- 1974 - Difetti scelti - Pablo Neruda - Popol Vuh - Insetti

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- 1974 - Difetti scelti

DIFETTI SCELTI             (1973)

REPERTORIO

Qui c'è gente con nomi e con piedi
con strade e con cognome:
anch'io son nella fila
col filo.
Ci sono quelli già sgranati
giù
nel
pozzo
che scavarono e in cui caddero:
ci sono i buoni e i cattivi insieme,
i sacrificatori e la pietra
dove tagliarono la testa
a quanti s'avvicinarono al loro abisso.

C'è di tutto nella cesta: sono solo
sonagli, qui, rumori di tavola,
di spari, di cucchiai, di baffi:
non so che mi accadde né cosa accadeva
a me stesso né ad essi,
è certo che li vidi,
li toccai e poiché la vita va
senza trattenere le sue ruote
io li vissi quand'essi mi vissero,
amici o nemici o pareti,
o santi inaccettabili che soffrivano,
o signori dal cappello triste,
o villani che il vento si mangiò,
o tutto ancora: il grano del granaio
le mie colpe senza sosta nude
che ogni giorno entrando nel bagno
uscirono alla luce più macchiate.

Ahi, si salvi chi può!

Io sono l'archivista dei difetti
d'un solo giorno della mia collezione
e non ho crudeltà bensì pazienza:
nessuno piange ormai, passò di moda
la bella lacrima come un giglio,
perfino il rimorso è morto.

Per questo presento la mia corona
d'iniquo giudice che nessuno accontenta,
né i ladri, né la loro degna sposa;
voi lo sapete:
io che parlo per parlare parlo invano:
di quanto ho visto, di quanto vedrò
sto rimanendo cieco.

ANTOINE COURAGE

Quel qualcuno dopo essere nato
dedicò la sua esistenza a scavarsi;
con quel materiale andò fabbricando
la sua torre sventurata:
per me lo strano di quell'uomo
chiaro ed evidente come fu,
è che s'affacciava alla finestra
perché gli uomini e le donne
lo vedessero attraverso i vetri
lo vedessero povero o ricco, l'applaudissero
con due donne per volta, nudo,
lo vedessero militante o perduro,
impuro, cristallino,
nella sua miseria, nella sua Jaguar, sazio
di droghe o mostrando la verità,
o sprofondando nella sua triste gioia.

Quando questa fiamma si spense, sembra
facile, allo splendore della nostra vita,
colpire chi morì, scavare le sue ossa,
sgretolare la torre del suo orgoglio:
battere la crepa del contradittorio
mangiando Io stesso pane della sua amarezza:
misurare il superbo detronizzato
con la nostra segretissima superbia:
ah, questo no! questo no! quel che voglio
è sapere se quello era il vero:
quel che si consumava e si incendiava
o quello che gridava perché lo vedessero:
se fu quell'artigiano del disprezzo
che attendeva l'amore del disprezzato
come tanti mendichi iracondi.

Lascio qui questa storia:
non l'ho terminata io, bensì la morte,
ma si vede che tutti siamo giudici
ed è nostra accanita volontà
partecipare all'ingiustizia altrui,

L'ALTRO

Ieri il mio compagno
nervoso, insigne, integro,
tornò a farmi la vecchia invidia, a darmi
il peso della mia stessa sostanza intrasferibile.

Ti assaltai me, m'assalta
te, questo freddo di coltello
quando ti cambierei per gli altri,
quando la tua insufficienza si dissangua
dentro di te come una vena aperta
e ancora una volta tu vuoi costruirti
con quello che tu vuoi e che non sei.

