- 1974 - Confesso che ho vissuto
CONFESSO CHE HO VISSUTO (1974)
Queste memorie o ricordi sono intermittenti e a tratti si smarriscono perché così appunto è la vita. L'intermittenza del sonno ci permette di sostenere i giorni di lavoro. Molti dei miei ricordi sono svaniti ad evocarli, son divenuti polvere come un cristallo irrimediabilmente ferito.
Le memorie del memorialista non sono le memorie del poeta. Quegli è vissuto forse meno, ma ha fotografato molto di più e ci diverte con la precisione dei particolari. Questi ci consegna una galleria di fantasmi scossi dal fuoco e dall'ombra della sua epoca.
Forse non vissi in me stesso; forse vissi la vita degli altri.
Da quanto ho lasciato scritto in queste pagine sempre si staccheranno — come negli albereti d'autunno e come al tempo delle vigne — le foglie gialle che vanno a morire e le uve che rivivranno nel vino che è sacro.
La mia vita è una vita fatta di tutte le vite: le vite del poeta.
Quaderno 1
IL GIOVANE PROVINCIALE
IL BOSCO CILENO
...Sotto i vulcani, accanto ai ghiacciai, fra i grandi laghi, il fragrante, il silenzioso, lo scarmigliato bosco cileno...(1) Affondando i piedi nel fogliame morto, un ramo che si spezza ha crepitato, i giganteschi raulì (2) innalzano la loro increspata statura, un uccello della selva
glaciale sfreccia, batte le ali, si posa fra l'ombra dei rami. E poi dal suo nascondiglio suona come un oboe... Mi entra dalle narici all'anima il profumo selvaggio dell'alloro, il profumo oscuro del boldo...(3) Il cipresso delle Guaitecas (4) mi impedisce il passaggio... È un mondo verticale: una nazione di uccelli, una moltitudine di foglie... Inciampo in una pietra, rovisto nella cavità aperta, un immenso ragno dalla chioma rossa mi guarda con occhi fissi, immobile, grande come un granchio... Un carabo dorato (5) mi lancia la sua emanazione mefitica, mentre scompare come un lampo il suo splendente arcobaleno... Camminando, attraverso un bosco di felci molto più alte di me: mi lasciano cadere in viso sessanta lacrime
dai loro verdi occhi freddi, e dietro di me restano a lungo tremando i loro ventagli... Un tronco marcio: che tesoro!... Funghi neri ed azzurri gli han dato orecchie, rosse piante parassite lo han colmato di rubini, altre piante indolenti gli han prestato le loro barbe e dalle sue fradice viscere sbuca, veloce, una biscia, come un'emanazione, quasi che dal tronco morto fuggisse l'anima... Più lontano ogni albero si è separato dai suoi simili... Si ergono sul tappeto della foresta segreta, e il fogliame di ogni chioma, lineare, increspato, ramificato, lanceolato, ha uno stile differente, come fosse tagliato da una forbice dai movimenti infiniti... Un burrone; sul
fondo, l'acqua trasparente scorre sul granito e il diaspro... Una farfalla pura come un limone vola, danzando fra l'acqua e la luce... Al mio fianco con le loro testoline gialle mi salutano le infinite calceolarie.. (6) In alto, come gocce arteriali della selva magica oscillano vibrando i
copihue (7) rossi (Lapageria Rosea)... Il copihue rosso è il fiore del sangue, il copihue bianco è il fiore della neve. In un tremito di foglie la velocità di una volpe ha attraversato il silenzio, ma il silenzio è la legge di questi fogliami... Appena il grido lontano di un animale confuso...
L'intersezione penetrante di un uccello nascosto... L'universo vegetale sussurra appena finché un uragano non mette in azione tutta la musica terrestre.
Chi non conosce il bosco cileno, non conosce questo pianeta.
Da quelle terre, da quel fango, da quel silenzio, io sono uscito ad andare, a cantare per il mondo.
INFANZIA E POESIA
Comincerò col dire, dei giorni e degli anni della mia infanzia, che il mio unico personaggio indimenticabile fu la pioggia. (8) La grande pioggia australe che cade come una cateratta dal Polo, dai cieli di Capo de Hornos fino alla frontiera. In questa frontiera o Far West della mia patria, nacqui alla vita, alla terra, alla poesia e alla pioggia.
Per quanto abbia camminato, mi sembra che sia andata perduta quell'arte di piovere che si esercitava come un potere sottile e terribile nella mia Araucania (9) natale. Pioveva mesi interi, anni interi. La pioggia cadeva in fili come lunghi aghi di vetro che si rompevano
sui tetti o arrivavano in onde trasparenti come le finestre, e ogni casa era una nave che difficilmente giungeva in porto in quell'oceano di inverno.
Questa pioggia fredda del sud dell'America non ha le raffiche impulsive della pioggia calda che cade come una frusta e passa lasciando il cielo azzurro. Al contrario, la pioggia australe ha pazienza e continua, senza fine, a cadere dal cielo grigio.
Di fronte a casa mia, la strada si è trasformata in un immenso mare di fango. Attraverso la pioggia vedo dalla finestra che un barroccio si è impantanato in mezzo alla strada. Un contadino, con un pesante mantello di lana nera, bastona i buoi che fra la pioggia e il fango non ne possono più.
Per i sentieri, posando il piede da una pietra all'altra, contro freddo e pioggia, andavamo al collegio. Gli ombrelli se li portava via il vento. Gli impermeabili erano cari, i guanti non mi piacevano, le scarpe si inzuppavano. Ricorderò sempre i calzini bagnati accanto al braciere e una fila di scarpe che sbuffavano vapore, come piccole locomotive. Poi venivano le inondazioni, che si portavano via le baracche dove viveva la gente più povera, vicino al fiume. Anche la terra, tremante, si scuoteva. Altre volte, sulla cordigliera spuntava un
pennacchio di luce terribile: il vulcano Llaima si svegliava.
Temuco è una città pioniera, una di quelle città senza passato, ma con botteghe di ferramenta. Gli indios non sanno leggere, e così le botteghe di ferramenta ostentano nelle strade i loro notevoli emblemi: un immenso saracco, (10) una pentola gigantesca, un lucchetto ciclopico, un cucchiaio antartico. Più in là, le calzolerie, uno stivale colossale.
Se Temuco era la avanzata della vita cilena nei territori del sud del Cile, ciò significava una lunga storia di sangue.
Sotto la spinta dei conquistatori spagnoli, dopo trecento anni di lotta, gli araucani ripiegarono in quelle regioni fredde. Ma i cileni continuarono quella che venne chiamata « la pacificazione dell'Araucania », la continuazione cioè di una guerra a ferro e fuoco, per spogliare i nostri compatrioti delle loro terre. Contro gli indios, tutte le armi furono usate generosamente: il colpo di fucile, l'incendio delle capanne, e poi, più paternamente, la legge e l'alcool. L'avvocato divenne anche uno specialista di saccheggio dei loro campi, il giudice li condannò quando protestarono, il prete li minacciò col fuoco eterno. E alla fine, l'acquavite consumò l'annientamento di una razza superba le cui gesta, il cui valore e la cui bellezza Don Alonso de Ercilla (11) lasciò incise in strofe di ferro e di diaspro nel suo Araucana.
I miei genitori erano arrivati da Parrai, la città in cui nacqui. Lì, nel centro del Cile, crescono le vigne e il vino abbonda. Senza che me lo ricordi, senza sapere di averla guardata con i miei occhi, mia madre, donna Rosa Basoalto, morì. Io nacqui il 12 luglio 1904 e un mese dopo, in agosto, sfinita dalla tubercolosi, mia madre non c'era più.
La vita era dura per i piccoli agricoltori del centro del paese. Mio nonno, don José Angel Reyes, aveva poca terra e molti figli. I nomi dei miei zii mi parvero nomi di principi di regni lontani. Si chiamavano Amós, Oseas, Joel, Abadias. Mio padre si chiamava semplicemente José del Carmen. (12) Se ne andò giovanissimo dalle terre paterne e lavorò come operaio nei bacini di carenaggio del porto di Taihuano, per finire ferroviere a Temuco.
Era conducente di un treno della ghiaia. Pochi sanno che cos'è un treno della ghiaia. Nella regione australe, dai grandi uragani, le acque porterebbero via le rotaie se non si stendesse un letto di sassi fra le traversine. Bisogna andare a prendere con dei cesti la ghiaia dalle cave e caricare il pietrisco sui carri merce. Quaranta anni fa l'equipaggio di un treno di questo tipo doveva essere formidabile. Venivano dai campi, dai sobborghi, dalle carceri. Erano braccianti giganteschi e muscolosi. I salari dell'impresa erano miserabili e non si chiedevano precedenti a chi voleva lavorare sui treni della ghiaia. Mio padre era conducente del treno. Si era abituato a comandare e ad obbedire. Qualche volta mi portava con sé. Caricavamo pietra a Boroa, cuore silvestre della frontiera, teatro delle terribili lotte fra spagnoli ed araucani.
La natura, lì, mi dava una specie di ebbrezza. Mi attiravano gli uccelli, gli scarabei, le uova di pernice. Era miracoloso scoprirle nelle fessure, brunite, scure e lucenti, di un colore simile a quello della canna di un fucile. Ero sbalordito dalla perfezione degli insetti. Raccoglievo le « madri della serpe ». Con questo nome stravagante veniva chiamato il più grande coleottero nero, brunito e forte, il titano degli insetti del Cile. Fa paura vederlo all'improvviso sui tronchi dei maqui (12) e dei meli selvatici, i cohiues, ma sapevo che era talmente forte che avrei potuto calpestarlo senza romperlo. Con la sua gran durezza difensiva non aveva bisogno di veleno.
Queste mie esplorazioni riempivano di curiosità i lavoratori. Ben presto cominciarono a interessarsi alle mie scoperte. Appena mio padre non faceva attenzione, si buttavano per la foresta vergine, e con più abilità, più intelligenza e più forza di me, mi trovavano tesori incredibili. C'era uno che si chiamava Monge. Un pericoloso attaccabrighe, secondo mio padre. Sul suo viso bruno spiccavano due grandi solchi. Uno era la cicatrice verticale di una coltellata e l'altro il suo sorriso bianco, orizzontale, pieno di simpatia e di astuzia. Questo Monge mi portava copihue bianchi, ragni pelosi, nidiate di colombacci, e una volta scoprì per me il tesoro più splendido, il coleottero del cohiue e della luma. (13) Non so se l'avete mai visto. Io lo vidi solo in quell'occasione. Era un lampo vestito di arcobaleno. Il rosso e il violetto e il verde e il giallo si confondevano nei bagliori del suo guscio. Come un lampo mi sfuggì dalle mani e tornò alla foresta. Monge non era più lì a riprendermelo. Non mi sono mai riavuto da quell'apparizione abbagliante. Né ho dimenticato quell'amico. Mio padre mi raccontò la sua morte. Cadde dal treno e rotolò per un precipizio. Il convoglio si arrestò, ma, mi diceva mio padre, ormai era solo un sacco d'ossa.
È difficile dare un'idea di una casa come la mia, casa tipica della frontiera, sessant'anni fa.
In primo luogo gli appartamenti delle varie famiglie erano comunicanti. Dal fondo dei cortili i Reyes e gli Ortega, i Candia e i Mason si scambiavano arnesi o libri, torte per i compleanni, unguenti per frizioni, ombrelli, tavole e sedie.
Queste case pioniere coprivano tutte le attività di un paese.
Don Carlos Mason, un nordamericano dalla lunga chioma bianca, somigliante ad Emerson, era il patriarca di questa famiglia. I figli Mason erano profondamente criollos. (15) Don Carlos Mason aveva Codice e Bibbia. Non era un imperialista, ma un fondatore originale. In questa famiglia, senza che nessuno avesse denaro, crescevano stamperie, alberghi, macellerie. Alcuni figli erano direttori di giornali, altri operai nella stessa stamperia. Tutto col tempo passava e tutti rimanevano poveri come prima. Solo i tedeschi avevano quell'irriducibile capacità di conservare i propri beni, per cui erano famosi in tutta la frontiera.
Le nostre case avevano dunque un po' dell'accampamento, O del magazzino da esploratori. Entrando si vedevano barili, attrezzi, finimenti e oggetti indescrivibili.
Rimanevano sempre appartamenti da finire, scale incompiute. Si parlava tutta la vita di continuare la costruzione. I genitori cominciavano a pensare all'università per i figli.
Nella casa di Don Carlos Mason si celebravano le grandi feste. In ogni pranzo di onomastico c'erano tacchini con sedano, agnelli cotti sulla legna e leche nevada (16)le per dolce. Sono ormai molti anni che non assaggio la leche nevada. Il patriarca dai bianchi capelli
si sedeva a capo dell'interminabile tavola, con sua moglie, donna Micaela Candia. Alle sue spalle c'era una immensa bandiera cilena cui era stata appuntata con una spilla una minuscola bandierina nordamericana. Questa era anche la proporzione del sangue. Prevaleva la stella solitaria del Cile.
Nella casa dei Mason c'era anche un salone in cui da bambini non ci lasciavano entrare. Non ho mai saputo il vero colore dei mobili perché rimasero coperti da fodere bianche finché un incendio li distrusse. In quel salone c'era un album di fotografie della famiglia. Queste foto erano più fini e delicate dei terribili ingrandimenti colorati che invasero in seguito la frontiera.
Nell'album c'era anche un ritratto di mia madre. Era una signora vestita di nero, esile e pensierosa. Mi han detto che scriveva versi: io però non li ho mai visti. L'unica cosa che ho visto è quel bei ritratto.
Mio padre si era sposato in seconde nozze con donna Trinidad Candia Marverde, la mia matrigna. Mi sembra incredibile dover dare questo nome all'angelo tutelare della mia infanzia. (17) Era dolce e solerte, aveva uno spirito tutto contadino, una bontà attiva e infaticabile.
Appena arrivava mio padre, lei si trasformava in un'ombra, dolce come tutte le donne di allora e di laggiù.
In quel salone vidi ballare mazurche e quadriglie.
In casa mia c'era anche un baule con oggetti affascinanti, Sul fondo luccicava un meraviglioso pappagallo da almanacco. Un giorno che mia madre frugava in quell'arca incantata mi ci buttai dentro di testa per prendere il pappagallo. Ma quando divenni più grande l'aprivo di nascosto. C'erano dei ventagli preziosi e impalpabili.
Ho un altro ricordo di quel baule. Il primo romanzo d'amore che mi abbia appassionato: centinaia di cartoline spedite da uno che le firmava non so se Enrique o Alberto e tutte indirizzate a Maria Thielman. Quelle cartoline erano meravigliose. Erano ritratti delle gran
di attrici del tempo con vetrini incastonati e a volte persino capelli veri applicati come chioma. C'erano anche castelli, città e paesaggi lontani. Per anni mi piacquero solo le figure. Ma poi, man mano che crescevo, mi misi a leggere quei messaggi d'amore scritti con perfetta calligrafia. Mi son sempre immaginato il corteggiatore come un uomo dal cappello duro, con bastone e un brillante alla cravatta. Ma quelle righe traboccavano di travolgente passione. Il viaggiatore le spediva da tutti i punti del globo. Erano piene di frasi abbaglianti, audaci e innamorate. Cominciai anch'io a innamorarmi di Maria Thielman. Lei, l'immaginavo come
un'attrice sdegnosa, incoronata di perle. Ma come mai quelle lettere erano capitate nel baule di mia madre? Non sono mai riuscito a saperlo.
A Temuco arrivò il 1910. In quell'anno memorabile entrai al liceo, (18) un immenso casermone dalle sale desolate e dai cupi sotterranei. Dall'alto del liceo, in primavera, si poteva scorgere il serpeggiante e delizioso Rio Cautín, con le sue rive fitte di meli selvatici. Marinavamo la scuola per immergere i piedi nell'acqua fredda che scorreva sulle pietre bianche.
Ma il liceo era un territorio di sconfinati orizzonti per i miei sei anni. Tutto aveva possibilità di mistero. Il laboratorio di fisica in cui non mi lasciavano entrare, pieno di strumenti scintillanti, di storte e bacinelle. La biblioteca eternamente chiusa. Ai figli dei pionieri non piaceva la sapienza. Il luogo di maggior incanto era però il sotterraneo. Lì dominavano un silenzio e una oscurità immense. Giocavamo alla guerra alla luce delle candele. I vincitori legavano i prigionieri alle vecchie colonne. Ho ancora nella memoria l'odore di umidità, di luogo nascosto, di tomba, che emanava dal sotterraneo del liceo di Temuco.
Crescevo. Cominciarono a interessarmi i libri. Nelle avventure di Buffalo Bill, nei viaggi di Salgari, il mio spirito si andò estendendo per le regioni del sogno. I primi amori, i prussiani, si dipanavano in lettere inviate a Bianca Wilson. Questa bambina era la figlia del fabbro e uno dei ragazzi, pazzo d'amore per lei, mi chiese di scrivergli le sue lettere d'amore. Non ricordo com'erano quelle lettere, ma forse furono le mie prime opere letterarie, perché, una volta che l'incontrai, la scolara mi chiese se ero io l'autore delle lettere che il suo innamorato le portava. Non osai rinnegare le mie opere e molto turbato le risposi di sì. Allora mi diede una mela cotogna che non ebbi naturalmente il coraggio di mangiare e conservai come un tesoro. Sostituito così il mio compagno nel cuore della bimba, continuai a scriverle interminabili lettere d'amore e a ricevere mele cotogne.
I ragazzi al liceo non conoscevano né rispettavano la mia condizione di poeta. La frontiera aveva una meravigliosa aria da Far West senza pregiudizi. I miei compagni si chiamavano Schnakes, Schlers, Hausers, Smiths, Taitos, Seranis. Eravamo tutti eguali, Aracenas, Ramirez, Reyes. C'erano anche sefarditi: (19) Albalas, Francos. Irlandesi: McGyntis. Polacchi: Yanichewkys. I cognomi araucani brillavano di luce oscura, odorosi di legno e di acqua: Melivilus, Catrileos.
A volte nel grande capannone facevamo delle battaglie con le ghiande di leccio. Nessuno che non l'abbia provato può sapere quanto male fa una ghiandaia. Prima di arrivare al liceo ci riempivamo le tasche di munizioni. Io avevo scarsa abilità, nessuna forza e poca astuzia. Avevo sempre la peggio. Mentre indugiavo ad osservare la ghianda bellissima, verde e lustra, col suo cappello rugoso e grigio, e cercavo goffamente di fabbricarmi una di quelle pipe che poi mi portavano via, mi era già caduto un diluvio di ghiande sulla testa. Quando ero al secondo anno, avevo un cappello impermeabile di un bei colore verde vivo. Quel cappello era di mio padre; come il mantello di lana, i fanali da segnalazione che per me erano carichi di fascino e che appena potevo portavo al collegio per pavoneggiarmi... Quella volta pioveva implacabilmente e niente di più formidabile del cappello di gomma verde che sembrava un pappagallo. Appena arrivai al capannone in cui trecento briganti correvano come pazzi, il cappello mi volò via come un pappagallo. Io gli correvo dietro e quando riuscivo a raggiungerlo volava via di nuovo fra le urla più assordanti che abbia mai ascoltato. Non riuscii mai più a rivederlo.
In questi ricordi non ho ben presente la precisione periodica del tempo. Mi si confondono fatti minuscoli che ebbero però importanza per me e mi sembra che questa debba essere la mia prima avventura erotica, stranamente mescolata alla storia naturale. Forse l'amore e la natura furono fin dalla più tenera età i giacimenti della mia poesia.
Di fronte a casa mia vivevano due bimbette che mi lanciavano continuamente sguardi che mi facevano arrossire. Tanto io ero timido e silenzioso, tanto loro erano precoci e diaboliche. Quella volta, fermo sulla porta di casa, cercavo di non guardarle. Tenevano in mano qualcosa che mi affascinava. Mi avvicinai con cautela e mi mostrarono un nido di uccello selvatico, fatto di muschio e di piume, che conteneva alcuni meravigliosi ovetti turchesi. Quando andai per prenderlo mi dissero che prima dovevo frugarmi nei vestiti. Tremante di terrore me ne scappai via di corsa, inseguito dalle giovani ninfe che levavano in alto l'incitante tesoro. Nell'inseguimento entrai per un vicolo nel locale disabitato di una panetteria di proprietà di mio padre. Le assalitrici erano riuscite a raggiungermi e già cominciavano a spogliarmi dei pantaloni, quando nel corridoio si udirono i passi di mio padre. Fu la fine del nido. Le piccole meravigliose uova caddero a terra e rimasero lì, rotte, nella panetteria abbandonata, mentre, sotto il bancone, assalito e assalitrici trattenevano il respiro. (20)
Ricordo anche che una volta, cercando i piccoli oggetti e i minuscoli esseri del mio mondo nell'orto di casa, scoprii un buco in un'asse del recinto. Guardando attraverso quel pertugio, vidi un terreno eguale a quello di casa mia, incolto e selvatico. Mi ritrassi di qualche
passo, perché avevo capito vagamente che stava per accadere qualcosa. All'improvviso apparve una mano. Era la mano piccolina di un bambino della mia età. Quando mi avvicinai la mano era scomparsa e al suo posto c'era una minuscola pecora bianca.
Era una pecora di lana stinta. Non aveva più le rotelle su cui correva. Non avevo mai visto una pecora così bella. Corsi a casa e tornai con un regalo che lasciai nello stesso posto: una pigna di pino, semiaperta, odorosa e balsamica, che adoravo.
Non vidi mai più la mano del bambino. E non ho più rivisto una pecorella come quella. La persi in un incendio. E anche ora, in questi anni, quando passo davanti ad un negozio di giocattoli, guardo furtivamente le vetrine. Ma è inutile. Non s'è più fatta una pecora come quella.
L'ARTE DELLA PIOGGIA
Così come si scatenavano il freddo, la pioggia e il fango delle strade, cioè il cinico e desolato inverno del sud dell'America, anche l'estate arrivava a queste regioni, gialla ed ardente. Eravamo circondati da montagne vergini, ma io volevo conoscere il mare. Per fortuna il mio ostinato padre era riuscito ad avere una casa in prestito da uno dei suoi numerosi compagni ferrovieri. Mio padre, il conducente, in mezzo alle tenebre, alle quattro di notte (non ho mai capito perché si dice le quattro del mattino) svegliava tutta la casa col suo fischietto da conducente. Da quel momento non c'era più pace, né luce, e fra candele dalle fiammelle tremolanti per le raffiche di vento che entravano da ogni parte, mia madre, i miei fratelli Laura e Rodolfo, e la cuoca, correvano di qua e di là, arrotolando grandi materassi che si trasformavano in palle immense avvolte in tela di sacco che le donne facevano rotolare rapidamente. Bisognava imbarcare i letti sul treno. I materassi erano ancora caldi quando partivano per la stazione vicina. Malaticcio e debole per natura, svegliato di soprassalto, sentivo nausea e brividi. Nel frattempo, in casa, il trasloco continuava e pareva non dovesse mai finire. Non c'era cosa che non si portasse per quel mese di vacanze da poveri. Persino gli essicatoi di vimini che si mettevano sui bracieri accesi per asciugare le lenzuola e i vestiti sempre umidi per il clima, venivano etichettati e caricati sul carretto che aspettava le valige.
Il treno percorreva un tratto di quella provincia fredda da Temuco a Carahue. Attraversava immense regioni disabitate ed incollate, attraversava i boschi vergini, suonava come un terremoto per ponti e gallerie. Le stazioni erano isolate in mezzo alla campagna fra gaggie e meli fioriti. Gli indios araucani con i loro vestiti rituali e la loro maestà ancestrale aspettavano nelle stazioni per vendere ai passeggeri agnelli, galline, uova e tessuti. Mio padre comperava sempre qualcosa con un interminabile mercanteggiamento. Bisognava vedere la sua barbetta bionda mentre sollevava una gallina di fronte ad un'araucana impenetrabile che non abbassava di mezzo centesimo il prezzo della sua merce.
Ogni stazione un nome più bello, quasi tutti ereditati dagli antichi possedimenti araucani. Era la regione in cui più accanite furono le lotte fra gli invasori spagnoli e i primi cileni, figli profondi di quella terra.
Labranza era la prima stazione, poi venivano Boroa e Ranquilco. Nomi che avevano il profumo di piante selvatiche, e mi affascinavano con le loro sillabe. Quei nomi araucani significavano sempre qualcosa di delizioso: miele nascosto, lagune o fiume vicino ad un bosco, o monte dal nome d'uccello. Passavamo per il piccolo villaggio di Imperial, dove per poco non venne giustiziato il Governatore spagnolo, il poeta don Alonso de Ercilla. Nel XV e XVI secolo qui fu la capitale dei conquistatori. Gli araucani nella loro guerra patria inventarono la tattica della terra bruciata. Non lasciarono pietra su pietra della città descritta da Ercilla come bella e superba.
E poi l'arrivo alla città fluviale. Il treno lanciava i suoi fischi più allegri, oscurava la campagna e la stazione ferroviaria con immensi pennacchi di fumo di carbone, le campane tintinnavano, e nel corso ampio, celeste e tranquillo del Río Imperial già si indovinava che s'avvicinava all'oceano. Scaricare le innumerevoli valige, ordinare la famigliola, e dirigerci su un carretto tirato da buoi verso il vaporetto che avrebbe attraversato il Río Imperial, era tutta una cerimonia diretta dagli occhi azzurri e dal fischio ferroviario di mio padre. Noi e le valige ci mettevamo sulla piccola nave che ci portava al mare. Non c'erano cabine. Io mi sedevo vicino a prua. Le ruote muovevano con le pale la corrente del fiume, le macchine della piccola imbarcazione ansavano e cigolavano, la gente del sud taciturna se ne stava come mobilia, immobile e dispersa, per la coperta.
Una fisarmonica lanciava il suo lamento romantico, il suo incitamento all'amore. Non c'è nulla di più avvincente per un cuore di quindici anni di una navigazione per un fiume ampio e sconosciuto, fra rive montuose, sulla via del mare misterioso.
Bajo Imperial era solo una fila di case dai tetti colorati. Era situata di fronte al fiume. Dalla casa che ci aspettava, e ancora prima, dai moli sgangherati cui attraccò il vaporetto, udii, distante, il tuono marino, una commozione lontana. La vicenda delle onde entrava nella mia vita.
La casa apparteneva a don Horacio Pacheco, agricoltore gigantesco che, nei mesi in cui gli occupavamo la casa, andava e portava per le colline e i sentieri intransitabili il suo locomobile (2)1 e la sua trebbiatrice. Con la sua macchina raccoglieva il grano degli indios e dei contadini, isolati dal villaggio costiero. Era un omone che irrompeva all'improvviso nella nostra famiglia ferroviaria, parlando con voce stentorea e coperto di polvere e di paglia. Poi, con lo stesso frastuono, tornava al suo lavoro sulle montagne. Fu per me un altro esempio della vita dura della mia regione australe.
Tutto era per me misterioso in quella casa, nelle strade sconnesse, nelle ignote esistenze che mi circondavano, nel suono profondo della lontananza marina. La casa aveva quello che mi parve un immenso giardino disordinato, con al centro un chiosco consunto dalla
pioggia, formato da un graticcio di legno bianco coperto dai rampicanti. Salvo la mia insignificante persona, nessuno entrava nella fresca solitudine in cui crescevano la edere, le madreselve e la mia poesia. Veramente in quello strano giardino c'era un altro oggetto affascinante: una grande scialuppa, orfana di un gran naufragio, che giaceva lì, nel giardino, senza onde né tempeste, arenata fra i papaveri.
Perché lo strano di quel giardino selvaggio era che di proposito o per incuria c'erano solamente papaveri. Le altre piante si erano ritirate dall'ombra del recinto. C'erano papaveri grandi e bianchi come colombe, scarlatti come gocce di sangue, violetti e neri, come vedove
dimenticate. Non avevo mai visto una tale immensità di papaveri e non son più tornato a vederla. Anche se li guardavo con molto rispetto, con quel certo timore superstizioso che solo i papaveri infondono fra tutti i fiori, di quando in quando ne tagliavo qualcuno, e lo stelo spezzato mi stillava fra le mani un latte aspro ed esalava una raffica di profumo inumano. Poi accarezzavo e conservavo in un libro i superbi petali di seta. Per me erano ali di grandi farfalle che non sapevano volare.
Quando mi trovai per la prima volta di fronte all'oceano rimasi sgomento. Lì, fra due alti picchi (l'Huilque e il Maule) si dispiegava la furia del gran mare. Non erano solo le immense onde spumeggianti che si levavano a molti metri sulle nostre teste, ma un fragore di cuore colossale, il palpito dell'universo.
Lì la famiglia disponeva tovaglie e teiere. Il cibo che portavo alla bocca mi si riempiva tutto di sabbia, ma non me ne importava gran che. Quello che mi terrorizzava era il momento apocalittico in cui mio padre ci ordinava il bagno di ogni giorno. Lontani dalle ondate gigantesche, l'acqua spruzzava mia sorella Laura e me con le sue sferzate di freddo. E credevamo tremando che il dito di un'onda ci avrebbe trascinato fino alle montagne del mare. Quando ormai, battendo i denti e con le costole illividite, mia sorella ed io, tenendoci per mano, ci preparavamo a morire, suonava il fischio ferroviario e mio padre ci ordinava di uscire dal martirio.
Racconterò altri misteri di quel territorio. Uno erano i cavalli normanni e l'altro la casa delle tre vedove incantate.
All'estremità del paesino si innalzavano alcune grandi costruzioni. Erano stabilimenti, probabilmente concerie. Appartenevano a dei baschi francesi. Nel sud del Cile erano quasi sempre questi baschi a dirigere le industrie del cuoio. La verità è che non so bene di che cosa si trattasse. L'unica cosa che mi interessava era vedere come, a una certa ora del pomeriggio, verso il tramonto, dai portoni uscivano dei grandi cavalli che attraversavano il paese.
Erano cavalli normanni, puledri e giumente di statura gigantesca. Le loro grandi criniere ricadevano come chiome sull'altissimo dorso. Avevano zampe immense, ricoperte anch'esse di ciuffi di crine che, galoppando, ondeggiavano come pennacchi. Erano rossi, bianchi, pezzati, poderosi. Così andrebbero i vulcani se potessero trottare e galoppare come quei cavalli colossali. Passavano come una scossa di terremoto per le strade polverose e piene di sassi. Nitrivano rocamente con un rimbombo sotterraneo che scuoteva l'atmosfera tranquilla. Arroganti, smisurati e statuari, non ho più rivisto in vita mia cavalli come quelli, se non in Cina, intagliati nella pietra come monumenti tombali della dinastia Ming. Ma la pietra più venerabile non può rendere lo spettacolo di quelle terribili vite animali che, ai miei occhi di bambino, parevano uscire dall'oscurità dei sogni per dirigersi verso un altro mondo di giganti.
In realtà, quel mondo silvestre era pieno di cavalli. Per le strade, cavalieri cileni, tedeschi o mapuche, (22) tutti con pesanti ponchos (23) di lana nera, montavano o scendevano dalle loro cavalcature. Gli animali, magri o ben nutriti, sparuti o maestosi, rimanevano dove li lasciavano i cavalieri, ruminando l'erba dei sentieri e sbuffando vapore dalle narici. Erano abituati ai loro padroni e alla solitaria vita del villaggio. Più tardi, carichi di sacchi di commestibili o di attrezzi, tornavano alle intricate alture, salendo per pessimi sentieri o galoppando infinitamente sulla sabbia accanto al mare. Di tanto in tanto, da un banco di pegni o da una taverna oscura, usciva un cavaliere araucano che, con difficoltà, montava sul suo imperturbabile cavallo e prendeva poi la strada dei monti per tornarsene a casa, traballando ora da una parte, ora dall'altra, ubriaco fino all'incoscienza. Guardandolo cominciare e continuare il suo cammino, avevo l'impressione che il centauro alcoolizzato stesse per cadere a terra ogni volta che si sbilanciava pericolosamente da una parte, ma mi sbagliavo: riusciva sempre a raddrizzarsi per poi inclinarsi di nuovo piegandosi dall'altra parte e riprendendosi sempre incollato alla bestia. Avrebbe continuato così, sul suo cavallo, per chilometri e chilometri, fino a fondersi e sparire in quella selvaggia natura come un animale vacillante, oscuramente invulnerabile.
Per molte altre estati tornammo, con le stesse cerimonie domestiche, in quell'affascinante regione. Il tempo passava e io crescevo, leggendo, innamorandomi e scrivendo, fra gli amari inverni di Temuco e la misteriosa estate della costa.
Mi abituai ad andare a cavallo. La mia vita si andò facendo più alta e spaziosa nel mio vagabondare per balze di ripida argilla, e sentieri dalle svolte impreviste. Mi venivano incontro la vegetazione intricata, il silenzio o il suono degli uccelli selvatici, l'esplosione improvvisa di un albero fiorito coperto d'un manto scarlatto come un immenso arcivescovo delle montagne, o incanutito da una battaglia di fiori sconosciuti. O di tanto in tanto, inaspettato, il fiore del copihue, selvaggio, indomabile, irriducibile, che penzolava dai roveti come una goccia fresca di sangue. E così mi abituai al cavallo, alla sella, ai duri e complicati finimenti, agli speroni crudeli che tintinnavano sui miei talloni. E lungo quelle infinite spiagge o tra quei monti selvaggi si strinse a poco a poco una comunicazione fra la mia anima, cioè fra la mia poesia e la terra più solitaria del mondo. Son passati molti anni, ma quella comunicazione, quella rivelazione, quel patto con lo spazio hanno continuato ad esistere nella mia vita.
LA MIA PRIMA POESIA
Ora vi racconterò una storia di uccelli. Sul lago Budi cacciavano con ferocia i cigni. Gli si avvicinavano silenziosamente sulle barche e poi rapidi, rapidi remavano... I cigni, come gli albatri, si alzano difficilmente in volo, debbono correre scivolando sull'acqua. Sollevano con difficoltà le loro grandi ali. Li raggiungevano e li finivano a bastonate.
Mi portarono un cigno mezzo morto. Era uno di quei meravigliosi uccelli che non ho mai più rivisto al mondo, il cigno dal collo nero. Una nave di neve dal lungo e flessuoso collo come inguainato in una stretta calza di seta nera. Il becco arancione e gli occhi rossi.
Fu vicino al mare, a Puerto Saavedra, Imperial del Sur.
Me lo diedero quasi morto. Lavai le sue ferite e a forza gli cacciai in gola pezzettini di pane e di pesce. Rigettava tutto. Ma a poco a poco si riprese, e cominciò a capire che ero suo amico. E io cominciai a capire che la nostalgia lo stava uccidendo. Allora prendevo il pesante uccello fra le braccia e lo portavo al fiume. Nuotava per un po', vicino a me. Io volevo che pescasse e gli indicavo i ciottoli del fondo, le sabbie su cui scivolavano gli argentei pesci del sud. Ma lui guardava con occhi tristi la distanza.
Così ogni giorno, per più di venti, lo portai al fiume e me lo riportai a casa. Il cigno era quasi grande come me. Un pomeriggio se ne stette più sulle sue, quasi assorto, nuotò vicino a me, ma non si distrasse ai gesti con cui volevo insegnargli di nuovo a pescare. Se ne stette tutto quieto e io lo presi di nuovo fra le braccia per riportarlo a casa. Allora, mentre me lo tenevo contro il petto, sentii come se si stesse srotolando un nastro e qualcosa come un braccio nero mi sfiorasse il viso. Era il suo lungo e sinuoso collo che ricadeva. Così imparai che i cigni non cantano quando muoiono.
A Cautìn l'estate è ardente. Brucia il cielo e il grano. La terra vuole riprendersi dal suo letargo. Le case non sono preparate all'estate, come non lo erano all'inverno. Io me ne vado per la campagna, e cammino, cammino. Mi perdo sul monte Nielol. Sono solo, con le tasche
piene di scarabei. In una scatola ho un ragno peloso appena catturato. In alto, il cielo non si vede. La foresta è sempre umida, scivolo; all'improvviso un uccello lancia il suo grido, è il grido spettrale del chucao. (24) Mi cresce dai piedi un presentimento spaventoso. I copihue,
come gocce di sangue si distinguono appena. Sono solo un essere minuscolo sotto le felci giganti. Un colombaccio, con un secco rumore d'ali, vola sfiorandomi il viso. Più in alto altri uccelli ridono di me con roche risate. Ritrovo con difficoltà la strada. È tardi.
Mio padre non è ancora tornato. Arriverà alle tre o alle quattro del mattino. Salgo nella mia stanza. Leggo Salgari. La pioggia si rovescia come una cateratta. In un minuto la notte e la pioggia coprono il mondo. Lì sono solo e scrivo versi sul mio quaderno di aritmetica. La mattina dopo mi alzo molto presto. Le susine sono verdi. Corro giù. Prendo un pacchettino di sale. Mi arrampico su un albero, mi metto comodo, mordo con cautela una susina, ne stacco un pezzetto, poi la cospargo di sale. Me la mangio. E così quasi cento. Son troppe, lo so.
La nostra casa è andata perduta in un incendio, e la nuova è misteriosa. Mi arrampico sulla palizzata e guardo i vicini. Non c'è nessuno. Sollevo delle assi. Niente, solo dei miserabili e minuscoli ragni. In fondo all'orto c'è il gabinetto. Lì vicino gli alberi sono pieni di bruchi. I mandorli mettono in mostra i loro frutti foderati di bianca felpa. So come cacciare i calabroni senza far loro del male, con un fazzoletto. Li tengo prigionieri per un pò e me li porto all'orecchio. Che meraviglioso ronzio! Che solitudine quella di un piccolo bimbo poeta, vestito di nero, sulla frontiera spaziosa e terribile. La vita e i libri a poco a poco mi fanno intravvedere misteri preoccupanti.
Non posso dimenticare quello che ho letto ieri notte: l'albero del pane ha salvato Sandokan e i compagni in una lontana Malesia.
Buffalo Bill non mi piace perché uccide gli indiani. Ma che splendido cavaliere! Che meraviglia le praterie e le tende coniche dei pellerossa!
Mi hanno spesso domandato quando scrissi la mia prima poesia, quando nacque dentro di me la poesia.
Cercherò di ricorDarío. Molto tempo fa, durante la mia infanzia, quando avevo appena imparato a scrivere, sentii una volta un'intensa emozione e scrissi alcune parole semirimate, ma estranee a me, diverse dal linguaggio giornaliero. Le trascrissi in bella copia su un foglio, preso da un'ansietà profonda, un sentimento fino allora sconosciuto, una specie di angoscia e di tristezza. (25) Era una poesia dedicata a mia madre, a colei cioè che conobbi come tale, l'angelica matrigna la cui dolce ombra protesse tutta la mia infanzia. Assolutamente incapace di giudicare la mia prima produzione, la portai ai miei genitori. Erano in sala da pranzo, immersi in una di quelle conversazioni a voce bassa che dividono più di un fiume il mondo dei bambini e quello degli adulti. Porsi loro il foglio con quelle righe, ancora tremante per la prima visita dell'ispirazione. Mio padre, distrattamente, lo prese in mano, distrattamente lo lesse, distrattamente me lo restituì, dicendomi:
— Da dove l'hai copiato?
E continuò a parlare a bassa voce con mia madre dei suoi importanti e remoti affari.
Mi pare di ricordare che fu così che nacque la mia prima poesia e così che ricevetti il primo distratto cenno di considerazione dalla critica letteraria.
Nel frattempo avanzavo nel mondo della conoscenza, sul disordinato fiume dei libri come un navigatore solitario. La mia avidità di lettura non mi dava tregua né di giorno né di notte. Sulla costa, nel paesino di Puerto Saavedra, trovai una biblioteca municipale e un vecchio poeta, don Augusto Winter, che era stupito della mia voracità letteraria. « Li ha già letti? » mi diceva, passandomi un nuovo Vargas Villa, un Ibsen, un Rocambole. (26) Come uno struzzo, trangugiavo tutto, alla rinfusa.
In quel tempo giunse a Temuco una signora alta, dagli abiti lunghi fino ai piedi e scarpe dal tacco basso. Era la nuova direttrice del liceo femminile. Veniva dalla nostra città australe, dalle nevi di Magallanes. Si chiamava Gabriela Mistral. (27)
Io la guardavo passare per le strade del paese con le sue vesti talari, e mi faceva paura. Ma quando mi portarono a farle visita la trovai buona e gentile. Sul suo viso bruciato dal sole in cui il sangue indio predominava come in una bella anfora di terracotta araucana, i suoi denti bianchissimi si scoprivano in un sorriso pieno e generoso che illuminava tutta la stanza.
Io ero troppo giovane per essere suo amico, e troppo timido ed introverso. La vidi pochissime volte. Abbastanza però, perché ogni volta me ne tornassi con qualche libro che mi regalava. Erano sempre romanzi russi che lei considerava i più straordinari della letteratura mondiale. Posso dire che Gabriela mi iniziò a quella seria e terribile visione dei romanzieri russi e che Tolstoi, Dostoievski, Cekov entrarono nella mia più profonda predilezione. E ancora oggi mi accompagnano.
