno, che vuoi già dir molto. Questa è la mia Arte Poetica.
A Temuco mi capitò d'i vedere la prima automobile e poi il primo aeroplano, l'imbarcazione di don Clodomiro Figueroa, che si staccava dal suolo come un inatteso aquilone senza altro filo che la solitaria volontà del nostro primo cavaliere dell'aria. Da allora, e da quelle piogge del sud, tutto si è trasformato, e questo tutto comprende il mondo, la terra, che i geografi adesso ci mostrano meno rotonda, senza convincerci ancora del tutto anche perché ci abbiamo messo un bei po' a non credere più che non era così piatta come si pensava.
È cambiata anche la mia poesia.
Sono arrivate le guerre, le stesse guerre di una volta, ma sono arrivate con nuove crudeltà, più distruttive. Da questi dolori che mi schizzarono e mi tormentarono in Spagna ho visto nascere la Guernica di Picasso, quadro che alla stessa altezza estetica della Gioconda si trova anche all'altro polo della condizione umana: uno rappresenta la contemplazione serenissima della vita e della bellezza e l'altro, la distruzione della stabilità e della ragione, il panico dell'uomo da parte dell'uomo. Così, dunque, cambiò anche la pittura.
Fra le scoperte e i disastri che hanno fatto trepidare le pietre sotto i nostri piedi e le stelle sopra i nostri pensieri giunse, dalla metà del secolo scorso fino agli inizi di questo secolo, una generazione di straordinari padri della speranza, Marx e Lenin, Gorkij, Romain Rolland, Tolstoj, Barbusse, Zola, si levarono come grandi avvenimenti, come nuovi conduttori dell'amore. Lo fecero a fatti e a parole e ci lasciarono sul tavolo, sul tavolo del mondo, un pacchetto contenente una ricca eredità che ci siamo divisi: era la responsabilità intellettuale, l'eterno umanesimo, la pienezza della coscienza.
Ma poi vennero altri uomini che si sentirono disperati. Hanno messo di nuovo di fronte al fogliame delle generazioni lo spettacolo dell'uomo terrorizzato, senza pane e senza pietra, vale a dire, senza cibo e senza difesa, barcollante fra il sesso e la morte. Il crepuscolo è diventato nero e rosso, avvolto nel sangue e nel fumo.
Tuttavia, le grandi cause umane ritornarono con forza ad essere vive. Poiché l'uomo non voleva perire si vide di nuovo che la fonte della vita può continuare ad essere intatta, immacolata e creatrice. Uomini di molta età come l'insigne Lord Bertrand Russell, come Charles Chaplin, come Pablo Picasso. come il nordamericano Linus Pauling, come il dottor Schweitzer, come Lázaro Cárdenas, si sono opposti in nome di milioni di uomini alla minaccia della guerra atomica e subito l'essere umano ha potuto vedere che erano rappresentati e difesi tutti gli uomini, anche i più semplici, e che l'intelligenza non poteva tradire l'umanità.
Il continente nero, che aveva rifornito di schiavi e di avorio la cupidigia imperiale, diede un colpo alla carta geografica e nacquero venti repubbliche. In America Latina han tremato i tiranni. Cuba ha proclamato il suo inalienabile diritto a scegliere il suo sistema sociale. Intanto, tre ragazzi sorridenti, due sovietici e uno nordamericano, si fecero fare uno strano vestito e si lanciarono a spasso fra i pianeti.
È passato, dunque, molto tempo da quando sono entrato con atteggiamento riverente nella casa avita di Pedro Prado per la prima volta, e da quando ho detto addio ai resti di Mariano Latorre nel nostro disordinato Cimitero Generale. Ho detto addio a quel maestro come se dicessi addio alla campagna cilena. Qualcosa se ne andava con lui, qualcosa che entrava definitivamente a far parte del nostro passato.
Ma la mia fede nella verità, nella continuità della speranza, nella giustizia e nella poesia, nella perpetua creazione dell'uomo, viene da quel passato, mi accompagna in questo presente ed è stata presente in questa circostanza fraterna in cui ci troviamo.
La mia fede in tutti i raccolti del futuro si afferma nel presente. E dichiaro, per quanto ne so, che la poesia è indistruttibile. Andrà in mille pezzi e tornerà ad essere
cristallo. Nacque con l'uomo e continuerà a cantare per l'uomo. Canterà. Canteremo.
Attraverso questa lunga Memoria che presento alla Università e alla Facoltà di Filosofia e di Educazione che mi accoglie e che è presieduta da Juan Gómez Millas e
da Eugenio González, amici a cui sono unito dai più antichi ed emozionanti vincoli, avete ascoltato i nomi di molti poeti che circolano dentro alla mia creazione. Molti altri non li ho nominati, ma fanno anche loro parte del mio canto.
Il mio canto non finisce. Altri rinnoveranno la forma e il significato. Tremeranno i libri sugli scaffali e nuove parole insolite, nuovi segni e nuovi sigilli scuoteranno le porte della poesia.

(1) International Workers of thè Worid, sindacato anarchico IN.d.T.].
(2) Coloro che ricevevano, dalla corona spagnola, l'encomienda, cioè la tutela di un certo numero di indios per evangelizzarli e... farli lavorare [N.d.T.].
(3) Fra di noi e per voi, amici miei,
Io giudico questa lunga diatriba della tradizione e dell'invenzione
Dell'Ordine e dell'Avventura
Voi la cui bocca è fatta a immagine di quella di Dio
Bocca che è l'ordine stesso
Siate indulgenti quando ci paragonerete
a quelli che furono la perfezione dell'ordine
Noi che andiamo in cerca dappertutto dell'avventura
Noi non siamo vostri nemici
Noi vogliamo darvi vasti e strani domini
in cui il mistero in fiore si offre a chi lo vuoi cogliere
Ci sono lì fuochi nuovi dai colori mai visti
Mille fantasmi imponderabili
Ai quali bisogna dare la realtà
Noi vogliamo esplorare la bontà contrada enorme in cui tutto tace
C'è anche il tempo che si può scacciare o far ritornare
Pietà per noi che combattiamo sempre alle frontiere dell'illimitato
e dell'avvenire
Pietà per i nostri errori pietà per i nostri peccati.
(4) Albero sudamericano, dal legno simile al rovere [N.d.T.].

(Discorso di ammissione nella Facoltà di Filosofia e di Educazione dell'Università del Cile, in qualità di Membro Accademico, 30 marzo 1962).