Il mio compagno, antico
di volto come orma di vulcano,
ceneri, cicatrici
vicino ai vecchi occhi accesi:
(lampade del suo stesso sotterraneo),
mani rugose
che accarezzano il fulgore del mondo
e una sicurezza indipendente,
la spada dell'orgoglio
in quelle vecchie mani di guerriero.
Questo forse è ciò che io volevo
per destino, quello
che io non sono, perché
costantemente cambiamo di sole,
di casa, di paese, di pioggia, d'aria,
di libro e di vestito,
e il mio peggiore continua ad abitarmi,
continuo con ciò che sono fino alla morte?
Il mio compagno, allora,
bevve alla mia tavola, forse parlò, o ebbe
qualcuna delle sue interrogazioni
dure come un lampo
e andò ai suoi doveri, alla sua casa,
portandosi via ciò che io volevo essere,
forse malinconico
di non esser me, di non avere i miei occhi,
i miei occhi miserabili.

DEBITO ESTERO

Tra graissage, lavage e il giorno Dimanche
trascorre il vestito verde di questo viaggio:
attraversando birrerie si va al mare:
abbattendo parole si giunge al silenzio:
alla terza solitudine, quella scelta.

(Montenegro, il signore senza specchio,
esce, spaventato per le conversazioni,
e stima con gravità che è giunta l'ora
d'interrompere con la sua presenza la natura).

Comprendiamo questa nuova stirpe di prigionieri:
egli rimase in una riunione interminabile
dove senza sapere quando né come,
immobile come una stalattite polare,
si dedicò, indifeso tra i capitalisti,
ad osservare i volti freddi di ognuno:
erano riuniti per giudicare il Cile,
che gli doveva un miliardo di dollari a testa.

Montenegro non seppe mai come arrivo in quella gabbia:
ma la sua vita non era stata esente
da avventure con pantere delicatamente sanguinarie,
o con serpenti pitoni di rispettabile potenza:
aveva percorso la selva di Ceylon all'alba,
camuffato da coccodrillo per spaventare gli elefanti:
eppure mai si sentì perduto come questa volta,
in questo ministero dalle labbra sottili e sguardo astratto,
dove si scagliavano numeri con freddo furore.

Nessuno dei banchieri guardò Montenegro. La verità
è che non si guardavano l'un l'altro (in fondo
si conoscevano), (opachi e al tempo stesso trasparenti),
erano tutti d'accordo nel non accettare gli intrusi,
le mosche che cadevano senza sosta nel freddo.

Adesso gli sembrava di nuotare in acqua celeste,
di volare nel respiro dei boschi, di nascere,
non aveva altra rotta il citato, né gioia,
era il fuggitivo dalle bocche di Parigi,
l'inesatto, il partigiano di costumi gregari
che era stato crivellato da sguardi di revolver
e sul punto di dissanguarsi s'era imbandierato a festa
per passare un gradevole giorno campestre.

Lasciamo il signor Montenegro ritornare ai suoi bar,
ai suoi amici strepitosi di scuola
e dimentichiamo su questa strada di Francia
l'automobile che si dirige a Rouen
con un mortale qualunque chiamato Montenegro.
Quando il Debito Estero stava per ucciderlo di paura
egli fuggì per i campi di Francia.

Chiedo rispetto per la sua fuga!

UN TAL MONTERO

Lo conobbi (quell'uomo si chiamava
Montero), nel tumulto
di una guerra in cui mi trovai.

Egli era attaccato alla politica
come una conchiglia alla geologia,
e sembrava che la corallifera espressione
fosse una cosa in più dell'organismo,
vitale e vitalizio, orgoglioso
di una purezza come quella del popolo.

Orbene, quell'uomo si ruppe
e la sua autenticità era menzogna.
Non era così, scoprimmo,
non era un acino del grappolo oscuro,
non era il gregario della volontà,
non era il capitano unanime:
tutto ciò che portava cadde
come un vecchio vestito. E restò nudo:
solo un vociferante individualista
sorto da una pozzanghera silvestre.

Ma ciò che importa o che non sopporto
è che la falsità di questo o quello
trovino maschera, guanti e vestiti
sì sontuosi e così composti
che noi, i veritieri,
pienamente convinti e a bocca aperta,
collaboriamo al loro carnevale
senza ben sapere dove sta la vita.

Ahi, non si chiamino traditori
tanti che mostrarono la verità
forse vivendola onestamente
per arrivare ad essere loro nemici
e odiarono a partir d'allora
ciò che furono e ciò che sempre siamo.