LA CASA DELLE TRE VEDOVE
Una volta mi invitarono ad una trebbiatura a cavallo. La località dove dovevo recarmi si trovava in alto, fra i monti, piuttosto distante dal paese. Fui attratto dall'avventura di andarmene solo, indovinando i sentieri fra quelle montagne. Se mi fossi perduto, pensavo, qualcuno sarebbe venuto in mio aiuto. Mi allontanai col mio cavallo da Bajo Imperial e guardai il fiume presso ai banchi della foce. Il Pacifico in quel punto si scatena e attacca con intermittenza le rocce e le fratte del cerro Maule, una collina altissima che si spinge fino al mare. Poi piegai lungo le rive del lago Budi. Bisognava approfittare dei minuti in cui un'onda si rompeva e si ritirava per riprendere forza. Allora attraversavamo rapidamente il tratto fra il monte e l'acqua, prima che una nuova ondata non schiacciasse me e il mio cavallo contro la parete rocciosa.
Passato il pericolo, verso ponente cominciava la lastra immobile e azzurra del lago. L'arenile della costa si stendeva a perdita d'occhio verso la foce del lago Toltén, molto lontano da lì. Queste coste del Cile, spesso frastagliate e rocciose, si trasformano all'improvviso in distese interminabili e si può andare per giorni e giorni sulla sabbia e accanto alla spuma del mare.
Sono spiagge che paiono infinite. Formano lungo il Cile come l'anello di un pianeta, una cintura che l'avvolge incalzata dal fragore dei mari australi: una pista che sembra snodarsi lungo tutto il contorno della costa cilena fin oltre il Polo Sud.
Dal lato dei boschi mi salutavano i noccioli, dai rami verdeoscuri e brillanti, adorni a volte di festoni di grappoli di frutta, nocciole che parevano dipinte di vermiglio, tanto rosse sono in quel periodo dell'anno. Le colossali felci del sud del Cile erano talmente alte che
io e il mio cavallo passavamo sotto i loro rami senza toccarli. Quando con la testa sfioravo il loro fogliame ci si rovesciava addosso uno scroscio di rugiada. Alla mia destra si stendeva il lago Budi: una lastra compatta ed azzurra limitata dai boschi lontani.
Solo alla fine vidi alcuni abitanti. Erano strani pescatori. Nel tratto in cui l'oceano e il lago si uniscono, o si baciano, o si aggrediscono, fra un'onda e l'altra rimanevano alcuni pesci marini, spinti dalla violenza delle acque. Particolarmente ricercate erano le grandi muggini, (28) larghi pesci d'argento che si dibattevano smarriti in quelle secche. I pescatori, uno, due, quattro, cinque, verticali ed assorti, spiavano la scia dei pesci perduti e all'improvviso, con un colpo formidabile lasciavano cadere un lungo tridente sull'acqua. Poi levavano in alto quelle ovali carni d'argento, che tremavano e brillavano al sole prima di morire nel cesto dei
pescatori. Cadeva ormai la sera. Avevo abbandonato le rive del lago e cercando la strada mi ero addentrato tra i frastagliati contrafforti dei monti. Si faceva buio a vista d'occhio. Ad un tratto incrociavo come un rauco sussurro il lamento di uno sconosciuto uccello selvatico. Un'aquila o un condor dall'altezza crepuscolare sembrava trattenere le sue nere ali, segnalando la mia presenza, e seguendomi in lento volo. Veloci volpi dalla coda rossa, o ignoti animali del bosco segreto ululavano o latravano o attraversavano il sentiero.
Capii di essermi smarrito. La notte e la foresta, che erano state la mia gioia, ora mi minacciavano e mi riempivano di paura. Un unico solitario viandante mi si parò ad un tratto davanti nell'oscura solitudine del sentiero. Quando fummo vicini, mi fermai e vidi che era uno di quei contadini sgraziati, dal povero poncho e dal cavallo sparuto, che di tanto in tanto emergevano dal silenzio.
Gli raccontai che cosa mi capitava.
Mi rispose che per quella notte non sarei assolutamente arrivato alla trebbiatura. Conosceva ogni angolo di quella regione; sapeva esattamente dove stavano trebbiando. Gli dissi che non volevo passare la notte all'addiaccio; gli chiesi se poteva consigliarmi un posto dove ripararmi fino all'alba. Mi indicò sobriamente di seguire per due leghe un sentierino che si biforcava dal viottolo. Da lontano, mi disse, vedrà le luci di una grande casa di legno a due piani.
— È un albergo? — gli chiesi.
— No, giovinetto. Ma la riceveranno benissimo. Sono tre signore francesi che commerciano in legname e vivono qui da trent'anni. Sono molto gentili con tutti. L'ospiteranno.
Ringraziai il contadino per i suoi parsimoniosi consigli ed egli si allontanò trottando sul suo scalcinato cavalluccio. Io continuai come un'anima in pena per lo stretto sentiero. Una luna verginale, ricurva e bianca come un frammento di unghia appena tagliata, cominciava la sua ascesa per il cielo.
Verso le nove di sera scorsi le inconfondibili luci di una casa. Spronai il mio cavallo prima che spranghe e catenacci mi impedissero l'ingresso in quel miracoloso santuario. Varcai il recinto della proprietà e, schivando tronchi tagliati e montagne di trucioli, arrivai alla
porta o al portico bianco di quella casa così insolitamente sperduta in quelle solitudini. Bussai alla porta, prima piano, poi con più forza. I minuti passavano e già mi immaginavo, pieno di paura, che non ci fosse nessuno, quand'ecco apparire una signora dai capelli bianchi, esile e vestita a lutto. Mi esaminò con occhi severi, socchiudendo la porta per interrogare l'intempestivo viandante.
— Chi è lei e che cosa desidera? — disse una dolce voce da fantasma.
— Mi sono smarrito nella foresta. Sono uno studente. Mi hanno invitato alla trebbiatura degli Hernáandez. Sono stanchissimo. M'han detto che lei e le sue sorelle sono molto gentili. Vorrei solo un posto qualsiasi per dormire e all'alba riprendere il cammino per la fattoria degli Hernáandez.
— Avanti — mi rispose. — Lei è a casa sua.
Mi condusse in un salone buio ed accese due o tre lampade a petrolio. Notai che erano belle lampade art nouveau di opalina e bronzo dorato. Il salone odorava d'umido. Grandi tendaggi rossi nascondevano le alte finestre. Le poltrone erano ricoperte di una fodera
bianca che le riparava. Da che cosa?
Era un salone di un altro secolo, indefinibile e inquietante come un sogno. La nostalgica dama dai capelli bianchi, vestita a lutto, si muoveva senza che ne vedessi i piedi, senza che se ne udissero i passi, sfiorando con le mani ora un oggetto ora un altro, un album, un ventaglio, di qua, di là, nel silenzio.
Mi parve d'essere caduto in fondo ad un lago e nei suoi abissi sopravvivere sognando, profondamente stanco. Ad un tratto entrarono due signore identiche a quella che mi aveva ricevuto. Era ormai tardi e faceva freddo. Si sedettero attorno a me, una con un lieve sorriso di lontanissima civetteria, l'altra guardandomi con gli stessi melanconici occhi di quella che mi aveva aperto la porta.
La conversazione fuggì ben presto molto lontano da quei campi remoti, lontano dalla notte trafitta dal suono di migliaia di insetti, da gracidii di rane e canti di uccelli notturni. Indagavano sui miei studi. Nominai inaspettatamente Baudelaire, dicendo che avevo cominciato a tradurre i suoi versi.
Fu come una scossa elettrica. Le tre spente dame si accesero. I loro occhi affranti e i loro rigidi volti si tramutarono, quasi che dagli antichi lineamenti fossero cadute tre antiche maschere.
— Baudelaire! — esclamarono. È forse la prima volta, da che il mondo esiste, che quel nome viene pronunciato in queste solitudini. — Noi qui abbiamo i suoi Fleurs du mal. Solo noi, nello spazio di cinquecento chilometri, possiamo leggere le sue meravigliose pagine. Nessuno sa il francese fra queste montagne.
Due delle sorelle erano nate ad Avignone. La più giovane, lei pure francese di sangue, era cilena di nascita. I loro nonni, i loro genitori, tutti i loro parenti erano morti da molto tempo. Loro tre si abituarono alla pioggia, al vento, ai trucioli della segheria, al contatto di un piccolissimo numero di contadini primitivi e di rozzi servitori. Decisero di rimanere lì, unica casa in quelle montagne selvagge.
Una domestica indigena entrò e sussurrò qualcosa all'orecchio della signora più anziana. Uscimmo allora, attraverso gelidi corridoi, per recarci in sala da pranzo. Rimasi attonito. Al centro della stanza, una tavola rotonda dalla lunga tovaglia bianca era illuminata da due candelieri d'argento pieni di candele accese. Su quella tavola sorprendente l'argento e il cristallo brillavano dello stesso fulgore.
Mi invase un'estrema timidezza, quasi m'avesse invitato la regina Vittoria a una cena nel suo palazzo. Arrivavo tutto arruffato, stanco e impolverato, e quella era una tavola che pareva stesse aspettando un principe. Ed io ero ben lungi dall'esserlo. Anzi, dovevo sembrare un vaccaro sudato che avesse lasciato alla porta la sua mandria.
Raramente ho mangiato così bene. Le mie ospiti erano maestre nell'arte culinaria e avevano ereditato dai loro antenati le ricette della dolce Francia. Ogni piatto era inaspettato, saporito e profumato. Fecero portare dalle cantine dei vini invecchiati, che avevano conservato secondo le leggi del vino di Francia.
Malgrado la stanchezza mi chiudesse all'improvviso gli occhi le sentivo raccontare cose strane. Il maggior orgoglio delle sorelle era la raffinatezza della cucina; per loro la tavola era il culto di un'eredità sacra, di una cultura cui non sarebbero mai più tornate, separate com'erano dalla loro patria dal tempo e da mari immensi. Mi mostrarono, quasi prendendosi gioco di se stesse, un curioso scheDarío.
— Siamo delle vecchie maniache, — mi disse la minore.
In trent'anni avevano ricevuto la visita di 27 viandanti che erano giunti a quella casa remota, alcuni per affari, altri per curiosità, alcuni, come me, per caso. Ma la cosa mai vista era che conservavano una scheda per ognuno degli ospiti, con la data della visita e il menu che avevano preparato in ogni occasione.
— Il menu lo conserviamo per non ripetere neppure un piatto, se quegli amici dovessero un giorno tornare.
Me ne andai a dormire e caddi sul letto come un sacco di cipolle al mercato. All'alba, nell'oscurità, accesi una candela, mi lavai e mi vestii. Faceva già chiaro quando uno degli stallieri mi sellò il cavallo. Non osai andare a salutare quelle dame gentili e a lutto. Qualcosa mi diceva, dentro di me, che era stato tutto uno strano sogno pieno di magia e che non dovevo svegliarmi per non rompere l'incantesimo.
Son passati quarantacinque anni da questo episodio, che risale all'inizio della mia adolescenza. Che cosa sarà accaduto di quelle tre signore sepolte con i loro Fleurs du mal in mezzo alla foresta vergine? Che cosa sarà stato delle loro vecchie bottiglie di vino, della loro tavola splendente illuminata da venti candele? E quale il destino delle segherie e della bianca
casa perduta fra gli alberi?
Sarà accaduta la cosa più semplice di tutte: la morie e l'oblio. Forse la foresta ha inghiottito quelle vite e quei saloni che mi accolsero in una notte indimenticabile. Ma nel mio ricordo continuano a vivere come sul fondo trasparente del lago dei sogni. Onore a quelle tre donne melanconiche che nella loro selvaggia solitudine lottarono disinteressatamente per mantenere un antico decoro. Difendevano ciò che avevano saputo fare le mani dei loro antenati, le ultime gocce di una cultura squisita, là, sul limite estremo delle montagne più impenetrabili e più solitarie del mondo.
L'AMORE VICINO AL GRANO
Giunsi al campo degli Hernández prima di mezzogiorno, fresco ed allegro. La mia cavalcata solitaria per i sentieri deserti, il riposo del sonno, tutto risplendeva nella mia taciturna giovinezza.
La trebbiatura del grano, dell'avena, dell'orzo, si faceva ancora a cavallo. Non c'è cosa più allegra al mondo che vedere i cavalli girare trottando attorno al mucchio del grano, al grido di incitamento dei cavalieri. C'era un sole splendido, e l'aria era un diamante silvestre che faceva brillare le montagne. La trebbiatura è una festa d'oro. La paglia gialla si accumula in montagne dorate; tutto è chiasso ed attività; sacchi che corrono e si riempiono; donne che cucinano; cavalli che si imbizzarriscono; cani che abbaiano; bimbi che ad ogni momento, come frutti della paglia, bisogna liberare dalle zampe dei cavalli.
Gli Hernández erano una tribù singolare. Gli uomini irsuti e dalla barba incolta, in maniche di camicia e con la pistola alla cintola, erano quasi sempre impiastricciati d'olio, di polvere cereale, di fango, o inzuppati fino alle ossa dalla pioggia. Padri, figli, nipoti, cugini, avevano tutti quanti lo stesso aspetto. Rimanevano per ore e ore a trafficare sotto un motore, sopra un tetto, arrampicati su una trebbiatrice. Non conversavano mai. Parlavano di tutto gridando e scherzando, salvo quando litigavano. Diventavano allora delle trombe marine; demolivano tutto quanto si trovassero davanti. Erano i primi anche all'arrosto di interi animali
in mezzo ai campi, nel vino rosso e nel lamento delle chitarre. Erano uomini della frontiera, il tipo di gente che mi piaceva. Io, studentesco e pallido, mi sentivo scomparire vicino a quei barbari attivi; e loro, non so perché, mi trattavano con una certa delicatezza che in genere non avevano per nessuno.
Dopo l'arrosto, le chitarre, la stanchezza accecante del sole e del grano, bisognava arrangiarsi per passare la notte. Le coppie sposate e le donne sole si accomodavano per terra, all'interno dell'accampamento costruito con tavole di legno appena tagliate. Noi ragazzi fummo mandati a dormire sull'aia. L'aia innalzava la sua montagna di paglia e un intero villaggio si sarebbe potuto rincantucciare nel suo soffice tepore giallo.
Tutto questo era per me di una scomodità senza pari. Non sapevo come sbrigarmela. Misi con cura le scarpe sotto uno strato di paglia che avrebbe dovuto servirmi da cuscino. Mi tolsi il vestito, mi avvolsi nel poncho e mi infilai nella montagna di paglia. Rimasi lontano da tutti gli altri che immediatamente e in modo unanime si misero a russare.
Io restai a lungo supino, con gli occhi aperti, il viso e le braccia coperti di paglia. La notte era chiara, fresca e penetrante. Non c'era luna ma le stelle sembravano appena lavate dalla pioggia e, sul sonno cieco di tutti gli altri, scintillavano tremolando solo per me nel grembo del cielo. Poi mi addormentai. Mi svegliai all'improvviso perché mi si stava avvicinando qualcosa, un corpo sconosciuto si muoveva sotto la paglia e si accostava al mio. Ebbi paura. Quel qualcosa strisciava lentamente verso di me. Sentivo i fuscelli di paglia spezzarsi, schiacciati dalla forma sconosciuta che avanzava. Tutto il mio corpo era all'erta, in attesa. Forse avrei dovuto alzarmi o gridare. Restai immobile. Sentivo, vicinissimo, un respiro sfiorarmi il capo.
Ad un tratto una mano strisciò su di me, una mano grande, lavoratrice, ma una mano di donna. Mi percorse la fronte, gli occhi, tutto il viso con dolcezza. Poi una bocca avida si incollò alla mia e su tutto il corpo, fino ai piedi, sentii un corpo di donna stringermisi contro.
A poco a poco la mia paura si tramutò in un piacere intenso. La mia mano accarezzò capelli, trecce, una fronte liscia, degli occhi dalle palpebre chiuse, dolci come papaveri. La mia mano continuò ad esplorare e toccai due seni grandi e sodi, e natiche ampie e rotonde, delle gambe che mi avvinghiavano, e affondai le dita in un pube come muschio delle montagne. Da quella bocca anonima non usciva, né uscì, nemmeno una parola.
Com'è difficile far l'amore senza rumore in una montagna di paglia, perforata da sette o otto altri uomini addormentati e che per niente al mondo debbono essere svegliati. Ma tutto si può fare, anche se costa infinita attenzione. Un po' più tardi anche la sconosciuta si addormentò accanto a me ed io, tutto agitato per quella situazione, cominciai a sentire una gran paura. Tra poco si sarebbe fatto mattino, pensavo, e i primi lavoratori avrebbero trovato la donna nuda nell'aia, stesa accanto a me. Ma anch'io mi addormentai. Al risveglio allungai subito ansiosamente la mano ma trovai solo un tiepido incavo, la sua tiepida assenza. Ad un tratto un uccello cominciò a cantare e tutta la foresta si riempì di gorgheggi. Risuonò il fischio d'un motore e uomini e donne cominciarono a passare e darsi da fare vicino all'aia. Cominciava un nuovo giorno di trebbiatura.
A mezzogiorno mangiavamo tutti insieme attorno a lunghe tavole. Mentre mangiavo, guardavo di sottecchi, cercando fra le donne quella che avrebbe potuto essere la mia visitatrice notturna. Ma alcune erano troppo vecchie, altre troppo magre, molte erano giovinette ancora, secche come sardine. E io cercavo una donna soda, dal seno prepotente e dalle lunghe trecce. Ad un tratto entrò una signora con un pezzo di arrosto per il marito, uno degli Hernández. Questa sì poteva essere quella che cercavo. Fissandola dall'altro capo della tavola mi sembrò di notare che quella bella donna dalle lunghe trecce mi guardasse con un rapido sguardo e mi sorridesse con un lievissimo sorriso. E mi parve che quel sorriso divenisse più grande e profondo, si schiudesse dentro il mio corpo.
Quaderno 2
PERDUTO NELLA CITTÀ
LE PENSIONI
Dopo molti anni di liceo, in cui ogni dicembre incespicai nell'esame di matematica, fui esteriormente pronto ad affrontare l'università, a Santiago del Cile. Dico esteriormente, perché, dentro, la mia testa era piena di libri, di sogni, e di poesie che mi ronzavano come api.
Provvisto di un baule di latta, coll'indispensabile vestito nero del poeta, magrissimo ed affilato come un coltello, salii sulla terza classe del treno notturno (1) che impiegava un giorno e una notte interminabili ad arrivare a Santiago.
Questo lungo treno che attraversava regioni e climi differenti, e in cui viaggiai tante volte, conserva ancora oggi per me il suo strano incanto. Contadini dal poncho bagnato e con cesti di galline, taciturni mapuches, tutta una vita si svolgeva nel vagone di terza. Erano parecchi quelli che viaggiavano senza pagare, sotto i sedili. Quando compariva il controllore avveniva una metamorfosi. Molti sparivano e alcuni si nascondevano sotto un poncho su cui immediatamente due passeggeri facevano finta di giocare a carte, senza che questo tavolo improvvisato richiamasse l'attenzione del controllore.
Intanto il treno passava, dai campi con robbie ed araucarie, (2) e dalle case di legno bagnato, ai pioppi del centro del Cile, alle polverose costruzioni di mattoni di fango. Ho fatto più volte quel viaggio di andata e ritorno fra la capitale e la provincia, ma mi sono sempre sentito soffocare quando uscivo dai grandi boschi, dal legno materno. Le case di mattoni, le città ricche di passato, mi sembravano piene di ragnatele e di silenzio. Continuo ad essere, ancora oggi, un poeta delle intemperie, della gelida selva che da allora ho perduto.
Ero stato raccomandato ad una pensione, in via Maruri 513. Non dimentico questo numero per nessuna ragione. Mi scordo tutte le date e persino gli anni, ma quel numero 513 mi è rimasto stampato nella testa, in cui lo misi tanti anni fa, per paura di non arrivare mai a quella pensione e smarrirmi nella capitale grandiosa e sconosciuta. In quella via mi sedevo al
balcone a guardare l'agonia di ogni pomeriggio, il cielo imbandierato di verde e carminio, la desolazione dei tetti suburbani della periferia, minacciati dall'incendio del cielo.
La vita di quegli anni alla pensione per studenti era di completa fame. Scrissi molto più di quanto non avessi scritto fino ad allora, ma mangiai molto meno. Alcuni dei poeti che conobbi in quei giorni soccombettero alle diete rigorose della miseria. Fra questi ricordo una poeta della mia età, ma molto più alto e goffo di me, la cui lirica sottile era piena di essenze e impregnava ogni luogo in cui venisse ascoltata. Si chiamava Romeo Murga.
Io e Romeo Murga andammo a leggere le nostre poesie a San Bernardo, vicino alla capitale. Prima che facessimo la nostra comparsa sul palcoscenico, tutto si era svolto in un'atmosfera di gran festa: la regina dei Giochi Floreali col suo seguito bianco e biondo, i
discorsi dei notabili del paese e i complessi vagamente musicali di quel posto; ma quando entrai io e cominciai a recitare i miei versi con la voce più piagnucolosa del mondo, tutto cambiò: il pubblico tossiva, lanciava frizzi e si divertiva un mondo alla mia melanconica poesia. Vedendo le reazioni di quei barbari, affrettai la lettura e lasciai il posto al mio amico Romeo Murga. Fu una cosa memorabile. Vedendo entrare quel Don Chisciotte di due metri di altezza, dal vestito scuro e logoro, e cominciare la sua lettura con voce ancora più piagnucolosa della mia, il pubblico in massa non poté più trattenere la sua indignazione e cominciò a gridare: Poeti da fame! Via! Non rovinateci la festa.
Dalla pensione di via Maruri me ne andai come un mollusco che esce dalla sua conchiglia. Lasciai quel guscio per conoscere il mare, cioè il mondo. Il mare sconosciuto erano le strade di Santiago, appena intraviste mentre camminavo fra la vecchia scuola universitaria e la squallida camera della pensione familiare.
Sapevo che la mia fame arretrata sarebbe aumentata in questa avventura. Le signore della pensione, lontanamente legate alla mia provincia, mi avevano aiutato qualche volta con delle zuppe o qualche cipolla misericordiosa. Ma non c'era più rimedio: la vita, l'amore, la gloria, l'emancipazione mi chiamavano. O almeno così mi sembrava.
La mia prima stanza indipendente l'affittai in via Arguelles, vicino all'istituto di Pedagogia. Su una finestra di quella strada grigia spiccava un cartello: «Si affittano camere». Il padrone di casa occupava le stanze sul davanti. Era un uomo canuto, dal portamento nobile, e dagli occhi che mi parvero strani. Era loquace ed eloquente. Si guadagnava la vita come parrucchiere per signora, occupazione cui non dava importanza. Le sue preoccupazioni, come mi spiegò, riguardavano piuttosto il mondo invisibile, l'al di là.
Tirai fuori dalla valigia e dal baule che viaggiavano con me da Temuco, i libri e i pochi vestiti che avevo, e mi stesi sul letto a leggere e dormire, tutto compreso della mia indipendenza e della mia indolenza.
La casa non aveva cortile ma un'ampia veranda coperta su cui si affacciavano innumerevoli stanze chiuse. La mattina dopo, esplorando i recessi della casa solitaria, osservai che su tutte le pareti e persino nella stanza da bagno spiccavano cartelli che dicevano più o meno la stessa cosa: «Rassegnati. Non puoi comunicare con noi. Sei morta». Avvertimenti inquietanti sparsi in ogni stanza, nella sala da pranzo, nei corridoi, nei salotti.
Era uno di quegli inverni freddi di Santiago del Cile. Eredità coloniale della Spagna ha lasciato al mio paese i disagi e il disprezzo per i rigori naturali. (Cinquanta anni dopo quello che sto raccontando, Ilya Ehrenburg (3) mi diceva di non aver mai patito tanto freddo come in Cile, lui che veniva dalle strade innevate di Mosca.) Quell'inverno aveva appannato i vetri. Gli alberi della strada rabbrividivano dal freddo. I cavalli delle vecchie carrozze sbuffavano vapore dalle froge. Era il momento peggiore per vivere in quella casa fra oscure ed insinuanti presenze dell'ai di là.
Il padrone di casa, coiffeur pour dames, e occultista, mi spiegò tranquillamente, fissandomi con i suoi occhi da pazzo.
— La Charito, mia moglie, è morta quattro mesi fa. Questo è un momento molto difficile per i morti. Continuano a frequentare gli stessi luoghi in cui sono vissuti. Noi non li vediamo, ma loro non se ne rendono conto. Bisogna farglielo sapere perché non ci credano
indifferenti e non ne soffrano. Per questo ho messo quei cartelli per la Charito che le faranno capire più facilmente il suo attuale stato di defunta.
Ma l'uomo dalla testa grigia mi credeva forse troppo vivo. Cominciò a controllare quando entravo e quando uscivo, a regolare le mie visite femminili, a, spiare i miei libri e la mia corrispondenza. Quando entravo in anticipo in camera mia trovavo l'occultista che esplorava la mia scarsa mobilia, facendo l'inventario delle mie misere proprietà.
In pieno inverno, e facendo capitomboli per le strade ostili, dovetti cercare una nuova sistemazione dove riparare la mia minacciata indipendenza. La trovai a pochi metri da lì, in una lavanderia. Saltava agli occhi che qui la proprietaria non aveva niente a che vedere
col padrone dell'altra casa. Attraverso cortili freddi, con fontane di acqua stagnante che il muschio acquatico ricopriva di spessi tappeti verdi, si distendevano dei giardini abbandonati. In fondo c'era una stanza dal soffitto altissimo, con finestre che si aprivano al di sopra dell'architrave delle alte porte, cosa che a miei occhi aumentava la distanza fra il pavimento e il soffitto. Rimasi in quella casa e in quella stanza.
Noi poeti studenteschi facevamo una vita stravagante. Io difesi le mie abitudini provinciali lavorando nella mia stanza, scrivendo molte poesie al giorno e bevendo interminabili tazze di tè, che mi preparavo io stesso. Ma fuori dalla mia stanza e lontano dalla mia via, la turbolenza della vita degli scrittori del tempo aveva un suo speciale fascino. I letterati non si ritrovavano al caffè, ma nelle birrerie e nelle taverne. Le conversazioni e i versi andavano e venivano fino all'alba. I miei studi ne andavano risentendo.
La società ferroviaria forniva a mio padre, per il suo lavoro all'aria aperta, un mantello di grosso panno grigio che non usò mai. Io lo destinai alla poesia. Tre o quattro altri poeti cominciarono ad usare mantelli simili al mio, che passava di mano in mano. Questo abbigliamento suscitava l'ira della brava gente e anche di alcuni che tanto bravi non erano. Era l'epoca del tango, che arrivava in Cile non solo con i suoi passi e la sua svolazzante «tijera», (4) le sue fisarmoniche e il suo ritmo, ma anche con un seguito di furfanti che invasero la vita nottura e i luoghi in cui ci riunivamo. Questa gente di malaffare, ballerini e teppisti, scatenavano delle risse contro i nostri mantelli e contro la nostra esistenza. Noi poeti ci battevamo fieramente.
In quei giorni mi guadagnai l'amicizia inaspettata di una vedova indelebile, dagli immensi occhi azzurri che si velavano teneramente ricordando il marito recentemente scomparso. Questi era stato un giovane romanziere, famoso per la sua bellezza. Insieme avevano formato una memorabile coppia, lei con i suoi capelli color del grano, il corpo perfetto e gli occhi ultramarini, e lui molto alto ed atletico. Il romanziere era stato stroncato da una tubercolosi di quelle che chiamavano galoppanti. In seguito ho pensato che anche la bionda compagna abbia fatto la sua parte di Venere galoppante, e che l'epoca prepenicillinica, più la bionda focosa, si siano portate via da questo mondo in un paio di mesi il marito monumentale.
La bella vedova non si era ancora spogliata per me dei suoi abiti scuri, sete nere e violette che la facevano apparire come un candido frutto avvolto in una corteccia di lutto. Questa corteccia scivolò a terra un pomeriggio, là, nella mia stanza, in fondo alla lavanderia, e potei toccare e percorrere l'intero frutto di neve bruciante. Stava già per consumarsi l'impeto naturale quando la vidi chiudere i suoi occhi sotto i miei esclamando «Oh, Roberto,Roberto!», sospirando e singhiozzando. (Mi parve un atto liturgico. La vestale invocava il dio scomparso prima di abbandonarmi ad un nuovo rito.)
Tuttavia, e malgrado la mia giovinezza abbandonata, quella vedova mi parve eccessiva. Le sue invocazioni divenivano sempre più pressanti e il suo cuore focoso mi portava lentamente ad un annientamento prematuro. L'amore, a queste dosi, non va d'accordo con la denutrizione. E la mia denutrizione diveniva ogni giorno più drammatica.
LA TIMIDEZZA (5)
La verità è che vissi molti dei miei primi anni, e forse dei miei secondi e dei miei terzi, come una specie di sordomuto.
Ritualmente vestito di nero sin dalla prima adolescenza, come si vestivano i veri poeti del secolo scorso, avevo la vaga impressione di non essere poi tanto male d'aspetto. Ma, invece di avvicinarmi alle ragazze, sapendo che mi sarei messo a balbettare o sarei arrossito davanti a loro, preferivo scantonare quando le vedevo e allontanarmi mostrando un disinteresse che ero ben lungi dal provare. Erano tutte, un gran mistero per me. Io avrei voluto morire bruciato in quel rogo segreto, affogare in quel pozzo di enigmatica profondità, ma non avevo il coraggio di gettarmi nel fuoco o nell'acqua. E siccome non incontravo nessuno che mi desse uno spintone, passavo sull'orlo del fascino, senza neppure guardare, e tanto meno sorridere.
Mi succedeva la stessa cosa con gli adulti, gente modesta, impiegati di ferrovie e delle poste e le loro « signore », così chiamate perché la piccola borghesia si scandalizza intimidita di fronte alla parola moglie. Io ascoltavo le conversazioni alla tavola dei miei genitori. II giorno dopo però, se per strada mi imbattevo in coloro che la sera precedente avevano cenato a casa mia, non avevo il coraggio di salutarli, e cambiavo persino di strada per evitare quel brutto incontro.
La timidezza è una condizione strana dell'anima, una categoria, una dimensione che si apre verso la solitudine. È anche una sofferenza inseparabile, come se si avessero due epidermidi, e la seconda pelle interiore si irritasse e contraesse di fronte alla vita. Fra le strutture dell'uomo, questa qualità o questo difetto fan parte dell'impasto che, per un lungo periodo, va gettando le fondamenta della perpetuità dell'essere.
Il mio piovoso torpore, la mia prolungata introversione durò più del necessario. Quando arrivai alla capitale, mi feci a poco a poco degli amici e delle amiche. Meno importanza mi davano, più facilmente concedevo loro la mia amicizia. In quel tempo non avevo una grande curiosità per il genere umano. Non posso riuscire a conoscere tutte le persone di questo mondo, mi dicevo. Ma malgrado tutto, in certi ambienti nasceva una pallida curiosità per questo nuovo poeta di poco più di sedici anni, un ragazzo reticente e solitario che si vedeva arrivare ed andarsene senza dire buon giorno e senza accomiatarsi. Salvo che andavo vestito di un lungo mantello spagnolo che mi dava l'aria di uno spaventapasseri. Nessuno sospettava che il mio vistoso abbigliamento fosse direttamente prodotto dalla mia miseria.
Fra le persone che mi cercarono c'erano due grandi snobs del tempo: Pilo Yañez e sua moglie Mina. Incarnavano il perfetto esempio del dolce far niente, più lontano di un sogno, in cui mi sarebbe piaciuto vivere. Per la prima volta in vita mia entrai in una casa con riscaldamento, con placide lampade, comodi divani, pareti foderate di libri il cui dorso multicolore significava una primavera inaccessibile. Gli Yañez mi invitarono spesso, gentili e discreti, senza far caso ai miei diversi stadi di mutismo e di isolamento. Uscivo contento da casa loro, e loro lo notavano e mi invitavano di nuovo.
In quella casa vidi per la prima volta dei quadri cubisti fra cui un Juan Gris. (6) Mi informarono che Juan Gris era stato amico di famiglia a Parigi. Ma ciò che più di ogni altra cosa richiamò la mia attenzione fu il pigiama del mio amico. Approfittavo di ogni occasione per dargli una sbirciata con intensa ammirazione. Eravamo in inverno e quello era un pigiama di panno grosso, simile al panno di un biliardo, ma di un azzurro ultramarino. In quel tempo non concepivo altro colore di pigiama che non fossero le strisce come quelle delle uniformi da carcerati. Quello di Pilo Yañez era veramente fuori dall'ordinario. Il suo grosso panno e il suo azzurro splendente suscitavano l'invidia di un poeta povero che viveva nei sobborghi di Santiago. Ma, a onor del vero, in cinquant'anni non ho mai più trovato un pigiama come quello.
Persi di vista gli Yañez per molti anni. Lei abbandonò il marito, e abbandonò pure le soavi lampade e gli eccellenti divani per l'acrobata di un circo russo che passò da Santiago. In seguito vendette biglietti, dall'Australia alle Isole Britanniche, per collaborare con le esibizioni dell'acrobata che le aveva fatto perdere la testa. Infine divenne Rosacroce (7) o qualcosa di simile, in una comunità mistica del sud della Francia.
Quanto a Pilo Yañez, il marito, cambiò il nome in quello di Juan Emar e col tempo divenne uno scrittore poderoso e segreto. Fummo amici per tutta la vita. Silenzioso e gentile ma povero: morì così. I suoi molti libri non sono stati ancora pubblicati, ma la loro germinazione è sicura.
Finirò con Pilo Yañez o Juan Emar (e tornerò sulla mia timidezza) ricordando che, durante il mio periodo studentesco, il mio amico Pilo si impegnò a presentarmi a suo padre. «Ti darà la possibilità di fare un viaggio in Europa, vedrai», mi disse. In quel momento tutti i
poeti e i pittori latinoamericani avevano gli occhi fissi su Parigi. Il padre di Pilo era una persona molto importante, un senatore. Viveva in una di quelle case enormi e brutte, in una via vicina a Plaza de Armas e al palazzo presidenziale che era senza dubbio il posto in cui avrebbe preferito vivere.
I miei amici rimasero in anticamera, dopo avermi tolto il mantello perché avessi un aspetto più normale. Mi aprirono la porta dello studio del senatore e la chiusero alle mie spalle. Era una sala immensa, forse un tempo era stato un salone da ricevimenti, ma ora era vuota. Solo in fondo, all'estremità della stanza, sotto una lampada a stelo, distinsi una poltrona e, sopra, il senatore. Le pagine del giornale che stava leggendo lo nascondevano completamente, come un paravento.
Non appena feci il primo passo sul parquet scuro e criminalmente lucidato a cera, scivolai come uno sciatore. La mia velocità aumentava vertiginosamente; frenavo per fermarmi ma riuscivo solo a far delle sbandate e a cadere più volte. La mia ultima caduta fu proprio ai piedi del senatore che ora mi osservava con occhi freddi, senza abbassare il giornale.
Riuscii a sedermi su uno sgabello al suo fianco. Il grand'uomo mi esaminò con uno sguardo da entomologo stanco cui avessero portato un esemplare che conosce già a memoria, un ragnetto inoffensivo. Mi chiese vagamente dei miei progetti. Io dopo la caduta ero ancora più timido e meno eloquente del solito.
Non so che cosa gli dissi. In capo a venti minuti mi porse una mano piccolina in segno di commiato. Mi parve di sentirgli promettere con voce melata che mi avrebbe fatto avere sue notizie. Poi riprese il suo giornale e io affrontai il ritorno, attraverso il pericoloso parquet, usando tutte quelle precauzioni che avrei dovuto avere per entrare. Naturalmente il senatore, padre del mio amico, non mi fece mai avere alcuna notizia. D'altra parte, una rivolta militare, certamente stupida e reazionaria, lo fece in seguito saltare dalla sua poltrona insieme al suo interminabile giornale. Mi fece piacere, lo confesso.
LA FEDERAZIONE DEGLI STUDENTI
A Temuco ero stato il corrispondente della rivista « Claridad », organo della Federazione degli Studenti, e ne vendevo venti o trenta copie fra i miei compagni di liceo. Le notizie che il 1920 ci portarono a Temuco segnarono la mia generazione con cicatrici sanguinanti. La « gioventù dorata », figlia dell'oligarchia, aveva assalito e distrutto la sede della Federazione degli Studenti. La giustizia, che dall'epoca della colonia fino ad oggi, è stata al servizio dei ricchi, non incarcerò gli assalitori ma gli assaliti. Domingo Gómez Rojas, giovane speranza della poesia cilena, impazzì e morì in galera sotto le torture. La ripercussione di questo delitto, nella situazione nazionale di un piccolo paese, fu altrettanto profonda e vasta di quella che avrebbe avuto l'assassinio di Granada di Federico Garcia Lorca. (8)
Quando giunsi a Santiago, nel marzo del 1921, per entrare all'Università, la capitale cilena non aveva più di cinquecentomila abitanti. Sapeva di gas e di caffè. Migliaia di case erano occupate da gente sconosciuta e da cimici. Il trasporto per le strade era svolto da piccoli e sgangherati tram, che si muovevano a fatica con grande fracasso di ferraglia e campanelli. Il tragitto fra l'Avenida Independencia e l'altro capo della capitale, vicino alla Stazione Centrale, dove si trovava la mia facoltà, era interminabile.
Alla sede della Federazione degli Studenti entravano ed uscivano le più famose figure della ribellione studentesca, ideologicamente legata al poderoso movimento anarchico del tempo. Alfredo Demaria, Daniel Schweitzer, Santiago Labarca, Juan Gandulfo, erano i dirigenti di maggior spicco. Juan Gandulfo era indubbiamente il più formidabile di tutti, temuto per le sue audaci idee politiche e per il suo valore di fronte ad ogni prova. Mi trattava come fossi un bambino, e in realtà lo ero. Una volta che arrivai tardi al suo studio per una visita
medica, mi guardò accigliato e mi disse: « Perché non sei venuto in orario? Ci sono altri pazienti che aspettano ». « Non sapevo che ora fosse », gli risposi. « Prendi, così la prossima volta lo saprai », mi disse, e cavò dal panciotto il suo orologio e me lo diede in regalo.
Juan Gandulfo era piccolo di statura, col viso rotondo e prematuramente calvo. Il suo aspetto era però sempre imponente. Una volta un militare golpista, che aveva la fama di attaccabrighe e di spadaccino, lo sfidò a duello. Gandulfo accettò, in quindici giorni apprese la scherma e lasciò malconcio e spaventatissimo lo sfidante. In quegli stessi giorni preparò delle incisioni in legno per la copertina e tutte le illustrazioni di Crepusculario, (9) il mio libro, incisioni impressionanti fatte da un uomo di cui nessuno mai sospetta un rapporto con la creazione artistica.
Nella vita letteraria rivoluzionaria, la figura più importante era Roberto Meza Fuentes, direttore della rivista « Juventud », che apparteneva essa pure alla Federazione degli Studenti, anche se era più antologica e meno spontanea di « Claridad ». In quella rivista primeggiavano Gonzalez Vera e Manuel Rojas, che ai miei occhi erano di una generazione molto più vecchia. Manuel Rojas era giunto da poco dall'Argentina, dopo molti anni, e ci lasciava sbalorditi con la sua imponente statura e le parole che lasciava cadere con una sorta di disprezzo, di orgoglio o di dignità. Era linotipista. Gonzalez Vera lo avevo conosciuto a Temuco, fuggiasco dopo l'assalto poliziesco alla Federazione degli Studenti. Venne direttamente a trovarmi dalla stazione ferroviaria che distava pochi passi da casa mia. La sua apparizione fu per forza memorabile per un poeta di sedici anni. Non avevo mai visto un uomo tanto pallido. Il suo viso magrissimo sembrava scolpito nell'osso o nell'avorio. Vestiva di nero, un nero sfilacciato alle estremità dei pantaloni e delle maniche, senza che per questo perdesse la sua eleganza. La sua parola mi suonò, fin dal primo momento, ironica e acuta. La sua presenza, in quella notte di pioggia che lo portò a casa mia, senza che prima avessi saputo della sua esistenza, mi commosse, come l'arrivo del nichilista rivoluzionario a casa di Sacha Yegulev, il personaggio di Andreiev (10) che la gioventù ribelle latinoamericana prendeva ad esempio,
ALBERTO ROJAS GIMÉNEZ
Alla rivista « Claridad », cui io partecipai come militante politico e letterario, quasi tutto era diretto da Alberto Rojas Giménez, che sarebbe divenuto uno dei più cari compagni della mia generazione. Portava un cappello a larghe tese e dei lunghi, aristocratici favoriti. Elegante e distinto, malgrado la miseria in cui sembrava danzare come un uccello dorato, riassumeva in sé tutte le qualità del nuovo dandismo: un atteggiamento sdegnoso, una comprensione immediata dei numerosi conflitti e una conoscenza (nonché un desiderio) allegra di tutte le cose vitali. Libri e ragazze, bottiglie e barche, itinerari ed arcipelaghi: conosceva ed utilizzava tutto fin nei suoi più piccoli gesti. Si muoveva nel mondo letterario con un'aria di sufficienza da perpetuo scavezzacollo, da dissipatore professionale del suo talento e del suo fascino. Le sue cravatte erano sempre splendidi esemplari di opulenza, fra la miseria generale. Cambiava continuamente casa e città e in questo modo la sua sfrenata allegria, la sua scapigliatura perseverante e spontanea, allietavano per alcune settimane gli abitanti sorpresi di Rancagua, di Curicó, di Valdivia, di Concepción, di Valparaíso. Se ne andava come era arrivato, lasciando versi, disegni, cravatte, amore e amicizia dovunque fosse stato. Aveva un'idiosincrasia da principe delle favole, una generosità inverosimile, e
quindi regalava tutto, il cappello, la camicia, la giacca e persino le scarpe. Quando non gli rimaneva nulla di materiale, tracciava sul foglio una frase, la riga di un verso o qualsiasi graziosa trovata, e con un gesto magnanimo te l'offriva partendo, come se ti lasciasse fra le
mani un gioiello inestimabile.
