- 1974 - Giardino d'inverno
GIARDINO D’INVERNO (1974)
L’EGOISTA
Non manca nessuno nel giardino. Non c'è nessuno:
solo l'inverno verde e nero, il giorno
insonne come un'apparizione,
fantasma bianco, fredda vestitura,
per le scale di un castello. È ora
che nessuno giunga, cadono appena
le gocce che rapprendevan la rugiada
sui rami nudi dell'inverno
ed io e tu in questa zona solitaria,
invincibili e soli, in attesa
che nessuno giunga, no, nessuno venga
con sorriso o medaglia o preventivo
a proporci nulla.
Questa è l'ora
delle foglie cadute, triturate
sopra la terra, quando
d'essere e non essere tornano al fondo
spogliandosi d'oro e di verzura
fino a che son radici nuovamente
e di nuovo, demolendosi e nascendo,
salgono a conoscere la primavera.
Oh cuore perduto
in me stesso, nella mia stessa investitura,
qual generosa transizione ti popola!
Io non sono colpevole
d'esser fuggito né d'essere accorso:
non mi poté sciupare la sventura!
La stessa gioia può essere amara
a forza di baciarla ogni giorno
e non v'è strada per liberarsi
dal sole che la morte.
Che posso fare se mi scelse la stella
per lampeggiare, e se la spina
mi condusse al dolor d'alcuni molti.
Che posso fare se ogni movimento
della mia mano m'appressò alla rosa?
Devo chieder perdono per quest'inverno,
il più lontano, il più irraggiungibile
per quell'uomo che cercava il freddo
senza che nessuno soffrisse per la sua gioia?
E se tra queste strade:
- Francia distante, numeri di nebbia -
torno al recinto della mia stessa vita:
un giardino solo, una comune povera,
e d'improvviso questo giorno uguale a tutti
scende per scale che non esistono
vestirò di purezza irresistibile,
e c'è un odore d'acuta solitudine,
d'umidità, d'acqua, di nascere nuovamente;
che posso fare se senza alcuno respiro,
perché dovrei sentirmi ferito gravemente?
GAUTAMA CRISTO
I nomi di Dio e in particolare del suo rappresentante
chiamato Gesù o Cristo, secondo testi e bocche,
son stati usati, sciupati e abbandonati
sulla riva del fiume delle vite
come vuote conchiglie d'un mollusco.
Tuttavia, toccando questi nomi sacri
e dissanguati, petali feriti,
saldi degli oceani dell'amore e della paura,
qualcosa ancor permane: un labbro d'agata,
un'orma iridata che ancor trema nella luce.
Mentre s'usavano i nomi di Dio
da parte dei migliori e dei peggiori, dei puri e degli sporchi,
dei bianchi e dei negri, da insanguinati assassini
e dalle vittime dorate che arsero nel napalm,
mentre Nixon con le mani
di Caino benediceva i suoi condannati a morte,
mentre meno e minori orme divine si trovavano sulla spiaggia,
gli uomini cominciarono a studiare i colori,
l'avvenire del miele, il segno dell'uranio,
cercarono con sfuducia e speranza le possibilità
d'uccidersi e di non uccidersi, d'organizzarsi in file,
d'andar più in là, di illimitarsi senza sosta,
Noi che attraversammo queste età con gusto di sangue,
di fumo di macerie, di cenere morta,
e non fummo capaci di perdere lo sguardo,
ci soffermammo spesso sui nomi di Dio,
li sollevammo con tenerezza perché ci ricordavano
gli antecessori, i primi, quelli che interrogarono,
quelli che trovarono l'inno che li unì nella sventura
e ora vedendo i frammenti vuoti dove abitò quell'uomo
sentiamo queste dolci sostanze
sciupate, dissipate dalla bontà e dalla cattiveria.
LA PELLE DELLA BETULLA
Come la pelle della betulla
sei argentea e odorosa:
devo contare sui tuoi occhi
per descrivere la primavera.
E benché non sappia come ti chiami
non c'è primo volume senza donna:
i libri si scrivono con baci
(e io vi prego di tacere
perché s'avvicini la pioggia).
Voglio dire che tra due mari
sta pendendo la mia statura
come una bandiera abbattuta.
Per la mia amata senza sguardo
sono disposto anche a morire
anche se s'imputa la mia morte
al mio deficiente organismo
o alla tristezza innecessaria
depositata negli armadi.