Il povero rinnegato
vive di tristezza in tristezza,
sopravvive in alberghi presuntuosi
sparlando sempre più amaro
fino a dilucidarsi nel vuoto,
senza più compagnia che il suo ombelico.

Perché imprecar contro loro se si consumarono
versando il freddo che avevano dentro?

TESTA DI UCCELLI

II gentiluomo Marcenac
venne a trovarmi sul finir del giorno
con più bianchezza in testa,
piena ancora d'uccelli.

Dentro il suo nobile cranio
egli ha colombe gialle,
queste colombe gli circolano
dormendo nell'anfiteatro
del suo cervelletto colombaia,
e poi l'ibis scarlatto
passeggia sulla sua fronte
una balestra insanguinata.

Ah che privilegio opulento!

Portare pernici, quaglie,
proteggere fagiani vistosi
piumaggi d'oro che rifuggono
il terreno fuoco d'artificio,
ma anche passeri, uccelli
azzurri, allodole, canarini,
e carpentieri, pettirossi,
bulbules, diucas, usignoli.

Dentro la sua chiara testa
che il tempo ha coperto di luce
il gentiluomo Marcenac
con la sua celeste uccelliera
va per le strade. E d'improvviso
la gente crede avere udito
improvvisi cantici selvaggi
o gorgheggi! dell'alba,
ma poiché lui non lo sa
continua il suo passo di viandante
e dove lui passa lo seguono
pallidi occhi spaventati.

Il gentiluomo Marcenac
s'è addormentato ormai in Saint Denis:
nella sua casa regna un gran silenzio
perché la sua testa riposa.

CHARMING

L'incantevole famiglia
con figlie squisitamente eccentriche
si va riunendo nella tomba:
gli uni al braccio della coca,
gli altri indeboliti dai debiti:
con molti grandi occhi pallidi
si dirigono in fila al mausoleo.

Qualcuno tardò più del previsto
(sperduto in safari o sauna o letto),
tardivo s'unì al crepuscolo,
al tè finale della finale famiglia.
La generalessa austera
dirigeva
e ognuno contava il suo racconto
di matrimoni assai malcombinati,
che simultaneamente si davano
colpi di mano, piatto o caffettiera,
a Bombay, Acapulco, Nizza o Río.

La minore, d'occhi dolci e gialli,
riuscì a svestirsi in ogni parte,
precipitosamente tempestosa,
e uno di essi usciva da un carcere
condannato per furti eleganti.

Il mondo stava cambiando
perché il tempo immutabile camminava
a braccetto della Riforma Agraria
ed era difficile trovar danaro
appeso alle pareti: l'orologio
più non segnava l'ora sorridendo:
era altro volto della sera immobile.

Non so quando fu che se n'andarono:
non è mio compito annotare le uscite:
se n'andò quell'incantevole famiglia
e nessuno più ricorda la sua esistenza:
L'oscura casa è una scuola chiara
e nella cripta s'unirono i dispersi.

Come si chiamano, come si chiamarono?

Nessuno più domanda, più non v'è memoria,
non c'è più pietà, e solo io rispondo
per me stesso, con una certa tenerezza:
perché esseri umani e fogliame
rispettano i loro colori, si sfogliano:
continuano così le vite e la terra.

E' GIUNTO HOMERO

H. Arce e dal Cile. Caro signore,
che distanza e che cavaliere parco:
sembrava di no, che non potesse
uscire dal Cile, mia patria spinosa,
mia patria rocciosa e mobile.
Da là a qui, formalmente agghindato
con cravatta e calzoni stirati
arrivò atlantico, dopo tutto,
senza commentare l'eroica traversata,
su un aereo stracolmo,
passeggero della prima volta.

Bisogna tener conto
della sua identità estatica e poetica,
del numero quieto d'ogni giorno
che mantenne in riposo
il nobile fuoco della sua poesia.
Bisogna conoscere le cose di questi uomini
che tanto sono grandi si nascondono
disprezzando le egemonie,
integrali come il legno
delle antiche travi levigate
dal tatto del tempo e del decoro.