Scriveva i suoi versi all'ultima moda, seguendo gli insegnamenti di Apollinaire e del gruppo ultraista spagnolo. (11) Aveva fondato una nuova scuola poetica dal nome di « Agu » che, secondo lui, era il grido primordiale dell'uomo, il primo verso del neonato.
Rojas Giménez ci impose piccole mode nell'abbigliamento, nel modo di fumare, nella calligrafia. Prendendosi, con infinita delicatezza, gioco di me, mi aiutò a liberarmi dal mio tono cupo. Non mi ha mai contagiato con la sua aria scettica, né col suo torrenziale alcoolismo, ma ancor oggi ricordo con intensa emozione il suo volto che l'illuminava tutto, che faceva volare dovunque la bellezza, come se animasse una farfalla nascosta.
Da don Miguel de Unamuno (12) aveva imparato a fare uccelli di carta. Ne costruiva uno dal lungo collo e dalle ali distese su cui poi soffiava. E chiamava questo dare « l'impulso vitale ». Scopriva poeti di Francia, bottiglie oscure sepolte nelle cantine, inviava lettere d'amore alle eroine di Francis Jammes. (13)
I suoi bei versi gli si gualcivano in tasca, senza che siano mai stati, fino ad oggi, pubblicati.
La sua esuberante personalità richiamava talmente l'attenzione che un giorno, in un caffè, gli si avvicinò uno sconosciuto che gli disse: « Signore, l'ho ascoltata parlare e ho provato una gran simpatia per lei. Posso chiederle una cosa? » « E che mai? », gli rispose con freddezza Rojas Giménez. « Che mi permetta di saltarla », disse lo sconosciuto. « Ma come? », rispose il poeta. « Lei è così forte da essere capace di saltarmi qui, seduto a questa tavola? » « No signore », rispose con voce umile lo sconosciuto. « Desidero saltarla più tardi, quando lei se ne starà ormai tranquillo nella sua bara. È il mio modo di rendere omaggio alle persone interessanti che ho conosciuto in vita mia: saltarli, se me lo permettono, dopo morti. Sono un uomo solitario e questo è il mio unico hobby ». E tirando fuori un'agenda gli disse: « Ho qui l'elenco delle persone che ho già saltato ». Rojas Giménez accettò, pazzo di allegria, quella strana proposta. Alcuni anni dopo, nell'inverno più piovoso che io ricordi, Rojas Giménez moriva. Aveva, come di consueto, lasciato la sua giacca in un bar del centro di Santiago. In maniche di camicia, in quell'inverno antartico, attraversò la città per recarsi alla Quinta Normal, a casa della sorella Rosita. Due giorni dopo una broncopolmonite si portò via da questo mondo uno degli esseri più affascinanti che abbia mai conosciuto. Il poeta se ne andò volando con i suoi uccelli di carta per il cielo e sotto la pioggia.
Ma quella notte gli amici che lo vegliarono ricevettero una visita insolita. La pioggia torrenziale cadeva sui tetti, i lampi ed il vento illuminavano e scuotevano i grandi platani della Quinta Normal, quando la porta si aprì ed entrò un uomo a lutto stretto e inzuppato dalla pioggia. Non lo conosceva nessuno. Di fronte agli amici che la vegliavano, lo sconosciuto prese la rincorsa e saltò la bara. Poi, senza dire una parola, se ne andò sorprendentemente com'era venuto, scomparendo nella pioggia e nella notte. Fu così che la sorprendente vita
di Alberto Rojas Giménez fu suggellata da un rito misterioso che nessuno può ancora spiegarsi.
Io ero appena arrivato in Spagna quando ricevetti la notizia della sua morte. Raramente ho provato un dolore cos’ intenso. Fu a Barcellona. Cominciai immediatamente a scrivere la mia elegia « Alberto Rojas Giménez viene volando » (14) che fu in seguito pubblicata dalla « Rivista de Occidente ».
Dovevo però compiere qualcosa di rituale per accomiatarmi da lui. Era morto tanto lontano, in Cile, in giorni di pioggia tremenda che avevano allagato il cimitero. Il non poter essere accanto alle sue spoglie, il non poterlo accompagnare nell'ultimo viaggio, mi fece
pensare ad una cerimonia. Andai dal mio amico pittore Isaias Cabezón e ci recammo insieme alla meravigliosa basilica di Santa Maria del Mar. Comprammo due immense candele, alte quasi quanto un uomo, ed entrammo nella penombra di quello strano tempio. Infatti Santa Maria del Mar era la cattedrale dei naviganti. Pescatori e marinai la costruirono pietra su pietra molti secoli fa. Poi fu decorata con migliaia di ex-voto; navicelle di ogni forma e dimensione tappezzavano interamente le pareti e i soffitti della meravigliosa basilica. Mi accorsi che quello era il grande teatro per il poeta scomparso, il posto che avrebbe preferito se lo avesse conosciuto. Facemmo accendere le gigantesche candele al centro della basilica accanto alle nubi del soffitto istoriato, e io e il mio amico pittore, seduti nella chiesa vuota, con accanto una bottiglia di vino verde (15) ciascuno, pensammo che quella cerimonia silenziosa, malgrado il nostro agnosticismo, ci avvicinasse in qualche modo misterioso al nostro amico morto. Le candele, che ardevano nel punto più alto della basilica vuota, erano qualcosa di vivo e di brillante, come se dall'ombra e fra gli ex-voto i due occhi di quel poeta pazzo, il cui
cuore si era spento per sempre, ci stessero fissando.
PAZZI DI INVERNO
A proposito di Rojas Giménez dirò che la pazzia, una certa pazzia, va molte volte a braccetto con la poesia. E come alle persone più ragionevoli costerebbe molto essere poeti, così forse ai poeti costa molto essere ragionevoli. La ragione però ha la meglio ed è la ragione, base della giustizia, che deve governare il mondo. Miguel de Unamuno, che amava molto il Cile, una volta disse: « Questo modo di dire proprio non mi piace. Che cos'è questo per ragione o per forza? Per ragione e sempre per ragione ».
Fra i poeti pazzi che ho conosciuto un tempo, parlerò di Alberto Valdivia. Il poeta Alberto Valdivia era uno degli uomini più magri del mondo ed era tanto emaciato che pareva esser fatto solo d'ossa, con una superba chioma grigia e un paio di occhiali a stanghetta che coprivano i suoi occhi miopi, dallo sguardo distante. Lo chiamavano « il cadavere Valdivia ».
Entrava ed usciva silenziosamente in bar e riunioni, in caffè e concerti, senza far rumore e con un misterioso pacco di giornali sotto il braccio. « Caro cadavere », gli dicevamo noi suoi amici, abbracciando il suo corpo incorporeo con la sensazione di abbracciare una
corrente d'aria.
Scrisse versi preziosi, pieni di sentimento sottile, di intensa dolcezza. Versi come questi:
Tutto se ne andrà, la sera, il sole, la vita:
sarà il trionfo del male, l'irreparabile.
Solo tu resterai, inseparabile
sorella del tramonto della mia vita.
Era un vero poeta colui che chiamavamo « il cadavere Valdivia » e lo chiamavamo così, con affetto. Gli dicevamo spesso: « Cadavere, rimani a mangiare con noi ». Non se la prese mai a male per il nostro nomignolo. A volte, sulle sue sottilissime labbra, aleggiava l'ombra di un sorriso. Le sue frasi erano misurate, ma piene di sottintesi. Divenne un rito portarlo tutti gli anni al cimitero. La notte prima del 1 novembre gli offrivamo una cena sontuosa quanto potevano permettere i miseri portafogli della nostra giovinezza studentesca e letteraria. Il nostro « cadavere » occupava il posto d'onore. Alle 12 in punto la tavolata si levava e ce ne andavamo in allegra processione fino al cimitero. Nel silenzio notturno veniva pronunciato un discorso che celebrava il poeta « defunto ». Poi, ognuno di noi si accomiatava da lui con solennità e ce ne andavamo lasciandolo completamente solo sulla porta del camposanto. Il « cadavere Valdivia » aveva ormai accettato questa tradizione, in sui non c'era alcunché di crudele, perché fino all'ultimo momento lui stesso partecipava allo scherzo. Prima di andarcene gli davamo un po' di soldi perché si mangiasse un panino nel loculo.
Nessuno si sorprendeva che dopo due o tre giorni il poeta cadavere entrasse di nuovo silenziosamente in caffè e riunioni. La sua tranquillità era assicurata fino al prossimo 1 novembre.
A Buenos Aires conobbi uno scrittore argentino molto eccentrico che si chiamava o si chiama Ornar Vignole. Non so se è ancora vivo. Era un uomo grande e grosso, con un grosso bastone in mano. Una volta, in un ristorante del centro in cui mi aveva invitato a mangiare, quand'eravamo già vicini alla tavola, mi si rivolse con un gesto di offerta e disse con voce stentorea che si udì in tutta la sala piena di clienti: « Siediti, Ornar Vignole ». Io mi misi a sedere con un certo imbarazzo e gli chiesi immediatamente: « Perché mi chiami Ornar Vignole, se Ornar Vignole sei tu e io sono Pablo Neruda? » « Sì, » mi rispose, « ma in questo ristorante ci sono molti che mi conoscono solo di nome e siccome parecchi di loro vorrebbero prendermi a bastonate, preferisco che le bastonate le diano a te. »
Questo Vignole era stato agronomo in una provincia argentina e di là si portò una vacca con cui strinse una amicizia sviscerata. Passeggiava per tutta Buenos Aires con la sua vacca, tirandola con una corda. In quel periodo pubblicò alcuni libri che avevano sempre titoli
allusivi: Lo que piensa la vaca, Mi vaca y yo, ecc., ecc. Quando a Buenos Aires si riunì per la
prima volta il congresso del Pen Club mondiale, gli scrittori, presieduti da Victoria Ocampo, tremavano all'idea che Vignole e la sua vacca venissero al congresso. Spiegarono alle autorità il pericolo che li minacciava e la polizia presidiò le strade attorno all'Hotel Plaza per
impedire che nella lussuosa sala dove si teneva il congresso, comparisse il mio eccentrico amico col suo ruminante. Ma fu tutto inutile. Quando la festa era al culmino, e gli scrittori stavano esaminando il rapporto fra il mondo classico dei greci e il senso moderno della
storia, il gran Vignole irruppe nella sala delle conferenze con l'inseparabile vacca, la quale per giunta cominciò a muggire come se volesse prender parte al dibattito. L'aveva portata al centro della città dentro un enorme furgone chiuso che eluse la vigilanza poliziesca.
Di questo stesso Vignole racconterò che una volta sfidò un lottatore di catch as can. L'atleta accettò la sfida e arrivò la sera dell'incontro in un Luna Park strapieno. Il mio amico comparve puntualmente con la sua vacca, la legò in un angolo del quadrilatero, si tolse il
suo elegantissimo accappatoio e affrontò « Lo Strangolatore di Calcutta ».
Ma in quell'occasione la vacca non serviva a niente, come a niente servì la fastosa acconciatura del poeta lottatore. « Lo Strangolatore di Calcutta » si gettò su Vignole e in quattro e quattr'otto ne fece polpette e, non contento, in segno di umiliazione, gli calcò un piede sulla sua gola da toro letterario, fra i fischi terribili di un pubblico inferocito che esigeva la continuazione del combattimento.
Pochi mesi dopo pubblicò un nuovo libro: Conversaciones con la vaca. Non dimenticherò mai l'originalissima dedica che campeggiava sulla prima pagina dell'opera. Diceva press'a poco così: « Dedico questo libro filosofico ai quarantamila figli di puttana che mi fischiavano e volevano vedermi morto al Luna Park la sera del 24 febbraio ».
A Parigi, prima dell'ultima guerra, conobbi il pittore Alvaro Guevara, che in Europa fu sempre conosciuto col nome di Chile Guevara. Un giorno mi telefonò chiedendo di parlare urgentemente con me. « È un affare della massima importanza », mi disse.
Io venivo dalla Spagna e la nostra lotta di allora era contro il Nixon di quell'epoca, che si chiamava Hitler. La mia casa a Madrid era stata bombardata e avevo visto uomini, donne e bambini dilaniati dai bombardieri. La guerra mondiale era ormai alle porte. Insieme ad altri scrittori ci mettemmo a combattere il fascismo a nostro modo: con i nostri libri che esortavano a rendersi conto del grave pericolo.
Il mio compatriota si era tenuto al margine di questa lotta. Era un uomo taciturno ed un pittore molto operoso, pieno di lavoro. Ma la situazione era esplosiva. Quando le grandi potenze ostacolarono l'invio di armi ai repubblicani spagnoli perché si difendessero, e quando
poi a Monaco aprirono le porte all'esercito hitleriano, la guerra era ormai solo questione di tempo.
Accorsi all'appello del Chile Guevara. Era davvero una cosa molto importante quello che voleva comunicarmi.
— Di che si tratta? — gli dissi.
— Non c'è tempo da perdere — mi rispose. — Non hai ragione di essere antifascista. Non bisogna essere antiniente. Bisogna andare al nocciolo della questione e io questo nocciolo l'ho scoperto. E te lo voglio dire subito perché tu lasci perdere i tuoi congressi antinazisti e metta di buzzo buono al lavoro. Non c'è tempo da perdere.
— Bene, dimmi di che si tratta. Vedi, Alvaro, ho pochissimo tempo libero.
— Vedi, Pablo, il mio pensiero è espresso in un'opera teatrale, in tre anni. L'ho portata con me per leggertela — e con le sue folte sopracciglia, da vecchio pugile, mi guardava fissamente mentre tirava fuori un voluminoso manoscritto.
Preso dal terrore e prendendo a pretesto la mia mancanza di tempo, lo convinsi a spiegarmi verbalmente le idee con cui pensava di salvare l'umanità.
— È l'uovo di Colombo — mi disse. — Adesso ti spiego. Quante patate nascono per ogni patata che si pianta?
— Bah, saranno, quattro, cinque — dissi tanto per dire qualcosa.
— Molte di più — rispose. — A volte quaranta, a volte più di cento. Immagina che ognuno pianti una patata, in giardino, sul balcone, dove capita. Quanti abitanti ha il Cile? Otto milioni. Otto milioni di patate piantate. Moltiplica, Pablo, per quattro, per cento. Basta con la fame, basta con la guerra. Quanti abitanti ha la Cina? Cinquecento milioni, vero? Ogni cinese pianta una patata. Da ogni patata ne nascono quaranta. Cinquecento milioni per quaranta patate. L'umanità è salva.
Quando i nazisti entrarono in Parigi non tennero in conto questa idea salvatrice: l'uovo di Colombo, o meglio, la patata di Colombo. Una notte di freddo e nebbia arrestarono nella sua casa di Parigi Alvaro Guevara. Lo portarono in un campo di concentramento e lo tennero
prigioniero, con un tatuaggio al braccio, fino alla fine della guerra. Divenuto ormai uno scheletro umano, uscì dall'inferno, ma non poté più riprendersi. Venne un'ultima volta in Cile, come per accomiatarsi dalla sua terra, dandole un bacio finale, un bacio da sonnambulo, e se ne tornò in Francia, dove finì di morire.
Gran pittore, caro amico, Chile Guevara, voglio dirti una cosa: So che sei morto, e che non ti è servito a niente l'apoliticità della patata. So che ti hanno ucciso i nazisti. Ma nel giugno dell'anno scorso sono entrato alla National Gallery. Andavo solo per vedere i quadri di Turner, (16) ma prima di arrivare alla sala grande mi sono imbattuto in un quadro impressionante: un quadro che per me era bello come i Turner, una pittura abbagliante. Era il ritratto di una dama, una dama famosa: si chiamava Edith Sitwell. E questo quadro era una tua opera, l'unica di un pittore latinoamericano che abbia mai avuto il privilegio di stare accanto ai capolavori di quel gran museo di Londra.
Non mi importa il luogo, e neppure l'onore, e in fondo mi importa pochissimo persino di quel bei quadro. Quello che mi importa è che non ci siamo conosciuti di più, capiti di più, e che abbiamo incrociato le nostre vite senza intenderci, per colpa di una patata.
Io sono stato un uomo troppo semplice: è il mio onore e la mia vergogna. Mi sono unito alla farandola (17) dei miei compagni ed ho invidiato i loro pennacchi variopinti, i loro atteggiamenti satanici, i loro uccelli di carta e persino quelle vacche che hanno forse un qualche misterioso rapporto con la letteratura. Mi sembra comunque di non esser nato per condannare, ma per amare. Persino i detrattori di mestiere che mi attaccano, coloro che si mettono in mucchio per cavarmi gli occhi e che in precedenza si erano nutriti della mia poesia, meritano almeno il mio silenzio. Non ho mai avuto paura di contagiarmi penetrando nella massa dei miei nemici, perché gli unici nemici che ho sono i nemici del popolo.
Apollinaire disse: « Pietà per noi che esploriamo le frontiere dell'irreale », cito a memoria, pensando a quanto ho finito di raccontare, racconti di gente stravagante, ma non per questo meno amata, incomprensibile, ma non per questo di meno valore.
GRANDI AFFARI
Noi poeti abbiamo sempre pensato di avere grandi idee per arricchirci, di essere geni nel progettare affari, anche se geni incompresi. Ricordo che spinto da una di quelle fortunate combinazioni vendetti al mio editore in Cile, nel 1924, la proprietà del mio libro Crepusculario,
e non per un'edizione, ma per l'eternità. Pensai che con quella vendita mi sarei arricchito e firmai il contratto davanti al notaio. Il tizio mi pagò cinquecento pesos, che in quell'epoca erano poco meno di cinque dollari. Rojas Giménez, Alvaro Hinojosa, Homero Arce, mi aspettavano alla porta dello studio del notaio per offrirci tutti quanti un bei banchetto in onore di questo successo commerciale. E infatti pranzammo nel miglior ristorante dell'epoca, « La Bahía », con vini sontuosi, sigari e liquori. Ci eravamo in precedenza fatti lucidare le scarpe che brillavano come specchi. Il ristorante, quattro lustrascarpe e un editore fecero un buon affare con quel contratto. Ma la prosperità non toccò il poeta.
Chi diceva di avere un occhio d'aquila per ogni tipo d'affari era Alvaro Hinojosa. Ci impressionava con i suoi piani grandiosi, che, una volta messi in pratica, avrebbero dovuto farci piovere un mucchio di soldi sulla testa. Per noi, scalcinati bohémiens, la sua padronanza
dell'inglese, la sua sigaretta di tabacco biondo, i suoi anni di università a New York, erano una garanzia del pragmatismo del suo gran cervello commerciale.
Un giorno mi invitò ad un colloquio confidenziale per rendermi partecipe e socio di un formidabile progetto che avrebbe dovuto portarci all'arricchimento immediato. Io sarei stato suo socio al cinquanta per cento se solo avessi investito i pochi pesos che avrei dovuto riscuotere da qualche parte. Il resto ce l'avrebbe messo lui. Quel giorno ci sentivamo capitalisti, senza Dio né legge, decisi a tutto.
— Di che mercé si tratta? — domandai timidamente al re incompreso delle finanze.
Alvaro chiuse gli occhi, gettò una boccata di fumo che si ruppe in una serie di piccoli anelli, poi finalmente rispose con voce circospetta:
— Pelli!
— Pelli? — ripetei sconcertato.
— Di lupo di mare. Per essere precisi, di lupo marino d'un solo pelo.
Non osai indagare su ulteriori particolari. Ignoravo che le foche, o lupi marini, potessero essere d'un sol pelo. Quando li osservai su uno scoglio, sulle spiagge del sud, vidi che avevano una pelle lucente che brillava al sole, senza scorgere ombra alcuna di pelame sul loro ventre indolente.
Riscossi i miei averi con la velocità del fulmine, senza pagare ciò che dovevo d'affitto, né la rata del sarto, né il conto del calzolaio, e deposi la mia quota monetaria nelle mani del mio socio finanziario.
Andammo a vedere le pelli. Alvaro le aveva acquistate da una sua zia, che viveva nel sud ed era padrona di isole improduttive. Su quegli isolotti desolati e rocciosi i lupi marini erano soliti celebrare le loro cerimonie erotiche. Ora stavano di fronte ai miei occhi, in grandi
involti di pelli gialle, perforate dalle carabine dei servitori della zia maligna. Nel magazzino che Alvaro aveva affittato per far colpo sui presunti clienti i pacchi di pelli arrivavano fino al soffitto.
— Che cosa faremo con questa enormità, con questa montagna di pelli? — gli chiesi timidamente.
— Tutti hanno bisogno di pelli di questo tipo. Vedrai. — E uscimmo dal magazzino, Alvaro sprizzando scintille d'energia, ed io a testa bassa e in silenzio.
Alvaro andava di qua e di là con un portafoglio, fatto con una delle nostre autentiche pelli di « lupo marino d'un solo pelo », portafoglio che riempì di fogli in bianco per dargli un'apparenza commerciale. I nostri ultimi centesimi sfumarono in annunci sul giornale. Bastava che un magnate interessato e comprensivo li leggesse, ed era fatta. Saremmo diventati ricchi. Alvaro, un vero damerino, voleva farsi una mezza dozzina di vestiti di stoffa inglese. Io, molto più modesto, fra i miei sogni da realizzare accarezzavo quello di comprare un buon pennello da barba, perché quello che avevo stava andando incontro ad una inaccettabile calvizie.
Finalmente si presentò il cliente. Era un sellaio, dal corpo robusto, basso di statura, con occhi imperterriti, assai parco di parole, e con una certa ostentazione di franchezza che a mio parere rasentava la scortesia. Alvaro lo ricevette con aria di sufficienza e gli fissò un
appuntamento, tre giorni dopo, per mostrargli la nostra favolosa merce.
In quei tre giorni Alvaro comprò delle splendide sigarette inglesi ed alcuni sigari cubani « Romeo e Giulietta » che, quando giunse l'ora dell'appuntamento con l'interessato, infilò, in modo che si vedessero, nel taschino della giacca. Per terra avevamo sparpagliato le pelli in migliore stato.
L'uomo arrivò puntuale all'appuntamento. Non si tolse il cappello e ci salutò appena con un grugnito. Gettò distrattamente una rapida occhiata alle pelli stese sul pavimento. Poi passò i suoi astuti occhi d'acciaio sugli scaffali stracarichi. Sollevò una mano grassoccia e una unghia dubbiosa per indicare un pacco di pelli, uno di quelli che erano più in alto e più lontani. Proprio dove io avevo cacciato le pelli peggiori.
Alvaro approfittò di quel momento critico per offrire uno dei suoi autentici sigari cubani. Il merciaiuolo lo prese rapidamente, gli diede un morso in punta e se lo ficcò ben dritto fra i denti. Ma continuò imperturbabile ad indicare il pacco che desiderava ispezionare.
Non c'era altro da fare che mostrarglielo. Il mio socio si arrampicò sulla scala e, sorridendo come un condannato a morte, scese col grosso involto. Il cliente, interrompendosi per tirare boccate su boccate di fumo dal sigaro di Alvaro, esaminò una per una tutte le pelli del pacco.
L'uomo prendeva una pelle, la stropicciava, la rivoltava, la buttava via per poi passare ad un'altra che, a sua volta, veniva tastata, lisciata, annusata e lasciata cadere. Quando ebbe finito il suo esame passò di nuovo il suo sguardo da avvoltoio sulle scansie piene delle nostre pelli di lupo marino d'un solo pelo ed infine fissò i suoi occhi dritto negli occhi del mio socio ed esperto d'affari. Il momento era emozionante.
Allora disse con voce ferma e secca una frase immortale, almeno per noi.
— Signori miei. Io non mi sposo con queste pelli — e se ne andò per sempre, col cappello in testa com'era entrato, fumando il superbo sigaro di Alvaro, senza salutare, uccisore implacabile di tutti i nostri sogni milionari.
I MIEI PRIMI LIBRI
Mi rifugiai nella poesia con ferocia da timido. Su Santiago svolazzavano le nuove scuole letterarie. In via Maruri al 513 terminai di scrivere il mio primo libro. Scrivevo due, tre, quattro, cinque poesie al giorno. Alla sera, quando il sole tramontava, davanti al balcone si
svolgeva uno spettacolo giornaliero, che io non perdevo per nulla al mondo. Era il tramonto del sole con grandioso accumularsi di colori, con zone di luce, ventagli immensi d'arancione e di scarlatto. Il capitolo centrale del mio libro si chiama Los crepusculos de Maruri. (18) Nessuno mi ha mai chiesto che cosa sia questo Maruri. Forse qualcuno saprà che è quell'umile strada visitata dai più straordinari crepuscoli.
Quel mio primo libro Crepusculario fu pubblicato nel 1923. Per pagare la stampa ebbi ogni giorno difficoltà e vittorie. I miei pochi mobili furono venduti. L'orologio che mio padre mi aveva regalato solennemente e su cui aveva fatto dipingere due bandierine incrociate, finì, in men che non si dica, al banco dei pegni. All'orologio seguì il mio vestito nero da poeta. Lo stampatore era inesorabile e alla fine, quando l'edizione era pronta e i libri rilegati, mi disse con aria sinistra: « No. Non si prenderà neppure una copia del suo libro se prima non me l'avrà pagato tutto ». Il critico Alone anticipò generosamente gli ultimi pesos che furono inghiottiti dalle fauci dello stampatore; e uscii in strada con i libri in spalla, le scarpe rotte, e pazzo d'allegria.
Il mio primo libro! Ho sempre sostenuto che l'opera dello scrittore non è né misteriosa, né magica, ma che, almeno quella del poeta, è un'opera personale, di pubblica utilità. Ciò che è più simile alla poesia è un pane o un piatto di terracotta, o un legno teneramente intagliato, non importa se da mani maldestre. Credo però che nessun artigiano possa avere, come l'ha il poeta, per una sola volta nella vita, questa inebriante sensazione del primo oggetto creato con le proprie mani, col disorientamento ancora palpitante dei propri sogni. È un momento che non tornerà mai più. Ci saranno molte altre edizioni più curate e più belle. Le sue parole verranno travasate nel calice di altre lingue come un vino che canti e profumi in altri luoghi della terra. Ma quell'attimo in cui il primo libro esce fresco di stampa e tenero di carta, quell'attimo affascinante ed inebriante, con suono d'ali che battono e di primo fiore che s'apre sulla vetta conquistata, quell'attimo è presente una sola volta nella vita del poeta.
Una delle mie poesie sembrò staccarsi da quel libro
infantile e andare per la propria strada: è Farewell (19) che ancor oggi molta gente che incontro sa a memoria. Nei posti più inaspettati me la recitavano a memoria, o mi chiedevano di recitarla. E per quanto mi desse fastidio, appena presentato in una riunione, una ragazza cominciava ad intonare quei versi ossessionanti e persino dei ministri, a volte, mi ricevevano mettendosi sull'attenti davanti a me e sciorinandomi la prima strofa.
Anni dopo, Federico Garcia Lorca, in Spagna, mi raccontava che gli accadeva la stessa cosa con la sua poesia La casada inel. (20) La maggior prova di amicizia che Federico poteva dare era ripetere per qualcuno la sua popolarissima e bella poesia. C'è una allergia verso il successo statico di una sola delle nostre opere. Ed è un sentimento sano e persino biologico. Una tale imposizione dei lettori pretende di immobilizzare il poeta in un solo attimo, mentre invece la creazione è una ruota costante che gira con maggiore esperienza e maggior
coscienza, anche se forse con meno freschezza e meno spontaneità.
Ormai andavo lasciando indietro Crepusculario. Tremende inquietudini agitavano la mia poesia. In rapidi viaggi al sud rinnovavo le mie forze. Nel 1923 ebbi una curiosa esperienza. Ero tornato a casa mia, a Temuco. Era oltre mezzanotte. Prima di coricarmi aprii la finestra della mia stanza. Il cielo mi abbagliò. Tutto il cielo viveva, popolato da una moltitudine di stelle. La notte era appena levata e le stelle antartiche si spiegavano sulla mia testa.
Mi prese un'ebbrezza di stelle, celeste, cosmica. Corsi al mio tavolo e scrissi in modo delirante, come se ricevessi un dettato, la prima poesia di un libro che avrebbe avuto molti titoli e che si sarebbe alla fine chiamato El hondero entusiasta. (21) Mi muovevo come nuotando nelle mie vere acque.
Il giorno dopo lessi pieno di gioia il mio poema notturno. In seguito, quando arrivai a Santiago, il mago Alirio Oyarzún ascoltò pieno di ammirazione quei miei versi. Poi, con la sua voce profonda, mi chiese:
— È sicuro che questi versi non risentano dell'influenza di Sabat Ercasty? (22)
— Sono sicuro di no. Li ho scritti di getto, quasi fuori di me.
Allora spedii la mia poesia allo stesso Sabat Ercasty, un grande poeta uruguayano, oggi ingiustamente dimenticato. In quel poeta io avevo visto realizzata la mia ambizione di una poesia che inglobasse non solo l'uomo ma anche la natura, le forze nascoste; una poesia epopeica che affrontasse il gran mistero dell'universo e anche le possibilità dell'uomo. Entrai in corrispondenza con lui. E mentre io continuavo e maturavo la mia opera, leggevo con molta attenzione le lettere che Sabat Ercasty dedicava ad un così sconosciuto e giovane
poeta.
Mandai il poema di quella notte a Sabat Ercasty, a Montevideo, e gli chiesi se esso risentisse o no dell'influenza della sua poesia. Mi rispose quasi subito con una nobile lettera: « Raramente ho letto una poesia così riuscita, così magnifica, ma devo dirglielo: sì, c'è qualcosa di Sabat Ercasty nei suoi versi ».
Fu un colpo notturno, di chiarezza, di cui sono ancor oggi riconoscente. Stetti per molti giorni con quella lettera che mi si spiegazzava in tasca fino a sbriciolarsi. Erano in gioco molte cose. Mi ossessionava soprattutto lo sterile delirio di quella notte. Invano ero caduto in quella sommersione di stelle, invano mi s'era rovesciata sui sensi quella tempesta australe. Ero disorientato. Dovevo diffidare dell'ispirazione. La ragione doveva guidarmi passo a passo per i piccoli sentieri. Dovevo imparare ad essere modesto. Distrussi molti originali, ne misi da parte altri. Solo dieci anni dopo questi ultimi sarebbero ricomparsi per essere pubblicati.
Con la lettera di Sabat Ercasty finì la mia ambizione ciclica di una poesia ampia, chiusi la porta ad una eloquenza che mi sarebbe stato impossibile seguire, ridussi deliberatamente il mio stile e la mia espressione. Cercando le mie più semplici reazioni, il mio mondo armonico,
incominciai a scrivere un altro libro d'amore. Il risultato furono i Veinte Poemas.
I Veinte Poemas de Amor y una Canción desesperada (23) sono un libro doloroso e pastorale che racchiude le mie più tormentate, passioni adolescenti, mescolate con la natura travolgente del sud della mia patria. È un libro che amo perché malgrado la sua acuta malinconia vi è in esso il godimento dell'esistenza. Mi aiutò molto a scriverlo un nume e la sua foce: il Rio Imperial. I Veinte Poemas sono la romanza di Santiago, con le sue strade studentesche, l'Università e l'odore di madreselva dell'amore condiviso.
I brani di Santiago furono scritti fra la via Echaurren e l'Avenida di Spagna e dentro l'antico edificio dell'Istituto Pedagogico, ma il panorama è sempre quello delle acque e degli alberi del Sud. I moli della Canción desesperada sono i vecchi moli di Carahue e di Bajo Imperial; le loro tavole rotte e i pali come monconi battuti dall'ampio fiume; lo svolazzare dei gabbiani che vi si sente e che si continua a sentire in quella foce.
In una lunga e affusolata scialuppa, abbandonata da non so quale vascello naufragato, lessi per intero il Juan Cristóbal (24) e scrissi la Canción desesperada. Sulla mia testa il cielo era di un azzurro violento quale non ne ho mai visto altro. Io scrivevo sulla scialuppa, nascosto nella terra. Credo di non esser mai più stato tanto alto e tanto profondo come in quei giorni. Sopra, il cielo azzurro impenetrabile. Fra le mani, il Juan Cristóbal o i versi nascenti del mio poema. Accanto a me tutto ciò che è esistito e ha sempre continuato ad esistere nella mia poesia: il rumore lontano del mare, il grido degli uccelli selvatici, e l'amore che arde senza consumarsi come un rovo immortale.
Mi hanno sempre domandato chi sia la donna dei Veinte Poemas, una domanda cui è difficile rispondere. Le due o tre che si intrecciano in questa melanconica ed ardente poesia corrispondono, diciamo, a Marisol e a Marisombra. (25) Marisol è l'idillio della provincia incantata con immense stelle notturne ed occhi scuri come il cielo bagnato di Temuco. È presente con la sua allegria e la sua vivace bellezza in quasi tutte le pagine, circondata dalle acque del porto e dalla mezzaluna sulle montagne. Marisombra è la studentessa della capitale. Berretto grigio, occhi dolcissimi, il continuo profumo di madreselva dell'errante amore studentesco, l'appagamento fisico degli appassionati incontri nei nascondigli della città.
Intanto, in Cile la vita cambiava.
Clamoroso, il movimento popolare cileno si sviluppava cercando fra gli studenti e gli scrittori un maggior appoggio. Da una parte, il grande leader della piccola borghesia, dinamico e demagogico, Arturo Alessandri Palma, (26) giungeva alla Presidenza della Repubblica, non senza aver prima scosso il paese intero con la sua oratoria fiammeggiante e minacciosa. Malgrado la sua straordinaria personalità, giunto al potere, si trasformò ben presto nel classico governante della nostra America; il settore dominante della oligarchia, che pure egli aveva combattuto, gli spalancò le fauci e si inghiottì i suoi discorsi rivoluzionari. Il paese continuò a dibattersi nei più terribili conflitti.
Contemporaneamente, un leader operaio, Luis Emilio Recabarren. (27) con una attività prodigiosa organizzava il proletariato, formava centrali sindacali, fondava nove o dieci giornali operai in tutto il paese. Una valanga di disoccupazione fece vacillare le istituzioni. Io scrivevo
ogni settimana su « Claridad ». Noi studenti appoggiavamo le rivendicazioni popolari ed eravamo bastonati dalla polizia nelle strade di Santiago. Nella capitale arrivavano migliaia di operai licenziati dalle miniere di salnitro e di rame. Le manifestazioni e la conseguente repressione coloravano tragicamente la vita nazionale.
Da quell'epoca e con intermittenza la politica si mescolò alla mia poesia e alla mia vita. Non era possibile chiudere la porta che dava sulla strada, nei miei poemi, così come neppure era possibile chiudere la porta all'amore, alla vita, alla gioia o alla tristezza nel mio cuore
di giovane poeta.
LA PAROLA
...Tutto quel che vuole, sissignore, ma sono le parole che cantano, che salgono e scendono.... Mi prosterno dinanzi a loro... Le amo, mi ci aggrappo, le insegno, le mordo, le frantumo... Amo tanto le parole... Quelle inaspettate... Quelle che si aspettano golosamente, si spiano, finché ad un tratto cadono... Vocaboli amati... Brillano come pietre preziose, saltano come pesci d'argento, sono spuma, filo, metallo, rugiada... Insegno alcune parole... Sono tanto belle che le voglio mettere tutte nella mia poesia... Le afferro al volo, quando se ne vanno ronzando, le catturo, le pulisco, le sguscio, mi preparo davanti il piatto, le sento cristalline, vibranti, eburnee, vegetali, oleose, come frutti, come alghe, come agate, come olive... E allora le rivolto, le agito, me le bevo, me le divoro, le mastico, le vesto a festa, le libero... Le lascio come stalattiti nella mia poesia, come pozzetti di legno brunito, come carbone, come relitti di naufragio, regali dell'onda... Tutto sta nella parola... Tutta una idea
cambia perché una parola è stata cambiata di posto, o perché un'altra si è seduta come una reginetta dentro una frase che non l'aspettava e che le obbedì.... Hanno ombra, trasparenza, peso, piume, capelli, hanno tutto ciò che s'andò loro aggiungendo da tanto rotolare per il fiume, da tanto trasmigrare di patria, da tanto essere radici... Sono antichissime e recentissime... Vivono nel feretro nascosto e nel fiore appena sbocciato... Che buona lingua la mia, che buona lingua abbiamo ereditato dal biechi conquistatori... Andavano a balzi per le tremende cordigliere, per le Americhe increspate, cercando patate, salsicce, fagioli, tabacco nero, oro, mais, uova fritte, con quell'appetito vorace che non s'è più visto al mondo... Trangugiavano tutto, con religioni, piramidi, tribù, idolatrie eguali a quelle che portavano nei loro sacchi... Dovunque passassero non restava pietra su pietra... Ma ai barbari dagli stivali, dalle barbe, dagli elmi, dai ferri dei cavalli, come pietruzze, cadevano le parole luminose che rimasero qui splendenti... la lingua. Fummo sconfitti... E fummo vincitori... Si portarono via
l'oro e ci lasciarono l'oro... Se lo portarono via tutto e ci lasciarono tutto... Ci lasciarono le parole.
Quaderno 3
LE STRADE DEL MONDO
IL VAGABONDO DI VALPARAÍSO
Valparaíso è vicinissima a Santiago. La separano solo le irsute montagne sulle cui cime si levano, come obelischi, grandi cactus ostili e fioriti. E tuttavia un che di infinitamente indefinibile allontana Valparaíso da Santiago. Santiago è una città prigioniera, assediata dalle
sue mura di neve. Valparaíso invece apre le sue porte all'infinito mare, alle grida delle strade, agli occhi dei bambini.
Nel momento più disordinato della nostra giovinezza, salivamo all'improvviso, sempre all'alba, sempre senza aver dormito, sempre senza un centesimo in tasca, in un vagone di terza classe. Eravamo poeti o pittori di poco più o poco meno di vent'anni, provvisti di una
forte carica di pazzia irriflessiva che voleva esprimersi, allargarsi, esplodere. La stella di Valparaíso ci chiamava con la sua pulsazione magnetica.
Solo anni dopo sono tornato a sentire da un'altra città quello stesso appello inspiegabile. Fu durante i miei anni a Madrid. Ad un tratto, in una birreria, uscendo da un teatro all'alba, o semplicemente camminando per le strade, udivo la voce di Toledo che mi chiamava, la voce muta dei suoi fantasmi, del suo silenzio. E a quelle ore piccole, insieme ad amici pazzi come quelli della mia giovinezza, ce ne andavamo verso l'antica cittadella calcinata e contorta. A dormire vestiti sulle sabbie del Tago, (1) sotto i ponti di pietra.
Non so perché fra i miei fantasiosi viaggi a Valparaíso uno mi è sempre rimasto impresso, impregnato d'un profumo d'erbe strappate all'intimità dei campi. Andavamo a salutare un poeta ed un pittore che sarebbero partiti per la Francia in terza classe. Fra tutti non avevamo di che pagare neppure il più scalcinato degli alberghi, e così cercammo Novoa, uno dei nostri pazzi favoriti della grande Valparaíso. Arrivare a casa sua non era tanto semplice. Salendo e sdrucciolando per colline e colline all'infinito, vedevamo nell'oscurità l'imperturbabile figura di Novoa che ci guidava.
Era un uomo imponente, dalla barba folta e dai baffoni spioventi. Le falde del suo vestito scuro battevano come ali sulle cime misteriose di quella cordigliera che salivamo ciechi e preoccupati. Novoa non smetteva di parlare. Era un santo pazzo, canonizzato esclusivamente da noi poeti. Ed era, naturalmente, un naturalista; un vegetariano vegetale. Esaltava i segreti rapportati, che solo lui conosceva, fra la salute del corpo e i doni naturali della terra. Camminando ci faceva la predica; volgeva indietro la sua voce tonante, come se fossimo suoi discepoli. La sua figura spropositata avanzava come quella di un San Cristoforo nato nei notturni, solitari sobborghi.
Arrivammo finalmente a casa sua, che risultò essere una capanna di due stanze. Una era occupata dal letto del nostro San Cristoforo. L'altra era quasi riempita da un immenso seggiolone di vimini, copiosamente intrecciato di superflui rosoni di paglia e con innumerevoli
cassettini sui braccioli; un capolavoro dello stile vittoriano. Il gran seggiolone mi fu assegnato come giaciglio per la notte. I miei amici stesero sul pavimento i giornali della sera e si coricarono parsimoniosamente sulle notizie e gli editoriali.
Ben presto seppi, dal respiro e dal russare, che si erano tutti addormentati. Seduto su quel mobile monumentale, era difficile per la mia stanchezza conciliare il sonno. Solo dei latrati di cani astrali che attraversavano la notte, solo il fischio lontanissimo di una nave che entrava o usciva dal porto, mi confermavano la notte di Valparaíso.