Certo è che il tempo fugge
e con voce di vedova mi chiama
dai boschi ormai dimenticati.
Prima di vedere il mondo, allora,
quando i miei occhi non s'aprivano
io disponevo di quattr'occhi:
i miei e quelli del mio amore:
non chiedetemi se ho cambiato:
(è solo il tempo che invecchia):
(vive cambiando di camicia
mentr'io continuo a camminare).
Tutte le labbra dell'amore
andaron formando il mio vestiario
dacché io mi sentii ignudo:
lei si chiamava Maria,
(forse Teresa si chiamava),
e m'abituai a camminare
consumato dalle mie passioni.
Sei tu quella che sarai
donna innata del mio amore,
colei che di creta fu formata
o quella di penne che volò
o la donna territoriale
dalla chioma nel fogliame
o la concentrica caduta
come una moneta ignuda
nello stagno di un topazio
o la presente curatrice
della mia scorretta indisciplina,
oppure quella che mai nacque
e che ancora sto attendendo.
Perché la luce della betulla
è la pelle della primavera.
MODESTAMENTE
Bisogna conoscere certe virtù
normali, vestiti d'ogni giorno
che da tanto visti sembrano invisibili
e non abbandonarci all'eccezionale,
al mangiafuoco o alla donna ragno.
Indubbiamente preconizzo l'eccellenza silvestre,
il rispetto antiquato, la sete naturale,
l'economia dei fatti sublimi che s'appiccicano
di roccia in roccia alle generazioni successive,
come certi molluschi vincitori del mare.
Tutta la gente, siam noi, gli anelli grigi
delle vite che si ripetono fino alla morte,
e non portiamo uniformi smisurate, né rotture esatte:
ci convengono le comunicazioni, il chiaro amore, il pane puro,
il football, le strade ingombre d'immondizie sulla porta,
i cani dalle code condiscendenti, il succo di un limone
nell'avvento del pesce pacifico.
Chiedo autorizzazione per essere come tutti,
come tutti e, anche, come chiunque:
vi prego, caldamente,
se si tratta di me, giacché di ciò si tratta,
eliminate lo squillo durante la mia visita
e rassegnatevi alla mia tranquilla assenza.
CON QUEVEDO, IN PRIMAVERA
Tutto è fiorito in
questi campi, meli,
azzurri titubanti, sterpi gialli,
e nell'erba verde vivono i papaveri.
Il cielo inestinguibile, l'aria nuova
d'ogni giorno, il tacito fulgore,
regalo d'un'estesa primavera.
Solo nei mio recinto primavera manca.
Malattie, baci scardinati,
com'edere di chiesa si sono appiccicati
alle nere finestre della mia vita
e il solo amor non basta, né il selvaggio,
diffuso aroma della primavera.
Cosa sono per te in questo ora
la sfrenata luce, Io svolgersi
floreale dell'evidenza, il canto verde
delle verdi foglie, la presenza
del cielo con la sua coppa di freschezza?.
Primavera esteriore, non tormentarmi,
sciogliendo nelle mie braccia vino e neve;
corolla e mazzo rotto di dolori,
dammi per oggi il sonno delle foglie
notturne, la notte in cui s'incontrano
i morti, i metalli, le radici,
e tante primavere estinte
che si svegliano in ogni primavera.
TUTTI SAPERE
Qualcuno chiederà più tardi, un giorno,
cercando un nome, il suo o qualsiasi altro,
perché non apprezzai la sua amicizia o il suo nome,
la sua ragione, il delirio o le sue fatiche:
avrà ragione: mio dovere era nominarti,
nominar te, il più lontano e il più vicino,
qualcuno per l'eroica cicatrice,
una donna per il suo petalo,
l'arrogante per l'aggressiva innocenza,
il dimenticalo per l'insigne oscurità.
Per tutti non ho avuto tempo né inchiostro.
Oppure il discredito della città, del tempo,
il freddo cuore degli orologi
che palpitarono tagliando la mia misura.
qualcosa accadde, non decifrai,
non capii tutti i significati:
chiedo perdono a chi non è presente:
era mio obbligo comprender tutti, il delirante,
il debole, il tenace, il macchiato, l'eroico, il vile,
l'innamorato fino alle lacrime, l'ingrato,
il redentore aggrappato alla sua catena,
il luttuoso campione della gioia.