Ora è qui di nuovo il mio
compagno.
E poiché lo conosco non gli dico
null'altro che « Buongiorno ».

ROCCIA IMPERVIA

C'è una roccia impervia
qui, sulla costa;
il vento furibondo,
il sale del mare, l'ira,
da sempre, adesso
e ieri, e ogni secolo,
l'attaccarono:
ha rughe,
caverne,
fenditure, figure, gradini,
guance di granito
e il mare scoppia sulla roccia
amandola,
sprigiona il bacio maligno,
lampi di schiuma,
brillio di luna rabbiosa.
È una roccia grigia,
color d'età, austera,
infinita, stanca, possente.

PASSÒ DI QUI

Che compagno salutare!
Gira intorno
alla mia repubblica, e mi sembra
che ormai gli cadesse il sorriso
dalla sua tettoia, dalla sua bicicletta,
o nella plaza taurina, planetaria,
ancor più grande sotto la luce politica,
e nulla, mai, sempre l'imperterrito,
l'integerrimo e la sua dentatura.

Quest'altro con la sua verità e con la mia,
la verità vera,
legata a un legno, a una minaccia,
cercando chi colpire sulla testa
con il fragile naso della giustizia.

Così, attraverso secoli, che salute
questo mio amico nella verità, e l'altro
nell'altro cerchio, nella menzogna.

Perciò applaudo nel bene, con reticenza,
con un certo pudore di povero che va al circo
e deve tornare di notte al villaggio
per le cattive strade della mia terra.

E l'altro, salutare e avversario,
frenetico malvagio, col suo circolo,
sì, sì, di stupefatti roditori,
io, settario, condanno e destituisco.

Con chi, fratello di domani,
con chi mi resterai, ti resterò?
Quale delle due metà energumeno
avrà il suo monumento nella strada?

Facciamole riunire a fuoco e a lacrime,
si riuniscano una volta per tutte
e non secchino con tanta bontà
né con tanta cattiveria: abbiam capito ormai
che mai riusciremo a essere così buoni,
né arriveremo a essere così perversi:
attenzione, attenzione a cambiar vita
e a rimanere a vivere da un solo lato!

CANZONE TRISTE
PER ANNOIARE CHIUNQUE

Tutta la notte mi passai la vita
facendo conti,
ma non di vacche,
ma non di sterline,
ma non di franchi,
ma non di dollari,
no, niente di questo.

Tutta la vita mi passai la notte
facendo conti,
ma non di auto,
ma non di gatti,
ma non d'amori,
no.

Tutta la vita mi passai la luce
facendo conti,
ma non di libri,
ma non di cani,
ma non di cifre,
no.

Tutta la luna mi passai la notte
facendo conti,
ma non di baci,
ma non di fidanzate,
ma non di letti,
no.

Tutta la notte mi passai le onde
facendo conti,
ma non di bottiglie,
ma non di denti,
ma non di coppe,
no.

Tutta la guerra mi passai la pace
facendo conti,
ma non di morti,
ma non di fiori,
no.

Tutta la pioggia mi passai la terra
facendo conti,
ma non di strade,
ma non di canzoni,
no.

Tutta la terra mi passai l'ombra
facendo conti,
ma non di capelli,
non di rughe,
non di cose perdute,
no.

Tutta la morte mi passai la vita
facendo conti:
ma di cosa si tratta
non ricordo,
no.

Tutta la vita mi passai la morte
facendo conti
e se ne uscii perdente
o se ne uscii vincente
io non lo so, la terra
non lo sa.

Eccetera.

L’INCOMPETENTE

Son nato così negato a competere
che Pedro e Giovanni si portano via tutto:
le palle,
le ragazze,
le aspirine e le sigarette.

È difficile l'infanzia per un fesso
e siccome io sono stato
sempre più fesso degli altri fessi
m'hanno rubato i lapis, le gomme
e i primi baci di Temuco.

Ah, quelle ragazze!
Non ho mai visto principesse come loro,
erano azzurre o a lutto,
chiare come cipolle, come la madreperla,
mani di precisione, nasi puri,
occhi insopportabili di cavallo,
piedi come pesci o come gigli.