All'improvviso sentii una sensazione strana e travolgente che mi invadeva. Era una fragranza montuosa, un odore di prateria, di vegetazioni che erano cresciute con la mia infanzia e che avevo dimenticato nel fragore della mia vita cittadina. Mi sentii riconciliato
col sonno, cullato dalla ninna nanna della terra materna. Da dove poteva venire quel palpito silvestre della terra, quella purissima verginità di aromi? Frugando con le dita fra i recessi dei vimini del seggiolone colossale scoprii innumerevoli cassettini dentro cui palpai piante secche e lisce, rami puntuti e rotondi, foglie lanceolate, tenere o ferree. Tutto l'arsenale salutare del nostro predicatore vegetariano, la trascrizione intera di una vita consacrata a raccogliere erbacce con le sue grandi mani da San Cristoforo esuberante e camminatore. Rivelato il mistero, mi addormentai placidamente, vigilato dal profumo di quelle erbe guardiane.
In una stretta via di Valparaíso vissi per alcune settimane di fronte alla casa di don Zoilo Escobar. I nostri balconi quasi si toccavano. Il mio vicino usciva di buon'ora al balcone e praticava una ginnastica da anacoreta che rivelava l'arpa delle sue costole. Vestito sempre con una povera casacca, o con dei giacconi sdruciti, mezzo marinaio, mezzo arcangelo, si era da tempo ritirato dalle sue navigazioni, dalla dogana, dalla gente di mare. Ogni giorno spazzolava il suo abito di gala con perfezione meticolosa. Era un illustre completo di panno nero, che in anni e anni non gli vidi mai indosso; un vestito che conservò sempre nel vecchio armadio fra i suoi tesori.
Ma il suo tesoro più acuto e più straziante era un violino Stradivario che per tutta la vita conservò gelosamente senza suonare e senza permettere a nessuno di suonarlo. Don Zoilo pensava di venderlo a New York; lì gli avrebbero dato una fortuna per l'insigne strumento. Qualche volta lo tirava fuori dal povero armadio e ci permetteva di contemplarlo con religiosa
emozione. Un giorno don Zoilo Escobar sarebbe partito per il nord e sarebbe tornato senza violino, ma carico di fastosi anelli e con i denti d'oro che avrebbero sostituito nella sua bocca i buchi che gli andò lasciando il prolungato correre degli anni.
Una mattina non uscì sul balcone di ginnastica. Lo sotterrammo là in alto, nel cimitero della collina, coll'abito di panno nero che per la prima volta ricoprì il suo scheletro minuto da eremita. Le corde dello Stradivario non poterono piangere la sua partenza. Nessuno era capace di suonarlo. E inoltre quando venne aperto l'armadio, il violino non comparve. Forse
volò verso il mare, o verso New York, per realizzare i sogni di don Zoilo.
Valparaíso è segreta, sinuosa, fatta a gomiti. Come una cascata la miseria si riversa sui colli. Si sa quanto mangia, come veste (ed anche quanto non mangia e come non veste) l'infinito popolo dei colli. I panni stesi ad asciugare imbandierano ogni casa e l'incessante proliferazione di piedi scalzi denuncia col suo alveare l'inestinguibile amore.
Ma vicino al mare, in pianura, ci sono case con balconi e imposte chiuse, in cui non entrano molti passi. Fra queste c'era la casa dell'esploratore. Bussai più volte di seguito col batacchio di bronzo perché mi aprissero. Finalmente si avvicinarono dei passi leggeri ed un viso indagatore socchiuse il portone con diffidenza, col desiderio di lasciarmi fuori. Era la domestica di quella casa, un'ombra in scialle e grembiule, che sussurrava appena i suoi passi.
Anche l'esploratore era molto vecchio e solo lui e la domestica abitavano la spaziosa casa dalle imposte chiuse. Ero venuto a vedere la sua collezione di idoli. Le creature vermiglie, le maschere striate di bianco e cenere, le statue che riproducevano scomparse anatomie di dei oceanici, le disseccate chiome polinesiane, gli ostili scudi di legno rivestiti di pelle di leopardo, le collane di denti feroci, i remi di scafi che forse tagliarono la spuma delle acque in tempesta, riempivano corridoi e pareti. Violenti coltelli facevano tremare i muri con foglie d'argento che serpeggiavano dall'ombra.
Osservai che i maschi dei di legno erano stati menomati. I loro falli erano coperti con cura da perizomi di tela, la stessa che era servita per fare lo scialle e il grembiule alla domestica; era facile provarlo.
Il vecchio esploratore si muoveva silenziosamente fra i trofei. Sala dopo sala mi diede le spiegazioni, fra il perentorio e l'ironico, di chi ha molto vissuto e continua a vivere al tepore delle proprie immagini. La sua barbetta bianca sembrava quella di un feticcio di Samoa. MI
mostrò le spingarde e i pistoloni con cui aveva combattuto il nemico o abbattuto l'antilope e la tigre. Raccontava le sue avventure senza mutare il tono del suo mormorio. Era come se il sole, malgrado le imposte chiuse, entrasse e lasciasse un solo piccolo raggio, una farfalla
viva a svolazzare fra gli idoli.
Accomiatandomi lo feci partecipe di un mio progetto di viaggio verso le Indie, del mio desiderio di far quanto prima rotta verso le sabbie dorate. Allora, dopo essersi guardato intorno circospetto, avvicinò i suoi radi baffi bianchi al mio orecchio e con voce tremula mi sussurrò: « Non lo dica a quella là, mi raccomando, non deve saperlo, ma anch'io sto preparando un viaggio ».
Rimase così un istante, con un dito sulle labbra, ascoltando il probabile passo di una tigre nella foresta. E poi la porta si richiuse, oscura ed improvvisa, come quando cade la notte sull'Africa.
Chiesi ai vicini:
— C'è qualche nuovo tipo stravagante? Vale la pena essere tornati a Valparaíso?
Mi risposero:
— Non abbiamo quasi niente di buono. Ma se continua per questa strada, vedrà che incontrerà don Bartolomé.
— E come farò a riconoscerlo?
— Non può sbagliare. Va sempre in giro in carrozza.
Poche ore dopo stavo comperando delle mele da un ortolano quand'ecco fermarsi alla porta una carrozza a cavalli. Ne discese un personaggio alto, sgraziato, e vestito di nero.
Anche lui veniva a comperare delle mele. In spalla portava un pappagallo tutto verde che immediatamente volò verso di me e senza alcun riguardo mi si appollaiò sulla testa.
— È lei don Bartolomé? — chiesi a quel signore.
— Appunto. Mi chiamo Bartolomé — e cavando una lunga spada che teneva sotto il mantello me la passò mentre riempiva la sporta con le mele e con l'uva che aveva comperato. Era una spada antica, lunga ed aguzza, dall'elsa finemente cesellata da valenti argentieri, un'elsa come una rosa aperta.
Io non lo conoscevo e non lo rividi più. Ma lo accompagnai con rispetto fino alla strada, poi in silenzio gli tenni aperta la porta della carrozza perché potesse passare insieme alla sua sporta, e gli deposi fra le mani, con solennità, l'uccello e la spada.
Piccoli mondi di Valparaíso, abbandonati, senza ragione e senza tempo, come casse che rimasero un tempo in fondo ad un magazzino e che nessuno ha più reclamato, e non si sa da dove siano venute, e non usciranno mai dai loro confini. Forse in questi domini segreti, in queste anime di Valparaíso, rimasero custodite per sempre la perduta sovranità di un'onda, la tempesta, il sale, il mare che palpita e mugghia. Il mare d'ognuno, minaccioso e chiuso: un suono incomunicabile, un movimento solitario che è divenuto farina e spuma dei sogni.
Nelle eccentriche vite che scoprii mi sorprese sempre la suprema unità che mostravano col porto straziante. Su, per i colli, la miseria fiorisce a fiotti frenetici di catrame e d'allegria. Le gru, i moli, le opere dell'uomo coprono la cintura della costa come una maschera dipinta dalla felicità che fugge. Ma altri non riuscirono ad arrivare su, alle colline; né giù, al lavoro. Serbarono nel loro cassetto la propria parte di infinito, il loro frammento di mare.
E lo custodirono con le armi che avevano, mentre l'oblio si avvicinava loro come la nebbia.
Valparaíso a volte si scuote come una balena ferita. Barcolla nell'aria, agonizza, muore e resuscita.
Ogni cittadino, qui, porta dentro di sé un ricordo di terremoto. È un petalo di terrore che vive attaccato al cuore della città. Ogni cittadino è un eroe prima ancora di nascere. Perché nella memoria del porto c'è questa sventura, questo scuotersi della terra che trema e il cupo boato che viene dal profondo, come se una città sottomarina e sotterranea facesse suonare i suoi campanili sepolti per dire all'uomo che tutto è finito.
A volte, quando i muri e i tetti erano ormai crollati fra la polvere e le fiamme, fra le urla e il silenzio, quando ormai tutto sembrava definitivamente acquietato nella morte, dal mare uscì, come l'ultimo terrore, la grande onda, l'immensa mano verde che, alta e minacciosa, si leva come una torre di vendetta spazzando via la vita che rimaneva a sua portata.
Tutto comincia a volte con un vago movimento, e quelli che dormono si svegliano. L'anima fra i sogni comunica con profonde radici, con la sua profondità terrestre. Ho sempre desiderato saperlo. E ora lo so. Poi, nel grande sussulto, non c'è dove riparare, perché gli dei
sono fuggiti, e le chiese vanitose si sono trasformate in zolle sbriciolate.
Non è lo stesso terrore che suscita il toro iracondo, il pugnale che minaccia, o l'acqua che si inghiotte. È un terrore cosmico, un'istantanea insicurezza, l'universo che crolla e si dissolve. E intanto, la terra risuona d'un sordo tuono, con una voce che nessuno le conosceva.
La polvere che le case crollando sollevarono, a poco a poco s'acqueta. E noi restiamo soli con i nostri morti e con tutti i morti, senza sapere perché siamo ancora vivi.
Le scale partono dal basso e dall'alto e si contorcono arrampicandosi. Si assottigliano come capelli, fanno una breve sosta, ritornano verticali. Fanno il punto. Precipitano. Si allungano. Retrocedono. Non finiscono mai.
Quante scale? Quanti gradini di scale? Quanti piedi sui gradini? Quanti secoli di passi, di scendere e salire col libro, con i pomodori, col pesce, con le bottiglie, col pane? Quante migliaia di ore che hanno consumato i gradini fino a scavarne canali per cui corre la pioggia
giocando e piangendo?
Scale!
Nessuna città ne sparse tante, le sfogliò nella sua storia, sul suo volto, le scagliò e le riunì come Valparaíso. Non c'è volto di città che abbia avuto di queste rughe per cui vanno e vengono le vite, come se stessero sempre salendo al cielo, come se stessero sempre discendendo al creato.
Scale che a mezza strada diedero nascita ad un'agave dai fiori purpurei! Scale che salì il marinaio che tornava dall'Asia e che a casa sua trovò un nuovo sorriso o una terribile assenza! Scale per cui precipitò come una nera meteora l'ubriaco che cadeva. Scale su cui
sale il sole per offrire amore alle colline!
Se camminassimo per tutte le scale di Valparaíso avremmo fatto il giro del mondo.
Valparaíso dei miei dolori!... Che accadde nelle solitudini del Pacifico del Sud? Stella errante o battaglia di vermi la cui fosforescenza è sopravvissuta alla catastrofe?
La notte di Valparaíso! Un punto del pianeta si è illuminato, minuscolo, nell'universo vuoto. Palpitarono le lucciole ed ecco ardere fra le montagne un ferro di cavallo d'oro.
La verità è che poi l'immensa notte spopolata dispiegò figure colossali che moltiplicavano la luce. Aldebaran tremò con la sua pulsazione remota. Cassiopea appese
la sua veste alle porte del cielo, mentre sullo sperma notturno della via Lattea rotolava il silenzioso carro della Croce Australe.
Allora, Sagittario, impennato e peloso, lasciò cader qualcosa, un diamante dalle sue zampe perdute, una pulce dalla sua pelle distante.
Ero nato a Valparaíso, accesa e rumorosa, spumeggiarne e meretricia.
La notte dei suoi vicoli si riempì di nere nayadi. Nell'oscurità ti spiarono le porte, ti imprigionarono le mani, le lenzuola del sud smarrirono il marinaio. Poiyanta, Tritetonga, Carmela, Flor de Dios, Multicula, Berenice, « Babi Sweet », popolarono le birrerie, curarono i naufraghi in delirio, si sostituirono e si rinnovarono, ballarono sfrenate, con la melanconia della mia razza piovosa.
Dal porto uscirono a conquistare balene i più duri velieri. Altri vascelli partirono verso le Californie dell'oro. Gli ultimi traversarono i sette mari per raccogliere poi nel deserto cileno il nitrato che giace come polvere innumerevole di una statua demolita sotto le più aride distese del mondo.
Queste furono le grandi avventure.
Valparaíso scintillò attraverso la notte universale. Dal mondo e verso il mondo sorsero vascelli pavesati come colombe incredibili, navi fragranti, corvette affamate che il Capo de Hornos aveva trattenuto più del dovuto… Molte volte gli uomini appena sbarcati si precipitavano sul cibo... Feroci e fantastici giorni in cui gli oceani non comunicavano altro che attraverso le lontananze dello stretto patagonico. Tempi in cui Valparaíso pagava in buona moneta gli equipaggi che le sputavano addosso e l'amavano.
Su una nave arrivò un pianoforte a coda; su un'altra passò Flora Tristán, la nonna peruviana di Gauguin; (2) su un'altra, il « Wager », arrivò Robinson Crusoe, il primo, in carne ed ossa, appena raccolto a Juan Fernández... (3) Altre imbarcazioni portarono tessuti, caffè, pepe da Sumatra, banane da Guayaquill, tè al gelsomino dall'Assam, anice dalla Spagna... La remota baia, l'ossidata ferratura del Centauro, si riempì di aromi intermittenti: in una strada ti assaliva una dolcezza di cannella; in un'altra, come una freccia bianca, ti attraversava l'anima il profumo delle cerimolie; (4) da un vicolo usciva a combattere con te il detrito d'alghe del mare, di tutto il mare cileno.
Valparaíso, allora, si illuminava e vestiva d'un oro oscuro; si andò trasformando in un'arancio marino, ebbe fogliame, ebbe fresco ed ombra, ebbe splendore di frutta.
Le vette di Valparaíso decisero di scrollarsi di dosso i loro uomini, di scacciare dall'alto le case e farle vacillare sull'orlo dei burroni che l'argilla tinge di rosso, e di dorato i ditali d'oro, di verde scontroso la natura silvestre. Ma le case e gli uomini si aggrapparono alle cime, si avviticchiarono, si inchiodarono, si dannarono, si disposero in verticale, e abbarbicati con denti e con unghie pencolarono da ogni abisso. Il porto è una contesa fra il mare e la natura evasiva delle cordigliere. Ma nella lotta fu l'uomo ad uscire vincitore. I colli e la pienezza marina formarono la città, e la resero uniforme, non come una caserma, ma con la disparità della primavera, con la sua contraddizione di tinte, con la sua energia sonora. Le case divennero colori: in esse si unirono l'amaranto e il giallo, il carminio e il cobalto, il verde e il purpureo. Così Valparaíso compì la sua missione di porto vero, di vascello incagliato ma vivo, di nave con le sue bandiere al vento. Il vento dell'Oceano Maggiore meritava una città di bandiere.
Io ho vissuto fra questi colli aromatici e feriti. Sono colli succulenti in cui la vita batte con infiniti fuori mura, con giro insondabile di conchiglia e attorcimento di tromba. Nella spirale ti attende una giostra arancione, un frate che scende, una bimba scalza immersa nel suo cocomero, un mulinello di marinai e di donne, una rivendita della più ossidata ferraglia, un circo minuscolo nella cui tenda entrano solo i baffi del domatore, una scala che va alle nubi, un ascensore che sale carico di cipolle, sette asini che trasportano acqua, un carro di
pompieri che torna da un incendio, una vetrina in cui una accanto all'altra giacciono bottiglie di vita e di morte.
Ma questi colli hanno nomi profondi. Viaggiare fra questi nomi è un viaggio che non ha fine, perché il viaggio di Valparaíso non termina né sulla terra, né nella parola. Colle Allegro, Colle Farfalla, Colle Polanco, Colle dell'Ospedale, del Davanzale, della Cantonata, della Lupaia, del Sartiame, delle Vasaie, dei Chaparro, (5) della Calahuala, del Bitre, del Mulino, del Mandorleto, de Paquenes, (6) dei Chercanes, (7) di Acevedo, (8) del Campo di Stoppie, del Presidio, delle Volpi, di donna Elvira, di Santo Stefano, di Astorga, (9) dello Smeraldo, del Mandorlo, di Rodríguez, (10) dell'Artiglieria, dei Lattai, della Concezione, del Cimitero, della Cardata, dell'Albero Frondoso, dell'Ospedale Inglese, della Palma, della Regina Vittoria, del Rovere, di San Giovanni di Dio, di Procuro, della Caletta, dei Capretti, di Biscaglia, di don Elías, del Capo, delle Canne, della Sentinella, della Parrasia, de Cotogno, del Bue, della Florída.
Io non posso andare in tanti posti. Valparaíso ha bisogno di un nuovo mostro marino, un ottogambe, che riesca a percorrerla. Io approfitto della sua immensità, della sua intima immensità, ma non riesco ad abbracciarla nella sua destra multicolore, nella sua germinazione sinistra, nelle sue vette e nei suoi abissi.
Io solo la seguo nelle sue campane, nelle sue ondulazioni e nei suoi nomi.
Soprattutto nei suoi nomi perché hanno radici e radicole, hanno aria e olio, hanno storia e opera: hanno sangue nelle sillabe.
CONSOLE DEL CILE IN UN BUCO
Un premio letterario studentesco, (11) una certa popolarità dei miei nuovi libri e il mio famoso mantello, mi avevano procurato una piccola aureola di rispettabilità, anche al di fuori dei circoli artistici. Ma negli anni '20 la vita culturale dei nostri paesi dipendeva, salvo rare ed eroiche eccezioni, quasi esclusivamente dall'Europa. In ognuna delle nostre repubbliche agiva un'elite cosmopolita e quanto agli scrittori dell'oligarchia, essi vivevano a Parigi. Il nostro grande poeta Vicente Huidobro (12) non solo scriveva in francese ma mutò il suo nome, e da Vicente si tasformò in Vincent.
Certo è che appena ebbi un rudimento di fama giovanile, tutti per strada mi chiedevano:
— Ma che cosa fa lei qui? Lei deve andare a Parigi.
Un mio amico mi raccomandò ad un capodipartimento del Ministero degli Esteri. Fui ricevuto immediatamente. Conosceva già i miei versi.
— Conosco anche le sue aspirazioni. Si sieda in quella comoda poltrona. Da qui ha una buona vista sulla piazza, e sul mercato. Guardi quelle automobili. Tutto è vanità. Beato lei che è un giovane poeta. Vede quel palazzo? Apparteneva alla mia famiglia. Ed ora eccomi qui, in questo porcile, immerso nel fango della burocrazia. Mentre l'unica cosa che vale è lo spirito. Le piace Tchaikovsky?
Dopo un'ora di conversazione artistica, dandomi la mano per salutarmi, mi disse di non preoccuparmi per la faccenda, che lui era il direttore del servizio consolare.
— Si può considerare già nominato per una carica all'estero.
Per due anni mi recai periodicamente allo studio del cortese capo diplomatico, sempre più ossequioso. Appena mi vedeva comparire chiamava con aria di sufficienza uno dei suoi segretari e inarcando le sopracciglia, gli diceva:
— Non ci sono per nessuno. Mi lasci dimenticare la prosa quotidiana. L'unica cosa spirituale in questo ministero è la visita del poeta. Magari non ci abbandonasse mai.
Parlava con sincerità, ne sono sicuro. Poi si immergeva in lunghe conversazioni sui cani di razza. « Chi non ama i cani, non ama i bambini ». Continuava col romanzo inglese, passava poi all'antropologia e allo spiritismo, per soffermarsi infine su questioni di araldica e di genealogia. Quando ci salutavamo, ripeteva ancora una voIta, come un segreto temibile fra noi due, che il mio posto all'estero era assicurato. E per quanto non avessi soldi per mangiare, quella sera uscivo in strada respirando come un ministro consigliere. E quando i miei amici mi chiedevano che cosa stessi facendo, io mi davo importanza e rispondevo:
— Preparo il mio viaggio in Europa.
Andò avanti così finché non incontrai il mio amico Bianchi. La famiglia Bianchi del Cile è un nobile clan. Pittori e musicisti popolari, giuristi e scrittori, esploratori e andinisti, danno un tono di inquietudine e di pronta intelligenza a tutti i Bianchi. Il mio amico, che era stato ambasciatore e conosceva i segreti ministeriali, mi chiese:
— Non salta ancora fuori la tua nomina?
— L'avrò da un momento all'altro, come mi assicura un alto protettore delle arti che lavora al ministro.
Sorrise e mi disse:
— Andiamo a trovare il ministro.
Mi prese per un braccio e salimmo le scale di marmo. Al nostro passaggio uscieri ed impiegati si facevano rapidamente da parte. Io ero talmente sorpreso che non potevo parlare. Era la prima volta che vedevo un ministro degli Esteri. Questi era molto basso di statura, e
per non farlo notare, si sedette con un salto alla scrivania. Il mio amico gli riferì i miei impetuosi desideri di andarmene dal Cile. Il ministro suonò uno dei suoi numerosi campanelli e subito comparve, per aumentare ancor di più la mia confusione, il mio protettore spirituale.
— Quali sono i posti vacanti? — gli disse il ministro.
L'azzimato funzionario, che adesso non poteva parlare di Tchaikovsky, disse il nome di varie città disseminate per il mondo, di cui arrivai ad afferrare solo un nome che non avevo mai sentito né letto prima: Rangoon.
— Dove vuole andare, Pablo? — mi chiese il ministro,
— A Rangoon — risposi senza esitare.
— Lo nomini — ordinò il ministro al mio protettore che già correva e tornava col decreto.
Nel salone ministeriale c'era un mappamondo. Il mio amico Bianchi ed io cercammo l'ignota città di Rangoon. Il vecchio mappamondo aveva una profonda ammaccatura in una regione dell'Asia e in questa concavità scoprimmo Rangoon.
Ma quando, alcune ore dopo, incontrai i miei amici poeti, e questi vollero celebrare la mia nomina, mi accorsi di aver completamente dimenticato il nome della città. Potei solo spiegare loro, con enorme gioia, che mi avevano nominato console nel favoloso oriente e che il posto cui ero destinato si trovava in un buco del mappamondo.
MONTPARNASSE
Un giorno del giugno del 1927 partimmo verso i paesi lontani. A Buenos Aires cambiammo il mio biglietto di prima classe con due di terza e salimmo sul « Baden ». Era una nave tedesca che si diceva di classe unica, ma quell'«unica» doveva essere la quinta. I pasti si dividevano in due turni: uno per servire rapidamente gli emigrati portoghesi e galiziani; e il secondo per gli altri passeggeri assortiti, soprattutto tedeschi, che tornavano dalle miniere o dalle fabbriche dell'America latina. Il mio compagno Alvaro fece un'immediata classificazione delle passeggere. Era un dongiovanni impenitente. Le divise in due gruppi. Quelle che mettono sotto l'uomo e quelle che obbediscono alla frusta. Queste formule non si rivelavano sempre vere. Quando sul ponte adocchiava un paio di passeggere interessanti, mi prendeva rapidamente una mano e faceva finta di interpretarne le linee con gesti misteriosi. Al secondo giro, le passeggere si fermavano e lo supplicavano di leggere il loro destino. Nel farlo, Alvaro prendeva loro le mani accarezzandole eccessivamente e il futuro che leggeva pronosticava sempre una visita nella nostra cabina.
Per quanto mi riguarda, il viaggio all'improvviso si trasformò e cessai di vedere i passeggeri che protestavano rumorosamente per l'eterno menu di « Kartoffel », cessai di vedere il mondo e il monotono Atlantico per contemplare solo gli occhi grandi e scuri di una giovane brasiliana, infinitamente brasiliana, che salì sulla nave a Rio de Janeiro, con i genitori e due fratelli.
La Lisbona allegra di quegli anni, con pescatori nelle strade e senza Salazar sul trono, mi riempì di ammirazione. Nel piccolo albergo il cibo era delizioso. Grandi vassoi di frutta incoronavano la tavola. Le case multicolori; i vecchi palazzi con archi sulla porta; le cattedrali mostruose come gusci d'uovo, da cui Dio da secoli era fuggito per vivere altrove; le case da gioco negli antichi palazzi; la folla infantilmente curiosa nei viali; la duchessa di Braganza, (13) smarrita la ragione, che cammina ieratica per una strada di sassi, seguita da cento bambini vagabondi ed attoniti; questo fu il mio ingresso in Europa.
E poi Madrid con i suoi caffè pieni di gente; Primo de Rivera, (14) il bonaccione, che dava la prima lezione di tirannia ad un paese che avrebbe ricevuto in seguito la lezione completa. Le mie poesie iniziali di Residencia en la Tierra (15) che gli spagnoli avrebbero tardato a capire, e che solo più tardi, quando sorse la generazione di Alberti, Lorca, Aleixandre, Diego, (16) riuscirono a comprendere. E la Spagna fu per me anche l'interminabile treno e il vagone di terza più duro del mondo che ci lasciò a Parigi.
Scomparivamo fra la folla fumante di Montparnasse, fra argentini, brasiliani, cileni. I venezuelani, in quel tempo sepolti sotto il regno di Gómez, (17) non si sognavano di fare ancora la loro comparsa. E più in là i primi indù con i loro abiti talari. E la mia vicina di tavolo, col suo serpentello arrotolato attorno al collo, che sorseggiava con malinconica lentezza un café crème. La nostra colonia sudamericana beveva cognac e ballava tanghi, cogliendo il minimo pretesto per scatenare qualche colossale rissa e fare a botte con mezzo mondo.
Per noi, bohémiens provinciali dell'America del Sud, Parigi, la Francia, l'Europa erano duecento metri e due angoli: Montparnasse, La Rotonde, Le Dôme, La Coupole e tre o quattro altri caffè. Le boîtes con negri cominciavano ad essere di moda. Fra i sudamericani, gli argentini erano i più numerosi, i più attaccabrighe e i più ricchi. Ad ogni momento scoppiava una baruffa e un argentino veniva sollevato di peso fra quattro camerieri, passava in bilico sui tavoli ed era rudemente depositato in mezzo alla strada. Ai nostri cugini di Buenos
Aires non piacevano proprio queste violenze che gli spiegazzavano i pantaloni e, cosa ancor più grave, li spettinavano. La brillantina era parte essenziale della cultura argentina di quell'epoca.
La verità è che in quei primi giorni di Parigi, le cui ore volavano, non conobbi un solo francese, un solo europeo, un solo asiatico, e tanto meno cittadini dell'Africa e dell'Oceania. Gli americani di lingua spagnola, dai messicani ai patagonici, camminavano in gruppo, raccontandosi i difetti, sparlando gli uni degli altri, senza poter vivere gli uni senza gli altri. Un guatemalteco preferisce la compagnia di un vagabondo paraguayano, per perdere tempo in modo squisito, a quella di Pasteur.
In quei giorni conobbi Cesar Vallejo, (18) il gran cholo; (19) poeta di poesia grinzosa, difficile al tatto come pelle selvatica, ma poesia grandiosa, di dimensioni sovrumane.
In verità avemmo un piccolo malinteso appena ci conoscemmo. Fu a La Rotonde. Ci presentarono e, col suo delicato accento peruviano, salutandomi mi disse:
— Lei è il più grande di tutti i nostri poeti. La si può paragonare solo a Rubén Darío. (20)
— Vallejo — gli dissi, — se vuole che siamo amici non mi dica più una cosa simile. Non so dove andremmo a finire se cominciassimo a trattarci da letterati.
Mi sembrò che se n'avesse a male per queste parole. La mia educazione antiletteraria mi imponeva di essere maleducato. Lui, invece, apparteneva ad una razza più vecchia della mia, con cavalleria e cortesia. Notando che si era risentito, mi sentii come uno zoticone inaccettabile.
Ma fu solo una nube passeggera. Da quello stesso momento divenimmo veri amici. Anni dopo, quando mi fermai più a lungo a Parigi, ci vedevamo quotidianamente. Allora lo conobbi di più e più intimamente.
Vallejo era più basso di me, più magro e più ossuto. Era anche più indio di me, con occhi scurissimi e una fronte molto alta e bombata. Aveva un bel viso da inca, rattristato da una certa indubbia maestà. Vanitoso come tutti i poeti, gli faceva piacere che gli si parlasse così dei suoi lineamenti aborigeni. Alzava la testa perché lo ammirassi e mi diceva:
— Ho un certo non so che, vero? — e poi rideva silenziosamente di se stesso.
Il suo entusiasmo era assai diverso da quello che a volte esprimeva Vicente Huidobro, poeta per tante cose agli antipodi di ValleJo. Huidobro si lasciava cadere una ciocca sulla fronte, si infilava le dita nel panciotto, raddrizzava il busto e chiedeva:
— Notate la mia somiglianzA con Napoleone Bonaparte?
ValleJo era cupo solo esternamente, come un uomo che fosse stato nella penombra, rintanato per molto tempo. Era solenne per natura e il suo viso pareva una maschera inflessibile, quasi ieratica. Ma non era quella la verità inferiore. Io lo vidi più volte (specialmente quando riuscivamo a strapparlo dal dominio della moglie, una francese tirannica e presuntuosa, figlia di concierge), lo vidi, dicevo, fare dei salti scolastici di allegria. Poi tornava alla sua solennità e alla sua sottomissione.
Ad un tratto dalle ombre di Parigi apparve quel mecenate che avevamo sempre atteso e non arrivava mai. Era un cileno, scrittore, amico di Rafael Alberti, dei francesi, di mezzo mondo. E, qualità ancora più importante, era anche figlio del padrone della compagnia di
navigazione più grande del Cile. E famoso per la sua prodigalità.
Quel messia appena caduto dal cielo voleva festeggiarmi e ci portò tutti quanti in una boîte di russi bianchi chiamata « La Cantina Caucasiana ». Le pareti erano decorate con vestiti e paesaggi del Caucaso. E subito ci vedemmo circondati da russe, o false russe, vestite come contadine delle montagne.
Cóndon, così si chiamava il nostro anfitrione, pareva l'ultimo russo della decadenza. Fragile e biondo, ordinava istancabilmente champagne e faceva salti impazziti, imitando i balli dei cosacchi che non aveva mai visto.
— Champagne, altro champagne! — e all'improvviso il nostro pallido e milionario anfitrione crollò. Rimase lungo disteso sotto la tavola, profondamente addormentato, come il cadavere esangue di un caucasiano sbranato da un orso.
Un terrore gelido si impadronì di noi. L'uomo non si svegliava né con impacchi gelati, né con bottiglie di ammoniaca sturate vicino al naso. Di fronte al nostro disorientamento impotente tutte le ballerine, salvo una, ci abbandonarono. Nelle tasche del nostro ospite non
trovammo altro che un decorativo libretto di assegni che, nelle sue condizioni, non poteva firmare.
Il cosacco padrone della boîte esigeva il pagamento immediato e chiudeva la porta perché non scappassimo. Potemmo salvarci da quella gabbia di matti solo lasciando in pegno il mio fiammante passaporto diplomatico.
Uscimmo col nostro milionario esanime in spalla. Ci costò uno sforzo gigantesco trasportarlo fino ad un taxi, infilarcelo, scaricarlo nel suo fastoso hotel. Lo lasciammo fra le braccia di due immensi portieri dalla livrea rossa che lo portarono via come se trasportassero
un ammiraglio caduto sul ponte di una nave.
Sul taxi ci aspettava la ragazza della boîte, l'unica che nella nostra disgrazia non ci aveva abbandonato. Alvaro ed io l'invitammo alle Halles, (21) a gustare la zuppa di cipolle dell'alba. Le comperammo dei fiori al mercato, la baciammo in segno di riconoscenza per il suo comportamento, e ci rendemmo conto che aveva una certa attrattiva. Non era né bella né brutta, ma la riabilitava il naso all'in su delle parigine. L'invitammo allora al nostro miserrimo hotel. Non ebbe nessuna difficoltà a venire con noi.
Andò in camera con Alvaro. Io mi lasciai cadere stanco morto sul letto, ma all'improvviso sentii che mi scuotevano. Era Alvaro. Il suo viso da pazzo mansueto
mi parve un po' stranito.
— C'è qualcosa — mi disse. — Questa donna ha qualcosa di eccezionale, di insolito, che non potrei spiegarti. Devi provarla subito.
Pochi minuti dopo, la sconosciuta si infilò sonnolenta ed indulgente nel mio letto. Facendo l'amore con lei, mi resi conto del suo misterioso dono. Era qualcosa di indescrivibile che le sgorgava dal profondo, che risaliva all'origine stessa del piacere, alla nascita di un'onda, al segreto genetico di Venere. Alvaro aveva ragione.
Il giorno dopo, prendendomi da parte durante la colazione, Alvaro mi avvertì in spagnolo:
— Se non lasciamo immediatamente questa donna, il nostro viaggio andrà all'aria. Non naufragheremmo nel mare, ma nel sacramento insondabile del sesso.
Decidemmo di colmarla di regalini: fiori, cioccolata e la metà dei franchi che ci restavano. Ci confessò che non lavorava nel cabaret caucasiano; che c'era stata la sera precedente per la prima ed unica volta. Poi prendemmo insieme un taxi. L'autista stava attraversando un quartiere indefinito, quando gli ordinammo di fermarsi. Ci congedammo da lei con grandi baci e la lasciammo lì, disorientata ma sorridente. Non la vedemmo mai più.
VIAGGIO IN ORIENTE
Non dimenticherò neppure il treno che ci portò a Marsiglia, carico come un cesta di frutta esotica, di gente variopinta, contadine e marinai, fisarmoniche e canzoni che si cantavano in coro per tutto il vagone. Andavamo verso il Mediterraneo, verso le porte della luce... Era il 1927. Marsiglia mi affascinò col suo romanticismo commerciale e il Vieux Port alato di vele ribollenti con una sua tenebrosa turbolenza. Ma la nave delle Messagéries Maritimes su cui facemmo la traversata per Singapore, era un pezzo di Francia sul mare, con la sua petite bourgeoisie che emigrava verso le cariche che l'attendevano nelle lontane colonie. Durante il viaggio, gli uomini dell'equipaggio, vedendo le nostre macchine da
scrivere e le nostre scartoffie da scrittori, ci chiesero di battere a macchina le loro lettere. Dai marinai ci venivano dettate incredibili lettere d'amore per le loro fidanzate di Marsiglia, di Bordeaux, della campagna. Ai marinai in fondo non interessava il contenuto delle lettere, ma che fossero scritte a macchina. Ma quanto in esse dicevano era come poesia di Tristan Corbière, (22) messaggi rudi e teneri al tempo stesso. Il Mediterraneo si andò aprendo alla nostra prua con i suoi porti, i suoi tappeti, i suoi trafficanti, i suoi mercati. Sul Mar Rosso, il porto di Gibuti mi impressionò. La sabbia calcinata, tante volte solcata dall'andare e venire di Arthur Rimbaud; (23) quelle negre statuarie con le loro ceste di frutta, quelle capanne miserabili del villaggio primitivo; e un'aria sgangherata nei caffè rischiarati da una luce verticale e fantasmagorica... Vi si beveva tè gelato con limone.
L'importante era vedere che cosa succedeva a Shangai la notte. Le città di cattiva reputazione attraggono come donne velenose. Shangai spalancava la sua bocca notturna per noi due, provinciali del mondo, passeggeri di terza classe con pochi soldi e con una curiosità triste.
Entrammo in uno o due grandi locali notturni. Era una sera di mezza settimana ed erano vuoti. Era deprimente vedere quelle immense piste da ballo, costruite come se ci avessero dovuto ballare centinaia di elefanti, in cui non ballava nessuno. Dagli angoli scuri sorgevano scheletriche russe dello zar che sbadigliavano chiedendoci che le invitassimo a bere champagne. E in questo modo girammo sei o sette luoghi di perdizione in cui l'unica cosa che si perdeva era il nostro tempo.
Era tardi per ritornare alla nave che avevamo lasciato molto lontano, dietro l'intrico dei vicoletti del porto. Prendemmo un risciò ciascuno. Noi non eravamo abituati a questa carrozza a cavalli umani. Quei cinesi del 1928 trottavano, tirando senza fermarsi il carretto, per lunghe distanze.
Siccome aveva cominciato a piovere e la pioggia diveniva sempre più violenta, i nostri risciomen fermarono delicatamente i loro veicoli. Chiusero con cura con una tela impermeabile la parte anteriore dei risciò perché neppure una goccia spruzzasse il nostro naso straniero.
— Che razza delicata e gentile. Non sono passati invano duemila anni di cultura — pensavamo Alvaro ed io, ognuno sulla sua sedia a rotelle.
Qualcosa cominciò però a preoccuparmi. Non vedevo nessuno, chiuso com'ero sotto un riparo di compite precauzioni, ma sentivo, malgrado la tela cerata, la voce del mio conducente che emetteva una specie di ronzio. Al rumore dei suoi piedi scalzi si unirono poi altri rumori ritmici di piedi scalzi che trotterellavano sul selciato bagnato. Finalmente i rumori si smorzarono, segno che il selciato era finito. Certo adesso stavamo camminando attraverso terreni abbandonati, fuori dalla città.
All'improvviso il mio risciò si fermò. Il conducente slegò con destrezza la tela che mi proteggeva dalla pioggia. Non c'era neppure l'ombra della nave in quel sobborgo spopolato. L'altro risciò era fermo di fianco al mio e Alvaro scese sconcertato dalla sua sedia.
— Money! Money! — ripetevano con voce tranquilla i sette o otto cinesi che ci circondavano.
Il mio amico fece il gesto di cercare un'arma nella tasca dei pantaloni, e tanto bastò perché tutt'e due ci prendessimo un colpo sulla nuca. Io caddi di spalle, ma i cinesi mi presero la testa a mezz'aria per evitare che urtasse al suolo e mi deposero con delicatezza sulla terra bagnata. Mi frugarono rapidamente in tasca, nella camicia, nel cappello, nelle scarpe, nei calzini e nella cravatta, esibendo un'abilità da giocolieri. Non lasciarono un solo centesimo di vestito senza averlo rovistato, e neppure un centesimo dell'unico e poco denaro che avevamo. Ma, con la gentilezza tradizionale dei ladri di Shangai, rispettarono religiosamente le nostre carte e i nostri passaporti.
Quando rimanemmo soli, camminammo verso le luci che si intravvedevano in lontananza. Incontrammo subito centinaia di cinesi notturni ma onesti. Nessuno sapeva il francese, l'inglese o lo spagnolo, ma tutti vollero aiutarci a uscire dal nostro impiccio e ci guidarono in qualche modo verso la nostra sospirata paradisiaca cabina di terza.
Arrivammo in Giappone. I soldi che aspettavamo, e che arrivavano dal Cile, dovevano già trovarsi al consolato. Intanto dovemmo prendere alloggio in una bettola di marinai, a Yokohama. Dormivamo su dei logori pagliericci. Si era rotto un vetro, nevicava, e il freddo ci
penetrava fino all'anima. Nessuno ci faceva caso. Un giorno, all'alba, una petroliera si spezzò in due di fronte alla costa giapponese e l'albergo si riempì di naufraghi. Fra di essi c'era un marinaio basco, che non sapeva parlare nessuna lingua salvo la sua e lo spagnolo, e che ci
raccontò la sua avventura: per quattro giorni e quattro notti restò a galla aggrappato ad un relitto della nave, circondato dalle onde di fuoco del petrolio in fiamme. I naufraghi furono riforniti di coperte e di provviste e il basco, generoso ragazzo!, divenne il nostro protettore.
Il console generale del Cile, — mi pare si chiamasse De la Marina o De la Rivera — ci ricevette invece dalla sua altezza piena di boria, facendoci capire la nostra piccolezza di naufraghi. Non aveva tempo. Quella sera doveva cenare con la contessa Yufù San. La corte imperiale lo invitava a prendere il tè. O era immerso in profondi studi sulla dinastia regnante.
— Che uomo fine l'Imperatore, ecc.
No. Non aveva telefono. A che serve avere il telefono a Yokohama? Tanto lo avrebbero chiamato solo in giapponese. Quanto ai nostri soldi, il direttore della banca, suo intimo amico, non gli aveva comunicato niente. Doveva assolutamente andare. Lo attendevano a un ricevimento di gala. A domani.
E così tutti i giorni. Lasciavamo il consolato battendo i denti dal freddo perché il nostro guardaroba si era assottigliato nella rapina e disponevamo solo di alcuni poveri maglioni da naufraghi. L'ultimo giorno venimmo a sapere che i nostri fondi erano arrivati a Yokohama prima di noi. La banca aveva mandato tre avvisi al signor console ma quell'azzimato manichino ed altissimo funzionario non si era reso conto di un particolare come quello, tanto al di sotto del suo rango. (Quando leggo sui giornali che qualche console è stato assassinato da compatrioti ammattiti, penso con nostalgia a quell'illustre decorato.)