ARDENTE FEDE NELLA PACE

II mio primo pensiero in questo giorno sia per Frédéric Joliot-Curie. Il nome di questa medaglia è più largo del mio petto, così come è grande l'onore che mi fate nel consegnarmela.
Precisamente, mai sono state unite in modo così elevato come in Joliot-Curie l'energia creatrice e la dignità dell'intelligenza. Egli divenne così l'esempio centrale della nostra epoca, perché sappiamo che era capace di stare nel labirinto della scienza con la naturalezza di chi sapeva entrare e uscire dalle strade inesplorate. E quando questo scopritore raccolse i frutti dell'albero del bene e del male nel suo lavoro di laboratorio, ne uscì per avvertire l'umanità che il frutto filosofale appena scoperto conteneva il seme di un nuovo inferno e della morte totale.
Il maestro Joliot-Curie non solo è un eroe maiuscolo del pensiero, ma è anche per me un ricordo che soltanto la tenerezza può disegnare. Appariva così fragile quest'uomo incrollabile. Il suo volto scavato dalle più intense discipline della sapienza, i suoi occhi carichi dello splendore sotterraneo della conoscenza, tutto stava ad indicarci che in questa lotta incredibile contro il terrore e per l'esistenza dell'uomo sulla terra lui sarebbe caduto consumato dalla sua divorante energia. Ci ha lasciati, dunque, lasciandoci la duplice eredità della sua grandezza scientifica e della sua responsabilità umana. Joliot-Curie ha fatto onore, ad un tempo, alla scienza e alla coscienza. Poi il suo esempio si è trasformato in una norma e in un movimento.
Anche noi, e i nostri popoli, dobbiamo scegliere fra strade opposte. Dobbiamo inchinarci a salutare e poi combattere. Dobbiamo scegliere fra la creazione e la distruzione, fra l'amore e il vuoto, fra la pace e la guerra, fra la vita e la morte. Mai è stato maggiore il potere della morte e mai ha avuto l'essere umano più esatta conoscenza del pericolo. Pertanto, il nostro dovere non è mai stato più perentorio: nessuno può eluderlo: è il mandato del nostro tempo.
Qui ci sono amici dell'America Latina che hanno voluto riunirsi attorno al ritratto di quel maestro della pace per riaffermare, ancora una volta, i legami che ci uniscono. Conosco quasi quanto ciascuno di loro le sventure, l'arretratezza e la miseria di ciascuna delle nostre nazioni. Conosco anche le lotte, l'allegria e le canzoni, la capacità di resistenza e di eroismo di ciascuno dei nostri popoli. Saluto tutti loro in un solo abbraccio, nella fraternità che non fa differenza fra le nostre origini né fra il nostro avvenire.
Il signor Votshinin si è dato la pena di venire dalla lontana Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, facendoci un grande onore a portarci con il suo viaggio il maggiore stimolo che possa conoscere l'uomo contemporaneo. Questo stimolo è l'esistenza e la persistenza, i trionfi senza pari del popolo sovietico e della sua grande Rivoluzione, La sua presenza in questa sala è un'ulteriore testimonianza del fatto che quel vasto paese, governato da una società senza classi, si dimostra in ogni momento solidale con tutti i movimenti di pace e di liberazione che si evidenziano in qualsiasi luogo del nostro pianeta.
Nel porgergli il mio saluto, desidero soffermarmi per fare due pause dolorose:
Compagno Votshinin: sappiamo che non sono ancora asciutte le lacrime del popolo sovietico versate per un'atroce disgrazia: la morte del glorioso eroe della terra e del cielo: Yuri Gagarin.
Il suo nome era, al tempo stesso, leggendario e familiare a tutti i cileni. La sua prodezza non solo unì come nessun'altra la realtà con la fantasia, il nostro pianeta agli altri, l'uomo all'universo misterioso. Il giovane eroe ebbe altre virtù: unì i popoli più separati; infatti il suo incontro con il cosmo fu un atto di riconciliazione fra tutti i popoli. Egli rappresentò nel suo volo il cuore stesso dell'umanità, l'inquietudine di tutti gli uomini, l'audacia di tutte le razze, il miracolo totale dell'essere umano.
Tutti i popoli lo considerarono loro, rappresentò la intera umanità dai suoi progressi più antichi, dall'oscurità della nascita e dalla sua penosa marcia verso il progresso, fino alla scoperta di tutte le possibilità.
Sappiamo che l'Unione Sovietica è un formidabile vivaio di eroi modesti ed eminenti. Il mondo ancora trasalisce al ricordo della sua gloriosa difesa della pace e della libertà quando schiacciò la minaccia hitleriana. Furono giorni oscuri e sanguinosi per cui l'umanità intera riconosce all'uomo sovietico un debito enorme.
Ma Gagarin è stato figlio della luce. È stato l'arcangelo luminoso dei nostri giorni: è vicino a tutto quello che sta nascendo. Il suo cuore si è fermato, ma il suo ricordo fiorirà ad ogni primavera, su ogni sguardo, in ogni bambino che per la prima volta contempli le stelle.
Un altro dolore, più personale, mi è presente questa notte, perché credo che il mio amato amico Ilija Erenburg sarebbe stato forse qui con noi in questo momento.
Tutti sappiamo che il Consiglio Mondiale della Pace lo ebbe fra i suoi più attivi creatori. In questo senso lo ricorderò sempre, con le sue ciocche di capelli grigi, con gli occhi così antichi che aveva e quel sorriso sottilissimo nelle estenuanti riunioni, conferenze e congressi della pace.
Quell'uomo che sembrava sempre stanco e la cui implacabile intelligenza lo faceva apparire vecchio come il mondo, ci ha sempre dato la lezione della sua attiva intelligenza e della sua resistenza inaudita.
Perché questo grande maestro della letteratura universale accettò i compiti umili ed eminenti di supremo relatore del Movimento della Pace. E con quei suoi passi corti, indimenticabili, percorreva corridoi, entrava nelle commissioni, saliva e scendeva dai palcoscenici convincendo, sviluppando, chiarendo, redigendo, prestando alla causa della pace e dell'amicizia fra i popoli tutta la capacità della sua smisurata intelligenza. Un giorno
era nel Palazzo della Regina Madre del Belgio, quella grande signora, che difendeva la musica e la verità. Un altro pomeriggio riusciva a far aprire la torre difficile di Pablo Picasso e usciva diretto verso l'aeroporto con una altra colomba che cominciava a volare dalle sue mani. O in Finlandia, o in Italia, o nella sua adorata Parigi, o in Giappone, o in Cile, tutte le nazioni, tutti gli aeroporti hanno visto quest'uomo dalla testa grigia e dai pantaloni sgualciti spendere le sue forze e il suo pensiero nella lotta contro il terrore e la guerra.