Certo si è che io andai
allampanato e ricoprendo con orgoglio
la mia condizione d'innamorato idiota,
senza ardire di guardare una gamba
né quei capelli dietro la testa
che cadevano come cateratta
d'acque oscure sui miei desideri.

Poi, signori, mi accadde la stessa cosa
per tutte le strade che percorsi,
con una gomitata o con due occhi freddi
mi eliminavano dalla gara,
non mi lasciavano entrare nella sala da pranzo,
tutti s'allontanavano con le loro bionde.

Io non sono capace di ribellarmi.

Il fatto di andar sfoggiando
meriti o medaglie nascoste,
nobili azioni, titoli segreti,
non va d'accordo con la mia spaventata idiosincrasia:
io affondo nel mio buco
e per ogni spintone che mi danno
retrocedendo nella zoologia
sono finito come le talpe, sotto terra,
a cercare un sotterraneo confortevole
dove le mosche non mi visitino.

Questa è la mia triste storia
anche se forse meno triste
della sua, signore,
giacché forse penso anche,
penso che lei sia ancor più fesso di me.

ORIGANO

Quando imparai con lentezza
a parlare
credo che già appresi l'incoerenza;
non mi capiva nessuno, neppure io mi capivo,
e odiai quelle parole
che mi riconducevano sempre
al medesimo pozzo,
al pozzo del mio essere ancora oscuro,
ancora trafitto dalla mia nascita,
finché trovai su un marciapiede di stazione
o in un campo appena inaugurato
una parola: origano,
parola che mi liberò
come tirandomi fuori da un labirinto.

Non volli imparare altra parola.

Bruciai i dizionari,
mi chiusi in quelle sillabe cantanti,
retrospettive, magiche, silvestri,
e a piena voce per le rive
dei fiumi,
tra biodi taglienti
o nel cemento della cittadella,
in miniere, uffici e veglie funebri,
masticavo la mia parola origano,
ed era come se fosse una colomba
che liberavo tra gli ignoranti.

Che odore di cuore temibile,
che odore di mazzo vero,
e che forma di palpebra
per dormire chiudendo gli occhi;
la notte ha origano;
e altre volte facendosi revolver
m'accompagnò a spasso tra le fiere:
quella parola difese i miei versi.

Un morso, dei canini (mi stavano
senza dubbio straziando)
i cinghiali e i coccodrilli:
allora
tirai fuori dalla tasca
la mia stimabile parola:
origano, gridai con gioia,
brandendola nella mano tremante.

Oh miracolo, le fiere spaventate
mi domandarono perdono e mi chiesero
umilmente origano.

Oh lepidottero tra le parole,
oh parola elicottero,
purissima e pregna
come un'apparizione sacerdotale
e carica d'aroma,
territorio come un leopardo nero,
fosforescente origano
che mi servì per non parlare con nessuno,
e per chiarire il mio destino
rinunciando allo sfoggio del discorso
con un idioma segreto, quello dell'origano.

QUELLI CHE MI ATTENDONO A MILANO

Quelli che mi attendono a Milano
sono molto lontani dalla nebbia;
non sono quelli che vi si trovano e sono
essi, oltre ad altri che mi attendono.
Sicuramente non sono giunti,
perché hanno gambe di pietra
e stanno in cerchio attendendo
all'entrata delle chiese,
ali sciupate che non volano,
nasi rotti da tempo.

Non sanno costoro che mi attendono
ch'io vado verso loro scendendo
dalle nubi e dai dubbi.

I santi pensierosi,
le Veneri dai nasi rotti,
gli atrabiliari rettili
che si attorcigliano e divengon gronda.
I serpenti del Paradiso
ed i profeti annoiati,
arrivano presto ai loro portici,
per attendermi con decoro.

PARODIA DEL GUERRIERO

Che cosa fanno laggiù?
Sembra che siano tutti occupati,
a friggere nei loro affari.