Quella sera ce ne andammo al miglior caffè di Tokio, il « Kuroncko », nella Ghinza. (24) In quei tempi si mangiava bene a Tokio, senza contare la settimana di fame che rendeva più gustosi i cibi. In buona compagnia di deliziose ragazze giapponesi, brindammo più volte alla salute di tutti i viaggiatori sfortunati trascurati dai consoli perversi sparsi per il mondo.
Singapore. Ci credevamo vicinissimi a Rangoon. Amara delusione! Quella che sul mappamondo era la distanza di pochi millimetri si trasformò in un pauroso abisso. Ci aspettavano parecchi giorni di nave e, per di più, l'unica nave che faceva la traversata era partita per Rangoon il giorno precedente. Non avevamo di che pagare l'albergo né i biglietti. I nostri nuovi fondi ci aspettavano a Rangoon.
Ah! Però esisteva pure per qualcosa il console del Cile a Singapore, il mio collega. Il signor Mansilla accorse premuroso. A poco a poco il suo sorriso si attenuò fino a scomparire del tutto e lasciare il posto a una smorfia di irritazione.
— Non posso assolutamente aiutarvi. Rivolgetevi al Ministero!
Invocai inutilmente la solidarietà dei consoli. L'uomo aveva una faccia da implacabile aguzzino. Prese il cappello e già correva verso la porta quando mi venne un'idea machiavellica:
— Signor Mansilla, mi vedrò costretto a tenere alcune conferenze sulla nostra patria, con ingresso pagato, per raccogliere i soldi del biglietto. La prego di trovarmi il locale, un interprete e il permesso necessario.
L'uomo divenne pallido.
— Conferenza sul Cile a Singapore? Non lo permetto. Questa è la mia giurisdizione e qui nessuno tranne me può parlare del Cile.
— Si calmi, signor Mansilla — gli risposi. — Più numerosi parleremo della patria lontana, tanto meglio sarà. Non capisco perché si arrabbi.
Alla fine ci mettemmo d'accordo in quella stravagante trattativa con un'ombra di patriottico ricatto. Tremante di rabbia ci fece firmare dieci ricevute e ci porse i soldi. Contandoli notammo che le ricevute erano per una somma maggiore.
— Sono gli interessi — ci spiegò.
(Dieci giorni dopo gli avrei rispedito l'assegno di rimborso da Rangoon, ma, naturalmente, senza includere gli interessi).
Dalla coperta della nave che arrivava a Rangoon, vidi spuntare il gigantesco imbuto d'oro della gran pagoda di Swei Dagon. Innumerevoli vestiti strani si accalcavano nei loro violenti colori sul molo. Lì, nel Golfo di Martabán, sfociava un fiume ampio e sudicio. Questo
fiume ha il nome di fiume più bello fra tutti i fiumi del mondo: Irrawadhy.
Accanto alle sue acque cominciava la mia nuova vita.
ALVARO
...Diavolo d'uomo questo Alvaro... Adesso si chiama Alvaro de Silva... Vive a New York... Ha trascorso quasi tutta la vita nella foresta newyorkese... Lo immagino che mangia arance ad ore insultanti, che brucia col fiammifero la carta delle sigarette, che fa domande vessatorie a mezzo mondo... Fu sempre un maestro disordinato, dall'intelligenza brillante, un'intelligenza inquisitiva che sembra non porti da nessuna parte, se non a New York. Era nel 1925... Fra le violette che gli cadevano di mano quando correva ad offrirle ad una passante sconosciuta, con cui voleva immediatamente andare a letto, senza neppure sapere come si chiamasse, né da dove venisse, e le sue interminabili letture di Joyce, rivelò a me, e a molti altri, insospettate opinioni, punti di vista da gran cittadino che vive nella metropoli, in una
cantina ed esce ad esplorare la musica, la pittura, i libri, la danza... Sempre mangiando arance, sbucciando mele, insopportabile dietetico, meravigliosamente curioso di tutto, vedevamo insomma l'antiprovinciale dei sogni, che noi tutti provinciali avremmo voluto essere, senza le etichette appiccicate alle valige, ma circolando dentro di sé, in una girandola di paesi e concerti, di caffè all'alba, di università con neve sui tetti... Riuscì a rendermi la vita impossibile... Io dovunque arrivi assumo un sogno vegetale, mi scelgo un posto e cerco di
mettere qualche radice, per pensare, per esistere... Alvaro andava da un'elettricità all'altra, affascinato dai film in cui avremmo potuto lavorare, vestendoci immediatamente da mussulmani per andare agli studi cinematografici... Vengon di qui le mie foto in costume bengalese (e siccome mi lasciava senza parlare, nella tabaccheria, a Calcutta, credettero che fossi della famiglia di Tagore (25) quando andavamo agli studi Dum-Dum per vedere se ci assumevano. Io poi dovevo scappare di corsa dalla YMCA (26) perché non avevamo pagato il conto... E le infermiere che ci amavano... Alvaro si mise in favolosi affari... Voleva vendere tè dell'Assam, tessuti di Cascemire, orologi, tesori antichi... Tutto veniva subito dilapidato... Lasciava i campioni di Cascemire, i pacchetti di tè sui tavoli, sui letti... Aveva già preso una valigia ed era altrove... A Monaco... A New York...
Se ho visto scrittori continui, indefettibili, prolifici, lui è il maggiore... Non pubblica quasi niente... Non capisco... Di buon mattino, senza scendere dal letto, con degli occhiali in bilico sulla gobbetta del naso, è già di buona lena alla macchina da scrivere, consumando risme di ogni tipo di carta, ogni genere di fogli... E tuttavia, la sua mobilità, il suo criticismo, le sue arance, le sue cicliche trasmissioni, la sua cantina di New York, le sue violette, la sua confusione che sembra così chiara, la sua chiarezza così confusa... Non gli viene fuori l'opera che si è sempre aspettato... Sarà perché non ne ha voglia... Sarà perché non può scriverla... Perché è tanto occupato... Perché è tanto disoccupato... Ma sa tutto, guarda tutto attraverso i continenti con quegli intrepidi occhi azzurri, con quel tatto sottile che pure lascia che fra le sue dita fugga la sabbia del tempo...
Quaderno 4
LA SOLITUDINE LUMINOSA
IMMAGINI DELLA FORESTA
Immerso in questi ricordi, ad un tratto debbo risvegliarmi. È il fragore del mare. Scrivo ad Isla Negra, (1) sulla costa, vicino a Valparaíso. Si sono da poco calmati i grandi venti che hanno battuto il litorale. L'oceano — che, più che essere io a guarDarío dalla finestra, mi guarda con mille occhi di spuma — conserva ancora nell'accavallarsi delle onde la terribile persistenza dell'uragano.
Che anni lontani! Ricostruirli è come se il suono delle onde che ora ascolto entrasse a tratti dentro di me, a volte ninnandomi per addormentarmi, altre col rapido balenio di una spada. Raccoglierò quelle immagini senza cronologia, come queste onde che vanno e vengono.
1929. Di sera. Vedo la folla accalcarsi per strada. È una festa mussulmana. In mezzo alla strada hanno scavato una lunga trincea e l'hanno riempita di carboni ardenti. Mi avvicino. La vampa delle braci che sono state accumulate, sotto un sottilissimo strato di cenere, sul nastro scarlatto di fuoco vivo, mi brucia il volto. Ad un tratto appare uno strano personaggio. Col viso dipinto di bianco e di rosso è portato a spalla da quattro uomini, vestiti anch'essi di rosso. Lo adagiano a terra, e l'uomo comincia ad avanzare barcollando sui carboni, e mentre cammina grida:
— Allah, Allah!
La folla immensa divora attonita la scena. Il mago ha già percorso incolume tutto il lungo nastro di carboni.
Ed ecco che dalla calca si stacca un uomo, si toglie i sandali e a piedi scalzi compie lo stesso percorso. E continuamente si fanno avanti dei volontari. Alcuni si fermano a metà della trincea e calcano coi piedi nel fuoco, al grido di Allah!, Allah!, urlando con gesti orribili e stralunando gli occhi al cielo. Altri passano con i bambini in braccio. Nessuno si brucia; o forse si bruciano e non lo sanno.
Vicino al fiume sacro si innalza il tempio di Khali, la dea della morte. Entriamo, mescolati a centinaia di pellegrini che sono venuti dal fondo della provincia indiana a conquistarsi la sua grazia. Terrorizzati, cenciosi, i pellegrini vengono spinti avanti dai bramini (2) che ad ogni passo si fanno pagare per qualcosa. I bramini sollevano uno dei sette veli della dea esecrabile e, quando lo tolgono, risuona un colpo di gong, quasi volesse sprofondare il mondo. I pellegrini cadono in ginocchio, salutano con le mani giunte, toccano il pavimento con la fronte, e continuano a camminare fino al prossimo velo. I sacerdoti li fanno convergere in un cortile in cui, con un solo colpo d'accetta, decapitano capretti e riscuotono nuovi tributi. I belati degli animali feriti vengono soffocati dai colpi di gong. Le pareti di calce sporca son spruzzate di sangue fino al soffitto. La dea è una figura dal volto scuro e dagli occhi bianchi. Dalla bocca, una lingua scarlatta di due metri scende fino a toccare il pavimento. Collane di teschi ed emblemi di morte pendono dalle orecchie e dal collo. I pellegrini pagano gli ultimi soldi che sono loro rimasti e poi vengono spinti in strada.
Assai diversi da quei pellegrini sottomessi erano i poeti che mi si fecero intorno per cantarmi le loro canzoni e recitarmi i loro versi. Accompagnandosi con dei tamburelli, vestiti delle loro tuniche bianche lunghe fino ai piedi, accoccolati per terra, ognuno di quei poeti lanciava un grido roco, spezzato, e gli usciva dalle labbra una canzone che aveva composto con la stessa forma e lo stesso metro delle canzoni antiche, millenarie. Ma il loro significato era cambiato. Non erano più canzoni di sensualità, di gioia, ma canzoni di protesta, canzoni contro la fame, canzoni scritte in prigione. Molti di quei giovani poeti che incontrai per tutta l'India, e il cui sguardo cupo non potrò dimenticare, erano appena usciti dal carcere, ed entro le sue mura sarebbero tornati forse l'indomani stesso. Perché pretendevano di sollevarsi contro la miseria e contro gli dei. È questa l'epoca che ci è stato dato vivere. E questo è il secolo d'oro della poesia universale. Mentre i nuovi cantici sono perseguitati, notte dopo notte un milione di uomini dorme per strada, nei sobborghi di Bombay. Dormono, nascono e muoiono. Non c'è casa, né pane, né medicine. È in queste condizioni che la civile, orgogliosa Inghilterra, ha lasciato il suo impero coloniale. Si è congedata dai suoi antichi sudditi senza lasciar loro scuole, industrie, case, ospedali, ma solo prigioni e montagne di bottiglie di whisky vuote.
Il ricordo dell'orangután Rango è un'altra tenera immagine che viene dalle onde. A Medàn, nell'isola di Sumatra, (3) suonai spesso alla porta di quel giardino botanico in rovina. E con mia meraviglia, era sempre lui che veniva ad aprirmi. Tenendoci per mano percorrevamo un sentiero, fino a sederci ad un tavolo su cui l'orango batteva con le mani ed i piedi. Appariva allora un cameriere che ci serviva un boccale di birra, né grande né piccolo, buono per l'orango e per il poeta.
Nel giardino zoologico di Singapore, in una gabbia, vedevamo l'uccello lira, fosforescente e collerico, splendido nella sua bellezza d'uccello appena uscito dall'eden. E poco più in là, nella sua gabbia, s'aggirava una pantera nera, ancora odorosa della foresta da cui era venuta. Era un frammento curioso della notte stellata, un nastro magnetico che si agitava senza posa, un vulcano nero ed elastico che voleva radere al suolo il mondo, una dinamo di forza pura che ondeggiava; e due occhi gialli, sicuri come pugnali, che interrogavano col loro fuoco, che non capivano né la prigione né il genere umano.
Arriviamo allo strano tempio del Serpente, nei sobborghi di Penang, nel paese che un tempo si chiamava Indocina.
Questo tempio è stato più volte descritto da viaggiatori e da giornalisti. Con tante guerre, tante distruzioni, tanto tempo e tanta pioggia che sono caduti sulle strade di Penang, non so se esista ancora. Sotto il tetto di tegole, un edificio basso e nerastro, consunto dalle piogge tropicali, fra lo spessore delle grandi foglie dei platani. Odore d'umidità. Profumo di frangipani. (4) Quando entriamo nel tempio, nella penombra non vediamo niente. Un forte profumo d'incenso e, in un angolo, qualcosa che si muove. È un serpente che srotola. A poco a poco notiamo che ce ne sono altri. Poi osserviamo che sono forse dozzine. Più tardi, capiamo che ci sono centinaia o migliaia di serpenti. Ce ne sono di piccoli, attorcigliati ai candelabri, di scuri, metallici e sottili, e tutti sembrano sazi e addormentati. Infatti dovunque si vedono preziosi bacili di porcellana, alcuni traboccanti di latte, altri pieni di uova. I serpenti non ci guardano. Passiamo sfiorandoli per gli stretti labirinti del tempio, sono sulle nostre teste, penzolanti dall'architettura dorata, dormono sui muretti, si attorcigliano sugli altari. Ecco qui la terribile vipera di Russel; sta trangugiando un uovo accanto ad una dozzina di mortiferi serpenti corallo, i cui anelli scarlatti annunciano il loro istantaneo veleno. Notai il serpente fer de lance, vari grandi pitoni, il coluber de rusi e il coluber noya. Serpenti verdi, grigi, azzurri, neri, riempivano la sala. Tutto in silenzio. Di tanto in tanto, un bonzo vestito di zafferano attraversa l'ombra. Il colore brillante della sua tunica lo fa sembrare un altro serpente, sinuoso ed indolente, in cerca di un uovo o di un bacile di latte.
Hanno portato fin qui queste serpi? E in che modo sono state addomesticate? Alle nostre domande rispondono con un sorriso, dicendoci che sono venute da sole, e che da sole se ne andranno quando ne avranno voglia. Certo è che le porte sono aperte e non ci sono né reticelle, né vetri, e nient'altro che le costringa a restare nel tempio.
L'autobus usciva da Penang e doveva attraversare la foresta e i villaggi dell'Indocina per arrivare a Saigon. Nessuno capiva la mia lingua ed io non capivo la lingua di nessuno. Ci fermavamo in angoli della foresta vergine, lungo l'interminabile strada, e dall'autobus scendevano i passeggeri, contadini dagli strani vestiti, dalla dignità taciturna e dagli occhi a mandorla. Ormai solo tre o quattro erano rimasti dentro quell'imperturbabile trabiccolo che cigolava e minacciava di disintegrarsi nella notte afosa.
Ad un tratto mi sentii invadere dal panico. Dov'ero? Dove andavo? Perché passavo quella notte lunghissima fra sconosciuti? Attraversavamo il Laos e la Cambogia. Osservai il volto impenetrabile dei miei ultimi compagni di viaggio. Stavano con gli occhi aperti. Mi parve
avessero ceffi patibolari. Mi trovavo senza dubbio fra i tipici banditi di un racconto orientale.
Si scambiavano sguardi di intesa e mi guardavano di sottecchi. Proprio in quel momento l'autobus si fermò silenziosamente in piena foresta. Scelsi il mio posto per morire. Non avrei permesso che mi portassero al sacrificio sotto quegli alberi sconosciuti la cui ombra scura nascondeva il cielo. Sarei morto lì, su un sedile di quell'autobus sgangherato, fra ceste di verdura e gabbie di galline che erano l'unica cosa familiare in quel terribile momento. Mi guardai intorno, deciso ad affrontare la furia dei miei carnefici, e scoprii che anch'essi erano
scomparsi.
Aspettai per molto tempo, solo, col cuore in tumulto per l'oscurità intensa della notte straniera. Sarei morto senza che nessuno lo sapesse. Così lontano dal mio piccolo paese amato! Così lontano da tutti i miei amori ed i miei libri!
Ad un tratto apparve un lume, poi un altro. La strada si riempì di lumi. Suonò un tamburo; scoppiarono le note stridenti della musica cambogiana. Flauti, tamburelli e torce riempirono la strada di luce e di suoni. Un uomo salì sull'autobus e mi disse in inglese:
— L'autobus ha avuto un guasto. E dato che l'attesa sarà lunga, forse fino all'alba, e qui non c'è nessun posto dove dormire, i passeggeri sono andati a cercare una compagnia di musici e di ballerini perché lei si distragga.
Per ore e ore, sotto quegli alberi che ora non mi minacciavano più, assistetti alle meravigliose danze rituali di una nobile ed antica cultura ed ascoltai, fino al sorgere del sole, la musica deliziosa che invadeva la strada.
II poeta non può aver paura del popolo. Mi parve che la vita mi desse un avvertimento e mi impartisse una volta per sempre una lezione: la lezione dell'onore nascosto, della fraternità che non conosciamo, della bellezza che fiorisce nell'oscurità.
PARLAMENTO IN INDIA
Oggi è un giorno di splendore. Ci troviamo nel Parlamento indiano. Una nazione in piena lotta per la sua indipendenza. Migliaia di delegati riempiono le gallerie. Conosco personalmente Gandhi. (5) E anche il Pandit Motilal Nehru,6 un altro patriarca del movimento. E suo figlio, l'elegante giovane Jawahrlal, appena arrivato dall'Inghilterra. Nehru è un sostenitore dell'indipendenza mentre Gandhi appoggia la semplice autonomia come passo necessario. Gandhi: un volto fine da astutissima volpe; un uomo pratico; un politico simile ai nostri vecchi dirigenti criollos; (7) maestro nei comitati, saggio nelle tattiche, infaticabile. Intanto la folla è una corrente interminabile che tocca con adorazione l'orlo della sua tunica bianca e grida « Ghandiii! Ghandiii! », lui saluta con un cenno e sorride, senza togliersi gli occhiali. Riceve e legge messaggi; risponde a telegrammi; tutto senza fatica; è un santo che non si logora. Nehru: un intelligente accademico della sua rivoluzione.
Una grande figura di quella riunione fu Subhas Chandra Bose, impetuoso demagogo, violento antiimperialista, affascinante figura politica della sua patria. Nella guerra del '14, durante l'invasione nipponica, si unì ai giapponesi contro l'impero inglese. Molti anni dopo, qui
in India, uno dei suoi compagni mi racconta com'è caduto il forte di Singapore:
— Avevamo le nostre armi rivolte verso gli assedianti giapponesi; Ad un tratto ci chiedemmo... e perché? Facemmo voltare i nostri soldati e puntammo le armi contro le truppe inglesi. Fu semplicissimo. I giapponesi erano invasori transitori. Gli inglesi sembravano eterni.
Subhas Chandra Bose fu arrestato, giudicato e condannato a morte dai tribunali britannici dell'India, come colpevole di alto tradimento. Le proteste si moltiplicarono spinte dall'ondata indipendentista. Alla fine, dopo molte battaglie legali, il suo avvocato — appunto Nehru — ottenne l'amnistia. Da quel momento divenne un eroe popolare.
GLI DEI SDRAIATI
...Dovunque le statue di Budda (4) di Lord Budda... Le severe, verticali, consunte statue, con un dorato come di splendore animale, con una dissoluzione come se l'aria le mangiasse... Sulle gote, tra le pieghe della tunica, nei gomiti, negli ombelichi, nella bocca, nel sorriso, spuntano piccole macchie: funghi, porosità, orme escrementizie della foresta... Oppure le giacenti, le immense giacenti, le statue di quaranta metri di pietra, di granito arenario, pallide, distese fra le fronde sussurranti, inaspettate, che sorgono da qualche angolo della foresta, da qualche piattaforma che le circonda... addormentate o non addormentate, son là da cent'anni, da mille anni, da mille volte mille anni... Ma sono dolci, con una manifesta ambiguità metaterrena, aspiranti a restare e ad andarsene... E quel sorriso di dolcissima pietra, quella maestà imponderabile, fatta però di pietra dura, perpetua, a chi sorridono, a chi, sulla terra insanguinata?... Passarono le contadine che fuggivano, gli uomini dell'incendio, i guerrieri mascherati, i falsi sacerdoti, i turisti divoranti... E la statua continuò a rimanere al suo posto, l'immensa pietra con ginocchio, con pieghe nella tunica di pietra, con lo sguardo perduto e tuttavia esistente, interamente inumano e pure in qualche modo umano, in qualche modo o in qualche contraddizione statuaria, essendo e non essendo dei, essendo e non essendo pietra, sotto il gracchiare degli uccelli neri, fra lo svolazzare degli uccelli rossi, degli uccelli della foresta... In qualche modo, pensiamo ai terribili Cristi spagnoli, che abbiamo ereditato con piaghe e tutto, con pustole e tutto, con cicatrici e tutto, con quell'odore di candela, di umidità, di stanza chiusa che hanno le chiese... Anche quei Cristi son stati in dubbio fra essere uomini ed essere dèi... Per farli uomini, per avvicinarli di più a coloro che soffrono, alle partorienti e ai decapitati, ai paralitici e agli avari, alla gente di chiesa e a quella che circonda le chiese, per renderli umani, gli scultori li hanno coperti di piaghe orripilanti, finché tutto questo si è trasformato nella religione del supplizio, nel pecca e soffri, nel non
peccare e soffri, nel vivi e soffri, senza nessuna possibilità di scampo... Qui no, qui la pace è arrivata alla pietra... Gli scultori si sono ribellati ai canoni del dolore e questi Budda colossali, con piedi da dei giganti, hanno sul volto un sorriso di pietra che è placidamente umano, senza tanta sofferenza... E da quei Budda emana un odore non di stanza morta, non di sagrestia e ragnatele, ma di spazio vegetale, di raffiche che ad un tratto cadono in uragani, con piume, foglie, polline dell'infinita foresta...
SVENTURATA FAMIGLIA UMANA
In alcuni saggi sulla mia poesia ho letto che il mio soggiorno in Estremo Oriente influisce su determinati aspetti della mia opera, specialmente su Residencia en la Tierra. (9) In verità i miei unici versi di quel periodo furono quelli di Residencia en la Tierra, ma, senza voler fare delle affermazioni troppo recise, dico che questo fatto dell'influenza mi pare sbagliato.
Tutto l'esoterismo filosofico dei paesi orientali, messo a confronto con la vita reale, si rivelava come un sottoprodotto dell'inquietudine, della nevrosi, del disorientamento e dell'opportunismo occidentali; cioè, della crisi di fondo del capitalismo. In quegli anni, in India, non c'erano molti posti per le contemplazioni dell'umbilico profondo. Una vita di brutali esigenze materiali, una condizione coloniale basata sulla più assoluta abbiezione, migliaia di morti ogni giorno, di colera, di vaiolo, di febbri e di fame, organizzazioni feudali squilibrate
dall'immensa popolazione e dalla povertà industriale del paese, imprimevano alla vita una gran ferocia in cui i riflessi mistici scomparivano.
I nuclei teosofici erano quasi sempre diretti da avventurieri occidentali, tra cui non mancavano americani del Nord e del Sud. Non c'è dubbio che fra essi vi fossero persone in buona fede, ma la maggior parte sfruttava un mercato a basso prezzo, dove si vendevano all'ingrosso amuleti e feticci esotici, mescolati a paccottiglia metafisica. Quella gente si riempiva la bocca col Dharma e con lo Yoga. (10) Le piaceva la ginnastica religiosa impregnata di vacuità e di chiacchiere.
Per questi motivi, l'Oriente mi fece l'impressione di una grande e sventurata famiglia umana, (11) senza che nella mia coscienza ci fosse posto per i suoi riti ed i suoi dei. Non credo dunque che la mia poesia di allora abbia riflettuto altro che la solitudine di un forestiero
trapiantato in un mondo strano e violento.
Ricordo uno di quei turisti dell'occultismo, vegetariano e conferenziere. Era un tipo piccoletto, di mezza età, con una calvizie totale e lucente, chiarissimi occhi azzurri, sguardo penetrante e cinico, di nome Powers. Veniva dal Nord America, dalla California, professava
la religione buddista, e le sue conferenze terminavano sempre con questa prescrizione dietetica: « Come diceva Rockefeller, alimentatevi con un'arancia al giorno ».
Questo Powers mi divenne simpatico per la sua allegra freschezza. Parlava spagnolo. Dopo le sue conferenze ce ne andavamo insieme a farci delle gran scorpacciate di agnello arrosto (khebab) con cipolla. Era un buddista teologico, non so se legittimo o illegittimo, con una voracità più autentica del contenuto delle sue conferenze.
Si invaghì ben presto prima di una ragazza meticcia, innamorata del suo smoking e delle sue teorie, una signorina anemica, dallo sguardo dolente, che lo credeva un dio, un Budda vivente. Le religioni cominciano così.
In capo ad alcuni mesi di quest'amore, un giorno mi venne a cercare perché assistessi ad un suo nuovo matrimonio. Sulla sua motocicletta, fornitagli da una ditta commerciale per cui lavorava come venditore di frigoriferi, ci lasciammo velocemente alle spalle boschi,
monasteri e risaie. Finalmente arrivammo ad un piccolo villaggio di architettura cinese e di abitanti cinesi. Accolsero Powers con mortaretti e musica, mentre la sposa giovanotta rimaneva seduta, truccata di bianco come un idolo, su una sedia più alta delle altre. Al ritmo della musica, bevemmo limonate di tutti i colori. Powers e la sua nuova sposa non si rivolsero mai la i parola.
Ritornammo in città. Powers mi spiegò che con quel tipo solo la fidanzata si sposava. Le cerimonie sarebbero continuate senza bisogno che lui fosse presente. In seguito sarebbe ritornato a vivere con lei.
— Si rende conto di praticare la poligamia? — gli chiesi.
— L'altra mia moglie lo sa e sarà molto contenta.
In questa affermazione c'era tanta verità quanta nella storia dell'arancia che raccontava ogni. giorno. Appena giunti a casa sua, a casa della prima moglie, trovammo
quest'ultima, una meticcia dolente, agonizzante con una tazza di veleno sul comodino e una lettera di addio. Il suo corpo bruno, completamente nudo, era immobile sotto la zanzariera. La sua agonia durò molte ore.
Malgrado cominciassi a sentirlo repellente, accompagnai Powers perché evidentemente soffriva. Il cinico che portava dentro di sé era crollato. Andai con lui al funerale. (12) Lungo la riva di un fiume mettemmo la povera bara su un cumulo di legna. Con un fiammifero, Powers appiccò il fuoco, mormorando frasi rituali in sanscrito.
Alcuni musici, vestiti di tuniche arancioni, salmodiavano o soffiavano dentro tristissimi strumenti. La legna ogni tanto si spegneva ed era necessario riattizzare la fiamma con i fiammiferi. Il fiume correva indifferente fra le sue sponde. Anche il cielo azzurro, eterno, dell'Oriente dimostrava un'assoluta impassibilità, una infinita indifferenza verso quel triste funerale solitario di una povera abbandonata.
La mia vita ufficiale funzionava una sola volta ogni tre mesi, quando arrivava da Calcutta una nave che trasportava paraffina solida e grandi casse di tè per il Cile. Dovevo freneticamente timbrare e firmare documenti. Sarebbero poi venuti altri tre mesi di inazione,
di contemplazione solitaria di mercati e di templi. Questa è l'epoca più dolorosa della mia poesia. (13)
La strada era la mia religione. La strada birmana, la città cinese con i suoi teatri all'aria aperta, i suoi draghi di carta e le sue splendide lanterne. La strada indù, la più umile, con i suoi templi riservati ad una sola casta, e i poveri prosternati fuori, nel fango. I mercati in cui le foglie di betel' (14) si ammucchiavano in piramidi verdi come montagne di malachite. I negozi d'animali, in cui si vendevano bestie feroci ed uccelli selvatici. Le strade intricate, per le quali passavano le birmane variopinte con un lungo sigaro in bocca. Tutto questo mi assorbiva e mi andava immergendo a poco a poco nel sortilegio della vita reale.
Le caste classificavano la popolazione indiana come in un teatro parallelepipedo a gallerie sovrapposte, in cima a cui sedevano gli dei. A loro volta anche gli inglesi avevano una loro scala di caste che andava dal piccolo impiegato di bottega, passava attraverso i professionisti e gli intellettuali, continuava con gli esportatori e culminava con la terrazza dell'apparato su cui sedevano comodamente gli aristocratici del Civil Service e i banchieri dell'empire.
Questi due mondi non si toccavano. La gente del paese non poteva entrare nei locali riservati agli inglesi, e gli inglesi vivevano assenti dal palpito del paese. Questa situazione mi causò delle difficoltà. I miei amici britannici mi videro su un veicolo chiamato « gharry », una carrozzella specializzata in rotolanti ed effimeri appuntamenti galanti, e mi avvertirono amabilmente che un console come me non doveva usare quei veicoli per nessun motivo. Mi intimarono anche di non sedermi in un ristorante persiano, un locale pieno di vita in cui prendevo il tè migliore del mondo in piccole tazze trasparenti. Questi furono gli ultimi
ammonimenti. Poi mi tolsero il saluto.
Io mi sentii felice del boicottaggio. Quegli europei pieni di pregiudizi non erano poi gran che interessati e, in fin dei conti, io non ero venuto in Oriente per convivere con colonizzatori di passaggio, ma con l'antico spirito di quel mondo, con quella grande e sventurata famiglia umana. Penetrai talmente nell'anima e nella vita di quella gente, che mi innamorai di una indigena. Si vestiva come un'inglese e il suo nome di strada era Josie Bliss. (15) Ma nell'intimità della sua casa, che presto divisi con lei, si spogliava di quegli abiti e di quel nome per usare il suo abbagliante sarong e il suo recondito nome birmano.
TANGO DEL VEDOVO
Nella mia vita privata ebbi delle difficoltà. La dolce Josie Bliss si andò chiudendo in se stessa e si innamorò a tal punto da ammalarsi di gelosia. Se non fosse stato per questo, forse avrei continuato a starle accanto indefinitamente. Sentivo tenerezza per i suoi piedi nudi, per i bianchi fiori che brillavano fra i suoi capelli scuri. Ma il suo temperamento la condannava ad un parossismo selvaggio. Era gelosa delle lettere che mi arrivavano da lontano; nascondeva i miei telegrammi senza aprirli, guardava con rancore l'aria che respiravo.
Qualche volta mi svegliava una luce, un fantasma che si muoveva dietro la zanzariera. Era lei, vestita di bianco, che brandiva il suo lungo ed affilato coltello indigeno. Era lei, che gironzolava per ore intere attorno al mio letto senza decidersi ad uccidermi. Quando morirai i miei terrori finiranno, mi diceva. Il giorno dopo celebrava misteriosi riti per propiziare la mia
fedeltà.
Avrebbe finito per uccidermi. Per fortuna ricevetti un messaggio ufficiale che mi comunicava il mio trasferimento a Ceylon. Preparai il viaggio in segreto e un giorno, abbandonando i miei vestiti e i miei libri, uscii di casa come al solito e salii sulla nave che mi
avrebbe portato lontano.
Lasciavo Josie Bliss, specie di pantera birmana, col più grande dolore. Appena la nave cominciò a ballare sulle onde del Golfo del Bengala, mi misi a scrivere il Tango del viudo, (16) tragico brano della mia poesia dedicato alla donna che persi e mi perdette, perché nel suo sangue crepitava senza posa il vulcano della ira. Che notte immensa, che terra sola! (17)
L'OPPIO
...C'erano strade intere dedicate all'oppio... (18) I fumatori si stendevano su bassi tavolacci... Erano i veri luoghi religiosi dell'India... Non avevano nessun lusso, né arazzi, né cuscini di seta... Tutto era tavole non dipinte, pipe di bambù e poggiatesta di maiolica cine-
se... C'era un'aria di decoro e di austerità che non esisteva nei templi... Gli uomini addormentati non facevano movimento né rumore... Fumai una pipa... Non era niente... Era un fumo caliginoso, tiepido e lattiginoso... Fumai quattro pipe e stetti male per cinque giorni, con nausee che mi venivano dalla spina dorsale, che mi scendevano dal cervello... E un odio per il sole, per l'esistenza... Il castigo dell'oppio... Ma questo non poteva essere tutto... Si era tanto detto, si era tanto scritto, si era tanto rovistato in sacche e valige, cercando alla dogana di scoprire il veleno, il famoso veleno sacro... Bisognava vincere la nausea... Dovevo conoscere l'oppio, sapere l'oppio, per dare la mia testimonianza... Fumai molte pipe, finché conobbi... Non ci sono sogni, non ci sono immagini, non c'è parossismo... C'è un indebolimento melodico, come se una nota infinitamente dolce si prolungasse nell'aria... Uno
svenimento, un vuoto dentro... Qualsiasi movimento, del gomito, della nuca, qualsiasi rumore lontano di veicolo, un colpo di clackson o un grido dalla strada, entrano a far parte di un tutto, di una riposante delizia... Capii perché i braccianti di piantagione, i manovali, i risciòmen che tirano e tirano il risciò tutto il giorno, rimangono lì all'improvviso, offuscati, immobili... L'oppio non era quel paradiso degli esotisti che mi avevano dipinto, ma l'evasione degli sfruttati... Tutti quelli della fumeria erano poveri diavoli. Non c'era nessun cuscino ricamato, nessun segno della sia pur minima ricchezza... Niente brillava nella stanza, neppure gli occhi socchiusi dei fumatori... Riposavano, dormivano?... Non l'ho mai saputo... Nessuno parlava... Nessuno parlava mai... Non c'erano mobili, tappeti, niente... Sui tavolacci consunti, dolcissimi da tanto contatto umano, si vedevano alcuni piccoli poggiatesta di legno... Nient'altro, tranne il silenzio e il profumo dell'oppio, stranamente repellente e penetrante... Senza dubbio lì v'era una strada verso l'annientamento... L'oppio dei magnati, dei colonizzatori, era destinato ai colonizzati... Le fumerie avevano alla porta la loro autorizzazione, il loro numero e la loro licenza... All'interno, regnavano un gran silenzio opaco, un'inazione che rimediava all'infelicità e addolciva la stanchezza... Un silenzio caliginoso, sedimento di molti sogni tronchi che ristagnavano... Coloro che sognavano con gli occhi socchiusi, stavano vivendo un'ora immersi nel mare, una notte intera su una collina, godendo di un riposo sottile e ristoratore...
Dopo quella volta non sono più tornato alle fumerie... Ormai sapevo... Ormai conoscevo... Ormai avevo toccato qualcosa di inafferrabile... remotamente nascosto dietro il fumo...
CEYLON
Ceylon, la più bella isola grande del mondo, verso il 1929 aveva la stessa struttura coloniale della Birmania e dell'India. Gli inglesi se ne stavano rintanati nei loro quartieri e nei loro clubs, circondati da una immensa folla di musici, vasai, tessitori, schiavi di piantagione,
monaci vestiti di giallo e dei immensi, intagliati nelle montagne di pietra.
Fra gli inglesi vestiti di smoking tutte le sere, e gli indù irraggiungibili nella loro favolosa immensità, io non potevo scegliere altro che la solitudine, e così quell'epoca è stata la più solitaria della mia vita. Ma la ricordo lo stesso come la più luminosa, come se un lampo di straordinario fulgore si fosse fermato alla mia finestra per illuminare il mio destino dentro e fuori. (19)
Me ne andai a vivere in un piccolo bungalow, da poco costruito nel sobborgo di Wellawatha, vicino al mare. Era una zona spopolata e le onde, inseguendosi, rompevano contro la scogliera. Di notte cresceva la musica marina. (20)
Al mattino, il miracolo di quella natura appena lavata mi sbalordiva. Fin dalle prime ore del giorno ero insieme ai pescatori. Le imbarcazioni, provviste di lunghissimi galleggianti, parevano ragni del mare. Gli uomini tiravan su pesci dai colori violetti, pesci come uccelli della foresta infinita, alcuni d'oscuro azzurro fosforescente come un intenso velluto vivo, altri in forma di globo pungente che si sgonfiava fino a trasformarsi in un povero sacchettino di spine.
Contemplavo con orrore il massacro dei gioielli del mare. Il pesce veniva venduto a pezzi alla povera popolazione. Il machete dei sacrificatori dilaniava quella materia divina della profondità per trasformarla in merce sanguinante. (21)
Camminando per la costa, arrivavo al bagno degli elefanti. Accompagnato dal mio cane non potevo sbagliarmi. Dall'acqua tranquilla usciva un immobile fungo grigio, che si trasformava poi in serpente, poi in una testa immensa, e infine in montagna con zanne. Nessun paese al mondo aveva, o ha, tanti elefanti che lavorano nelle strade. Era straordinario vederli ora — lontano dal circo o dalle sbarre del giardino zoologico — camminare col loro carico di legna di traverso come laboriosi ed immensi braccianti.
Le mie uniche compagnie furono il mio cane e la mia mangusta. La mangusta, da poco uscita dalla foresta, crebbe al mio fianco, dormiva nel mio letto e mangiava al mio tavolo. Nessuno può immaginare la tenerezza di una mangusta. Il mio piccolo animaletto conosceva ogni minuto della mia vita, passeggiava per le mie carte e mi correva dietro tutto il giorno. All'ora della siesta mi si arrotolava fra la spalla e la testa e lì dormiva col sonno sussultante ed elettrico degli animali selvatici.
La mia mangusta addomesticata divenne famosa in tutto il quartiere. Le manguste hanno un prestigio quasi mitologico, grazie alle continue battaglie che sostengono coraggiosamente con i terribili cobra. Io, dopo averle viste molte volte lottare con i serpenti, credo che li vincano solo per la loro agilità e per il fitto mantello color sale e pepe che inganna e sconcerta il rettile. In quei paesi si crede che la mangusta, dopo i combattimenti contro i suoi velenosi nemici, vada in cerca delle erbe dell'antidoto.
Comunque il prestigio della mia mangusta — che quasi ogni giorno mi accompagnava nelle mie lunghe passeggiate sulla spiaggia — fece sì che un pomeriggio tutti i bambini del sobborgo si dirigessero a casa mia in imponente processione. Nella strada era apparso un
atroce serpente, e così venivano a chiedere Kiria, la mia famosa mangusta, di cui s'apprestavano a celebrare l'indubbio trionfo. Seguito dai miei ammiratori — intere bande di bambinetti indù e cingalesi, senz'altro vestito che il perizoma —, guidai la sfilata guerriera con
la mia mangusta in braccio.
Il serpente era una specie nera della terribile pollongha, o vipera di Russell, dal potere mortale. Stava prendendo il sole fra l'erba, su una tubatura bianca su cui spiccava come una frusta nella neve.
I miei seguaci si fecero indietro, silenziosi. Io avanzai lungo la tubatura. A circa due metri di distanza, di fronte alla vipera, lasciai andare la mia mangusta. Kiria annusò il pericolo nell'aria e si diresse a passi lenti verso il serpente. Io e i miei piccoli accompagnatori trattenemmo il respiro. La grande battaglia stava per iniziare. Il serpente si arrotolò, sollevò la testa, spalancò le fauci e volse il suo ipnotico sguardo sull'animaletto. La mangusta continuò ad avanzare. Ma, a pochi centimetri dalla bocca del mostro, si rese conto esattamente di che cosa stava per accadere. Allora fece un gran salto, si mise a correre vertiginosamente in direzione contraria, e si lasciò dietro serpenti e spettatori. Smise di correre solo quando arrivò nella mia camera da letto. Fu così che, più di trent'anni fa, persi il mio prestigio nel quartiere di Wellawatha.
In questi giorni mia sorella mi ha portato un quaderno che contiene le mie poesie più antiche, scritte fra il 1918 e e il 1919. Leggendole ho sorriso di fronte al dolore infantile ed adolescente, di fronte al sentimento letterario di solitudine che emana da tutta la mia opera di gioventù. Lo scrittore giovane non può scrivere senza questo sussulto di solitudine, anche se fittizio, così come lo scrittore maturo non farà nulla senza il sapore di umana compagnia, di società.
La vera solitudine la conobbi in quei giorni e quegli anni di Wellawhata. Per tutto quel periodo dormii su una brandina da campo come un soldato, come un esploratore. Non ebbi altra compagnia che un tavolo e due sedie, il mio lavoro, il mio cane, la mia mangusta e il boy che mi serviva e la sera tornava al suo villaggio. Quest'uomo non era propriamente una compagnia; la sua condizione di servitore orientale l'obbligava ad essere più silenzioso d'un'ombra. Si chiamava, o si chiama, Brampy. Non era necessario ordinargli nulla, perché provvedeva a tutto: la colazione sul tavolo, il vestito appena stirato, la bottiglia di whisky sulla veranda. Sembrava che si fosse dimenticato della lingua. Sapeva solo sorridere con grandi denti da cavallo.
La solitudine in questo caso non si riduceva ad un tema di invocazione letteraria ma era qualcosa di duro come le pareti della cella di un prigioniero, contro cui puoi romperti la testa senza che venga nessuno, per quanto tu grida e pianga.
Io capivo che attraverso l'aria azzurra, la sabbia dorata, al di là della foresta primordiale, al di là delle vipere e degli elefanti, c'erano centinaia, migliaia di esseri umani che cantavano e lavoravano vicino all'acqua, che accendevano il fuoco e modellavano vasi; e anche donne ardenti che dormivano nude sulle stuoie sottili, alla luce delle immense stelle. Ma, come avvicinarmi a questo mondo palpitante, senza esser considerato un nemico.