Per quanto mi riguarda, ho perso con la sua scomparsa uno degli uomini che più ho ammirato e rispettato. Egli mi fece l'onore di considerarmi suo amico e insieme abbiamo viaggiato e lavorato condividendo sogni e speranze che sono ancora vive. Perché, nonostante la morte di questi due eroi sovietici della pace, nonostante la dolorosa ombra che la loro assenza significa, la nostra lotta per la fratellanza, per la pace e per la verità, continuerà a vivere e a crescere protetta dal nostro dovere e fortificata dal loro ricordo.
Romesh Chandra: lei ha fatto questo viaggio così lungo fino in Cile, questo paese che si trova alla fine del mondo, per portare questa medaglia. Quando ero molto giovane ho conosciuto il suo paese, l'India. Sono issuto nel labirinto delle sue grandi città, sono entrato nei templi, ho vissuto con gli antichi sogni sacri, con la sofferenza millenaria del suo popolo e con il risveglio della sua indipendenza. Io ero un ragazzo ribelle che arrivava dalle lotte studentesche del 1921 e sfociava con tutta naturalezza nella fratellanza con i rivoluzionari indù. Tutto il risveglio dell'Asia aveva origine nella sua patria e il vento che doveva abbattere in seguito le mura dell'Impero stava nascendo lì, all'ombra dei più antichi
dei del mondo. Come mi sembrava lento il cammino. Sembrava interminabile il ciclo della servitù colonialista in quelle regioni così immense, in cui c'erano grandiosi continenti e migliaia di isole disperse. Tuttavia, il nostro secolo ha assistito all'abbattimento di quegli imperi che sembravano indistruttibili, perché erano ricoperti di acciaio, di pietra e di fango. Contro di loro si levò l'arma più possente: il pensiero, l'azione umana che fa marciare le ruote della storia. In nome di quel pensiero, di quella fede in un destino sempre migliore, più libero e più indipendente dell'uomo, lei è voluto venire da così lontano. Molte grazie.
Poi, abbiamo vissuto l'agonia del secondo conflitto mondiale. Abbiamo visto cadere la maschera messianica dei guerrieri. Abbiamo potuto vedere il vero volto della guerra: le forche e le camere a gas hanno cancellato per sempre la leggenda dei cavalieri che combattevano per il loro Dio, per il loro Re o per la loro Dama. Dopo la resa, migliaia di spettri sopravvissuti hanno dato una testimonianza straziante che mostrava il limite della crudeltà umana. I mostri sono stati, in parte, puniti. Ma ci domandiamo atterriti se quell'inconcepibile spavento potrebbe ripetersi di nuovo nella storia.
Poi abbiamo visto come la pace, quella pace tanto tragicamente ottenuta, è stata tradita. Uno Stato più forte degli altri ha portato la morte e la distruzione nelle terre più lontane dal suo territorio.
Con violenta ferocia sono state distrutte le città, i campi coltivati, le costruzioni e le vite di un piccolo paese, il cui popolo, orgoglioso della sua antica cultura, aveva appena spezzato le catene coloniali.
Il genocidio è stato praticato in modo terrificante. Il napalm ha calcinato con orrenda efficacia le vite, le sementi e i libri. Ma una nuova epopea, degna delle più grandi della storia, ha commosso l'umanità intera.
Perché il Vietnam è risuscitato mille volte dalle sue ceneri: sembrava morto e si incarnava con una granata in mano. Sembrava sconfitta la ragione sotto la fredda demenza degli invasori e il Vietnam, in un'offensiva straordinaria, si avvicina sempre di più ad una vittoria immortale.
E i popoli dell'America Latina sanno che questa vittoria è profondamente legata al nostro destino. Le forze aggressive che dominano in questo istante il governo degli Stati Uniti non hanno il proposito di rispettare l’indipendenza delle nostre nazioni e i nostri diritti inalienabili a propugnare sistemi di governo più giusti e migliori.
Le ultime aggressioni nei Caraibi e l'isolamento imposto a Cuba dai nordamericani e dalle forze reazionarie dell'America Latina sono la prova dell'intolleranza e dell'errore di questa politica aggressiva.
Ma gli anni sono cambiati. Nel cuore stesso dell'aggressore si sono levate le voci dei suoi più illustri intellettuali. Studenti e cittadini di tutti gli strati della vita nordamericana hanno ripudiato con energia e coraggio l'invasione nordamericana del Vietnam. Sono stati migliaia i ragazzi che hanno fatto a pezzettini la cartolina precetto e ogni giorno aumenta il numero dei disertori.
La morte di Martin Luther King, assassinato orrendamente e freddamente, ha riempito il mondo di lutto, e gli Stati Uniti di vergogna. Ci ha sempre commossi la sua figura straordinaria di difensore della sua razza, di guida del suo popolo. È stato annientato dalle forze abominevoli che sembrano essere possenti. Dalla ingiusta guerra di Corea fino all'obbrobriosa ingerenza contro l'indipendenza del Vietnam, queste forze si sono scatenate nella nazione nordamericana come un velenoso sottoprodotto della guerra. Cerchiamo nella violenza ufficiale le origini di questi crimini. Queste due guerre hanno insegnato a migliaia di adolescenti l'esercizio dell'assassinio, dell'incendio, dell'assoluta mancanza di rispetto per la condizione umana. Il razzismo, la delinquenza, la perversione e la crudeltà si sono così esacerbate fra i nordamericani, che l'umanità pensa con spavento ad una ricaduta verticale verso le primitive leggi della giungla, della brutalità e della forza. Mettere a mezz'asta la bandiera nazionale alla Casa Bianca è una meschina e triste misura, perché sappiamo che quella stessa bandiera si leva in Vietnam su tutte le atrocità che il mondo conosce. È nella guerra, in quella guerra, che dobbiamo cercare le origini del crimine. È in quella guerra che sta fermentando il lievito di molti altri orrori che deturperanno il volto dell'America del Nord.
L'eroismo vietnamita, il ripudio mondiale e l'ardente protesta dei suoi stessi compatrioti, hanno portato il Presidente Johnson a rinunciare, in una data prossima, alla continuazione della sua triste storia politica.
Speriamo che si dimetta effettivamente, senza aspettare le prossime elezioni. Quest'uomo ha già perso l'elezione davanti all'inappellabile tribunale della storia.
Le repubbliche americane sono figlie della lotta anticoloniale e della solidarietà internazionalista. Cavalieri della grande Colombia verde galoppavano portando le bandiere della liberazione per gli arenili del Perù. Gli argentini attraversarono le più alte nevi e 150 anni fa si coprirono di sangue e di allori, qui, a Maipù, a pochi chilometri da questo teatro. I cileni si imbarcarono sotto la guida dell'ammiraglio scozzese per liberare l'Oceano Pacifico. Combattenti napoleonici di Francia e battaglioni di neri africani combatterono per l'indipendenza del Cile. Questa volta l'America nostra non ha potuto mandare uomini in Vietnam, ma ha fatto sentire al mondo, dall'Avana e dal Messico fino alla Patagonia polare i suoi sentimenti unanimi di solidarietà e la sua speranza nella vittoria degli aggrediti.