Laggiù, laggiù,
lontano,
procedono forse strepitosamente,
da qui non si vede molto,
non gli vedo le bocche,
non gli vedo
i particolari, i sorrisi
o le scarpe sconfitte.
Ma, perché non vengono?
Dove vanno a cacciarsi?

Son qui, son qui,
sono il campione mentale di sci, di box,
di corsa pesante,
d'ali nere,
sono il boia,
sono il sacerdote,
sono il più generale delle battaglie,
non lasciatemi,
no, per nessun motivo,
non andatevene,
ho qui un orologio,
ho una pallottola,
ho un progetto di guerriglia bancaria,
sono capace di tutto,
son padre di tutti voi,
figli maledetti:
che succede,
m'avete dimenticato?

Da qui in alto li vedo:
che goffi sono senza i miei piedi,
senza i miei consigli,
come si muovono male sul pavimento,
non sanno nulla del sole,
non conoscono la polvere da sparo,
devono imparare a essere bambini,
a mangiare, a invadere,
a salire le montagne,
a organizzare i quaderni,
a uccidere le pulci,
a decifrare il territorio,
a scoprire le isole.

Tutto è finito,

Se ne sono andati per le loro strade alle lor guerre,
alle loro indifferenze, ai loro letti.
Io son rimasto incollato
tra i denti della solitudine
come un pezzo di carne masticata
come l'osso anteriore
d'una bestia estinta.

Non è giusto! Reclamo
la mia direzione regionale, i miei uffici,
il rango che ho raggiunto nel reggimento,
nello sferisterio dei giocatori di palla,
non mi rassegno all'ombra.

Ho sete, appetito di luce,
e inghiotto solo ombra.

ALTRO CASTELLO

Non sono, non sono l'igneo,
son fatto di vestiti, di reumatismi,
di carte rotte, appuntamenti dimenticati,
poveri segni rupestri
su quelle che furono pietre orgogliose.

Che ne fu del castello della pioggia,
dell'adolescenza coi suoi tristi sogni
e di quel proposito socchiuso
d'uccello disteso, d'aquila in cielo,
di fuoco araldico?

Non sono, non sono il raggio
di fuoco azzurro, conficcato come lancia
in qualsiasi cuore senza amarezza.

La vita non è la punta di un coltello,
non è un colpo di stella,
ma uno sciuparsi dentro un vestiario,
una scarpa mille volte ripetuta,
una medaglia che si va ossidando
in una cassa oscura, oscura.

Non chiedo nuova rosa né dolori,
né indifferenza è ciò che mi consuma,
ma ogni segno è stato scritto,
il sale e il vento cancellano la scrittura
e l'anima è ora un tamburo silenzioso
sulla riva di un fiume, di quel fiume
che era lì e lì continuerà ad essere.

IL GRANDE ORINATORE

II grande orinatore era giallo
e il getto che cadde
era una pioggia color bronzo
sopra le cupole delle chiese,
sopra i tetti delle automobili,
sopra le fabbriche ed i cimiteri,
sopra la moltitudine e i suoi giardini.

Chi era, dov'era?

Era una densità, liquido denso
ciò che cadeva
come da un cavallo
e spaventati passanti
senza ombrello
cercavano volti al cielo,
mentre i viali s'inondavano
e da sotto le porte
entravano le orine instancabili,
empiendo fossi, corrompendo
pavimenti di marmo, tappeti,
scale.

Non si scorgeva nulla. Dove
si trovava il pericolo?

Che succedeva nel mondo?

Il grande orinatore dalla sua altezza
taceva ed orinava.

Che vuol dire questo?

Sono un semplice poeta,
non ho l'obbligo di decifrare enigmi,
né di proporre ombrelli speciali.

A tra poco! Saluto e mi ritiro
in un paese dove non mi facciano domande.

MORTE E PERSECUZIONE
DEI PASSERI

Io ero in Cina
in quei giorni
quando Mao Tse-Tung, senza entusiasmo,
decretò l'immediata
defunzione di tutti i passeri.

Con la stessa ammirabile
disciplina
con cui fu costruita la gran muraglia
la multicina si moltiplicò
e ogni cinese cercò il nemico.