Ahi, perché raccontiamo le tue verità
se io vissi con esse,
se sono ognuno e ogni volta,
se mi chiamo sempre col tuo nome.
IMMAGINE
D'una donna che appena conobbi
conservo il nome chiuso: è una scatola,
alzo di tanto in tanto le sillabe che hanno
ruggine e cigolano come pianoforti sconnessi:
escono poi gli alberi, quelli della pioggia,
i gelsomini, le trecce vittoriose
d'una donna senza corpo ormai, perduta,
affogata nel tempo come in un lento lago:
i suoi occhi vi si spensero come carboni.
Tuttavia, c'è nella dissoluzione
fragranza morta, arterie sotterrate,
o semplicemente vita tra altre vite.
È aromatico volgere il volto
senz'altra direzione che la purezza:
sentire il polso al cielo torrenziale
della nostra gioventù deteriorata:
girare un anello nel vuoto,
gridare follemente.
Mi duole non aver tempo per le mie esistenze,
la minima, il souvenir lasciato in un vagone
di treno, in un'alcova o nella birreria,
come un ombrello che lì rimase nella pioggia:
forse son queste labbra impercettibili
che s'odono come risonanza marina
d'improvviso, a un angolo della strada,
Per questo, Irene o Rosa, Maria o Leonor,
scatole vuole, fiori secchi in un libro,
chiamano in circostanze solitarie
e occorre aprire, udire quanto non ha voce,
guardare queste cose che non esistono.
L’OCEANO CHIAMA
Non vado al mare in questa vasta estate
coperta di calore, non vado più in là
dei muri, delle porte, delle screpolature
che circondano le vite e la mia vita.
In che distanza, davanti a qual finestra,
in quale stazione di treni
ho dimenticato il mare e lì siamo rimasti,
io volto le spalle a ciò che amo
mentre là continua la battaglia
di bianco e verde e pietra e scintillio.
Fu così, così sembra che fu;
cambiano le vite, e chi va morendo
non sa che quella parte della vita,
quella nota maggiore, l'abbondanza
di collera e fulgore lungi restarono,
ti furono tagliate ciecamente.
No, io mi rifiuto al mare sconosciuto,
morto, circondalo di tristi città,
mare le cui onde non sanno uccidere,
né caricarsi di sale e di suono:
Io voglio il mio mare, l'artiglieria
dell'oceano che batte sulle rive,
quel precipizio insigne di turchesi,
la schiuma dove muore la potenza.
Non vado al mare quest'estate, sono
Rinchiuso, sotterrato e lungo
Il tunnel che mi tiene prigioniero
Odo remotamente un tuono verde,
un cataclisma di bottiglie rotte,
un sussurro di sale e d’agonia.
È il liberatore. È l’oceano,
laggiù, nella mia patria, che m’attende.
UCCELLO
Un uccello elegante,
zampe sottili, coda interminabile,
viene
vicino a me, per sapere che animale sono.
Accade in Primavera,
a Condé-sur-Iton, m Normandia.
Ha una stella o goccia
di quarzo, di farina o di neve
sulla fronte minuscola
e due righe azzurre lo percorrono
dal collo alla coda,
due linee stellari di turchese.
Fa minuscoli salti
guardandomi circondato
d'erba verde e di cielo
e son due segni interrogativi
i suoi nervosi occhi che spiano
come due spilli,
due punte nere, raggi minuscoli
che mi penetrano per domandarmi
se volo e verso dove.
Intrepido, vestito
come un fiore con le sue ardenti penne,
diretto, deciso
davanti all'ostilità della mia statura,
d'improvviso trova un grano o un verme
e a salti di sottili piedi di fildiferro
abbandona l'enigma
di questo gigante che rimane solo,
senza la sua piccola vita passeggera.
GIARDINO D'INVERNO
Giunge l'inverno. Splendido dettato
mi dan le foglie lente
vestite di giallo e di silenzio.
Sono un libro di neve,
una mano spaziosa, una prateria,
un circolo che attende,
appartengo alla terra e al suo inverno.
Crebbe il rumor del mondo nel fogliame,
arse poi il frumento costellato
di fiori rossi come scottature,
quindi venne l'autunno a stabilire
la scrittura del vino:
tutto passò, fu cielo passeggero
la coppa dell'estate,
e si spense la nube navigante.