Ma dobbiamo dire un'amara verità. Non abbiamo fatto abbastanza. Avremmo potuto fare molto di più, faremo molto di più. Perché i governi delle nostre repubbliche non si pronunciano sulla guerra del Vietnam? È tollerabile, nel concerto o nello sconcerto mondiale questa silenziosa timidezza che assomiglia alla complicità? La potente Unione Sovietica ha detto ogni giorno la sua parola. Il generale De Gaulle, personalità orgogliosa e indipendente, ha messo varie volte i puntini francesi sulle i nordamericane.
I nostri governi latino-americani hanno sfumature, colori, prospettive, origini diverse. Alcuni sono impetuosi nella reazione, altri sono prudenti sul futuro, alcuni coltivano il timore nei confronti dei loro popoli, altri manifestano i loro desideri di far progredire la nostra povera e sventurata America.
Non discutiamo le loro tendenze per il momento. Ma abbiamo il diritto di chieder loro che prendano posizione rispetto al problema più importante della nostra epoca. Quello della pace o della guerra, della vita o della morte.
Il governo degli Stati Uniti dell'America del Nord, con le sue sanguinose malefatte in Vietnam, ha perso ogni prestigio di fronte alla civiltà del nostro tempo. In questo momento cerca di negoziare la sua sconfitta materiale e morale. Ma la ripetizione periodica delle loro avventure è stata la tragica caratteristica dei nostri potenti vicini.
I giovani latino-americani devono ascoltare la voce dei nostri popoli e spostare la bilancia a favore della pace e dell'indipendenza. È ora di provare che se siamo nati dal fervore anticoloniale le nostre nazioni respingono questo nuovo colonialismo che vuole affermarsi accompagnato da inumane crudeltà.
So che molti sorrideranno all'idea di chiedere a certi governi di prender parte a questo appello per la pace, poiché molte volte hanno violato contro i loro stessi popoli le norme della libertà e della giustizia. Tuttavia, in quest'ora critica, chiedo la somma di tutti gli sforzi, la somma dei buoni e dei cattivi, dei governati e dei governanti, la somma dei giusti e degli ingiusti, affinchè sia posta fine alla più grande iniquità della nostra epoca: all'invasione e alla distruzione del Vietnam.
È il momento critico in cui le nazioni latino-americane, che hanno bisogno del diritto di difendersi, devono sostenere di fronte al mondo la causa del diritto.
Crediamo nella pace e busseremo a tutte le porte per realizzare il suo regno. Vogliamo la pace fra gli uomini, come i viandanti sperano di trovare l'acqua sul loro cammino per recuperare le forze perdute. Per quanto mi riguarda, sono entrato in tutte le case, se mi si apriva la porta.
Ho voluto parlare con tutti. Non ho avuto timore del contagio degli avversari, dei nemici. E continuerò a fare così. Penso che il dialogo non può esaurirsi, che nessun conflitto è un tunnel senza uscita e che può entrarvi la luce della comprensione dalle due estremità.
Nell'accettare questo generoso riconoscimento, desidero staccarmi da ogni sentimento personale. Penso che alcune persone di paesi vicini e lontani si sono riunite
qui, in questa occasione, per testimoniare la loro ardente fede nell'uomo, nella vita, nella verità, nella libertà, vale a dire, nella pace. Questo mi basta e ne rendo grazie non come di un omaggio ma come di una nuova espressione di una fraternità che non solo onora me, ma che distingue la mia patria e il mio popolo.