A poco a poco cominciavo a conoscere l'isola. Una sera attraversai tutti gli oscuri sobborghi di Colombo per assistere ad un pranzo di gala. Da una casa buia usciva la voce di un bimbo o di una donna che cantava. Feci fermare il risciò. Accanto alla povera porta mi assalì un'esalazione che è l'odore inconfondibile di Ceylon: un misto di gelsomini, sudore, olio di cocco, frangipani e magnolia. I volti scuri, confusi col colore e con l'odore della notte, mi invitarono ad entrare. Mi sedetti silenzioso sulle stuoie, mentre nel buio vibrava la misteriosa voce umana che mi aveva fatto fermare, una voce di bambino o di donna, tremula e singhiozzante, che saliva fino all'indicibile, ad un tratto si troncava, s'abbassava fino a farsi oscura come le tenebre, aderiva all'aroma dei frangipani, s'attorcigliava in arabeschi e d'improvviso cadeva — col suo peso cristallino — come se il più alto dei getti d'acqua avesse toccato il cielo per crollare poi fra i gelsomini.
Rimasi lì per molto tempo, estatico al sortilegio dei tamburi e al fascino di quella voce; poi continuai per la mia strada, ubriacato dall'enigma di un sentimento indecifrabile, di un ritmo il cui mistero usciva da tutta la terra. Una terra sonora, avvolta d'ombra e profumo.
Gli inglesi erano già seduti a tavola, vestiti di nero e di bianco.
— Mi scusino. Per strada mi sono fermato ad ascoltare musica — dissi loro.
E quelli, che avevano vissuto per venticinque anni a Ceylon, si sorpresero elegantemente. Musica? Avevano musica gli indigeni? Loro non lo sapevano. Era la prima
volta che ne sentivano parlare.
Questa terribile separazione dei colonizzatori inglesi dal vasto mondo asiatico non ebbe mai fine. E significò sempre un isolamento antiumano, un disprezzo ed un'ignoranza totali dei valori e della vita di quella gente.
C'erano eccezioni nel colonialismo; lo scoprii in seguito. D'improvviso qualche inglese del Club Service si innamorava perdutamente di una bellezza indiana. Veniva immediatamente destituito dalla sua carica ed isolato dai suoi compatrioti come un lebbroso. In quel periodo accadde anche che i colonizzatori ordinassero di bruciare la capanna di un contadino cingalese, allo scopo di cacciarlo e di espropriarne le terre. L'inglese che doveva eseguire l'ordine di distruggere la capanna era un modesto funzionario. Si chiamava Leonardo Woolf. Ma si rifiutò e fu privato della sua carica. Tornato in Inghilterra, scrisse uno dei migliori libri che siano mai stati scritti sull'Oriente: A village in the Jungle, capolavoro della vita vera e della letteratura reale, un po', o forse molto, offuscato dalla fama della moglie di Woolf, niente meno che Virginia Woolf, (22) grande scrittrice soggettiva di fama universale.
A poco a poco quella corteccia impenetrabile cominciò a rompersi e mi feci pochi e buoni amici. Contemporaneamente scoprii la gioventù impregnata di colonialismo culturale che non parlava altro che degli ultimi libri apparsi in Inghilterra. Scoprii che il pianista, fotografo, critico, cineasta, Lionel Wendt, era il centro della vita culturale che si dibatteva fra i rantoli dell'impero ed una riflessione sui valori vergini di Ceylon.
Questo Lionel Wendt, che possedeva una grande biblioteca e riceveva gli ultimi libri dall'Inghilterra, prese la stravagante e buona abitudine di mandarmi ogni settimana a casa, fuori città, un ciclista con un sacco di libri. E così, in quel periodo, lessi chilometri di romanzi inglesi, fra cui Lady Chatterly (23) nella prima edizione privata apparsa a Firenze. Le opere di Lawrence mi impressionarono per il loro senso poetico e un certo magnetismo vitale rivolto ai rapporti nascosti fra gli esseri. Ma ben presto mi resi conto che, malgrado il suo genio, Lawrence, come tanti scrittori inglesi, era frustrato dal suo prurito pedagogico. D. H. Lawrence istituisce una cattedra di educazione sessuale che ha poco a che vedere col nostro spontaneo apprendimento della vita e dell'amore. Finì col darmi decisamente fastidio, senza che per questo sia diminuita la mia ammirazione per la sua torturata ricerca mistico-sessuale,
tanto più dolorosa quanto più inutile.
Fra le cose di Ceylon che ricordo, c'è una grande caccia all'elefante.
Gli elefanti, in un determinato distretto, erano divenuti troppi e facevano delle incursioni danneggiando case e coltivazioni. Per più di un mese, lungo le rive di un grande fiume, i contadini — con fuoco, falò e tam-tam — raggrupparono i branchi selvaggi, spingendoli
verso un angolo della foresta. Notte e giorno i falò ed il rumore disturbavano le grandi bestie che si muovevano come un lento fiume verso il nord-est dell'isola.
In quel giorno era pronto il kraal. (24) Le palizzate ostruivano una parte del bosco. Attraverso uno stretto corridoio vidi entrare il primo elefante che capì subito di essere circondato. Ma era troppo tardi. Centinaia di elefanti avanzavano attraverso lo stretto passaggio senza sbocco. L'immenso branco di circa cinquecento elefanti non poté né avanzare né retrocedere.
I maschi più forti si diressero verso le palizzate cercando di abbatterle, ma dietro comparvero innumerevoli lance che li fermarono. Allora ripiegarono al centro del recinto, decisi a proteggere le femmine e i piccoli. Era commovente la loro difesa e la loro organizzazione. Lanciavano un richiamo angoscioso, una specie di nitrito o di squillo di tromba, e nella loro disperazione abbattevano alla radice gli alberi più deboli.
Ad un tratto, in groppa a due grandi elefanti addomesticati, entrarono i domatori. La coppia addomesticata si comportava come volgari poliziotti. Si mettevano alle costole dell'animale prigioniero, lo colpivano con la proboscite, aiutavano a ridurlo all'immobilità. Allora i cacciatori gli legavano la zampa posteriore ad un grande albero con delle grosse corde. Ad uno ad uno gli elefanti furono tutti sottomessi in questo modo.
L'elefante prigioniero rifiuta per molti giorni il cibo.
Ma i cacciatori conoscono le sue debolezze. Lasciano digiunare gli elefanti per un certo periodo e poi portano loro germogli e virgulti dei loro arbusti preferiti, di quelli che, quand'erano in libertà, cercavano attraverso lunghi viaggi nella foresta. Alla fine l'elefante si
decide a mangiarli. È ormai addomesticato. E comincia ormai ad imparare il pesante lavoro cui è destinato.
LA VITA A COLOMBO
A Colombo apparentemente non s'avvertiva alcun sintomo rivoluzionario. Il clima politico era diverso da quello che si respirava in India. Tutto era immerso in un'opprimente tranquillità. Il paese dava agli inglesi il tè più delicato del mondo.
L'isola era divisa in settori o compartimenti. Dopo gli inglesi, che occupavano il vertice della piramide e vivevano in grandi residenze con giardini, veniva una classe media simile a quella dei paesi dell'America del Sud. Si chiamavano o si chiamano burghers e discendevano dagli antichi boeri, i coloni olandesi dell'Africa del Sud che furono confinati a Ceylon durante la guerra coloniale del secolo scorso.
Più in basso stava la popolazione buddista o maomettana dei cingalesi, composta da molti milioni di persone. E ancora più in basso, al rango del lavoro peggio pagato, si contavano, anch'essi a milioni, gli immigranti indiani, tutti quanti del sud del loro paese, di lingua tamil (25) e di religione indù.
Nella cosiddetta « buona società » che dispiegava i suoi abiti di gala nei meravigliosi clubs di Colombo, due famosi snobs si disputavano il campo. Uno era un falso nobile francese, il conte di Mauny, che aveva i suoi adepti. L'altro era un polacco elegante e scanzonato, il mio amico Winzer, che teneva banco nei pochi salotti. Quest'uomo era di notevole ingegno, abbastanza cinico e al corrente di quanto esiste nell'universo. La sua professione era curiosa — « conservatore del tesoro culturale ed archeologico » — e fu per me una rivelazione quando una volta lo accompagnai in uno dei suoi giri ufficiali.
Gli scavi avevano portato alla luce due antiche città magnifiche che la foresta s'era inghiottite: Anuradapura e Polonaruwa. Colonne e corridoi brillarono di nuovo sotto lo splendore del sole cingalese. Naturalmente tutto ciò che era trasportabile partiva ben imballato verso il British Museum di Londra.
Il mio amico Winzer non faceva male il suo mestiere. Arrivava ai remoti monasteri e, con gran compiacimento dei monaci buddisti, faceva trasportare sulla camionetta ufficiale le portentose sculture di pietra millenaria che avrebbero concluso il loro destino nei musei dell'Inghilterra. Bisognava vedere l'espressione di soddisfazione dei monaci vestiti color zafferano quando Winzer lasciava loro, in cambio delle loro antichità, alcune orribili immagini buddiste di celluloide giapponese. Le guardavano con riverenza e le ponevano sugli stessi altari da cui per molti secoli avevano sorriso le statue di diaspro e di granito.
Il mio amico Winzer era un eccellente prodotto dell'impero, e cioè, un elegante mascalzone.
Qualcosa venne a turbare quei giorni consumati dal sole. Inaspettatamente, il mio amore birmano, la torrenziale Josie Bliss, si stabilì di fronte a casa mia. Era venuta fin lì dal suo lontano paese. E siccome pensava che il riso non esistesse altro che a Rangoon, arrivò con un sacco di riso in spalla, con i nostri dischi preferiti di Paul Robeson e con una lunga stuoia arrotolata. Dalla porta di fronte si diede ad osservare e poi ad insultare ed aggredire chiunque mi facesse visita. Josie Bliss, consumata dalla sua gelosia divorante, minacciava di
incendiarmi la casa. Ricordo che aggredì con un lungo coltello una dolce ragazza eurasiatica che era venuta a trovarmi.
La polizia coloniale ritenne che la sua presenza incontrollata fosse un focolaio di disordine in quella strada tranquilla. Mi dissero che l'avrebbero espulsa dal paese se non l'avessi ospitata. Io soffrii per molti giorni, oscillando fra la tenerezza che mi ispirava il suo
infelice amore e il terrore che mi incuteva. Non potevo lasciarle metter piede in casa mia. Era una terrorista amorosa, capace di tutto.
Finalmente un giorno si decise a partire. Mi chiese di accompagnarla alla nave. Quando la nave stava per salpare e io dovevo scendere, si staccò dai suoi accompagnatori e baciandomi in un impeto di dolore e di amore, mi riempì il viso di lacrime. Come in un rito, mi baciava le braccia, il vestito e, ad un tratto, senza che potessi impedirlo, si chinò fino alle mie scarpe. Quando si rialzò, il suo volto era tutto impiastricciato del gessetto delle mie scarpe bianche. Non potevo chiederle di non partire, di abbandonare con me la nave che se la portava via per sempre. La ragione me l'impediva, ma il mio cuore ne ebbe una cicatrice che non s'è cancellata. Quel dolore turbolento, quelle lacrime terribili che scorrevano sul suo viso impiastricciato, continuano nella mia memoria.
Avevo quasi finito di scrivere il primo volume di Residencia en la Tierra. Il mio lavoro era però andato avanti, con lentezza. Ero separato dal mio mondo dalla distanza e dal silenzio, ed ero incapace di penetrare veramente nello strano mondo che mi circondava.
Il mio libro raccoglieva come episodi naturali i risultati della mia vita sospesa nel vuoto: « Più vicino al sangue che all'inchiostro ». (26) Ma il mio stile si fece più raffinato e mi ostinai nella ripetizione di una malinconia frenetica. Insistetti per verità e per retorica (perché sono quelle le farine che fanno il pane della poesia) in uno stile amaro che ricercava sistematicamente la mia stessa distruzione. Lo stile non è solo l'uomo. E anche ciò che lo circonda e se l'atmosfera non entra nella poesia, la poesia è morta: morta perché non ha potuto respirare.
Non ho mai letto con tanto piacere e tanta abbondanza come in quel sobborgo di Colombo in cui vissi per molto tempo solitario. Di tanto in tanto tornavo a Rimbaud, a Quevedo (27) o a Proust. La strada di Swann mi fece rivivere i tormenti, gli amori e le gelosie della mia adolescenza. E capii che in quella frase della sonata di Vinteuil, (28) frase musicale che Proust ha chiamato « aerea ed odorosa », non solo si assapora la descrizione più squisita di quell'appassionante musica, ma anche una disperata misura della passione.
Il mio problema in quella solitudine fu trovare quella musica e ascoltarla. Con l'aiuto di un mio amico musicista e musicologo, indagammo fino a scoprire che il Vinteuil di Proust fu formato forse da Schubert, Wagner, Saint-Saëns, Fauré, D'Indy, César Frank. La mia indegna cattiva educazione musicale fu sempre ignorante di tutti questi musicisti. Le loro opere erano per me come delle scatole vuote o chiuse. Il mio orecchio non riconobbe mai altro che le melodie più evidenti, e per giunta con difficoltà.
Alla fine, procedendo nell'indagine, più letteraria che sonora, riuscii ad avere un album con i tre dischi della sonata per piano e violino di César Frank. (29) Non c'era dubbio, la frase di Vinteuil era lì. Non poteva esserci alcun dubbio.
La mia attrazione era stata solo letteraria. Proust, il più grande realista poetico, nella sua cronaca critica di una società agonizzante che amò ed odiò, si soffermò con appassionato compiacimento su molte opere d'arte, quadri e cattedrali, attrici e libri. Ma per quanto la sua chiaroveggenza illuminasse tutto ciò che toccava, riprodusse l'incanto di questa sonata e della sua frase ricorrente con un'intensità che forse non ha dato ad altre descrizioni. Le sue parole mi fecero rivivere la mia stessa vita, i miei lontani sentimenti perduti in me stesso, nella mia stessa assenza. Volli vedere nella frase musicale il racconto magico letterario di Proust e adottai, o fui adottato dalle ali della musica.
La frase s'avvolge nella gravita dell'ombra, arrochendosi, aggravando e dilatando la prima agonia. Sembra innalzare la sua angoscia come una struttura gotica, che le volute ripetono sostenute dal ritmo che scaglia senza posa la stessa freccia.
L'elemento nato dal dolore cerca uno sbocco trionfante che non rinnega nell'altezza la sua origine sconvolta dalla tristezza. Sembra attorcigliarsi in una patetica spirale, mentre il piano oscuro accompagna ora la morte ora la resurrezione del suono. L'intimità cupa del piano porta più volte alla luce la nascita serpentina, finché amore e dolore si intrecciano nell'agonizzante vittoria.
Non v'era alcun dubbio per me che queste fossero la frase e la sonata.
L'ombra improvvisa cadeva come un pugno sulla mia casa sperduta fra le palme da cocco di Wellawatha, ma ogni sera la sonata viveva con me, trascinandomi ed avvolgendomi, dandomi la sua perpetua tristezza, la sua vittoriosa malinconia.
I critici che hanno con tanto impegno vagliato le mie opere, non hanno finora visto questa segreta influenza che va qui confessata. Infatti lì, a Wellawatha, scrissi gran parte di Residencia en la Tierra. Anche se la mia poesia non è « odorosa ed aerea », ma tristemente terrestre, mi pare che quei temi, tanto ripetutamente vestiti a lutto, abbiano a che vedere con l'intimità retorica di quella musica che viveva insieme a me.
Anni dopo, tornato in Cile, incontrai in un salotto, insieme e giovani, i tre grandi della musica cilena. È stato credo nel 1932, in casa di Marta Brunet.
Claudio Arrau conversava in un angolo con Domingo Santa Cruz e Armando Carvajal. Mi avvicinai, ma mi guardarono appena. Continuarono a parlare imperturbabili di musica e di musicisti. Cercai allora di farmi bello parlando loro di quella sonata, l'unica che conoscevo.
Mi guardarono distrattamente e dall'alto mi dissero:
— César Frank? Perché César Frank? Quello che devi conoscere è Verdi.
E continuarono la loro conversazione, seppellendomi in una ignoranza da cui ancora non esco.
SINGAPORE
La verità è che la solitudine di Colombo era non solo pesante, ma addirittura letargica. Nella viuzza in cui vivevo, avevo solo pochi amici. Amiche di vari colori passavano per la mia branda senza lasciare altra storia che il lampo fisico. Il mio corpo era un rogo solitario che bruciava notte e giorno su quella costa tropicale. La mia amica Patsy veniva spesso con alcune sue compagne, ragazze brune e dorate, con sangue di boeri, di inglesi, di dravidi. (30) Venivano a letto con me sportivamente e disinteressatamente.
Una di quelle ragazze mi raccontò le loro visite alle chumeries. Era questo il nome dei bungalows in cui gruppi di giovani inglesi, piccoli impiegati di negozi e di compagnie, vivevano in comune per risparmiare soldi e cibo. Senza alcun cinismo, come una cosa naturale, la ragazza mi raccontò che una volta aveva fornicato con quattordici di loro.
— E come hai fatto? — le chiesi.
— Quella sera ero sola con loro; facevano una festa. Avevano messo dei dischi sul grammofono e io ballavo un po' con ciascuno, e durante il ballo ci perdevamo in qualcuna delle stanze da letto. E così sono stati tutti contenti.
Non era una prostituta. Era piuttosto un prodotto coloniale, un frutto candido e generoso. Il suo racconto mi impressionò e per lei non ebbi più altro che simpatia.
Il mio solitario ed isolato bungalow era quanto di più lontano si possa immaginare dalle comodità e dagli agi della civiltà. Quando lo presi in affitto cercai di sapere dove fosse il gabinetto che non si vedeva da nessuna parte. E infatti era molto lontano dalla stanza da bagno; verso il retro della casa.
Lo esaminai con curiosità. Era una cassa di legno con un buco al centro, molto simile all'aggeggio che conobbi nella mia infanzia contadina, nel mio paese. Ma i nostri erano posti su un pozzo profondo o su una corrente d'acqua. Qui il deposito era un semplice cubo di metallo sotto il buco rotondo.
Il cubo ogni giorno, di buon mattino, riappariva pulito senza che riuscissi a capire come sparisse il suo contenuto. Una mattina mi ero alzato più presto del solito. Rimasi sbalordito vedendo cosa stava succedendo.
Dal retro della casa, come una statua scura che camminasse, entrò la donna più bella che avessi fino a quel momento visto in Ceylon, di razza tamil, della casta dei paria. Era vestita di un sari rosso e dorato, della tela più ruvida e grossolana. Alle caviglie, sui piedi scalzi, portava pesanti braccialetti. Ai lati del naso le brillavano due puntini rossi. Saranno stati fondi di bicchiere, ma su di lei parevano rubini.
Si diresse con passo solenne verso il gabinetto, senza neppure guardarmi, senza curarsi della mia esistenza, e scomparve col sordido recipiente sulla testa, allontanandosi col suo passo da dea.
Era così bella che malgrado il suo umile lavoro mi lasciò turbato. Come se si trattasse di un animale scontroso, venuto dalla giungla, apparteneva ad un'altra vita, ad un mondo separato. La chiamai senza risultato. Poi qualche volta, sulla sua strada, le lasciai qualche regalo, seta o frutta. La donna passava senza sentire né guardare. Quel tragitto miserabile era stato trasformato dalla sua oscura bellezza nella cerimonia obbligatoria di una regina indifferente.
Un mattino, deciso a tutto, la afferrai per un polso e la guardai faccia a faccia. Non c'era nessun lingua in cui potessi parlarle. Si lasciò guidare da me senza un sorriso e ad un tratto fu nuda sul mio letto. La sottilissima vita, i fianchi pieni, la traboccante coppa del seno, la rendevano identica alle millenarie sculture del sud dell'India. Fu l'incontro di un uomo e di una statua. Rimase tutto il tempo con gli occhi aperti, impassibile. Faceva bene a disprezzarmi. L'esperienza non venne più ripetuta.
Mi costò fatica leggere il cablogramma. Il Ministero degli Esteri mi comunicava una nuova nomina. Smettevo di essere console a Colombo per svolgere identiche funzioni a Singapore e a Batavia. (31) Questa nuova nomina mi faceva salire dal primo cerchio della miseria al secondo. A Colombo avevo diritto ad avere (se arrivavano) la somma di centosessantasei dollari e sessantasei centesimi. Ora, essendo console in due colonie contemporaneamente, avrei potuto riscuotere (se arrivavano) due volte centosessantasei dollari e sessantasei centesimi, cioè la somma di trecentotrentatre dollari e trentadue centesimi (se arrivavano). Il che voleva dire, per l'immediato, che avrei smesso di dormire
su un letto da campo. Le mie aspirazioni materiali non erano eccessive.
Ma che cosa avrei fatto di Kiria, la mia mangusta? L'avrei regalata ai bimbi irrispettosi del quartiere che ormai non credevano più al suo potere contro i serpenti? Neanche per sogno. L'avrebbero trascurata, non l'avrebbero lasciata mangiare a tavola com'era abituata con me. L'avrei liberata nella foresta perché tornasse al suo stato primitivo? Mai. Aveva senza dubbio perduto i suoi istinti di difesa e gli uccelli rapaci l'avrebbero divorata senza che nemmeno se ne accorgesse. D'altra parte, come portarla con me? Sulla nave non avrebbero accettato un passeggero tanto singolare.
Decisi allora di farmi accompagnare nel viaggio da Brampy, il mio « boy » cingalese. Era una spesa da milionario ed anche una pazzia, perché saremmo andati in paesi — Malesia, Indonesia — di cui Brampy non conosceva affatto la lingua. Ma la mangusta avrebe potuto viaggiare in incognito, nella baraonda del ponte, inosservata dentro un cestino. Brampy la conosceva bene quanto me. Il problema era la dogana, ma lo scaltro Brampy si sarebbe incaricato di eluderne la sorveglianza.
E in questo modo, con tristezza, allegria e mangusta, lasciammo l'isola di Ceylon, in rotta verso un altro mondo sconosciuto.
Sarà difficile capire perché il Cile avesse tanti consolati disseminati dovunque. Ed è infatti strano che una piccola repubblica, relegata vicino al Polo Nord, spedisca e mantenga rappresentanti ufficiali in arcipelaghi, coste e scogliere all'altro capo del mondo.
In fondo — dico io — questi consolati erano il prodotto della fantasia e della «self-importance» che noi sudamericani siam soliti darci. D'altra parte ho già detto che in quelle località lontanissime si imbarcavano per il Cile yuta, paraffina solida per fabbricare candele e, soprattutto, tè, molto tè. Noi cileni beviamo tè quattro volte al giorno. E non possiamo coltivarlo. Una volta scoppiò un immenso sciopero di operai del salnitro per mancanza di questo prodotto esotico. Ricordo che alcuni esportatori inglesi mi chiesero una volta, dopo alcuni whisky, che cosa facevamo noi cileni con tali esorbitanti quantità di tè.
— Lo beviamo — dissi loro.
(Se credevano di strapparmi il segreto di qualche speculazione industriale, rimasero senz'altro delusi).
Il consolato di Singapore esisteva già da dieci anni. Sbarcai quindi con la fiducia che mi davano i miei ventitré anni, sempre accompagnato da Brampy e dalla mia mangusta. Andammo direttamente al Raffles Hotel. Lì, mandai a lavare tutta la mia roba, che non era poca, e mi sedetti sulla veranda. Mi distesi pigramente su una easychair e chiesi uno, due, e infine tre ginpahit.
Tutto faceva molto Somerset Maugham (32) finché non cercai sulla guida del telefono l'indirizzo del mio consolato. Non era registrato, diavolo! Feci subito una chiamata urgente al consolato inglese. Mi risposero, dopo essersi consultati, che lì non esisteva consolato del Cile. Chiesi allora notizie del console, il signor Mansilla. Non lo conoscevano.
Cominciai a preoccuparmi. Avevo appena i soldi per pagare un giorno d'albergo e la lavatura dei vestiti. Pensai che forse il consolato fantasma aveva la sua sede a Batavia e decisi di continuare il viaggio sulla stessa nave con cui ero arrivato, e che appunto andava
a Batavia ed era ancora in porto. Ordinai di tirar fuori i vestiti dalla caldaia in cui erano a mollo, Brampy ne fece un involto umido, e ci mettemmo in cammino verso i moli.
Stavano già levando la scaletta di bordo. Salii ansante i gradini. I miei ex compagni di viaggio e gli ufficiali della nave mi guardarono sorpresi. Mi sistemai nella stessa cabina che avevo lasciato la mattina e, supino sul letto, chiusi gli occhi mentre il vapore si allontanava dal fatidico porto.
Sulla nave avevo conosciuto una ragazza ebrea. Si chiamava Kruzi. Era bionda, grassottella, con occhi color arancia e una allegria traboccante. Mi disse che aveva una buona sistemazione a Batavia. Durante la festa d'addio della traversata le stetti vicino. Fra un
bicchiere e l'altro mi trascinava a ballare. Io la seguivo goffamente nelle lente contorsioni che s'usavano in quell'epoca. Quell'ultima notte ci mettemmo a far l'amore nella mia cabina, amichevolmente, coscienti che i nostri destini si incontravano a caso e per una sola volta. Le raccontai le mie sventure. Lei mi consolò dolcemente e la sua tenerezza passeggera mi giunse all'anima.
Kruzi, dal canto suo, mi confessò la vera occupazione che l'attendeva a Batavia. C'era una certa organizzazione, più o meno internazionale, che collocava ragazze europee nei letti di asiatici rispettabili. A lei avevano fatto scegliere fra un maragià, un principe del Siam, e un ricco commerciante cinese. Si decise per quest'ultimo, un uomo giovane ma tranquillo.
Quando, il giorno dopo, sbarcammo, scorsi la Rolls Royce del magnate cinese, e persino il profilo del padrone attraverso le tendine a fiori dell'automobile. Kruzi scomparve fra la folla ed i bagagli.
Io mi installai all'hotel Der Nederlanden. Mi preparavo ad andare a tavola, quando vidi entrare Kruzi. Si gettò fra le mie braccia, soffocata dal pianto.
— Mi espellono di qui. Debbo partire domani.
— Ma chi ti espelle, perché ti espellono?
Mi raccontò fra i singhiozzi la sua disgrazia. Stava per salire sulla Rolls Royce, quando gli agenti dell'immigrazione l'arrestarono per sottoporla ad un interrogatorio brutale. Dovette confessare tutto. Le autorità olandesi giudicarono un grave delitto che potesse vivere in concubinato con un cinese. La rimisero finalmente in libertà, con la promessa di non far visita al suo spasimante e con l'altra promessa di imbarcarsi il giorno dopo, sulla stessa nave su cui era arrivata e che tornava in occidente.
Quello che più la feriva era aver deluso l'uomo che l'aspettava, sentimento cui sicuramente non era estranea l'imponente Rolls Royce. Ma in fondo Kruzi era una sentimentale. Nelle sue lacrime c'era molto più dell'interesse frustrato: si sentiva umiliata ed offesa.
— Sai il suo indirizzo? E il suo numero di telefono? — le chiesi.
— Sì — mi rispose. — Ma ho paura che mi arrestino. M'hanno minacciato di chiudermi in galera.
— Non hai niente da perdere. Vai a trovare l'uomo che ha pensato a te senza conoscerti. Gli sei debitrice almeno di qualche parola. Che cosa ti interessa ormai dei poliziotti olandesi? Vendicati di loro. Va a trovare il tuo cinese. Prendi delle precauzioni, e falla in barba a quelli che ti hanno umiliata. Vedrai che ti sentirai meglio. Mi sembra che così te ne andrai più contenta da questo paese.
Quella notte, tardi, la mia amica ritornò. Era andata a trovare il suo ammiratore per corrispondenza. Mi raccontò l'incontro. L'uomo era un orientale francesizzato e letterato. Parlava correntemente il francese. Era sposato, secondo le norme dell'onorevole matrimonialità cinese, e si annoiava moltissimo.
Il pretendente giallo aveva preparato, per la fidanzata bianca che arrivava dall'occidente, un bungalow con giardino, zanzariere, mobili Luigi XIV, e un gran letto che quella sera venne collaudato. Il padrone di casa le fece vedere le piccole raffinatezze che teneva in serbo per lei, le forchette e i coltelli d'argento (solo lui mangiava con le bacchette), il bar con bevande europee, il frigorifero pieno di frutta.
Poi si fermò davanti ad un baule ermeticamente chiuso. Tirò fuori una piccola chiave dai pantaloni, aprì quello scrigno e mostrò agli occhi di Kruzi il più strano dei tesori: centinaia di mutande da donna, combinazioni sottili, slippini minuscoli. Capi intimi da donna, a centinaia o migliaia, riempivano quel mobile santificato dall'acido profumo del sandalo. Lì erano riunite tutte le sete, tutti i colori. La gamma andava dal violetto al giallo, dai molteplici rosati ai verdi segreti, dai rossi violenti ai neri fulgenti, dagli elettrici celesti ai bianchi nuziali. Tutto l'arcobaleno della concupiscenza maschile di un feticista che, senza dubbio, collezionò quel florilegio per compiacere la propria voluttà.
— Sono rimasta sbalordita — disse Kruzi, tornando ai singhiozzi, — Ho preso a caso un pugno di quegli indumenti e li ho portati qui.
Mi sentii anch'io commosso dal mistero umano. Il nostro cinese, un serio commerciante, importatore o esportatore, faceva collezione di mutande da donna come
se fosse un cacciatore di farfalle. Chi l'avrebbe mai pensato?
— Lasciamene un paio — dissi alla mia amica.
Scelse delle mutande bianche e verdi e le accarezzò dolcemente prima di darmele.
— Fammi la dedica Kruzi, per favore.
Allora le stirò con cura e scrisse il mio nome e il suo sulla superficie di seta, che bagnò anche con alcune lacrime.
Il giorno dopo partì senza che la vedessi, e senza che l'abbia mai più rivista. Le vaporose mutande, con la sua dedica e le sue lacrime, viaggiarono nelle mie valige, mescolate ai miei vestiti e ai miei libri, per moltissimi anni. Non so né quando né come una visitatrice prepotente e fedifraga se ne uscì di casa mia con quelle mutande addosso.
BATAVIA
In quei tempi in cui non esistevano ancora i motels, l'hotel Nederlanden era insolito. Aveva un grande corpo centrale, destinato a sala da pranzo e ad uffici, e bungalows per ogni viaggiatore, separati fra loro da piccoli giardini e da alberi poderosi. Fra le alte chiome di quegli alberi vivevano un'infinità di uccelli, di scoiattoli che volavano da un ramo all'altro e di insetti che stridevano come nella foresta. Brampy si impegnò tutto nell'accudire la mangusta, sempre più inquieta nella sua nuova residenza.
Qui sì che c'era il consolato del Cile. Per lo meno figurava sulla guida del telefono. Il giorno dopo, riposato e meglio vestito, mi diressi agli uffici del consolato. Lo scudo consolare del Cile era appeso sulla facciata di un grande edificio. Era una compagnia di navigazione. Qualcuno del numeroso personale mi condusse all'ufficio del direttore, un olandese colorito e voluminoso. Non aveva l'aspetto di un direttore di compagnia di navigazione, ma piuttosto quello d'uno scaricatore di porto.
— Sono il nuovo console del Cile — mi presentai. — Comincio col ringraziarla dei suoi servigi e la prego di mettermi al corrente dei principali affari del consolato. Voglio prendere subito possesso della mia carica.
— Qui non c'è nessun altro console all'infuori di me! — rispose furibondo.
— Come sarebbe?
— Cominciate a pagarmi quello che mi dovete — urlò.
Forse quell'uomo si intendeva di navigazione, ma la cortesia non la conosceva in nessuna lingua. M'assaliva gridando le sue frasi e dando morsi rabbiosi ad un pessimo cheruto (33) che appestava l'aria.
L'energumeno non mi dava quasi possibilità di interromperlo. La sua indignazione e il cheruto gli provocavano fragorosi attacchi di tosse, se non addirittura dei gargarismi che finivano in sputi. Finalmente potei pronunciare una frase in mia difesa:
— Signore, io non le debbo niente e non debbo pagarle niente. Ritengo che lei sia console ad honorem, cioè, onorario. E se questo le sembra discutibile, non credo che si possa risolvere con delle urla che non sono disposto a stare a sentire.
In seguito scoprii che il rozzo olandese non aveva tutti i torti. Il tipo era stato vittima di una vera e propria truffa, di cui, naturalmente, non eravamo colpevoli né io né il governo del Cile. Era Mansilla il tortuoso personaggio che provocava le ire dell'olandese. Scoprii che questo Mansilla non svolse mai le sue funzioni di console a Batavia; che viveva a Parigi da molto tempo. Aveva fatto un patto con l'olandese perché questi espletasse le sue mansioni consolari e gli inviasse ogni mese le carte e il denaro degli incassi. Mansilla, in cambio, si impegnava a pagargli una somma mensile che non gli pagò mai. Di qui l'indignazione di questo olandese terrestre che mi piombò sulla testa come il crollo di un cornicione.
Il giorno dopo mi sentii infinitamente malato. Febbre maligna, influenza, depressione ed emorragia. Avevo caldo e sudavo. Mi usciva sangue dal naso come nella mia infanzia, a Temuco, al freddo di Temuco.
Facendo uno sforzo per sopravvivere, mi recai al palazzo del governo. Si trovava a Buitenzor, in pieno e splendido Giardino Botanico. I burocrati alzarono con difficoltà i loro occhi azzurri dalle carte bianche. Presero matite che traspiravano anch'esse e scrissero il
mio nome con alcune gocce di sudore.
Uscii peggio di quando entrai. Camminai per i viali fino a sedermi sotto un albero immenso. Qui tutto era sano e fresco, la vita respirava tranquilla e poderosa. Gli alberi giganteschi innalzavano di fronte a me i loro tronchi diritti, lisci ed argentati, fino a cento metri di altezza. Lessi la targa smaltata che li classificava. Erano varietà di eucalipto, a me sconosciute. Dall'immensa cima scese fino a me un'onda fresca di profumo. Quell'imperatore fra gli alberi si era impietosito di me, e una raffica del suo aroma m'aveva ridato la salute.
O forse sarà stata la solennità verde del Giardino Botanico, l'infinita varietà delle foglie, l'intreccio delle liane, le orchidee che scoppiavano come stelle fra il fogliame, la profondità sottomarina di quel recinto forestale, il grido dei macao, (34) lo strillo delle scimmie, tutto
questo mi ridette fiducia nel mio destino e la mia gioia di vivere, che si andavano spegnendo come una candela consumata.
Tornai ritemprato all'hotel, mi sedetti sulla veranda del mio bungalow con della carta da lettere e la mia mangusta appollaiata sulla tavola, e decisi di spedire un telegramma al governo del Cile. Mi mancava l'inchiostro. Fu allora che chiamai il boy dell'hotel e gli chiesi in inglese ink perché mi portasse un calamaio. Non dimostrò il minimo segno di comprensione. Si limitò a chiamare un altro boy, anche lui vestito di bianco e scalzo, perché l'aiutasse ad interpretare i miei enigmatici desideri. Non c'era niente da fare. Quando dicevo ink e muovevo la mia penna intingendola in un calamaio immaginario, i sette o otto boys che si erano riuniti per consigliare il primo, ripetevano all'unisono la mia manovra con una penna che cavavano di tasca, ed esclamavano con impeto: ink, ink, morendo dalle risate. Gli sembrava di imparare un nuovo rito. Disperato mi slanciai verso il bungalow di fronte, seguito dalla sfilza di inservienti vestiti di bianco. Da un tavolo solitario presi un calamaio che per miracolo si trovava lì, e brandendo davanti ai loro occhi sbalorditi, gridai loro:
— This! This!
— Tinta! Tinta! (35)
Così scoprii che l'inchiostro in malese si chiama « tinta » come in spagnolo.
Arrivò il momento in cui mi venne restituito il diritto di prendere possesso della mia carica di console. Il mio patrimonio conteso era costituito da: un timbro di gomma consunto, un cuscinetto per inchiostrarlo e delle cartellette di documenti che contenevano somme e sottrazioni. Le sottrazioni erano finite nelle tasche dello scaltro console che operava da Parigi. L'olandese ingannato mi consegnò quel pacco insignificante, senza smettere di masticare il suo cheruto con un sorriso freddo, da mastodonte deluso.
Di tanto in tanto firmavo delle fatture consolari su cui apponevo lo sgangherato sigillo ufficiale. Così mi arrivavano i dollari che, cambiati in gulders, bastavano appena a sostenere le mie esigenze: l'alloggio, il cibo per me, la paga di Brampy e il mantenimento della mia
mangusta Kiria che cresceva a vista d'occhio e si mangiava tre o quattro uova al giorno. Dovetti inoltre comperarmi uno smocking bianco e un frac che mi impegnai a pagare a rate mensili. A volte, e quasi sempre solo, mi sedevo negli affollati caffè all'aperto, accanto agli ampi canali, a bere birra o ginpahit. Ripresi cioè la mia vita di tranquillità disperata.
La rice-table del ristorante dell'hotel era maestosa. In sala da pranzo entrava una processione di dieci, quindici camerieri che sfilavano di fronte a ciascuno con i rispettivi vassoi tenuti alti. Ognuno di questi vassoi era diviso in scomparti in ciascuno dei quali brilla un cibo misterioso. Su una base di riso quell'infinità commestibile innalzava la propria sostanza. Io, che sono stato sempre goloso e per molto tempo denutrito, prendevo
qualcosa da ciascuno dei vassoi, da ciascuno dei quindici o diciotto camerieri, finché il mio piatto si trasformava in una piccola montagna in cui i pesci esotici, le uova indecifrabili, le verdure inaspettate, i polli e le carni insolite, coprivano come una bandiera la cima della mia tavola. I cinesi dicono che il pranzo deve avere tre qualità: sapore, odore e colore. La rice-table del mio hotel assommava queste tre virtù, e un'altra ancora: l'abbondanza.
In quei giorni persi Kiria, la mia mangusta. Kiria aveva la pericolosa abitudine di seguirmi dovunque, a passettini rapidissimi e impercettibili. Venirmi dietro significava lanciarsi per le strade attraversate da automobili, camion, risciò, pedoni olandesi, cinesi, malesi. Un mondo turbolento per una candida mangusta che non conosceva che due persone al mondo.
Accadde l'inevitabile. Tornando all'hotel e guardando Brampy, mi resi conto della tragedia. Non gli chiesi niente. Ma quando mi sedetti sulla veranda, la bestiola non mi saltò sulle ginocchia, e non mi passò la pelosissima coda sulla testa.
Misi un avviso sui giornali: «Smarrita una mangusta. Risponde al nome di Kiria ». Nessuno rispose. Nessun vicino la vide. Forse era già morta. Scomparve per sempre.
Brampy, il suo guardiano, si sentì talmente depresso che per molto tempo non si fece vedere. I miei vestiti, le mie scarpe, erano curati da un fantasma. A volte mi pareva di sentire lo strillo di Kiria che mi chiamava da qualche albero notturno. Accendevo la luce, aprivo porte e finestre, scrutavo le palme. Non era lei. Il mondo che Kiria conosceva si era trasformato in una gran truffa; la sua fiducia era crollata nella foresta minacciosa della città. Mi sentii per molto tempo afflitto da malinconia.
Brampy, avvilito, decise di tornare al suo paese. Mi dispiacque molto ma, in realtà, l'unica cosa che ci univa era quella mangusta. Un pomeriggio venne a farmi vedere l'abito nuovo che s'era comprato per andare ben vestito al paese natale, a Ceylon. Comparve ad un
tratto vestito di bianco e abbottonato fino al collo. La cosa più sorprendente era un immenso cappello da chef che s'era infilato sulla scurissima testa. Scoppiai in una risata incontenibile. Brampy non si offese. Anzi, mi sorrise con gran dolcezza, con un sorriso comprensivo per
la mia ignoranza.
La via in cui si trovava la mia nuova casa a Batavia si chiamava Probolingo. La casa era composta da una sala, una camera da letto, una cucina, un bagno. Non ebbi mai automobile, ma avevo però un garage che rimase sempre vuoto. Lo spazio mi cresceva in quella casa minuscola. Presi una cuoca giavanese, una vecchia contadina, egualitaria e incantatrice. Un boy, lui pure giavanese, serviva a tavola e mi lavava i vestiti. Lì terminai Residencia en la Tierra.
La mia solitudine si raddoppiò. Pensai di sposarmi. Avevo conosciuto una meticcia, cioè un'olandese con alcune gocce di sangue malese, che mi piaceva molto. Era una donna alta e dolce, del tutto estranea al mondo delle arti e delle lettere. (Parecchi anni dopo, la mia biografa ed amica Margarita Aguirre avrebbe scritto a proposito di quel mio matrimonio, quanto segue: « Neruda tornò in Cile nel 1932. Due anni prima si era sposato a Batavia con Maria Antonietta Agenaar, una giovane olandese che viveva a Giava. Ella è molto orgogliosa di essere la moglie di un console ed ha dell'America un'idea piuttosto esotica. Non sa lo spagnolo e comincia ad impararlo. Ma non c'è dubbio che non è solo la lingua ciò che non impara. Malgrado tutto, il suo attaccamento sentimentale a Neruda è molto forte, e li si vede sempre insieme. Maruca, così la chiama Pablo, è altissima, lenta, ieratica».