Ho atteso sul balcone così funebre,
come ieri con l'edera della mia infanzia,
che la terra distendesse
le sue ali sul mio amore disabitato.
Ho saputo che la rosa sarebbe caduta
e che il nocciolo della pesca transitoria
sarebbe tornato a dormire e a germinare:
mi sono inebriato con la coppa dell'aria
fino a che tutto il mare divenne notturno
e il rosso delle nubi fu cenere.
La terra vive ora
tranquillizando il suo interrogatorio,
distesa la pelle del suo silenzio.
Io tomo a essere ora
il taciturno che venne da lontano
avvolto di pioggia fredda e di campane:
debbo alla morte pura della terra
la volontà delle mie germinazioni.
MOLTE GRAZIE
Bisogna camminar tanto per il mondo
per constatare certe cose,
certe leggi di sole azzurro,
il rumore centrale del dolore,
l'esattezza primaverile.
Io sono tardo di problemi:
giungo tardi all'anfiteatro
dove si attende l'arrivo
della minestra dei centauri!
Brillano lì i vincitori
e si moltiplica l'autunno.
Perché io vivo esiliato
dallo splendore delle arance?
A poco a poco mi son reso conto
che in questi giorni soffocanti
consumo la mia vita a sedermi,
sciupo la luce sui tappeti.
Se non m'hanno lasciato entrare
nella casa degli urgenti,
di quelli che giunsero in tempo,
voglio sapere cosa accadde
quando si chiusero le porte,
Quando si chiusero le porte
e il mondo scomparve
in un mormorio di cappelli
che come il mare ripetevano
un prestigioso movimento.
Con queste ragioni d’assenza
Chiedo perdono per la mia condotta.
RITORNI
Due ritorni s'unirono alla mia vita
e al mare di ogni giorno:
d'un colpo affrontai la luce, la terra,
una certa pace provvisoria. Una cipolla
era una luna, globo
nutriente della notte, il sole arancione
sommerso nel mare:
un arrivo
che sopportai, che repressi finora,
che io determinai, e qui rimango:
ora la verità è il ritorno.
L'ho sentito come una rottura,
come una noce di vetro
che si rompe sulla roccia
e di lì, in un tuono, entrò la luce,
la luce del litorale, del mar perduto,
del mare conquistato ora e per sempre.
Io sono l'uomo di tanti ritorni
che formano un grappolo tradito,
di nuovo, addio, da un temibile viaggio
in cui vado senza giungere in nessuna parte;
la mia unica traversata è un ritorno.
Questa volta tra gli incitamenti
ho temuto di toccar la sabbia, lo splendore
di questo mare duramente ferito e sparso,
ma ormai disposto alle mie ingiustizie
la decisione cadde col suono
d'un frutto di cristallo che s'infrange
e nel colpo sonoro vidi la vita,
la terra avvolta d'ombre e scintillii
e la coppa del mare sotto le mie labbra.
GLI SPERDUTI DEL BOSCO
Io sono uno di quelli che non arrivò al bosco,
dei retrocessi dall'inverno sulla terra,
incalzati da scarabei iridati e pungenti
o da tremendi fiumi che s'opponevano al destino.
Questo è il bosco, è comodo il fogliame, sono altissimi mobili,
gli alberi, assorte cetre le foglie,
si sono cancellati sentieri, cinte, patrimoni,
l'aria è patriarcale e odora di tristezza.
Tutto è cerimonioso nel giardino selvaggio
dell'infanzia: vi sono mele presso l'acqua
che viene dalla neve nera nascosta nelle Ande:
mele il cui aspro rossore non conosce i denti
dell'uomo, ma la beccata di voraci uccelli,
mele che inventarono la simmetria silvestre
e camminano con lentissimo passo verso lo zucchero.
Tutto è nuovo e antico nello splendore circostante,
quelli che fin qui vennero sono i menomati,
e quelli che restarono indietro in distanza
sono i naufraghi che possono o no sopravvivere:
solo allora conosceranno le leggi del bosco.
IN MEMORIAM MANUEL E BENJAMIN
Nel medesimo tempo, due della mia esistenza,
della mia cava, due dei miei lavori,
morirono con ore d'intervallo:
uno avvolto in Santiago, l'altro in Tacna:
due singolari, ora solamente
simili, unica volta, perché morti.