(Discorso pronunciato nel Teatro Municipale di Santiago del Cile nel ricevere la medaglia Joliot-Curie, l'8 aprile 1968).


L'ALBATRO ASSASSINATO

Nella mia vita errante mi è capitato di assistere a riunioni abbastanza strane, ma qualche giorno fa sono stato presente a quella che per me è l'assemblea più misteriosa fra tutte quelle cui ho dovuto essere presente o partecipare. Io ero seduto lì con alcuni dei miei compatrioti. Di fronte a noi in un circolo che mi è sembrato immenso sedevano i potenti delle finanze, delle banche, dei tesori, che rappresentavano molti paesi ai quali il mio deve, a quanto pare, moltissimo denaro.
Noi, i cileni, non eravamo poi tanti, mentre i nostri eminenti creditori, quasi tutti delle grandi nazioni, erano molti: 50 o 60. Si trattava di rinegoziare il Debito Pubblico, il Debito Estero, fatto aumentare in mezzo secolo di esistenza dai precedenti Governi. In questo lasso di tempo gli uomini sono arrivati sulla luna con penicillina e televisione. Nella guerra è stato inventato il napalm per democratizzare a forza di fuoco purificatore le ceneri di alcuni abitanti del pianeta. Nel corso di questi cinquant'anni, questo PEN Club nordamericano di scrittori ha lavorato nobilmente a favore della comprensione e della ragione. Ma, come ho potuto constatare in quella riunione implacabile, era lo stand-by
che minacciava il Cile con un bastone di tipo più moderno. Nonostante mezzo secolo di comprensione intellettuale, il rapporto fra i ricchi e i poveri, fra paesi che prestano qualche tozzo di pane e altri paesi che hanno bisogno di mangiare, continua ad essere un rapporto in cui sono presenti l'angoscia e l'orgoglio, la giustizia e il diritto alla vita.
In un certo modo, rispetto agli scrittori degli Stati Uniti e dell'antico mondo europeo, anch'io vengo ad intendermi con voi. È importante sapere in questo capitolo quanto ci dobbiamo gli uni agli altri. Dobbiamo rinegoziare perpetuamente il debito inferiore che pesa su di noi, scrittori di tutte le parti. Tutti dobbiamo qualcosa alla nostra tradizione intellettuale e a quello che abbiamo speso del tesoro del mondo intero. Noi, scrittori americani del sud di questo continente, siamo cresciuti conoscendo e ammirando, malgrado la differenza delle lingue, la colossale crescita delle lettere americane, delle lettere nel Nord dell'America. Ci ha particolarmente colpiti l'impressionante risveglio del suo romanzo, che da Dreiser ad ora mostra una forza nuova, convulsiva e costruttiva, la cui grandezza e ferocia non trova paragone nelle letterature delia nostra epoca, se non fra i vostri stessi drammaturghi. Neppure uno dei vostri nomi è passato inavvertito da noi. Non è possibile registrarli tutti, come catalogare le dimensioni che hanno raggiunto, la violenta profondità che hanno rivelato. L'aspro disinganno che mostravano i vostri libri, spesso crudeli, nell'offrire la singolare testimonianza di grandi e nobili scrittori di fronte ai conflitti della vostra vertiginosa costruzione capitalista. Lì, in quelle opere esemplari, nessuno si sottraeva alla verità e fu messa a nudo l'anima delle moltitudini e degli individui, potenti o piccoli, ammucchiati in città e suburbi, gocce di sangue arterioso del vostro corpo nazionale, delle vostre vite collettive e solitàrie. Queste cose si avvertono perfino nei romanzi polizieschi, spesso testimonianza della verità più fedele di quanto non si pensi.
Per quanto mi riguarda, io che mi avvicino ai settanta anni, quando ne compivo appena quindici, scoprivo Walt Whitman, il mio maggior creditore. E mi trovo qui fra di voi con questo meraviglioso debito che mi ha aiutato ad esistere.
Rinegoziare questo debito è cominciare a metterlo in evidenza, riconoscermi come umile servitore di un poeta che misurava la terra a passi lenti e lunghi, fermandosi dappertutto per amare e esaminare, imparare, insegnare e ammirare. Si tratta di quell'uomo, di quel moralista lirico, che prese una strada difficile: fu un cantore torrenziale e didattico. Queste due qualità sembrano antagonistiche. Sembrerebbero piuttosto le doti di un caudillo che quelle di uno scrittore. La cosa importante è che Walt Whitman non aveva paura della cattedra, dell'insegnamento, dell'apprendistato della vita e si assumeva la responsabilità di insegnarlo con candore ed eloquenza. Francamente non temeva né il moralismo né l'immoralismo, né volle delimitare i terreni della poesia pura o della poesia impura. È il primo poeta totalitario ed è sua intenzione non solo cantare ma anche imporre la sua ampia visione dei rapporti fra gli uomini e fra le nazioni. In questo senso, il suo evidente nazionalismo fa parte di un organismo universale. Egli si considera debitore dell'allegria e della tristezza, delle elevate culture e degli esseri primitivi.
Ci sono molti aspetti della grandezza, ma a me, poeta della lingua castigliana, Walt Whitman insegna più che Cervantes: nella sua opera non viene umiliato l'ignorante né offesa la condizione umana.
Viviamo ancora in un'epoca whitmaniana, vediamo nonostante i dolori del parto l'ascesa e l'apparizione di nuovi uomini e di nuove società. Il bardo si lamentava dell'onnipotente influenza europea che continuava ad alimentare la letteratura della sua epoca. In realtà era lui, Walt Whitman, il protagonista di una personalità realmente geografica che si levava per la prima volta nella storia con un nome continentalmente americano. Le colonie delle nazioni più brillanti hanno lasciato secoli di silenzio. Il colonialismo sembra uccidere la fertilità e la capacità creativa. Sarà sufficiente che vi
dica che in tre secoli di dominazione spagnola in tutta l'America non abbiamo avuto più di due o tre scrittori ammirevoli.
Dalla proliferazione delle nostre Repubbliche non solo uscirono bandiere e nazionalità, università e piccoli eserciti eroici o malinconiche canzoni d'amore. Cominciarono a germogliare libri e libri, che spesso formarono un cespuglio impenetrabile, con molti fiori e pochi frutti. Ma col tempo, e specialmente di questi tempi, la lingua spagnola risplende attraverso la scrittura di autori americani che, dal Rio Grande alla Patagonia, riempiono di magiche descrizioni, di poemi teneri e disperati un continente oscuro che cammina fra i tormenti verso la sua nuova indipendenza.