La mia vita era abbastanza semplice. Ben presto conobbi altre persone amabili. Il console cubano e sua moglie furono miei cari amici, uniti a me dalla lingua. Il compatriota di Copablanca parlava senza posa, come una macchina permanente. Ufficialmente era il rappresentante di Machado, (36) il tiranno di Cuba. Mi raccontava però, che gli oggetti appartenenti ai prigionieri politici, orologi, anelli e, a volte, denti d'oro, riapparivano nel ventre dei pescacani pescati nella baia dell'Avana.
Il console tedesco Hertz adorava l'arte moderna, i cavalli azzurri di Franz Marc, le figure allungate di Wilhelm Lehmbruck. (37) Era una persona sensibile e romantica, un ebreo con secoli di cultura alle spalle. Una volta gli chiesi:
— E questo Hitler il cui nome appare di tanto in tanto sui giornali, questo antisemita ed anticomunista fanatico, non crede che possa prendere il potere?
— Impossibile — mi disse.
— Come impossibile, se nella storia si vedono realizzate proprio le più grandi assurdità?
— Il fatto è che lei non conosce la Germania — sentenziò. — Lì è veramente impossibile che un agitatore pazzo come quello possa governare, neppure in un villaggio.
Povero amico mio, povero console Hertz! Quell'agitatore pazzo per poco non ha governato il mondo intero. E l'ingenuo Hertz deve essere finito in un'anonima e mostruosa camera a gas, con tutta la sua cultura e il suo nobile romanticismo.
Quaderno 5
LA SPAGNA NEL CUORE
COM'ERA FEDERIGO
Un lungo viaggio (1) per mare di due mesi, nel 1932, mi riportò in Cile. Qui pubblicai El hondero entusiasta, (2) che era andato smarrito fra le mie carte, e Residencia en la Tierra, (3) che avevo scritto in Oriente. Nel 1933 mi nominarono console a Buenos Aires, dove giunsi in
agosto.
Quasi contemporaneamente arrivò a Buenos Aires Federico Garcia Lorca, per dirigere e mettere in scena per la prima volta la sua tragedia teatrale intitolata Bodas de Sangre (4) con la compagnia di Loia Membrives. Non ci conoscevamo ancora, ma ci conoscemmo a
Buenos Aires e fummo spesso festeggiati insieme da scrittori e amici. Certamente non mancarono incidenti. Federico aveva dei detrattori. Anche a me capitava e continua a capitare lo stesso. (5) Queste persone si sentono incoraggiate e vogliono spegnere la luce perché uno scompaia. E quella volta andò appunto così. Dato che c'era interesse ad assistere al banchetto che il Pen Club offriva a me e a Federico all'Hotel Plaza, qualcuno fece funzionare i telefoni tutto il giorno per comunicare che la cerimonia era stata annullata. E furono tanto zelanti che chiamarono persino il direttore dell'hotel, la telefonista, il capo-cuoco, perché non accettassero adesioni né preparassero la cena. Ma la manovra fu sventata ed alla fine Federico Garcia Lorca ed io ci trovammo insieme, con altri cento scrittori argentini.
Decidemmo di fare una grande sorpresa. Avevamo preparato un discorso ad alimón. Probabilmente voi non sapete che cosa significa questa parola, e del resto neppure io lo sapevo. Federico, che era sempre pieno di invenzioni e di trovate, mi spiegò:
« Due toreri possono toreare contemporaneamente contro uno stesso toro e con un'unica cappa. È uno degli esercizi più pericolosi dell'arte taurina. Per questo vi si assiste pochissime volte. Non più di due o tre volte in un secolo, e possono farlo solo due toreri che
siano fratelli o che, almeno, abbiano sangue comune. E questo quello che si chiama toreare ad alimón. Ed è quanto faremo in un discorso ».
Ed è appunto quello che facemmo, ma nessuno lo sapeva. Quando ci alzammo per ringraziare il presidente del Pen Club del banchetto che ci era stato offerto, ci alzammo contemporaneamente, come due toreri, per un solo discorso. E dato che la cena si era svolta in tavolini separati, Federico si trovava ad un'estremità della sala ed io all'altra, in modo che, da una parte, la gente mi tirava per la giacca perché mi sedessi credendo ad uno sbaglio, e, dall'altra, facevano lo stesso con Federico. Cominciammo dunque a parlare contemporaneamente, Federico dicendo « Signori » ed io continuando con « Signore », ed alternando fino alla fine le nostre frasi, in modo che il discorso parve una sola unità fino a che non smettemmo di parlare. Quel discorso venne dedicato a Rubén Darío, (6) perché tanto io che Garcia Lorca, senza che ci si potesse sospettare d'essere modernisti, ritenevamo Rubén Darío uno dei grandi creatori del linguaggio poetico nella lingua spagnola.
Ho qui il testo del discorso:
NERUDA: Signore...
LORCA: ... e signori: Esiste nell'arte dei tori un esercizio chiamato « toreo del alimón » in cui due toreri schivano il corpo del toro coperti dalla stessa cappa.
NERUDA: Federico ed io, legati da un filo elettrico, giostreremo insieme e risponderemo in questo ricevimento tanto decisivo.
LORCA: È abitudine di queste riunioni che i poeti mostrino la loro parola viva, argento o legno, e salutino con la loro voce i compagni e gli amici.
NERUDA: Ma noi richiameremo fra voi un morto, un commensale vedovo, oscuro nelle tenebre d'una morte più grande d'altre morti, vedovo della vita, di cui ai suoi tempi è stato marito abbagliante, ci nasconderemo sotto la sua ombra ardente, e ripeteremo il suo nome finché il suo potere esca dall'oblio.
LORCA: Noi, dopo aver inviato il nostro abbraccio con tenerezza da pinguino al delicato poeta Amado Villar, (7) lanceremo un gran nome sulla tovaglia, certi che si devono rompere i bicchieri, e le forchette saltare, cercando l'occhio per cui si struggono, e un colpo di mare deve macchiare la tovaglia. Noi nomineremo il poeta d'America e di Spagna: Rubén...
NERUDA: Darío. Perché signore...
LORCA: e signori...
NERUDA: Dov'è, a Buenos Aires, la piazza di Rubén Darío?
LORCA: Dov'è la statua di Rubén Darío?
NERUDA: Egli amava i parchi. Dov'è il parco Rubén Darío?
LORCA: Dov'è la bancarella di rose di Rubén Darío?
NERUDA: Dove sono il melo e le mele di Rubén Darío?
LORCA: Dov'è la mano tagliata di Rubén Darío?
NERUDA: Dove?
LORCA: Rubén Darío dorme nel suo « Nicaragua natale » (8) sotto il suo spaventoso leone di marmo, come quei leoni che i ricchi mettono sui portoni dei loro palazzi.
NERUDA: Un leone da farmacia, al fondatore di leoni, un leone senza stelle a chi dedicava stelle.
LORCA: Ha restituito il rumore della foresta con un aggettivo, e come frate Luis de Granada, (9) capo di lingue, ha fatto segni stellari col limone, e la zampa del cervo, e i molluschi pieni di terrore infinito: ci ha deposto il mare con fregate ed ombre nelle pupille dei nostri occhi e ha costruito un enorme passeggio di gin sul pomeriggio più grigio che il cielo abbia mai avuto e a tu per tu ha salutato il libeccio oscuro, tutto petto, come un poeta romantico, e ha posato la mano sul capitello corinzio con un dubbio ironico e triste di tutte le
epoche.
NERUDA: Merita ricordare il suo nome rosso nelle sue direzioni essenziali con i suoi terribili dolori di cuore, la sua incertezza incandescente, la sua discesa alle spirali dell'inferno, la sua ascesa ai castelli della fama, i suoi attributi di poeta grande, da allora e per sempre
e imprescindibile.
LORCA: Come poeta spagnolo ha insegnato in Spagna ai vecchi maestri e ai bambini, con un senso di universalità e di generosità che manca ai poeti attuali. Ha insegnato a Valle Inclàn, (10) e a Juan Ramón Jiménez, (11) e ai fratelli Machado, (12) e la sua voce fu acqua e salnitro, nel solco della venerabile lingua. Da Rodrigo Caro (13) agli Argensolas (14) a don Juan Arguijo, (15) lo spagnolo non aveva avuto feste di parole, urti di consonanti, luci e forma come in Rubén Darío. Dal paesaggio di Velàzquez e dal rogo di Goya e dalla malinconia di Quevedo al culto color mela delle contadine majorchine, Darío percorse la terra di Spagna come la propria terra.
NERUDA: Lo portò in Cile una marea, il mare caldo del Nord, e lì lo lasciò il mare, abbandonato sulla costa dura e dentata, e l'oceano lo colpiva con spume e campane, e il vento nero di Valparaíso lo riempiva di sale sonoro. Innalziamo questa notte la sua statua con l'aria attraversata dal fumo e dalla voce, dalle circostanze e dalla vita, come la sua poesia magnifica è attraversata da sogni e da suoni.
LORCA: Ma su questa statua d'aria io voglio deporre il suo sangue come un ramo di corallo agitato dalla marea, i suoi nervi identici alla fotografia d'un gruppo di fulmini, la sua testa di minotauro in cui la neve gongorina (16) è dipinta da un volo di colibrì, i suoi occhi vaghi ed assenti da milionario di lacrime, e anche i suoi difetti. Gli scaffali ormai consunti dai sisimbri, (17) dove suonano vuoti di flauto, le bottiglie di cognac della sua drammatica ubriachezza, e il suo cattivo gusto incantatore, e le sue zeppe sfacciate che riempiono d'umanità la moltitudine dei suoi versi. Fuori da norme, forme e sproni resta in piedi la feconda sostanza della sua grande poesia.
NERUDA: Federico Garcia Lorca, spagnolo, ed io, cileno, decliniamo la responsabilità di questa notte da compagni, verso quella grande ombra che cantò in maniera più alta di noi, e salutò con voce inusitata la terra argentina che calpestiamo.
LORCA: Pablo Neruda, cileno, ed io, spagnolo, abbiamo in comune la lingua e il gran poeta nicaraguegno, argentino, cileno e spagnolo, Rubén Darío.
NERUDA e LORCA: Alla cui salute e gloria leviamo il nostro bicchiere.
Ricordo che una volta ebbi da Federico un aiuto insperato in una avventura eretico-cosmica. Una sera eravamo stati invitati da un milionario, uno di quelli che solo l'Argentina o gli Stati Uniti potevano produrre. Si trattava di un uomo ribelle ed autodidatta che s'era fatta una fortuna favolosa con un giornale scandalistico. La sua casa, circondata da un parco immenso, era l'incarnazione dei sogni di un vibrante nuovo ricco. Centinaia di gabbie di fagiani di tutti i colori e di tutti i paesi costeggiavano i sentieri. La biblioteca era coperta solo da libri antichissimi che il milionario acquistava via cablo nelle aste dei bibliografi europei, e per giunta era enorme e piena. Ma la cosa più spettacolare era che il pavimento di questa immensa sala di lettura era completamente ricoperto da pelli di pantera cucite l'una all'altra in modo da formare un solo e gigantesco tappeto. Seppi che l'uomo aveva agenti in Africa, in Asia e in Amazzonia il cui unico scopo era quello di raccogliere pelli di leopardo, di ocelot, gatti fenomenali, le cui chiazze stavano ora brillando sotto i miei piedi nella fastosa biblioteca.
Ecco com'era la casa del famoso Natalio Botana, capitalista poderoso, dominatore dell'opinione pubblica a Buenos Aires. Federico ed io ci sedemmo a tavola, vicino al padrone di casa, e di fronte ad una poetessa alta, bionda e vaporosa, che durante la cena rivolse i suoi occhi verdi più a me che a Federico. La cena consisteva in un bue intero portato direttamente sulle braci e sulla cenere su una colossale barella che otto o dieci gauchos trasportavano in spalla. La notte era rabbiosamente azzurra e stellata. Il profumo dell'asado con cuero, (18) sublime invenzione degli argentini, si mescolava all'aria della pampa, alla fragranza del trifoglio e della menta, al mormorio di migliaia di grilli e ranocchi.
Dopo mangiato ci alzammo tutti, io, la poetessa e Federico che parlava di tutto e di tutto rideva. Andammo verso la piscina illuminata. Garcia Lorca camminava davanti a noi e non smetteva di ridere e di parlare. Era felice. Era il suo modo di essere. La felicità era la
sua pelle.
Un'alta torre dominava la piscina luminosa. II suo candore di calce brillava alle luci della notte.
Salimmo lentamente verso il terrazzo più alto della torre. In cima. tutt'e tre, poeti di diverso stile, restammo separati dal mondo. In basso brillava l'occhio azzurro della piscina. In lontananza si udivano le chitarre e le canzoni della festa. La notte, su di noi, era così vicina e stellata che pareva afferrare le nostre teste, e immergerle nella sua profondità.
Presi fra le braccia la ragazza alta e dorata e, baciandola, mi resi conto che era una donna carnale e soda, dalle forme perfette. Con sorpresa di Federico ci stendemmo a terra sul pavimento del terrazzo, e già cominciavo a svestirla, quando avvertii sopra e vicino a noi
gli occhi smisurati di Federico, che ci guardava senza credere a quanto stava avvenendo.
— Via di qui! Vattene e bada che non salga nessuno dalla scala! — gli gridai.
Mentre sull'alto della torre si consumava il sacrificio al cielo stellato e ad Afrodite notturna, Federico corse allegramente a svolgere la sua missione di celestino e di sentinella, ma con tanta fretta e tanta sfortuna che rotolò per i gradini oscuri della torre. Io e la mia amica
dovemmo aiutarlo, con mille difficoltà. Per ben quindici giorni continuò a zoppicare.
MIGUEL HERNÁNDEZ (19)
Non rimasi a lungo al consolato di Buenos Aires. All'inizio del 1934 fui trasferito, con la stessa carica, a Barcellona. Don Tulio Maqueira era il mio capo, era cioè console generale del Cile in Spagna. È stato certamente il più gentile funzionario del servizio consolare cileno che abbia mai conosciuto. Un uomo molto severo, con la fama di scontroso, ma che con me fu straordinariamente affabile, comprensivo e cordiale.
Don Tulio Maqueira scoprì rapidamente che io facevo sottrazioni e moltiplicazioni con grandi difficoltà, e che non sapevo assolutamente fare le divisioni (cosa che non sono mai riuscito ad imparare). Allora mi disse:
— Pablo, lei deve vivere a Madrid. Là è la poesia. Qui a Barcellona ci sono quelle terribili moltiplicazioni e divisioni che non le piacciono. Basto io per questo.
Arrivando a Madrid, trasformato dalla sera alla mattina e per magia in console cileno nella capitale spagnola, conobbi tutti gli amici di Garcia Lorca e di Alberti. Erano molti. In pochi giorni io ero uno in più fra i poeti spagnoli. Naturalmente noi, spagnoli ed americani, siamo diversi. Differenza che viene sempre sottolineata con orgoglio o con errore dagli uni o dagli altri.
Gli spagnoli della mia generazione erano più fraterni, più solidali e più allegri dei miei compagni dell'America latina. Mi resi conto però che noi eravamo più universali, più addentro in altre lingue ed altre culture. Fra gli spagnoli erano pochissimi quelli che parlavano altra lingua oltre allo spagnolo. Quando Desnos e Crevel (20) vennero a Madrid, fui io che dovetti far loro da interprete perché potessero comunicare con gli scrittori spagnoli.
Uno degli amici di Federico e di Rafael era il giovane poeta Miguel Hernández. Io lo conobbi quand'era appena arrivato con ciocie e pantaloni contadini di velluto grosso dalle sue terre di Orihuela, dov'era stato pastore di capre. Pubblicai i suoi versi sulla mia rivista «Caballo verde» (21) ed ero entusiasmato dal fulgore e dal brio della sua abbondante poesia.
Miguel era talmente contadino che tutt'attorno emanava un odore di terra. Aveva un viso da zolla o da patata che si cava di tra le radici e che conserva una freschezza sotterranea. Viveva e scriveva a casa mia. La mia poesia americana, con altri orizzonti ed altre pianure, lo impressionò e lo andò cambiando.
Mi raccontava racconti terrestri di animali e d'uccelli. Questo scrittore era uscito dalla natura come una pietra intatta, con verginità selvatica e una travolgente forza vitale. Mi narrava quanto fosse impressionante poggiare le orecchie sul ventre delle capre addormentate. Così si ascoltava il rumore del latte che giunge alle mammelle, il rumore segreto che nessuno, tranne quel poeta di capre, ha potuto ascoltare.
Altre volte mi parlava del canto degli usignoli. Il Levante spagnolo, da cui proveniva, era pieno di aranci in fiore e di usignoli. Dato che nel mio paese non esiste questo uccello, questo sublime cantore, quel pazzo di Miguel voleva darmi la più viva espressione plastica
delle sue qualità. Si arrampicava su un albero della strada e dai rami più alti fischiava o trillava come i suoi amati uccelli natali.
Siccome non aveva di che vivere gli cercai un lavoro. Era duro per un poeta trovar lavoro in Spagna. Finalmente un visconte, un alto funzionario del Ministero degli Esteri, si interessò al caso e mi rispose di sì, che era d'accordo, che aveva letto i versi di Miguel, che
l'ammirava, e che questi dicesse che posto desiderava che l'avrebbe nominato. Tutto allegro dissi al poeta:
— Miguel Hernández, finalmente hai un destino. Il visconte ti mette a posto. Sarai un alto impiegato. Dimmi che lavoro desideri fare e ti faranno avere la nomina.
Miguel si fece pensoso. Il suo volto dalle grandi rughe premature si ricoprì d'un velo di cavilli. Passarono le ore e solo la sera mi rispose. Con gli occhi brillanti di chi ha trovato la soluzione della propria vita, mi disse:
— Il visconte non potrebbe affidarmi un gregge di capre, qui, vicino a Madrid?
Il ricordo di Miguel Hernández non può fuggirmi dalle radici del cuore. Il canto degli usignoli del Levante, le loro torri di suono erette fra l'oscurità e le zagare, erano per lui presenza ossessiva, e parte della materia del suo sangue, della sua poesia terrena e silvestre, in cui s'univano tutti gli eccessi del colore, del profumo e della voce del Levante spagnolo, con l'abbondanza e la fragranza di una poderosa e maschia giovinezza.
Il suo viso era il viso della Spagna. Tagliato dalla luce, rugoso come un campo seminato, con un che di rotondo di pane e di terra. I suoi occhi brucianti, che ardevano in questa superficie bruciata ed indurita dal vento, erano due fulmini di forza e di tenerezza.
Dalle sue parole vidi uscire gli elementi stessi della poesia, ma trasfigurati ora da una nuova grandezza, da uno splendore selvatico, dal miracolo del sangue vecchio trasformato in figlio. Nei suoi anni di poeta, e di poeta errante, posso affermare che la vita non m'ha dato contemplare un egual fenomeno di vocazione e di elettrica sapienza verbale.
« CABALLO VERDE »
Con Federico e Alberti, che viveva vicino a casa mia in un attico su un albereto, l'albereto perduto, con lo scultore Alberto, panettiere di Toledo che già allora era maestro della scultura astratta, con Altolaguirre e Bergamín, con il gran poeta Luis Cernuda, con Vicente Aleixandre, poeta di dimensione illimitata, con l'architetto Luis Lacasa, (22) con tutti loro in un solo gruppo, o in molti, ci vedevamo ogni giorno in casa e caffè.
Dalla Castellana e dalla Birreria de Correos ci trasferivamo a casa mia, la casa dei fiori, (23) nel quartiere di Arguelles. Dal secondo piano di uno dei grandi autobus che il mio compatriota, il gran Cotapos, chiamava « bombardoni », scendevamo in gruppi chiassosi a mangiare, bere e cantare. Fra i giovani compagni di poesia e di allegria ricordo Arturo Serrano Plaja, poeta, José Caballero, pittore di talento e grazia abbaglianti, Antonio Aparicio, che dall'Andalusia venne direttamente a casa mia; e tanti altri che ormai non sono più, ma la
cui fraternità mi manca vivamente come parte del mio corpo o sostanza della mia anima.
Quella Madrid! Ce n'andavamo con Maruja Mallo, la pittrice gagliega, per i sobborghi bassi cercando le case dove vendono sparto e stuoie, cercando le strade dei bottai, dei cordai, di tutte le materie secche della Spagna, materie che intrecciano e torcono il suo cuore. La Spagna è secca e pietrosa, e il sole la colpisce verticale facendo scaturire scintille dalla pianura, costruendo castelli di luce col polverone. Gli unici veri fiumi di Spagna sono i suoi poeti; Quevedo, con le sue acque verdi e profonde, dalla schiuma nera; Calderón, con le sue
sillabe che cantano; i cristallini Argensolas; Gongora, (24) fiume di rubini.
Vidi Valle-Inclán una volta sola. Molto magro, con la sua interminabile barba bianca, mi parve che uscisse di tra le pagine dei suoi stessi libri, da esse schiacciato, con un colore di pagina gialla.
Ramón Gómez de la Serna (25) lo conobbi nella sua cripta di Pombo, e lo vidi poi a casa sua. Non posso mai dimenticare la voce stentorea di Ramón che, dal suo posto al caffè, dirige la conversazione e la risata, il pensiero e il fumo. Ramón Gómez de la Sema è, secondo me, uno dei più grandi scrittori della nostra lingua, e il suo genio ha della variopinta grandezza di Quevedo e di Picasso. Qualsiasi pagina di Ramón Gómez de la Sema scruta come un furetto nel fisico e nel metafisico, nella verità e nello spettro, e quello che sa ed ha scritto sulla Spagna non lo sa nessun altro all'infuori di lui. È stato l'accumulatore di un universo segreto. Ha cambiato con le sue mani la sintassi della lingua, lasciandovi impresse le sue impronte digitali che nessuno può cancellare.
Vidi spesso don Antonio Machado, seduto al suo caffè con un vestito nero da notaio, molto discreto e silenzioso, dolce e severo come un vecchio albero di Spagna. È vero che il maldicente Juan Ramón Jiménez, vecchio bimbo diabolico della poesia, diceva di lui, di don
Antonio, che era sempre pieno di cenere e che nelle tasche aveva solo mozziconi.
Juan Ramón Jiménez, poeta di grande splendore, fu quello incaricato di farmi conoscere la leggendaria invidia spagnola. Questo poeta, che non aveva bisogno di invidiare nessuno, dato che la sua opera è un grande splendore che comincia con l'oscurità del secolo, viveva come un falco eremita, insultando dal suo nascondiglio quanto credeva gli desse ombra.
I giovani — Garcia Lorca, Alberti, come pure Jorge Guillén e Pedro Salinas (26) — erano perseguitati tenacemente da Juan Ramón, un demonio barbuto che ogni giorno lanciava il suo fulmine contro questo o contro quello. Ogni settimana scriveva qualcosa contro di me in alcuni contorti commenti che pubblicava da una domenica all'altra sul giornale « El Sol ». (27) Ma io scelsi di vivere e di lasciarlo vivere. Non risposi mai niente. Non ho mai risposto — e non rispondo — alle aggressioni letterarie.
Il poeta Manuel Altolaguirre, che aveva una tipografia e la vocazione del tipografo, venne un giorno a casa mia e mi disse che aveva l'intenzione di pubblicare una bella rivista di poesia, che rappresentasse quanto, di più alto e di meglio c'era in Spagna. A
— C'è una sola persona che può dirigerla — mi disse. — E quella persona sei tu.
Io ero stato un epico inventore di riviste che presto lasciai o da cui fui lasciato. Nel 1925 fondai una certa « Caballo de Bastos ». Era il periodo in cui scrivevamo senza punteggiatura e scoprivamo Dublino attraverso le strade di Joyce. Humberto Diaz Casanueva in quei tempi usava uno sweater dal collo alto, grande audacia per un poeta dell'epoca. La sua poesia era bella e immacolata, come ha continuato ad essere nei secoli. Rosamel del Valle si vestiva completamente di nero, dal cappello alle scarpe, come dovevano vestire i poeti. Questi due nobili compagni li ricordo come collaboratori attivi. Ne dimentico altri. Ma il galoppo di quel nostro cavallo scosse l'epoca.
— Sì, Manolito. Accetto la direzione della rivista.
Manuel Altolaguirre era un tipografo glorioso le cui mani arricchivano le casse tipografiche con stupendi caratteri bodoniani. Manolito faceva onore alla poesia, sia con la sua che con le sue mani di arcangelo lavoratore. Tradusse e stampò con bellezza singolare l’Adonais di Shelley, elegia per la morte di John Keats. Stampò anche la Fabula del Genil di Pedro Espinosa. (28) Quanto fulgore irradiavano le strofe auree e smaltate del poema in quella maestosa tipografia che faceva risaltare le parole come se si stessero di nuovo fondendo nel crogiuolo.
Del mio « Caballo Verde » uscirono cinque incantevoli numeri di indubbia bellezza. Mi piaceva vedere Manolito, sempre pieno di risa e di sorriso, sollevare i caratteri, collocarli nelle casse e poi azionare col piede il piccolo torchio tipografico. A volte portava gli esemplari dell'edizione nella carrozzina di sua figlia Paloma. I passanti gli facevano i complimenti:
— Che papa meraviglioso! Attraversare il traffico indiavolato con questa creatura!
La creatura era la Poesia che andava in giro col suo « Caballo Verde ». La rivista pubblicò la prima nuova poesia di Miguel Hernández e, naturalmente, quelle di Federico, di Cernuda, di Aleixandre, di Guillén (il buono: lo spagnolo). (29) Juan Ramón Jiménez, nevrotico e novecentista, (30) continuava a lanciarmi strali domenicali. A Rafael Alberti non piacque il titolo:
— Perché deve essere verde il Cavallo? « Caballo Rojo » (Cavallo Rosso), ecco come dovrebbe intitolarsi la rivista.
Non le cambiai il colore. Ma Rafael ed io non litigammo per questo. Non litigammo mai, per niente. C'è abbastanza posto al mondo per cavalli e poeti di tutti i colori dell'arcobaleno.
Il sesto numero di « Caballo Verde » rimase in via Viriato senza essere impaginato né rilegato. Era dedicato a Julio Herrera y Reissig (31) — secondo Lautréamont di Montevideo — e i testi che gli scrittori spagnoli scrissero in suo onore si raffreddarono là, con la loro bellezza, senza gestazione né destino. La rivista doveva uscire il 19 luglio 1936, ma, quel giorno, la strada si riempì di polvere. Un generale sconosciuto, chiamato Francisco Franco, si era ribellato contro la Repubblica nella sua guarnigione d'Africa.
IL DELITTO FU A GRANADA
Proprio mentre scrivo queste righe, la Spagna ufficiale celebra molti — tanti! — anni di insurrezione vittoriosa. (32) In questo momento a Madrid, il Caudillo vestito d'oro e d'azzurro, circondato dalla guardia mora,(33) accanto all'ambasciatore nordamericano, a quello inglese e a molti altri, passa in rivista le truppe. Truppe composte, per la maggior parte, da ragazzi che non hanno conosciuto quella guerra.
Io invece la conobbi. Un milione di spagnoli morti! Un milione di esuli! Sembrerebbe che mai si debba canceliare dalla coscienza umana questa spina sanguinante. Eppure i ragazzi che oggi sfilano di fronte alla guardia mora, ignorano forse la verità di questa storia terribile.
Tutto cominciò per la sera del 19 luglio 1936. Un cileno simpatico e avventuroso, di nome Bobby Deglané era impresario di « catch-as-can » al gran circo Price di Madrid. Io gli manifestai le mie riserve sulla serietà di questo « sport », e lui mi convinse ad andare al circo,
insieme a Garcia Lorca, a verificare l'autenticità dello spettacolo. Convinsi Federico e fissammo di trovarci lì ad un'ora convenuta. Avremmo passato il tempo assistendo alle truculenze del Troglodita Mascherato, dello Strangolatore Abissino e dell'Orangután Sinistro.
Federico non venne all'appuntamento. Camminava già verso la morte. Non lo vedemmo più. E in questo modo la guerra di Spagna, che cambiò la mia poesia, (34) cominciò per me con la scomparsa di un poeta.
Che poeta! Non ho mai visto riuniti come in lui la grazia e il genio, il cuore alato e la cascata cristallina. Federico Garcia Lorca era il folletto dissipatore, l'allegria centrifuga che raccoglieva nel suo seno e irradiava come un pianeta la felicità di vivere. Ingenuo e commediante, cosmico e provinciale, musicista singolare, splendido mimo, pauroso e superstizioso, raggiante e gentile, era una specie di riassunto delle età della Spagna, della fioritura popolare; un prodotto arabo-andaluso che illuminava e profumava, come un gelsomino, tutta la scena di quella Spagna, ahimè!, scomparsa.
Mi seduceva il gran potere metaforico di Garcia Lorca e mi interessava tutto quanto scriveva. Dal canto suo, mi chiedeva a volte di leggergli le mie ultime poesie e, a metà della lettura, mi interrompeva dicendo: « Non andare avanti, non andare avanti, che mi influenzi ».
Nel teatro e nel silenzio, fra la folla e nell'intimità, era un moltiplicatore della bellezza. Non vidi mai un uomo che avesse tanta magia fra le mani, non vidi mai un fratello più allegro. Rideva, cantava, musicava, saltava, inventava, faceva scintille. Poveretto, aveva tutti i doni del mondo, e come fu un lavoratore d'oro, un fuco d'alveare della grande poesia, era uno sperperatore del suo ingegno.
— Senti — mi diceva prendendomi per un braccio — vedi quella finestra? Non la trovi ciorpatelica?
— E che cosa vuoi dire ciorpatelica?
— Non lo so neanch'io, ma bisogna rendersi conto di ciò che è o non è ciorpatelico. Altrimenti uno è perduto. Guarda quel cane, com'è ciorpatelico!
O mi raccontava che in un asilo, a Granada, lo avevano invitato ad una commemorazione del Don Chisciotte e che quando arrivò nelle aule, i bimbi si misero a cantare in coro sotto la direzione della direttrice:
Sempre sempre sarà celebrato
dall'uno all'altro confín
questo libro che fu commentato
da don Francisco Rodríguez Marin.
Una volta tenni una conferenza su Garcia Lorca, alcuni anni dopo la sua morte, e uno del pubblico mi chiese:
— Perché nell' Oda a Federico lei dice che per lui «dipingono d'azzurro gli ospedali»? (35)
— Vede, compagno — gli risposi — far domande di questo tipo ad un poeta è come chiedere l'età alle donne. La poesia non è una materia statica, ma una corrente fluida che spesso sfugge alle mani dello stesso creatore. La sua materia prima è composta d'elementi
che sono e al tempo stesso non sono, di cose esistenti ed inesistenti. Comunque cercherò di risponderle sinceramente. Il colore azzurro è per me il più bello dei colori. Ha l'implicazione dello spazio umano, come la volta celeste, verso la libertà e l'allegria. La presenza di Federico, la sua magia personale, irradiavano attorno a lui un'atmosfera di gioia. Il mio verso, probabilmente, vuoi dire che persino gli ospedali, persino la tristezza degli ospedali, potevano trasformarsi sotto l'incantesimo della sua influenza e vedersi ad un tratto mutati in begli edifici azzurri.
Federico ebbe un presentimento della sua morte. Una volta che tornava da una tournée teatrale mi chiamò per raccontarmi un fatto molto strano. Insieme agli artisti de La Barraca (36) era arrivato ad un lontanissimo villaggio della Castiglia e con la troupe si era accampato nei dintorni. Agitato dalle preoccupazioni del viaggio, Federico non dormiva. All'alba si alzò e si mise a vagare da solo per i dintorni. Faceva freddo, quel freddo di coltello che la Castiglia riserva al viaggiatore, all'intruso. La nebbia si scioglieva in cumuli bianchi e
trasformava tutto con la sua dimensione fantasmagorica.
Una gran cancellata di ferro arrugginito. Statue e colonne spezzate, cadute fra le foglie morte. Si fermò sulla porta di una vecchia proprietà. Era la porta d'accesso al vasto parco d'una tenuta feudale. L'abbandono, l'ora e il freddo, rendevano la solitudine più penetrante. Federico si sentì improvvisamente accasciato per ciò che sarebbe potuto capitare in un'alba come quella, per qualcosa di confuso che doveva succedere. Si sedette su un capitello caduto.
Un piccolo agnellino cominciò a brucare l'erba fra le rovine e la sua apparizione era come un piccolo angelo di nebbia che umanizzava all'improvviso quell'abbandono, cadendo come un petalo di tenerezza sulla solitudine del luogo. Il poeta si sentì in compagnia.
Ad un tratto un branco di maiali entrò nel recinto. Erano quattro o cinque bestie scure, maiali neri semiselvaggi, con fame feroce e zoccoli di pietra.
Federico assistette allora ad una scena spaventosa. I maiali si gettarono sull'agnello e con orrore del poeta lo fecero a pezzi e lo divorarono.
Questa scena di sangue e di solitudine indusse Federico ad ordinare al suo teatro ambulante di continuare immediatamente il viaggio.
Ancora pieno d'orrore, tre mesi prima della guerra civile, Federico mi raccontava questa storia terribile.
Mi resi poi conto, con sempre maggior chiarezza, che quel fatto fu la rappresentazione anticipata della sua morte, la premonizione della sua incredibile tragedia.
Federico Garcia Lorca non fu fucilato; fu assassinato. Naturalmente nessuno poteva pensare che un giorno l'avrebbero ammazzato. Fra tutti i poeti di Spagna era il più amato, il più caro, il più simile ad un bambino per la sua meravigliosa allegria. Chi avrebbe potuto credere che esistessero sulla terra, e sulla sua terra, mostri capaci di un delitto così inspiegabile?
Quel delitto fu per me il più doloroso di una lunga lotta. La Spagna fu sempre un campo di gladiatori; una terra con molto sangue. La plaza de toros, col suo sacrificio e la sua eleganza crudele, ripete, infiocchettata a festa, l'antica lotta mortale fra l'ombra e la luce.
L'Inquisizione incarcera Fray Luis de Leon; (37) Quevedo languisce in una segreta; Colombo cammina coi ceppi ai piedi. E il grande spettacolo fu l'ossario dell'Escorial, come ora lo è il Monumento ai Caduti, con una croce su un milione di morti e su innumerevoli ed oscure prigioni.
IL MIO LIBRO SULLA SPAGNA
Passò il tempo. Si cominciava a perdere la guerra. I poeti accompagnarono il popolo spagnolo nella sua lotta. Federico era stato assassinato a Granada. Miguel Hernández, da pastore di capre si era trasformato in verbo militante. In uniforme da soldato recitava i suoi
versi in prima linea. Manuel Altolaguirre continuava con le sue tipografìe. Ne installò una in pieno fronte dell'Est, vicino a Gerona, in un vecchio monastero. Lì venne stampato in maniera singolare il mio libro España en et Corazón. Credo che pochi libri, nella strana storia di tanti libri, abbiano avuto un destino ed una gestazione così curiosi.
I soldati del fronte impararono a preparare i caratteri tipografici. Ma allora venne a mancare la carta. Trovarono un vecchio mulino e decisero di fabbricarla lì. Venne elaborata una miscela veramente strana, fra le bombe che cadevano, in mezzo alla battaglia. Al mulino
veniva portato di tutto, da una bandiera del nemico, ad una casacca insanguinata di un soldato moro. Malgrado l'insolito materiale, e la più assoluta inesperienza dei fabbricanti, la carta risultò fra le migliori. I pochi esemplari che ancora rimangono di questo libro meravigliano per la veste tipografica e i fogli di misteriosa fattura. Anni dopo vidi una copia di questa edizione a Washington, nella biblioteca del Congresso, custodita sotto una vetrinetta, come uno dei libri più rari del nostro tempo.
Appena il mio libro fu stampato e rilegato, la disfatta della Repubblica precipitò. Centinaia di migliaia di uomini in fuga riempivano le strade che uscivano dalla Spagna. Era l'esodo degli Spagnoli, l'avvenimento più doloroso della storia della Spagna.
Fra queste file di uomini che camminavano verso l'esilio c'erano i sopravvissuti dell'Esercito dell'Est, fra cui Manuel Altolaguirre e i soldati che avevano fabbricato la carta e stampato España en el corazón. Il mio libro era l'orgoglio di questi uomini che avevano stampato la mia poesia in una sfida alla morte. Venni a sapere che molti avevano preferito portare sacchi con le copie del libro piuttosto che il cibo e i vestiti. Con i sacchi in spalla intrapresero la lunga marcia verso la Francia.
L'immensa colonna che camminava incontro all'esilio fu bombardata centinaia di volte. Molti soldati caddero e i libri si sparsero sulla strada. Altri continuarono l'interminabile fuga. Al di là della frontiera, gli spagnoli che arrivavano all'esilio furono trattati brutalmente. Su di un rogo vennero immolate le ultime copie di quel libro ardente che nacque e morì in piena
battaglia.
Miguel Hernández cercò rifugio all'ambasciata cilena, che durante la guerra aveva offerto asilo a ben quattromila franchisti. L'ambasciatore di allora, Carlos Moria Lynch, negò asilo al grande poeta, pur professandosi suo amico. Pochi giorni dopo l'arrestarono e lo misero in prigione. Morì di tubercolosi nella sua cella sette anni dopo. L'usignolo non aveva sopportato la prigionia.
La mia funzione consolare era finita. Per la mia partecipazione alla difesa della Repubblica Spagnola, il governo del Cile decise di destituirmi.
LA GUERRA E PARIGI
Arrivammo a Parigi. Io, Rafael Alberti e Maria Teresa Leon, sua moglie, prendemmo insieme un appartamento al Quai de l'Horloge, un quartiere tranquillo e meraviglioso. Di fronte a noi vedevo il Pont Neuf, la statua di Henri IV e i pescatori che pescavano da tutte le sponde della Senna. Dietro di noi c'era la piazza Dauphine, nervaliana, con odore di foglie e restaurant. In piazza Dauphine viveva lo scrittore francese Alejo Carpentier, (38) uno degli uomini più neutrali che abbia mai conosciuto. Non osava esprimere il proprio parere su niente, neppure sui nazisti che ormai si gettavano su Parigi come lupi affamati.
Dal mio balcone, sulla destra, e sporgendosi, si riuscivano a vedere i neri torrioni della Conciergerie. Il suo grande orologio dorato era per me il limite estremo del quartiere.
Per fortuna in Francia ebbi come miei migliori amici, per molti anni, i due migliori uomini della sua letteratura. Paul Eluard e Aragon. (39) Erano e sono curiosi classici del brio e della spensieratezza, di una autenticità vitale che li pone nel punto più sonoro del bosco di Francia. Sono, al tempo stesso, inalterabili e naturali partecipanti della morale storica. Pochi esseri sono diversi fra di loro come questi due. Godetti del piacere poetico di perdere più volte il tempo con Paul Eluard.
Se i poeti rispondessero il vero alle inchieste, svelerebbero il segreto: non c'è niente di più bello che perdere il tempo. Ognuno ha il suo stile per questo antico impegno. Insieme a Paul non mi rendevo conto né del giorno né della notte che passavano e non ho mai saputo se ciò di cui parlavamo avesse o meno importanza. Aragon è una macchina elettronica dell'intelligenza, della conoscenza, della virulenza, della velocità eloquente. Dalla casa di Eluard uscii sempre sorridendo, senza sapere di che cosa. Dopo alcune ore con Argon esco esaurito perché questo diavolo d'uomo m'ha costretto a pensare. Entrambi sono stati miei irresistibili a e leali amici e quello che forse più mi piace di loro è la loro antagonistica grandezza.
NANCY CUNARD
Io e Nancy Cunard decidemmo di pubblicare una rivista di poesia che intitolai « Los poetas del mundo defienden al puebio español ». ^ |
Nancy aveva una piccola tipografia nella sua casa di campagna, nella provincia francese. Non ricordo il nome della località, ma era lontana da Parigi. Quando arrivammo a casa sua era notte, con la luna. La neve e la luna tremavano come una tenda attorno alla fattoria. Io, entusiasta, uscii a fare una passeggiata. Al ritorno i fiocchi di neve mi turbinarono sulla testa con gelida ostinazione. Smarrii completamente la strada e vagai per mezz'ora a tentoni nel biancore della notte.
Nancy aveva esperienza di tipografia. Quand'era stata l'amica di Aragon pubblicò la traduzione dell'Hunting of the Snark (40) fatta da lei e da Aragon. A dire il vero, questo poema di Lewis Carroll è intraducibile e credo che solo in Gongora potremmo trovare una simile opera di pazzo mosaico.
Per la prima volta in vita mia mi misi a comporre caratteri tipografici e credo che non ci sia mai stato tipografo peggiore di me. Stampavo a rovescio le lettere p che si trasformavano così in d a causa della mia imperizia tipografica. Un verso in cui appariva per due volte la parola parpados fu per due volte trasformato in dardapos. Per molti anni Nancy mi punì chiamandomi così. « My dear Dardapo... » soleva cominciare le sue lettere da Londra. Ma la rivista risultò molto decorosa e riuscimmo a stamparne sei o sette numeri. A parte poeti militanti, come Gonzales Tuñon o Alberti, pubblicammo appassionate poesie di W. H. Auden, Spender, (41) ecc. Questi signori inglesi non sapranno mai quanto soffrirono le mie dita lente ed incapaci nel comporre i loro versi.