Il primo fu astuto e sovrano,
aspro, di rugosa investitura,
piuttosto amante del silenzio:
di operaio esperto conservò
la mano al lavoro predisposta
alla pietra, al metallo della ferriera.
L'altro, inquieto di conoscenza,
di ramo in ramo uccello della vita,
fuococentrista come un bel faro
d'intermittenti raggi.
Due seguaci
di due sapienze differenti:
due nobili solitari che s'uniron oggi
per me nella notizia della morte.
Ho amato i miei due opposti compagni
che, ammutolendo, m'han lasciato muto
senza saper che dire né pensare.
Tanto ricercar sotto la pelle,
tanto tra anime e radici camminare,
tanto pungere carta ora a ora!
Adesso son tranquilli e si abituano
a un nuovo spazio dell'oscurità,
l'uno con la sua rettitudine di rovere,
l'altro con il suo specchio e il suo miraggio:
entrambi passarono le nostre vite
tagliando il tempo, ammaestrando, aprendo
solchi, ricercando la parola giusta,
il pane della parola ogni giorno.
(Se non ebbero tempo di stancarsi
ora quieti e solenni finalmente
entran compatti in questo gran silenzio
che sminuzzerà le loro stature).
Mai le lacrime furono fatte
per uomini come questi.
Le nostre parole
suonano vuote come tombe nuove
dove le nostre orme stonano,
mentr'essi rimangono lì soli,
con naturalezza, come vissero.
II TEMPO
Con molti giorni si fa il giorno, un'ora
ha minuti in ritardo che son giunti e il giorno
si forma con oblii stravaganti, con metalli,
vetri, biancheria rimasta negli angoli,
predizioni, messaggi che mai giunsero.
II giorno è uno stagno nel bosco futuro,
che attende, si popola di foglie, d'avvenimenti,
di suoni opachi che entrarono nell'acqua
come pietre celesti.
Sulla riva
restan l'orme dorate della volpe vespertina
che come un piccolo rapido re vuole la guerra:
il giorno accumula nella sua luce pagliuzze, mormorii:
tutto sorge d'improvviso come una vestitura
che è nostra, è il fulgore accumulato
che attendeva e che muore per ordine della notte
versandosi nell'ombra,
ANIMALE DI LUCE
Sono in questo infinito senza solitudine
un animale di luce incalzato
dai suoi errori e dal suo fogliame:
ampia è la selva: i miei simili qui
pullulano, retrocedono o trafficano,
mentre io mi ritiro accompagnalo
dalla scorta che il tempo determina;
onde del mare, stelle della notte.
È poco, è ampio, è scarso ed è tutto.
Tanto i miei occhi han visto altri occhi
e la mia bocca tanto fu baciata,
tanto ho inghiottito il fumo
di quei treni scomparsi:
le vecchie stazioni spietate
la polvere d'incessanti librerie,
che l'uomo io, il mortale, s'è stancato
d'occhi, di baci, di fumo, di strade,
di libri più compatti della terra.
Oggi nel fondo del bosco perduto
ode il rumore del nemico e fugge
non dagli altri ma da se stesso,
dalla conversazione interminabile,
dal coro che cantava con noi
e dal significato della vita.
Perché una volta, perché una voce, perché una
sillaba o il trascorrere di un silenzio
o il suono insepolto dell'onda
mi lasciano faccia a faccia alla verità,
e non c'è null'altro da decifrare,
null’altro da dire: questo era tutto:
si son chiuse le porte della selva,
circola il sole aprendo il fogliame,
sale la luna come fruito bianco
e l'uomo si rassegna al suo destino.
I TRIANGOLI
Tre triangoli d'uccelli incrociarono
sopra l'enorme oceano disteso
nell'inverno come bestia verde.
Tutto giace, il silenzio,
lo sviluppo grigio, la luce pesante
dello spazio, la terra intermittente.
Al disopra di tutto andò passando
un volo
e un altro volo
d'uccelli oscuri, corpi invernali,
triangoli tremanti
le cui ali
agitandosi appena
portan da un luogo all'altro
delle coste del Cile
il freddo grigio, i desolati giorni.