In questa epoca vediamo come altre nuove nazioni, nuove bandiere e nuove letterature compaiono con la estinzione che ci auguriamo totale del colonialismo in Africa e in Asia. Le capitali del mondo appaiono da un giorno all'altro coperte dalle insegne nuove di popoli che non conoscevamo e che cominciano ad esprimersi con l'impacciata voce dolorosa della nascita. Scrittori neri dell'Africa e dell'America cominciano a darci la vera pulsazione delle sventurate razze che sono rimaste in silenzio. Le battaglie politiche sono state inseparabili dalla poesia. La liberazione dell'uomo passa a volte attraverso il sangue, ma sempre attraverso il canto. Il canto umano si arricchisce ogni giorno nella nostra grande epoca di martirio e di liberazione.
Ma vi chiedo umilmente di perdonarmi in anticipo se torno alle preoccupazioni del mio paese. Tutto il mondo sa che il Cile sta facendo una trasformazione rivoluzionaria nel quadro della dignità e della severità delle nostre leggi. Per questo c'è molta gente che si sente offesa. Ma, perché questi cileni non mettono in galera nessuno, non chiudono i giornali, non fucilano nessun contraddittore?
E dato che la nostra strada l'abbiamo scelta noi, siamo decisi a seguirla fino in fondo. Ma i guerrieri segreti si provvedono di tutte le armi per sviare il nostro destino. Dato che in questo tipo di guerra i cannoni pare che siano passati di moda, usano un arsenale antico e nuovo. Lì si possono scegliere i dollari, le frecce, le industrie telefoniche e telegrafiche: tutto sembra giusto per difendere i vecchi e irrazionali privilegi. Per questo in quella riunione in cui si rinegoziava il Debito Estero del Cile io ricordai vivamente la Ballata del Vecchio Marinaio.
Samuel Taylor Coleridge trasse il suo desolato poema da un episodio accaduto nell'estremo Sud della mia patria e pubblicato da Shelvocke nelle sue memorie di viaggio.
Nei freddi mari del Cile abbiamo tutte le razze, generi e specie di albatri: erranti e giganti, grigi e procellari che sanno volare come nessun altro uccello.
Forse per questo il paese ha la forma di un lungo albatro con le ali tese.
E lì in quella riunione per me indimenticabile di quel Debito Estero che vogliamo negoziare secondo giustizia, molti di quelli che mi sembravano implacabili parevano usare le loro armi affinchè il Cile facesse naufragio, affinchè l'albatro non volasse più.
Non so se sarà un'indiscrezione di un poeta che da un anno soltanto fa l'Ambasciatore raccontarvi che forse il delegato delle finanze nordamericane mi parve quello che aveva fra le sue carte d'affari la freccia pronta da rivolgere contro il cuore dell'albatros. Eppure questo fìnanziere ha un nome saporito e amabile da fine di banchetto: si chiama Mister Hennessy.
Se il signor Hennessy volesse prendersi il piacere di leggere i vecchi poeti apprenderebbe che nella Ballata del Vecchio Marinaio il marinaio che perpetrò quel crimine fu condannato a portare per l'eternità appeso al collo il pesante cadavere dell'albatro assassinato.
Cari amici:
ho letto con interesse e emozione la breve storia di questi lunghi 50 anni di vita del PEN Club degli Stati Uniti del Nordamerica. È stato mezzo secolo di grandi illusioni e di magnifiche azioni. Onorevole giornata che abbiamo il dovere di festeggiare con meditazione e allegria. Noi scrittori siamo facilmente individualisti, difficilmente collettivisti, portiamo in noi un germe sovversivo che è parte profonda della nostra espressione e del
nostro essere e la nostra insubordinazione tende molte volte ad esprimersi contro noi stessi. Cerchiamo i nemici più vicini e li troviamo erroneamente fra coloro che più somigliano a noi. Riunirci è un compito da giganti. E riunirci attraverso separazioni politiche, linguistiche e razziali è una grande impresa. Onore a coloro che han reso possibile il sentimento di unità fra gli scrittori di tutti i paesi senza respingere settariamente le loro tendenze o le loro credenze.
Sono sicuro che mi avete accolto, me e i miei debiti, non come un tribunale implacabile, ma come un'associazione generosa e fraterna. Ho già detto che è necessario riconoscere quello che abbiamo appreso da alcuni e da tutti. Così si stabilisce la sicurezza, cioè, la coscienza di una comunità ininterrotta e universale del pensiero.
Così lavoreremo col passato, sicuri della sua matura bellezza e sulla stessa via dell'onore, sicuri delle opere che altri scrittori scriveranno per altri uomini che non sono ancora nati.

(Discorso pronunciato da Pablo Neruda al PEN Club di New York, nel 50° anniversario della sua fondazione, aprile 1971).


LA PRESENZA INVISIBILE

Veniamo da molto lontano, da fuori e da dentro noi stessi, da lingue contrapposte, nemiche, da paesi che si amano. Qui ci troviamo in questo punto, in questa notte centrale del mondo, e arriviamo dalla chimica, dai microscopi, dalla cibernetica, dall'algebra, dai barometri, dalla poesia, per riunirci. Veniamo dall'oscurità dei nostri laboratori per affrontare una luce che ci onora e che, per un momento, ci acceca. Per noi, laureati, si tratta di un'allegria e di un'agonia.
Ma prima di rispondere e prima di respirare devo concentrarmi, scusate, vivo lontano da qui, scusate, tornare alla mia terra, scusate, e molte grazie.
Torno a strade della mia infanzia, all'inverno del Sud dell'America, ai giardini di lillà dell'Araucania, alla prima Maria che ebbi fra le braccia, al fango delle strade che non conoscevano la pavimentazione, agli indios in lutto che ci lasciò la Conquista, a un paese, a un continente oscuro che cercava la luce. E se questa luce si prolunga da questa sala di festa e arriva attraverso terra e mare a illuminare il mio passato, sta illuminando anche il futuro dei nostri popoli americani che difendono il loro diritto alia luce, alla dignità, alla libertà e alla vita.
Io sono un rappresentante di quel tempo e delle lotte attuali che popolano la mia poesia. Scusate se ho esteso il mio riconoscimento a tutto ciò che è mio, ai dimenticati della terra che in questa occasione della mia vita mi sembrano più veri della mia espressione, più alti delle mie cordigliere, più vasti dell'oceano. Io appartengo con orgoglio alla moltitudine umana, non a pochi ma a molti, e sono qui circondato dalla loro presenza invisibile.