I bambini, i soldati, gli astronomi,
le bimbe, le soldatesse, le astronome,
gli aviatori, gli interratori,
i cuochi cinesi, i poeti,
gli inventori della polvere da sparo,
i contadini del riso sacro,
gli inventori di giocattoli,
i politici dal sorriso cinese,
tutti si volsero
al passero
ed esso cadde in milionaria morte,
finché l'ultimo, un passero supremo,
fu fucilato da Mao Tse-Tung.
Con ammirevole disciplina allora
ogni cinese partì con un passero,
con un triste, piccolo cadavere di passero
in tasca,
ognuno
dei settecento trenta
cittadini cinesi
con un passero in
ognuno
dei settecento trenta
milioni di tasche,
tutti marciarono intonando antichi
inni di gloria e di guerra
a sotterrare laggiù,
nelle montagne della Luna Verde
a uno a uno i passeri morti.

Per diciassette anni di seguito
ognuno in un piccolo mausoleo,
ossario individuale, tomba fiorita
o rapido ossario collettivo,
a uno a uno successivamente,
restarono sepolti
interamente i passeri cinesi.

Ma qualcosa accadde di strano.
Quando se n'andarono i sotterratori
cantarono i piccoli sepolti:
un tuono di passeri
passò tuonando per la terra cinese:
la voce di una tromba planetaria.

E quella voce risvegliò i mortali,
gli antichi morti,
i secoli di cinesi sepolti.

Tornarono alle loro vite,
ai loro aratri, alla loro economia.

Io non rimprovero. Lasciatemi tranquillo.

Ma così resta chiarito
perché ogni giorno nel mondo
vi sono più cinesi e meno passeri.

PASSEGGIANDO CON LAFORGUE

Dirò in questo modo, io, noi,
superficiali, malvestiti di profondi,
perché abbiamo voluto andare a braccetto
con questo tenero Giulio, morto senza compagnia?
Con un purissimo superficiale
che forse poté insegnarci a suo modo la vita,
la luna a modo suo,
senza l'asprezza ostile dello sconfitto?

Perché non accompagnammo il suo violino
che sfogliò l'autunno di carta del suo tempo
ad uso esclusivo di chiunque,
di tutti, come sarà?

Adolescenti eravamo, sciocchi innamorati
dell'aspro tenore di Sils-María,
quello sì ci piaceva,
l'irriducibile solitudine a contropelo,
la vetta degli uccelli aquila
che servono solo per le monete,
per gli imperatori, uccelli destinati
all'imbalsamazione e ai blasoni.

Adolescenti di pensioni sordide,
nutriti d'incessanti spaghetti,
briciole di pane nelle tasche rotte,
briciole di Nietzsche nelle povere teste:
senza di noi si risolveva tutto,
le strade e le case e l'amore:
fingevamo di amare la solitudine
come i prigionieri la loro pena.

Oggi ormai troppo tardi son tornato a trovarti,
Jules Laforgue,
gentile amico, cavaliere triste,
che ti burlavi di tutto ciò che eri,
solo nel parco dell'Imperatrice
con la tua luna portatile
- le decorazioni che ti mettevi -
così corretto nell'imbrunire,
così compagno della malinconia,
così generoso con il vasto mondo
che appena riuscisti a digerire.

Perché col tuo sorriso agonizzante
sei giunto tardi, dolce giovane ben vestito,
a consolarci delle nostre povere vite,
quando ormai ti sposavi con la morte.

Ahi quanto abbiamo perso col ripudio
nella nostra gioventù sprezzante
che solo amò la tempesta, la furia,
quando il frufrù che tu ci scopristi
o l'a solo d'astro che c'insegnasti
furono una verità che non imparammo:
la bellezza del mondo che perdevi
perché l'ereditassimo noialtri:
la nobile cifra che non deciframmo:
la tua gioventù mortale che voleva insegnarci
bussando alla finestra con una foglia gialla:
la tua lezione di adorabile professore,
di compagno puro,
così reticente come agonizzante.


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