Io sono qui mentre di cielo in cielo
il tremor degli uccelli migratori
mi lascia sprofondato in me, nella mia materia
come in un pozzo di perpetuità
scavato da una spirale immobile.
Ormai sono scomparsi:
penne nere del mare,
uccelli ferrei
di scogliera e di rupi,
ora, a mezzo giorno, sono
davanti al vuoto: è lo spazio
dell'inverno disteso
e il mare si è messo
sopra il volto azzurro
una maschera amara.
UN CANE È MORTO
II mio cane è morto.
L'ho sotterrato nel giardino
vicino a una vecchia macchina arrugginita.
Lì, non più sotto,
né più sopra,
si unirà con me un giorno.
Ora egli ormai se n'è andato col suo pelame,
la sua cattiva educazione, il naso freddo.
E io, materialista che non crede
nel celeste cielo promesso
per nessun essere umano,
per questo cane o per ogni cane
credo nel cielo, sì, credo in un cielo
dove non entrerò, ma lui m'attende
ondeggiando la coda di ventaglio
perché io giungendo abbia amici.
Ahi non dirò la tristezza sulla terra
di non averlo più come compagno
che mai per me è stato un servitore.
Ebbe per me l'amicizia d'un riccio
che conservava la sua sovranità,
l'amicizia d'una stella indipendente
senz'altra intimità che quella necessaria,
senza esagerazioni:
non stop s'arrampicava sui miei vestiti
empiendomi di peli o di rogna,
non si strusciava contro il mio ginocchio
come altri cani ossessi sessuali.
No, il mio cane mi guardava
prestandomi l'attenzione di cui ho bisogno
l'attenzione necessaria
per far comprendere a un vanitoso
che essendo cane lui,
con quegli occhi, più puri dei miei,
perdeva il tempo, ma mi guardava
con lo sguardo che mi riservò
per tutta la sua dolce, la sua pelosa vita,
la sua silenziosa vita,
vicino a me, senza seccarmi mai,
e senza chiedermi nulla.
Ahi quante volte ho voluto avere coda
camminando vicino a lui lungo le rive
del mare, nell'Inverno di Isla Negra,
nella gran solitudine: in alto l'aria
trafitta d'uccelli glaciali
e il mio cane che saltava, irsuto, pieno
di voltaggio marino in movimento:
il mio cane vagabondo e olfattivo
inalberando la sua coda dorata
faccia a faccia all'Oceano e alla sua schiuma,
Allegro, allegro, allegro
come i cani sanno essere felici,
senza nient'altro, con l'assolutismo
della natura sfacciata,
Non v'è addio per il mio cane ch'è morto.
E non v'è né vi fu menzogna tra di noi.
Se n'è andato ormai e l'ho sepolto, questo era tutto.
AUTUNNO
Questi mesi trascinan lo stridore
d'una guerra civile non dichiarata.
Uomini, donne, grida, sfide,
mentre nella città ostile s'installa,
sulle sabbie ora desolate
del mare e le sue schiume vere,
l'Autunno, vestito da soldato,
grigio di testa, lento d'atteggiamento:
l'Autunno invasore copre la terra.
Il Cile si sveglia o dorme. Esce il sole
meditativo tra le foglie gialle
che volano come palpebre politiche
staccate dal cielo tormentato.
Se prima non v'era luogo per le strade,
ora sì, la sostanza solitaria
di te e di me, forse di tutti,
vuoi uscire per compere o per sogni,
cerca il rettangolo della solitudine
con l'albero ancor verde che vacilla
prima di sfogliarsi e di abbattersi
vestito d'oro e poi da mendicante.
Io torno al mare avvolto dal cielo:
il silenzio tra un'onda e l'altra
stabilisce una pericolosa sospensione:
muore la vita, si acquieta il sangue
fino a che erompe il nuovo movimento
e risuona la voce dell'infinito.
LA STELLA
Bene, non sono più tornato, più non soffro
di non tornare, si è decisa la sabbia
e come parte d'onda e di biglietto,
sillaba del sale, pidocchio dell'acqua,
io, sovrano, schiavo della costa
mi sono sottomesso, incatenato alla mia roccia.
Non c'è libertà per noi che siamo
frammento dello stupore,
non c'è uscita per questo ritornare
a se stesso, alla pietra di se stesso,
non c'è più altra scelta che il mare.