(Discorso di ringraziamento per il Premio Nobel a nome di tutti i laureati dell'anno 1971).


LA POESIA NON AVRÀ CANTATO INVANO

II mio discorso sarà una lunga traversata, un viaggio mio per regioni lontane e agli antipodi, non per questo meno somiglianti al paesaggio e alle solitudini del nord. Parlo dell'estremo sud del mio paese. Noi cileni ci allontaniamo tanto, fino a toccare con i nostri confini il Polo Sud, da somigliare alla geografia della Svezia, che sfiora con la sua testa il nord coperto di neve del pianeta.
Laggiù, per quelle distese della mia patria dove mi condussero avvenimenti già dimenticati in se stessi, bisogna attraversare, dovetti attraversare le Ande alla ricerca della frontiera del mio paese con l'Argentina. Grandi boschi coprono come un tunnel le regioni inaccessibili e dato che il nostro cammino era segreto e vietato, accettavamo soltanto i segni più deboli dell'orientamento. Non c'erano tracce, non esistevano sentieri e con i miei quattro compagni a cavallo cercavamo in ondeggiante cavalcata — eliminando gli ostacoli di possenti alberi, impossibili fiumi, immense rocce, desolate nevi, cercando piuttosto di indovinare — il tracciato della mia libertà. Quelli che mi accompagnavano conoscevano l'orientamento, la possibilità fra lo spesso fogliame, ma per sentirsi più sicuri montati sui loro cavalli marcavano con un colpo di machete qui e là le cortecce dei grandi alberi lasciando tracce che li avrebbero guidati nel viaggio di ritomo, dopo avermi lasciato solo col mio destino.
Ognuno avanzava assorto in quella solitudine senza margini, in quel silenzio verde e bianco, gli alberi, i grandi rampicanti, l'humus depositato da centinaia di anni, i tronchi semiabbattuti che d'un tratto formavano un'altra barriera nella nostra marcia. Tutto era al tempo stesso una natura abbagliante e segreta e una crescente minaccia di freddo, neve, persecuzione. Tutto si mescolava: la solitudine, il pericolo, il silenzio e l'urgenza della mia missione.
A volte seguivamo una traccia delicatissima, lasciata chissà da contrabbandieri o da delinquenti comuni in fuga, e ignoravamo se molti di loro erano periti, sorpresi all'improvviso dalle glaciali mani dell'inverno, dalle tormente tremende della neve che, quando si scaricano sulle Ande, avvolgono il viandante, lo affondano sotto sette piani di bianco.
Ad ogni lato della traccia contemplai, in quella selvaggia desolazione, qualcosa che pareva una costruzione umana. Erano pezzi di rami accumulati che avevano sopportato molti inverni, vegetale offerta di centinaia di viaggiatori, alti tumuli di legno a ricordo dei caduti, per far pensare a coloro che non poterono proseguire e rimasero lì per sempre sotto le nevi. Anche i miei compagni tagliarono coi loro machete i rami che ci toccavano
la testa e che scendevano su di noi dall'altezza delle conifere immense, dai roveri le cui ultime foglie palpitavano davanti alle tempeste dell'inverno. E anch'io lasciavo ad ogni tumulo un ricordo, un pezzetto di legno, un ramo tagliato dal bosco per adornare le tombe di questo o quello dei viaggiatori sconosciuti.
Dovevamo attraversare un fiume. Quelle piccole correnti nate sulle cime delle Ande si precipitano, scaricano la loro forza vertiginosa e travolgente, diventano cascate, rompono terre e rocce con l'energia e la velocità che portarono dalle alture insigni: ma questa volta incontrammo una gora, un grande specchio d'acqua, un guado. I cavalli entrarono, quando non toccavano più il fondo si misero a nuotare verso l'altra sponda. Ad un tratto il mio cavallo fu quasi completamente sommerso dalle acque, io cominciai a ondeggiare senza sostegno, i miei piedi si affannavano alla deriva mentre la bestia lottava per mantenere la testa all'aria aperta. Così attraversammo. E appena giunti all'altra riva, le guide, i contadini che mi accompagnavano mi domandarono con un certo sorriso:
« Ha avuto molta paura? ».
« Molta. Credevo che fosse arrivata la mia ultima ora », dissi.
« Stavamo dietro di lei con il lazo in mano », mi risposero.
« Proprio qui — aggiunse uno di loro — mio padre cadde e se lo trascinò la corrente. Non sarebbe successo lo stesso con lei ».
Andammo avanti finché entrammo in una galleria naturale che forse era stata aperta nelle rocce imponenti da un abbondante fiume scomparso, o da una scossa del pianeta che aveva creato sulle alture quell'opera, quel canale rupestre di pietra scavata, di granito, nel quale penetravamo. Dopo pochi passi le cavalcature scivolavano, cercavano di mettere i piedi nei dislivelli di pietra, le zampe si piegavano, i ferri mandavano scintille: più di una volta mi vidi sbalzato da cavallo e steso sulle rocce. La mia cavalcatura sanguinava dal naso e alle gambe, ma proseguimmo impeciati il vasto, lo splendido, il difficile cammino.
Qualcosa ci aspettava in mezzo a quella foresta selvaggia. All'improvviso, come singolare visione, giungemmo in una piccola e delicata radura isolata nel recesso delle montagne: acqua chiara, prato verde, fiori silvestri, rumore di fiumi e il cielo azzurro in alto, generosa luce che nessuna foglia interrompeva.
Lì ci fermammo come dentro ad un circolo magico, come ospiti di un recinto sacro: e ancora più sacra fu la cerimonia alla quale partecipai. I bovari scesero dalle loro cavalcature. Al centro del recinto era posto, come in un rito, un teschio di bue. I miei compagni si avvicinarono in silenzio, uno per uno, per lasciare qualche moneta e del cibo nei buchi dell'osso. Mi unii a loro in quell'offerta destinata a rozzi Ulissi smarriti, a fuggitivi di tutte le risme che avrebbero trovato pane e aiuto nelle orbite del toro morto.
Ma l'indimenticabile cerimonia non era finita qui. I miei rustici amici si levarono il cappello e cominciarono una strana danza, saltando con un solo piede attorno al teschio abbandonato, ripercorrendo la traccia circolare lasciata da tanti balli di altri che erano passati di lì prima. Mi resi conto allora in modo impreciso, accanto ai miei impenetrabili compagni, che esisteva una comunicazione da sconosciuto a sconosciuto, che c'era una richiesta, una domanda e una risposta perfino nelle più lontane e appartate solitudini di questo mondo.
Più avanti, e quasi sul punto di attraversare le frontiere che mi avrebbero allontanato per molti anni dalla mia patria, arrivammo di notte alle ultime gole delle montagne. Ad un tratto vedemmo una luce accesa che era indizio certo di abitazione umana e, avvicinatici, trovammo alcune costruzioni sgangherate, alcuni capannoni cadenti apparentemente vuoti. Entrammo in uno di essi e vedemmo, al chiarore del fuoco, grandi tronchi accesi al centro della stanza, corpi di alberi giganti che lì bruciavano notte e giorno e che lasciavano uscire attraverso le fenditure del tetto un fumo che vagava in mezzo alle tenebre come un profondo velo azzurro. Vedemmo cataste di formaggio accumulate da quelli che lo avevano quagliato a quelle alture. Vicino al fuoco, raggruppati come sacchi, giacevano alcuni uomini. Nel silenzio distinguemmo le corde di una chitarra e le parole di una canzone che, nascendo dalle braci e dall'oscurità, ci recava la prima voce umana che avessimo incontrato lungo la strada. Era una canzone d'amore e di distanza, un lamento d'amore e di nostalgia rivolto alla primavera lontana, alle città da dove venivamo, all'infinita estensione della vita. Loro ignoravano chi eravamo, loro nulla sapevano del fuggitivo, loro non conoscevano la mia poesia né il mio nome. O lo conoscevano? Il fatto reale fu che accanto a quel fuoco cantammo e mangiammo, e poi camminammo nell'oscurità verso
alcune stanze elementari. Esse erano attraversate da una corrente termale, acqua vulcanica dove ci immergemmo, calore che si staccava dalle cordigliere e ci accolse nel suo seno.
Sguazzammo allegramente, togliendoci di dosso, ripulendoci dal peso dell'immensa cavalcata. Ci sentimmo freschi, rinati, battezzati, quando all'alba cominciammo gli ultimi chilometri che mi separavano da quell'eclissi della mia patria. Ci allontanammo cantando
sulle nostre cavalcature, pieni di un'aria nuova, di un alito che ci spingeva verso la grande strada del mondo che mi stava aspettando. Quando volemmo dare (lo ricordo chiaramente) ai montanari qualche moneta di ricompensa per le canzoni, per il cibo, per le acque termali, per il tetto e per il latte, vale a dire, per l'inatteso riparo che ci era venuto incontro, essi respinsero la nostra offerta senza esitazione. Ci avevano servito e niente più. E in quel « niente più », in quel silenzioso « niente più » c'erano molte cose sottintese, forse la riconoscenza, forse gli stessi sogni.

Signore e Signori:

Io non ho imparato sui libri nessuna ricetta per la composizione di un poema; e a mia volta non lascerò stampato neppure un consiglio, modo o stile affinchè i nuovi poeti ricevano da me qualche goccia della mia presunta sapienza. Se ho narrato in questo discorso certi avvenimenti del passato, se ho rivissuto un mai dimenticato racconto in questa occasione e in questo luogo così diversi dall'accaduto, è perché nel corso della mia
vita ho trovato sempre da qualche parte l'asseverazione necessaria, la formula che mi aspettava, non per indurirsi nelle mie parole ma per spiegarmi a me stesso.
In quel lungo viaggio trovai le dosi necessarie alla formazione del poema. Lì mi vennero dati gli apporti della terra e dell'anima. E penso che la poesia è un'azione passeggera o solenne nella quale entrano a pari merito la solitudine e la solidarietà, il sentimento e l'azione, l'intimità di se stessi, l'intimità dell'uomo e la segreta rivelazione della natura. E penso con fede non minore che tutto è sostenuto — l'uomo e la sua ombra, lo uomo e il suo atteggiamento, l'uomo e la sua poesia — in una comunità sempre più estesa, in un esercizio che integrerà per sempre in noi la realtà e i sogni, perché in questo modo li unisce e li confonde. E dico allo stesso modo che non so, dopo tanti anni, se quelle lezioni che ricevetti nell'attraversare un fiume vertiginoso, nel ballare attorno al cranio di una vacca, nel bagnare la mia pelle nell'acqua purificatrice delle più alte regioni, dico che non so se tutto ciò proveniva da me stesso per mettersi poi in contatto con molti altri esseri, o era il messaggio che gli altri uomini mi inviavano come esigenza o citazione in giudizio. Non so se quell'esperienza l'ho vissuta o l'ho scritta, non so se furono verità o poesia, transizione o eternità, i versi di cui feci l'esperienza in quel momento, le esperienze che cantai in seguito.
Da tutto ciò, amici, deriva l'insegnamento che il poeta deve imparare dagli altri uomini. Non c'è solitudine inespugnabile. Tutte le strade portano allo stesso punto: alla comunicazione di ciò che siamo. Ed è necessario attraversare la solitudine e l'asprezza, la mancanza di comunicazione e il silenzio per arrivare al recinto magico in cui possiamo danzare lentamente o cantare con malinconia; ma in quella danza o in quella canzone sono consumati i più antichi riti della coscienza; della coscienza di essere uomini e di credere in un destino comune.
In verità, sebbene alcuni o molti mi abbiano considerato un settario, senza possibile partecipazione alla tavola comune dell'amicizia e della responsabilità, non voglio giustificarmi, non credo che le accuse o le giustificazioni abbiano una collocazione fra i doveri del poeta. Dopo tutto, nessun poeta ha amministrato la poesia, e se qualcuno di essi si è soffermato ad accusare i suoi simili, o se qualcun altro ha pensato di poter passare la vita a difendersi da recriminazioni ragionevoli o assurde, la mia convinzione è che solo la vanità è capace di farci deviare fino a questi estremi. Dico che i nemici della
poesia non stanno fra coloro che la professano o la riguardano, ma nella mancanza di concordanza del poeta. Per cui si può dire che nessun poeta abbia un nemico più essenziale della propria incapacità ad intendersi con i più ignorati e sfruttati dei suoi contemporanei; e questo vale per tutte le epoche e per tutte le terre.
Il poeta non è un « piccolo dio ». No, non è un « piccolo dio ». Non è segnato da un destino cabalistico superiore a quello di quanti esercitano altri mestieri o professioni. Ho detto più d'una volta che il migliore poeta è l'uomo che ci da il pane quotidiano: il fornaio più vicino, che non si crede dio. Lui compie il suo maestoso e umile lavoro di impastare, mettere al forno, dorare e consegnare il pane quotidiano con un obbligo comunitario. E se il poeta arriva a raggiungere questa semplice coscienza, la semplice coscienza potrà anche trasformarsi in una parte di un colossale artigianato, di una costruzione semplice o complicata, che è la costruzione della società, la trasformazione delle condizioni che circondano l'uomo, la consegna della mercé: pane, verità, vino, sogni. Se il poeta aderisce a questa mai sprecata lotta per consegnare ciascuno nelle mani degli altri la propria razione di impegno, la sua dedizione e la sua tenerezza per il lavoro comune di ogni giorno e di tutti gli uomini, il poeta prenderà parte al sudore, al pane, al vino, al sogno dell'umanità intera. Solo attraverso questo cammino inalienabile di essere uomini comuni arriveremo a restituire alla poesia l'ampio spazio che gli vanno ritagliando in ogni epoca, che gli andiamo ritagliando in ogni epoca noi stessi.
Gli errori che mi hanno portato ad una relativa verità, e le verità che ripetute volte mi hanno condotto all'errore, gli uni e le altre non mi hanno permesso — né ne ho mai avuto la pretesa — di orientare, di dirigere, di insegnare quello che si chiama il processo creativo, le tortuosità della letteratura. Ma di una cosa posso dire di essermi reso conto: che siamo noi stessi a creare a poco a poco i fantasmi della nostra mitizzazione. Dalla
malta di quello che facciamo, o vogliamo fare, sorgono poi gli impedimenti del nostro proprio e futuro sviluppo. Ci vediamo immancabilmente portati alla realtà e al realismo, cioè, a prendere una coscienza diretta di ciò che ci circonda e delle vie della trasformazione e poi comprendiamo, quando sembra tardi, che abbiamo costruito una limitazione così esagerata da uccidere ciò che è vivo invece di condurre la vita a svilupparsi e a fiorire. Ci imponiamo un realismo che in seguito ci risulta più pesante del mattone delle costruzioni, senza che con questo abbiamo eretto l'edificio che contemplavamo come parte integrante del nostro dovere. E in senso contrario, se riusciamo a creare il feticcio dell'incomprensibile (o del comprensibile per pochi), il feticcio di ciò che è scelto e di ciò che è segreto, se sopprimiamo la realtà e le sue degenerazioni realiste, ci vedremo immediatamente circondati da un terreno impossibile, da un tremolio di foglie, di fango, di nubi, in cui i nostri piedi sprofondano e ci soffoca un'oppressiva incapacità di comunicare.
Per quanto riguarda noialtri in particolare, scrittori della vasta estensione americana, ascoltiamo senza tregua l'appello a riempire questo spazio enorme di esseri in carne ed ossa. Siamo coscienti del nostro obbligo di popolatori e — nel mentre ci pare essenziale il dovere di una comunicazione critica in un mondo disabitato e, per essere disabitato non meno pieno di ingiustizie, pene e dolori — sentiamo anche l'impegno di recuperare gli antichi sogni che dormono nelle statue di pietra, negli antichi monumenti distrutti, nei vasti silenzi delle pampas planetarie, delle spesse foreste, dei fiumi che cantano come tuoni. Abbiamo bisogno di colmare di parole i confini di un continente muto e ci inebria questo compito di favolare e di nominare. Forse è questa la ragione determinante del mio umile caso individuale: e in questa circostanza i miei eccessi, o la mia abbondanza, o la mia retorica, non sarebbero se non atti, i più semplici, del bisogno americano di ogni giorno. Ciascuno dei miei versi volle porsi come un oggetto palpabile; ciascuno dei miei poemi volle essere uno strumento utile di lavoro; ciascuno dei miei canti aspirò a servire nello spazio come segno di congiunzione dove s'incrociano le strade, o come frammento di pietra sul quale qualcuno, altri, quelli che verranno, potessero depositare i nuovi segni.
Estendendo questi doveri del poeta, nella verità o nell'errore, fino alle loro ultime conseguenze, decisi che il mio atteggiamento all'interno della società e di fronte alla vita doveva essere anche umilmente di parte. Lo decisi vedendo gloriosi fallimenti, solitarie vittorie, abbaglianti sconfitte. Capii, messo nello scenario delle lotte dell'America, che la mia missione umana non era altra se non quella di aggregarmi all'estesa forza del popolo
organizzato, aggregarmi sangue e anima, con passione e speranza, perché soltanto da questo rigonfio torrente possono nascere i cambiamenti necessari agli scrittori e ai popoli. E anche se la mia posizione ha sollevato e solleva obiezioni amare o amabili, è certo che non trovo altra via per gli scrittori dei nostri ampi e crudeli paesi, se vogliamo che fiorisca l'oscurità, se pretendiamo che i milioni di uomini che non hanno ancora imparato a leggerci né a leggere, che ancora non sanno scrivere né scriverci, si stabiliscano nel terreno della dignità senza il quale non è possibile essere uomini integrali.
Abbiamo ereditato la vita lacerata dei popoli che si trascinano dietro un castigo di secoli, popoli fra i più endemici, più puri, quelli che hanno costruito con pietre e metalli torri miracolose, gioielli dall'abbagliante splendore: popoli che ad un tratto furono distrutti e ammutoliti dalle epoche terribili del colonialismo che esiste tuttora.
Le nostre stelle primordiali sono la lotta e la speranza. Ma non c'è lotta né speranze solitarie. In ogni uomo si congiungono le epoche remote, l'inerzia, gli errori, le passioni, le urgenze del nostro tempo, la velocità della storia. Ma, che ne sarebbe di me se io, per esempio, avessi contribuito in qualche modo al passato coloniale del grande continente americano? Come potrei levare la fronte, illuminata dall'onore che la Svezia mi ha concesso, se non mi sentissi orgoglioso di aver preso una minima parte alla trasformazione attuale del mio paese? Bisogna guardare la carta dell'America, fare i conti con la grandiosa diversità, con la generosità cosmica dello spazio che ci circonda, per capire che molti scrittori rifiutano di condividere il passato di obbrobio e di saccheggio che oscuri dèi destinarono ai popoli americani.
Io ho scelto la via di una responsabilità condivisa e, prima di ripetere l'adorazione nei confronti dell'individuo come sole centrale del sistema, ho preferito prestare con umiltà il mio servizio a un considerevole esercito che a tratti può sbagliarsi, ma che cammina senza sosta e avanza ogni giorno affrontando sia gli anacronistici recalcitranti che gli infatuati impazienti. Perché credo che i miei doveri di poeta non solo mi indicavano la fraternità con la rosa e la simmetria, con l'esaltato amore e con la nostalgia infinita, ma anche con le aspre faccende umane che ho integrato nella mia poesia.
Esattamente cent'anni orsono, un povero e splendido poeta, il più atroce dei disperati, scrisse questa profezia: A l'aurore, armés d'une ardente patience, nous entrerons aux splendides Villes. (All'alba, armati di un'ardente pazienza, entreremo nelle splendide città).
Io credo in questa profezia di Rimbaud, il veggente. Io vengo da un'oscura provincia, da un paese separato da tutti gli altri dalla tagliente geografia. Sono stato il più abbandonato dei poeti e la mia poesia è stata regionale, dolorosa e piovosa. Ma ho sempre avuto fiducia nell'uomo. Non ho mai perso la speranza. Per questo forse sono arrivato fin qui con la mia poesia, e anche con la mia bandiera.
In conclusione, devo dire agl'i uomini di buona volontà, ai lavoratori, ai poeti, che tutto l'avvenire è stato espresso in questa frase di Rimbaud: solo con un'ardente pazienza conquisteremo la splendida città che darà luce, giustizia e dignità a tutti gli uomini.
Così la poesia non avrà cantato invano.

(Discorso pronunciato in occasione della consegna del Premio Nobel per la Letteratura, 1971).

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