Di tanto in tanto dall'Inghilterra arrivavano poeti dandys, amici di Nancy, con un fiore bianco all'occhiello, e che tuttavia scrivevano poesie antifranchiste.
Nella storia intellettuale non c'è mai stato un momento tanto fecondo per i poeti come la guerra spagnola. Il sangue spagnolo esercitò un magnetismo che fece fremere la poesia di una grande epoca.
Non so se la rivista abbia avuto o meno successo, in quanto in quel periodo finì male la guerra di Spagna e cominciò male una nuova guerra mondiale. Quest'ultima, malgrado la sua ampiezza, la sua crudeltà incommensurabile, il suo eroismo diffuso, non riuscì mai ad avvincere il cuore collettivo della poesia come la guerra di Spagna.
Poco dopo sarei tornato dall'Europa nel mio paese. Anche Nancy si sarebbe ben presto recata in Cile, accompagnata da un torero che a Santiago lasciò i tori e Nancy Cunard per aprire un negozio di salsicce e di altri insaccati. Ma la mia carissima amica, quella snob
di altissima classe, era invincibile. In Cile si prese come amante un poeta vagabondo e disordinato, un cileno di origine basca, il quale non era privo di talento, pur essendo sprovvisto di denti. Non solo, ma il nuovo prediletto di Nancy era un ubriacone inveterato e propinava all'aristocratica signora frequenti bastonature notturne che l'obbligavano ad apparire in società con grandi occhiali neri.
A dire il vero, Nancy fu uno dei personaggi donchisciotteschi, cronici, coraggiosi e patetici, più curiosi che abbia mai conosciuto. Unica erede della « Cunard Line », figlia di Lady Cunard, Nancy verso il 1930 scandalizzò Londra, fuggendo con un negro, musicista di uno dei primi jazz band importati dall'hotel Savoy.
Quando Lady Cunard trovò vuoto il letto della figlia e una lettera in cui le comunicava, orgogliosamente, il suo nero destino, la nobile signora si rivolse al suo avvocato e la diseredò. E così quella che io conobbi, errante per il mondo, fu una esclusa dalla grandezza britannica. Il salotto della madre era frequentato da Georges Moore (che si diceva fosse il vero padre di Nancy), da Sir Thomas Beecham, dal giovane Aldous Huxiey, e da quello che divenne poi Duca di Windsor, l'allora Principe di Galles. (42)
Nancy Cunard restituì il colpo. Nel dicembre dello stesso anno in cui fu scomunicata dalla madre, tutta l'aristocrazia inglese ricevette come regalo di Natale un opuscolo dalla copertina rossa intitolato Negro man and white Lady ship. Non ho mai visto niente di più
corrosivo. Raggiunge a volte la malignità di Swift. (43)
I suoi argomenti in difesa dei negri furono come bastonate in testa a Lady Cunard e alla società inglese. Ricordo che diceva loro, e cito a memoria, perché le sue parole erano più eloquenti:
« Se lei. Bianca signora, o piuttosto i suoi, fossero stati sequestrati, bastonati ed incatenati da una tribù più potente e trasportati poi lontani dall'Inghilterra per essere venduti come schiavi, messi in mostra come esempi irrisori della bruttezza umana, obbligati a lavorare e malnutriti. Che cosa sarebbe rimasto della sua razza? I negri hanno subito queste e molte altre violenze e crudeltà. Dopo secoli di sofferenza essi sono però gli atleti migliori e più eleganti, e hanno creato una nuova musica più universale di qualsiasi altra. E voi, bianchi come siete e com'è lei, avreste potuto uscire vittoriosi da tanta iniquità? E allora, chi vale di
più? »
E così per trenta pagine.
Nancy non potè tornare ad abitare in Inghilterra e da quel momento abbracciò la causa della razza nera perseguitata. Durante l'invasione dell'Etiopia si recò ad Addis Abeba. Poi venne negli Stati Uniti per esprimere la propria solidarietà ai ragazzi negri di Scottsboro accusati di delitti che non avevano commesso. I giovani negri furono condannati dalla giustizia razzista nordamericana e Nancy Cunard fu espulsa dalla democratica polizia nordamericana.
La mia amica Nancy Cunard sarebbe morta nel 1969 a Parigi. In una crisi della sua agonia scese quasi nuda con l'ascensore dell'albergo. Lì crollò e i suoi begli occhi celesti si chiusero per sempre.
Quando morì pesava trentacinque chili. Era solo uno scheletro. Il suo corpo si era consumato in una lunga lotta contro l'ingiustizia del mondo. Non ricevette altra ricompensa che una vita sempre più solitaria e una morte abbandonata.
UN CONGRESSO A MADRID
La guerra di Spagna andava di male in peggio, ma lo spirito di resistenza del popolo spagnolo aveva contagiato tutto il mondo. In Spagna combattevano già le brigate internazionali. Io le vidi arrivare a Madrid, nel 1936, e già in uniforme. (44) Era una moltitudine di gente di età, capelli e colori diversi.
Ora, nel 1937, eravamo a Parigi, e la cosa principale era preparare un congresso di scrittori antifascisti di tutti i paesi del mondo. Un congresso che si celebrasse a Madrid. Fu in quell'occasione che cominciai a conoscere Aragon. Quello che inizialmente mi sorprese di lui, fu la sua incredibile capacità di lavoro e di organizzazione. Dettava tutte le lettere, le correggeva, le ricordava. Non gli sfuggiva il minimo particolare. Lavorava per molte ore di seguito nel nostro piccolo ufficio. E poi, com'è noto, scrive lunghi libri in prosa e la sua poesia è la più bella della lingua francese. Lo vidi correggere esemplari di traduzioni che aveva fatto di russi e inglesi, e lo vidi rifarle direttamente in bozza. Si tratta veramente di un uomo portentoso e io cominciai a rendermene conto da allora,
Ero rimasto senza il consolato e quindi senza un centesimo. Andai a lavorare per quattrocento vecchi franchi al mese in una associazione per la difesa della cultura diretta da Aragon. Delia del Carril, (45) la mia moglie di allora e di tanti anni, ebbe sempre la fama della ricca proprietaria terriera, ma quello che è certo è che era più povera di me. Vivevamo in un alberghetto malfamato in cui tutto il primo piano era riservato alle coppie occasionali che entravano ed uscivano. Per alcuni mesi mangiammo poco e male. Ma il congresso degli scrittori antifascisti era una realtà. Da ogni parte giungevano risposte coraggiose. Una da Yeats, (46) poeta nazionale di Irlanda, un'altra da Selma Lagerlof, (47) la grande scrittrice svedese. I due erano troppo vecchi per recarsi in una città assediata e bombardata come Ma-
drid, ma entrambi aderivano alla difesa della Repubblica Spagnola.
Mi son sempre considerato una persona di poca importanza, soprattutto per gli affari pratici e per le alte missioni. Per questo, restai a bocca aperta quando m'arrivò un mandato di pagamento bancario. Veniva dal governo spagnolo. Era una gran somma di denaro che copriva le spese generali del congresso, compresi i biglietti dei delegati degli altri continenti. Dozzine di scrittori cominciavano ad arrivare a Parigi.
Ero sconcertato. Che cosa potevo fare con tutti quei soldi? Decisi di assegnare i fondi all'organizzazione che preparava il congresso.
— Non ho neppure visto il denaro che del resto non sarei capace di amministrare — dissi a Rafael Alberti che in quel momento si trovava di passaggio a Parigi.
— Sei proprio uno stupido — mi rispose Rafael. — Perdi il tuo posto di console per il tuo appoggio alla Spagna, e hai le scarpe rotte. E non sei capace di assegnarti alcune migliaia di franchi per il lavoro e per le tue spese indispensabili.
Mi guardai le scarpe e mi resi conto che effettivamente erano rotte. Alberti mi regalò un paio di scarpe nuove.
Entro alcune ore saremmo partiti per Madrid con tutti i delegati. Sia Delia, che Amparo González Tuñón, che io stesso, fummo tutti presi dalla ricerca dei documenti necessari agli scrittori che arrivavano da tutte le parti. I visti francesi d'uscita ci riempivano di problemi. Praticamente ci impadronimmo dell'ufficio di polizia di Parigi in cui venivano concessi quei requisiti comicamente chiamati « recipisson ». A volte noi stessi applicavamo sui passaporti quel supremo strumento francese che si chiamava « tampon ».
Fra norvegesi, italiani, argentini, arrivò dal Messico il poeta Octavio Paz, (48) dopo mille avventure di viaggio. In un certo qual modo mi sentivo orgoglioso di averlo portato. Aveva pubblicato solo un libro che avevo ricevuto due mesi prima e che mi sembrò contenere una vera promessa. Nessuno allora lo conosceva.
Con viso cupo venne a trovarmi il mio vecchio amico Vallejo. Era arrabbiato perché non era stato dato un biglietto a sua moglie, che era insopportabile a tutti gli altri. In breve tempo riuscii a trovare un biglietto anche per lei. Lo consegnammo a Vallejo, ma lui se ne
andò cupo com'era arrivato. Doveva avere qualcosa e ci misi alcuni mesi a scoprire questo qualcosa.
L'arcano si ri duceva a quanto segue: il mio compatriota Vicente Huidobro era venuto a Parigi per assistere al congresso. Huidobro ed io eravamo in collera, non ci salutavamo neppure. Huidobro invece era molto amico di Vallejo e approfittò di quei giorni a Parigi per riempire la testa del mio ingenuo compagno di fandonie contro di me. Tutto venne chiarito dopo una conversazione drammatica che ebbi con Vallejo.
Da Parigi non era mai partito un treno pieno di scrittori come quello. Sui marciapiedi ci riconoscevamo o facevamo finta di non conoscerei. Alcuni andarono a dormire; altri fumavano interminabilmente. Per molti la Spagna era l'enigma e la rivelazione di quell'epoca
storica.
Vallejo e Huidobro se ne stavano in qualche scompartimento del treno. André Malraux (49) si fermò un momento a parlare con me, coi suoi tic facciali e l'impermeabile sulle spalle. Stavolta viaggiava solo. Prima l'avevo sempre visto con l'aviatore Corton-Mogliniere, che fu il protagonista principale delle sue avventure nei cieli di Spagna: città perdute e scoperte, o contributo essenziale di aerei per la Repubblica.
Ricordo che il treno si fermò per molto tempo alla frontiera. Sembra che Huidobro avesse smarrito una valigia. Siccome tutti erano occupati, o preoccupati del ritardo, nessuno gli dava retta. Il poeta cileno, in cerca della sua valigia, capitò in un brutto momento al corridoio dove stava Malraux, capo della spedizione. Malraux, nervoso per natura, e con quel cumulo di problemi sulle spalle, era arrivato al limite. Forse non conosceva Huidobro né di nome né di vista. Quando questi gli si avvicinò per reclamare per la scomparsa della sua valigia, Malraux perse l'ultimo briciolo di pazienza che gli restava. Lo sentii urlare: « Quando la smetterà di dar fastidio a tutti? Se ne vada! Je vous enmerde! ».
Assistetti per caso a questo incidente che umiliava la vanità del poeta cileno. In quel momento avrei preferito essere a mille chilometri da lì. Ma la vita è capricciosa. Io ero l'unica persona su quel treno che Huidobro detestasse. E toccava proprio a me, per giunta cileno come lui, e non a chiunque altro dei cento scrittori che viaggiavano, essere l'unico testimone di quel fatto.
Quando il viaggio riprese, e quando ormai era notte e stavamo attraversando terre spagnole, pensai ad Huidobro, alla sua valigia e al brutto momento che aveva passato. Dissi allora ad alcuni giovani scrittori di una repubblica centroamericana che erano venuti al mio
scompartimento :
— Andate a trovare anche Huidobro che deve essere solo e depresso.
Tornarono venti minuti dopo, col viso allegro. Huidobro aveva detto loro: « Non parlatemi della valigia smarrita; non ha importanza. La cosa grave è che mentre le università di Chicago, di Berlino, di Copenhagen, di Praga, mi hanno conferito dei titoli onorifici, la piccola università del vostro piccolo paese è l'unica che continua ad ignorarmi. Non mi hanno neppure invitato a tenere una conferenza sul creazionismo ». (50)
Decisamente, il mio compatriota e gran poeta era in-correggibile.
Finalmente arrivammo a Madrid. Mentre gli ospiti ricevevano dandoci il benvenuto e una sistemazione, volli rivedere la mia casa che avevo lasciata intatta circa un anno prima. I miei libri e le mie cose, tutto era rimasto in quella casa. Era un appartamento nell'edificio chiamato Casa dei Fiori, all'ingresso della città universitaria. Le forze avanzate di Franco erano arrivate fino ai limiti della città universitaria. Tant'è vero che il blocco d'appartamenti aveva cambiato più volte di mano.
Miguel Hernández, vestito da miliziano, e col suo fucile, riuscì a trovare un furgone per caricare i miei libri e le masserizie di casa che più mi interessavano.
Salimmo al quinto piano e aprimmo con una certa emozione la porta dell'appartamento. La mitraglia aveva distrutto le finestre e tratti di pareti. I libri erano caduti dagli scaffali. Era impossibile orientarsi fra le macerie. In tutti i modi cercai frettolosamente qualcosa. La cosa curiosa è che erano scomparsi gli oggetti più superflui e meno utili; li avevano presi i soldati invasori o quelli difensori. Mentre le pentole, la macchina da cucire, i piatti, erano sparsi qua e là in disordine, ma sopravvivevano, del mio frac consolare, delle
mie maschere polinesiane, dei mie i coltelli orientali,non restava neppure l'ombra.
— La guerra è capricciosa come i sogni, Miguel.
Miguel trovò qua e là, fra le carte cadute a terra, alcuni originali delle mie opere. Quel disordine era una porta finale che si chiudeva nella mia vita. Dissi a Miguel:
— Non voglio portare via niente.
— Niente? Neppure un libro?
— Neppure un libro — gli risposi.
E tornammo col furgone vuoto.
LE MASCHERE E LA GUERRA
... La mia casa rimase fra i due settori... Da una parte avanzano mori e italiani... Di qua avanzavano, si ritiravano o si attestavano i difensori di Madrid... Dai muri erano entrati colpi d'artiglieria... Le finestre erano finite in pezzi... Sul pavimento, fra i miei libri, trovai resti di piombo... Ma le mie maschere se n'erano andate... Le mie maschere raccolte in Siam, a Bali, a Sumatra, nell'Arcipelago Malese, a Bandung... Dorate, cinerine, colar pomodoro, con sopracciglia d'argento, azzurre, infernali, assorte, le mie maschere erano l'unico ricordo di quel primo Oriente cui giunsi solitario e che mi accolse col suo odore di tè, di sterco, di oppio, di sudore, di gelsomini intensi, di frangipani, di frutta marcita nelle strade... Quelle maschere, ricordo delle purissime danze, dei balli di fronte al tempio... Gocce di legno colorate dai miti, resti di quella mitologia floreale che nell'aria disegnava sogni, costumi, demoni, misteri irreconciliabili con la mia natura americana... E allora... Forse i miliziani si erano affacciati alle finestre di casa mia con quelle maschere in viso, e avevano spaventato così i mori, fra sparo e sparo... Molte giacquero, lì, a pezzi e insanguinate... Altre rotolarono dal mio settimo piano, strappate da uno sparo... Di fronte a loro s'erano schierati gli avamposti di Franco... Di fronte a loro ululava l'orda analfabeta dei mercenari... Da casa mia trenta maschere di dei dell'Asia si alzavano nell'ultimo ballo, il ballo della morte... Era un momento di tregua... Le posizioni erano mutate... Mi sedetti a guardare le spoglie, le macchie di sangue sulla stuoia... E attraverso quelle nuove finestre, attraverso i buchi della mitraglia... Guardai in lontananza, oltre la città universitaria, oltre le pianure, oltre gli antichi castelli... La Spagna parve vuota... Mi pare che i miei ultimi invitati se ne fossero ormai andati per sempre... Con maschere o senza maschere, fra gli spari e le canzoni di guerra, la pazza allegria, l'incredibile difesa, la morte o la vita, tutto era finito per me... Era l'ultimo silenzio dopo la festa... Dopo l'ultima festa... In qualche modo, con le maschere che se n'andarono, con le maschere che caddero, con quei soldati che mai avevo invitato, se n'era andata per me la Spagna...
Quaderno 6
ANDAI A CERCAR CADUTI
HO SCELTO UNA STRADA
Anche se la tessera l'ho ricevuta molto più tardi in Cile, quando entrai ufficialmente nel partito, credo di essermi definito di fronte a me stesso come comunista durante la guerra di Spagna. (1) Molte cose hanno contribuito alla mia profonda convinzione.
Il mio contraddittorio compagno, il poeta nietzchiano Leon Felipe, (2) era un uomo pieno di fascino. Fra le sue attrattive la migliore era un sentimento anarchico di indisciplina e di beffarda ribellione. In piena guerra civile si adattò facilmente alla chiassosa propaganda della FAI (Federazione Anarchica Iberica). Si recava spesso sui fronti anarchici, dove esponeva i suoi pensieri e leggeva le sue poesie iconoclaste. Esse riflettevano un'ideologia vagamente anarchica, anticlericale, con invocazioni e bestemmie. (3) Le sue parole conquistavano i gruppi anarchici che si moltiplicavano pittorescamente a Madrid, mentre la popolazione accorreva al fronte, sempre più vicino. Gli anarchici avevano dipinto tram e autobus metà rossi e metà gialli. Con le loro lunghe chiome, le barbe fluenti, le collane e i bracciali di proiettili, erano i protagonisti del carnevale agonico della Spagna. Ne vidi molti calzare scarpe emblematiche, metà di cuoio rosso e metà di cuoio nero, la cui confezione
doveva esser costata moltissimo lavoro ai calzolai. E non si creda si trattasse di una pittoresca brigata inoffensiva. Ognuno portava coltelli, pistoloni spropositati, fucili e carabine. In genere si piazzavano sui portoni degli edifici, in gruppi che fumavano e sputavano, ostentando le proprie armi. La loro principale preoccupazione era quella di riscuotere soldi dagli inquilini terrorizzati. O farli rinunciare volontariamente a gioielli, anelli ed orologi.
Leon Felipe tornava da una delle sue conferenze anarchicheggianti, ed era ormai sera, quando ci incontrammo al caffè all'angolo di casa mia. Il poeta portava un mantello che andava assai bene con la sua barba alla nazarena. Uscendo, sfiorò con le eleganti pieghe della sua romantica acconciatura uno dei suoi permalosi correligionari. Non so se l'aspetto da antico hidalgo di Leon Felipe abbia urtato quell'« eroe » delle retrovie, certo è che a pochi passi fummo fermati da un gruppo di anarchici, capeggiati dall'offeso del caffè. Volevano esaminare i nostri documenti, e dopo avergli dato un'occhiata, si portarono via il poeta gagliego fra due uomini armati.
Mentre lo portavano verso il muro delle fucilazioni vicino a casa mia, muro i cui spari notturni a volte non mi lasciavano dormire, vidi passare due miliziani armati che tornavano dal fronte. Spiegai loro chi era Leon Felipe, qual era la colpa di cui s'era macchiato e grazie a loro potei ottenere la liberazione del mio amico.
Questa atmosfera di confusione ideologica e di distruzione gratuita mi diede molto da pensare. Venni a conoscenza delle gesta di un anarchico austriaco, vecchio e miope, dai lunghi capelli biondi, che si era specializzato nel fare « passeggiate ». Aveva formato una
brigata che aveva battezzato « Alba » perché agiva al sorgere del sole.
— Non ha mai avuto mal di testa? — chiedeva alla vittima.
— Sì, certo, qualche volta.
— Ecco le darò un buon analgesico — gli diceva l'anarchico spagnolo, appoggiandogli la canna della pistola alla fronte e sparandogli un colpo.
Mentre queste bande pullulavano nella notte cieca di Madrid, i comunisti erano l'unica forza organizzata che creava un esercito per affrontare gli italiani, i tedeschi, i mori e i falangisti. E, al tempo stesso, erano la forza morale che sosteneva la resistenza e la lotta
antifascista.
Era tutto qui: bisognava scegliere una strada. E questo fu quello che feci in quei giorni e devo dire che non ho mai dovuto pentirmi di una decisione presa fra le tenebre e la speranza di quell'epoca tragica.
RAFAEL ALBBRTI
La poesia è sempre un atto di pace. Il poeta (4) nasce dalla pace come il pane nasce dalla farina.
Gli incendiari, i guerrieri, i lupi, cercano il poeta per bruciarlo, per ucciderlo, per sbranarlo. Uno spadaccino lasciò Puskin (5) ferito a morte fra gli alberi di un cupo parco. I cavalli di polvere galopparono impazziti sul corpo senza vita di Petöfì. (6) Byron (7) morì in Grecia lottando contro la guerra. I fascisti spagnoli iniziarono la guerra in Spagna assassinando il suo maggior poeta.
Rafael Alberti è come un sopravvissuto. C'erano mille morti pronte per lui. Una anche a Granada. Un'altra morte l'aspettava a Badajoz. A Siviglia piena di sole o nella sua piccola patria, Cadice e Puerto Santa Maria; lo cercavano per pugnalarlo, per impiccarlo, per uccidere in lui ancora una volta la poesia.
Ma la poesia non è morta. Ha le sette vite del gatto. La perseguitano, la trascinano per la strada, le sputano addosso e la dileggiano, la stringono per soffocarla, l'esiliano, l'incarcerano, le sparano quattro colpi e la poesia esce da tutti questi episodi con la faccia lavata e un sorriso bianco come il riso.
Io ho conosciuto Rafael Alberti nelle strade di Madrid con una camicia azzurra e cravatta colorata. L'ho conosciuto militante del popolo quando non c'erano ancora molti poeti che esercitassero questo difficile destino. Non erano ancora suonate le campane per la Spagna, ma lui già sapeva quello che poteva accadere. È un uomo del sud, è nato vicino al mare sonoro e alle cantine di vino giallo come topazio. E così il suo cuore si è formato col fuoco dell'uva e il rumore dell'onda. È stato sempre un poeta anche se nei suoi primi anni non lo ha saputo. Poi lo hanno saputo tutti gli spagnoli, più tardi tutto il mondo.
Per noi che abbiamo la gioia di parlare e di conoscere la lingua di Castiglia, Rafael Alberti significa lo splendore della poesia nella lingua spagnola. Non è solo un poeta innato ma un saggio della forma. La sua poesia, come una rosa miracolosamente fiorita in inverno, ha un fiocco della neve di Gongora, una radice di Jorge Manrique, un petalo di Garcilaso, un aroma a lutto di Adolfo Becquer. (8) Nella sua coppa cristallina si confondono cioè i canti essenziali della Spagna.
Questa rosa rossa ha illuminato il cammino di coloro che in Spagna hanno voluto affrontare il fascismo. Il mondo conosce questa eroica e tragica storia. Alberti non solo ha scritto sonetti epici, non solo li ha letti nelle caserme e al fronte, ma ha inventato la guerriglia poetica, la guerra poetica contro la guerra. (9) Ha inventato le canzoni che misero ali sotto il tuono dell'artiglieria, canzoni che da allora van volando su tutta la terra.
Questo poeta di purissima stirpe ha insegnato l'utilità pubblica della poesia in un momento critico del mondo. In questo è simile a Majakovski. (10) Questa utilità pubblica della poesia si basa sulla forza, sulla tenerezza, sull'allegria e su una essenziale autenticità. Senza questa qualità la poesia suona ma non canta. Alberti canta sempre.
NAZISTI IN CILE
Ritornai ancora una volta in terza classe al mio paese. Anche se in America latina non si è verifìcato il caso che eminenti scrittori come Celine, Drieu La Rochelle o Ezra Pound,(11) siano divenuti traditori al servizio del fascismo, non per questo cessò di esistere una forte corrente impregnata, naturalmente o finanziariamente, dalla corrente hitleriana. Dovunque si formavano piccoli gruppi che levavano il braccio nel saluto fascista, travestiti da miliziani nazisti. Ma non si trattava solo di piccoli gruppi. Le vecchie oligarchie feudali del continente simpatizzavano (e simpatizzano) con qualunque tipo di anticomunismo, venga dalla Germania o dall'ultrasinistra criolla. Inoltre, non bisogna dimenticare che grandi gruppi di discendenti di tedeschi popolano, e sono la maggioranza, determinate regioni del Cile, del Brasile e del Messico. Questi settori furono facilmente conquistati dalla meteorica ascesa di
Hitler e dalla favola di un millennio di grandezza tedesca.
In quei giorni di clamorose vittorie di Hitler, dovetti più di una volta attraversare la strada di un villaggio o di una città del sud del Cile sotto veri boschi di bandiere con la croce uncinata. Una volta, in un piccolo paesino del sud, mi vidi costretto ad usare l'unico telefono del posto e a fare un'involontaria reverenza al Führer. Il proprietario tedesco del locale si era ingegnato per collocare l'apparecchio in modo tale che uno veniva a trovarsi col braccio levato faccia a faccia con un ritratto di Hitler col braccio levato.
Divenni direttore della rivista « Aurora de Chile ». Tutta l'artiglieria letteraria (non ne avevamo altra) sparava contro i nazisti che si stavano inghiottendo un paese dopo l'altro. L'ambasciatore hitleriano in Cile regalò dei libri della cosiddetta cultura neogermanica alla Biblioteca Nazionale. Rispondemmo chiedendo a tutti i nostri lettori di mandarci i veri libri tedeschi della vera Germania, vietati da Hitler. Fu una grande esperienza. Ricevetti minacce di morte. E arrivarono molti pacchetti ben incartati con libri che contenevano immondizie. Ricevemmo anche collezioni intere dello «Sturner», un giornale pornografico, sadico e antisemita, diretto da Julius Streicher, giustamente impiccato anni dopo a Norimberga. Ma a poco a poco, timidamente, cominciarono ad arrivare le edizioni in lingua tedesca di Heinrich Heine, di Thomas Mann, di Anna Seghers, di Einstein, di Arnold Zweig. Quando fummo in possesso di circa cinquecento volumi andammo a lasciarli alla Biblioteca Nazionale,
Oh sorpresa! La Biblioteca Nazionale ci aveva chiuso le porte con un lucchetto.
Organizzammo allora una manifestazione e penetrammo nell'aula magna dell'università con ritratti del Pastore Niemoller e di Karl von Ossietzky. (12) Non so per
quale ragione si celebrasse in quel momento una cerimonia presieduta da don Miguel Cruchaga Tocornal, ministro degli Esteri. Ponemmo con cura i libri e i ritratti sul palco della presidenza. Vincemmo la battaglia. I libri furono accettati.
ISLA NEGRA
Pensai di dedicarmi al mio lavoro letterario con maggior devozione e maggior forza. Il contatto con la Spagna mi aveva maturato e fortificato. Le ore amare della mia poesia dovevano finire. Il soggettivismo malinconico dei miei Veinte Poemas de Amor o il patetismo
doloroso di Residencia en la Tierra volgevano ormai al termine. Mi sembrò di trovare una vena sotterranea, e non sepolta sotto le rocce,, ma sotto le pagine dei libri. Può la poesia servire ai nostri simili? Può accompagnare le lotte degli uomini? Avevo ormai camminato abbastanza sul terreno dell'irrazionale e del negativo. Dovevo fermarmi e cercare la strada dell'umanesimo, esiliato dalla letteratura contemporanea, ma profondamente radicato nelle aspirazioni dell'essere umano.
Cominciai a lavorare al mio Canto General. (13)
Avevo bisogno per questo di un posto di lavoro. Trovai una casa di pietra di fronte all'oceano, in un luogo a tutti sconosciuto, chiamato Isla Negra. (14) Il proprietario, un vecchio socialista spagnolo, capitano di nave, don Eladio Sobrino, la stava costruendo per la sua famiglia, ma accettò di vendermela. Ma come comperarla? Offrii il progetto del mio Canto General, ma fu respinto dalla Editorial Ercilla, che allora pubblicava le mie opere. Con l'aiuto di altri editori, che pagarono direttamente il proprietario, potei finalmente comperare nel 1939 la mia casa di lavoro ad Isla Negra.
L'idea di un poema centrale che raggruppasse gli avvenimenti storici, le condizioni geografiche, la vita e le lotte dei nostri popoli, mi si presentava come un compito urgente. La costa selvaggia di Isla Negra, col tumultuoso movimento oceanico, mi permetteva di dedicarmi con passione all'impresa del mio nuovo canto.
« MI PORTI GLI SPAGNOLI »
Ma la vita mi strappò immediatamente di lì.
In Cile arrivavano le notizie tremende dell'emigrazione spagnola. Più di cinquecentomila uomini e donne, combattenti e civili, avevano varcato la frontiera francese. In Francia, il governo di Leon Blum, (15) premuto dalle forze reazionarie, li ammucchiò in campi di concentramento, li disperse in fortezze e in prigioni, li ammassò nelle regioni africane vicino al Sahara.
Il governo del Cile era cambiato. La stessa esperienza del popolo spagnolo riviveva e aveva irrobustito le forze popolari cilene e ora avevamo un governo progressista. (16)
Il governo del Fronte Popolare del Cile decise di mandarmi in Francia, a compiere la più nobile missione che abbia mai svolto in vita mia: quella di tirar fuori gli spagnoli dalle loro prigioni e inviarli nella mia patria. Così la mia poesia avrebbe potuto diffondersi come una luce raggiante, proveniente dall'America, fra questi mucchi di uomini carichi come nessun altro di sofferenza e di eroismo. Così la mia poesia sarebbe giunta a confondersi con l'aiuto materiale dell'America che, accogliendo gli spagnoli, pagava un debito immemorabile.
Quasi invalido, da poco operato, con la gamba ingessata — tali erano le mie condizioni fisiche in quel momento — uscii dal mio ritiro e mi presentai al presidente della repubblica. Don Pedro Aguirre Cerda mi ricevette con affetto.
— Sì, mi porti migliaia di spagnoli. Abbiamo lavoro per tutti. Mi porti pescatori; mi porti baschi, castigliani, estremaduregni.
E di lì a pochi giorni, ancora ingessato, partii per la Francia a cercare spagnoli per il Cile.
Avevo una carica specifica. Ero console incaricato dell'immigrazione spagnola; così diceva la nomina. Mi presentai vantando i miei titoli all'ambasciatore del Cile a Parigi.
Governo e situazione politica non erano più gli stessi nella mia patria, ma l'ambasciata a Parigi non era cambiata. La possibilità di inviare spagnoli in Cile faceva andare su tutte le furie due degli azzimati diplomatici. Mi relegarono in uno sgabuzzino vicino alla cucina, mi ostacolarono in tutti i modi fino a negarmi la carta da scrivere. E ormai alle porte del palazzo dell'ambasciata cominciava ad arrivare l'onda degli indesiderabili: combattenti feriti, giuristi e scrittori, medici che avevano perduto tutte le loro cliniche, operai di tutte le specializzazioni.
Gli esuli arrivavano superando ogni difficoltà fino al mio ufficio che si trovava al quarto piano, e così i funzionar! architettarono qualcosa di diabolico: sospesero il funzionamento dell'ascensore. Molti spagnoli erano feriti di guerra, e sopravvissuti dal campo di concentramento africano, e mi straziava il cuore vederli salire penosamente fino al mio quarto piano, mentre i feroci funzionar! se la spassavano un mondo alle mie difficoltà.
UN PERSONAGGIO DIABOLICO
Per complicarmi la vita, il governo del Fronte Popolare del Cile, mi annunciò l'arrivo d'un incaricato d'affari. Ciò mi fece un piacere immenso, in quanto un nuovo capo nell'ambasciata avrebbe potuto eliminare gli ostacoli che il vecchio personale diplomatico non m'aveva lesinato per intralciare l'immigrazione spagnola. Alla Gare Saint Lazare arrivò un giovincello magro con un paio di occhiali a stanghetta (pince-nez) che gli davano l'aria di un vecchio topo di biblioteca. Avrà avuto ventiquattro o venticinque anni. Con voce stridula e femminea, spezzata dall'emozione, mi disse che riconosceva in me il suo capo e che il suo viaggio aveva l'unico scopo di collaborare con me nella nobile missione di far arrivare in Cile i « gloriosi sconfitti della guerra ». Anche se la mia soddisfazione di acquistare un nuovo collaboratore non diminuì, il personaggio non m'andava troppo a genio. Malgrado le adulazioni e le esagerazioni che mi prodigava, mi parve di indovinare in lui un che di falso. Venni in seguito a sapere che con la vittoria del Fronte Popolare era passato repentinamente da Caballero de Colón, un'organizzazione gesuitica, a membro della gioventù comunista. La federazione giovanile comunista, in pieno periodo di reclutamento, rimase incantata dai suoi meriti intellettuali. Arellano Marín scriveva commedie e articoli, era un erudito conferenziere e sembrava sapere tutto.
La Guerra Mondiale era alle porte. Ogni notte Parigi aspettava i bombardamenti tedeschi e in ogni casa c'erano istruzioni per far fronte agli attacchi aerei. Io ogni sera andavo a Villiers sur Seine, in una casetta di fronte al fiume, che lasciavo ogni mattina per ritornare
a malincuore all'ambasciata.
Il nuovo venuto, Arellano Marín, aveva acquistato, in pochi giorni, l'importanza che io non raggiunsi mai. Lo avevo presentato a Negrín, ad Alvarez del Vayo (17) e ad altri dirigenti dei partiti spagnoli. Una settimana dopo, il nuovo funzionario dava del tu quasi a tutti. Nel suo ufficio entravano ed uscivano dirigenti spagnoli che non conoscevo. Le sue lunghe conversazioni erano un segreto per me. Di tanto in tanto mi chiamava per mostrarmi un brillante o uno smeraldo che aveva comperato per sua madre, o per farmi delle confidenze su
una bellissima bionda che gli faceva spendere più del dovuto nei locali notturni di Parigi. Di Aragon, e specialmente di Elsa, (18) che avevamo accolto nel locale dell'ambasciata per proteggerli dalla repressione anticomunista, Arellano Marín divenne immediatamente amico,
riempiendoli di attenzioni e di regalini. La psicologia del personaggio deve aver interessato Elsa Triolet, dato che ne parla in uno o due dei suoi romanzi.
A poco a poco scoprii che la sua sete smodata di lusso e di denaro andavano crescendo, anche ai miei occhi che non erano mai stati troppo acuti. Cambiava con disinvoltura marca d'automobile, affittava case fastose. E quella bionda civettuola sembrava tormentarlo sempre più con le sue esigenze.
Dovetti trasferirmi a Bruxelles per risolvere un problema drammatico degli emigranti. Stavo uscendo dal modestissimo albergo in cui ero sceso, quando mi trovai faccia a faccia col mio fiammante collaboratore, l'elegante Arellano Marín. Mi accolse con grandi proteste
di amicizia e mi invitò a pranzo per il giorno stesso.
Ci trovammo nel suo albergo, il più caro di Bruxelles. Aveva fatto disporre delle orchidee al nostro tavolo. Naturalmente ordinò caviale e champagne. Durante il pranzo mantenni un preoccupato silenzio mentre ascoltavo i succulenti piani del mio anfitrione, i suoi
prossimi viaggi di piacere, i suoi acquisti di gioielli. Mi pareva di ascoltare un nuovo ricco con chiari sintomi di pazzia, ma l'acutezza del suo sguardo, la sicurezza delle sue affermazioni, tutto mi dava una specie di mal di mare. Decisi di tagliare per il corto e di parlargli francamente delle mie preoccupazioni. Gli chiesi di prendere il caffè nella sua stanza perché avevo qualcosa da dirgli.
Ai piedi del grande scalone, mentre stavamo salendo per parlare, gli si avvicinarono due uomini che non conoscevo. Marín disse loro in spagnolo che l'aspettassero, e che sarebbe sceso di lì a qualche minuto.
Appena giunto nel suo appartamento, misi da parte il caffè. Il colloquio fu teso:
— Mi sembra — gli dissi — che tu ti stia mettendo su una brutta strada. Ti stai trasformando in un frenetico del denaro. Forse sei troppo giovane per capirlo. Ma i nostri impegni politici sono molto seri. Il destino di migliaia di emigranti è nelle nostre mani e con
questo non si scherza. Io non voglio sapere niente dei tuoi affari ma desidero metterti in guardia. C'è molta gente che dopo una vita infelice dice: « Nessuno m'ha dato un consiglio; nessuno m'ha avvertito ». Tu non puoi dire lo stesso. Questo è stato il mio avvertimento. E adesso me ne vado.
Andandomene lo guardai. Le lacrime gli scorrevano dagli occhi alla bocca. Ebbi un impulso di pentimento. Ero forse andato troppo oltre? Mi avvicinai e gli battei sulla spalla:
— Non piangere!
— Piango di rabbia — mi rispose.
Mi allontanai senza una parola. Tornai a Parigi e non lo vidi mai più. Vedendomi scendere la scala i due sconosciuti che lo aspettavano salirono rapidamente nella sua stanza.
La conclusione di questa storia avvenne un po' di tempo dopo, in Messico, dov’ero console del Cile. Un giorno fui invitato a pranzo da un gruppo di rifugiati spagnoli, due dei quali mi riconobbero.
— Come fate a conoscermi? — chiesi loro.
— Noi siamo quei due di Bruxelles che siamo saliti a parlare col suo compatriota, Arellano Marín, quando lei è sceso dalla sua stanza.
— E che cosa è successo allora? Sono sempre stato curioso di saperlo — dissi.
Mi raccontarono un episodio straordinario. Lo avevano trovato in lacrime, in preda ad una crisi di nervi. E fra i singhiozzi disse loro: « Ho appena sofferto il dolore più grande della mia vita. Neruda è uscito di qui per denunciarvi alla Gestapo come comunisti spagnoli pericolosi. Non ho potuto convincerlo ad aspettare qualche ora. Avete i minuti contati per scappare. Lasciatemi le vostre valige: ve le custodirò io e ve le farò riavere in seguito ».
— Che cretino! — dissi. — Meno male che in ogni modo siete riusciti a salvarvi dai tedeschi.
— Ma le valige contenevano novantamila dollari dei sindacati operai spagnoli e non le abbiamo più riviste, e mai più le rivedremo.
In seguito seppi che il diabolico personaggio aveva fatto una lunga e piacevole crociera in Medio Oriente, sfruttando i suoi amori parigini. Naturalmente la bella bionda, tanto esigente, si rivelò poi un biondo studente della Sorbona.
Qualche tempo dopo in Cile veniva pubblicata la notizia delle sue dimissioni dal partito comunista. « Profonde divergenze ideologiche mi costringono a questa decisione », scriveva nella sua lettera ai giornali.
UN GENERALE E UN POETA
Ogni uomo che arrivava dalia sconfitta e dalla prigionia era un romanzo con capitoli, pianti, risa, solitudini, idilli. Alcune di queste storie mi sbalordivano.
Conobbi un generale d'aviazione, alto e ascetico, uomo d'accademia militare e con ogni tipo di decorazioni. Camminava per le strade di Parigi, ombra donchisciottesca della terra spagnola, anziano e verticale come un pioppo di Castiglia.
Quando l'esercito franchista divise in due la zona repubblicana, questo generale Herrera, nel buio più assoluto, doveva pattugliare, ispezionare le difese, dare ordini da una parte e dall'altra. Con il suo aereo interamente oscurato, nelle notti più tenebrose, sorvolava
il campo nemico. Di tanto in tanto un proiettile franchista sfiorava l'apparecchio. Ma al buio il generale si annoiava. Allora imparò il metodo Braille. Quando si impadronì della scrittura dei ciechi partiva per le sue pericolose missioni leggendo con le dita, mentre, sotto, ardeva il fuoco e il dolore della guerra civile. Il generale mi raccontò che era riuscito a leggersi il Conte di Montecristo e che mentre stava iniziando i Tre Moschettieri la sua lettura notturna da cieco fu interrotta dalla sconfitta e dall'esilio.
Un'altra storia che ricordo con grande emozione è quella del poeta andaluso Pedro Garfias. Nell'esilio capitò nel castello di un lord, in Scozia. Il castello era sempre vuoto e Garfias, andaluso inquieto, si recava ogni giorno alla taverna della contea e in silenzio, perché non parlava inglese, ma solo uno spagnolo gitano che io stesso non riuscivo a capire, beveva malinconicamente la sua birra solitaria. Questo cliente muto richiamò l'attenzione dell'oste. Una sera, quando tutti i bevitori se n'erano ormai andati, l'oste lo pregò di rimanere e di continuare a bere insieme in silenzio, secanto al fuoco del caminetto che scoppiettava e parlava per tutt'e due.
Questo invito divenne un rito. Ogni sera Garfias veniva accolto dall'oste, solitario come lui, senza moglie e senza famiglia. A poco a poco le loro lingue si sciiolsero. Garfias gli raccontava tutta la guerra di Spagna, con interiezioni, giuramenti, imprecazioni molto andaluse. L'oste lo ascoltava in religioso silenzio, senza capire naturalmente neppure una parola.
A sua volta, lo scozzese cominciò a raccontare i suoi guai, probabilmente la storia della moglie che l'aveva abbandonato, probabilmente le gesta dei suoi figli i cui ritratti in uniforme adornavano il caminetto. Dico probabilmente perché, nei lunghi mesi in cui durarano queste conversazioni, neppure Garfias capì una parola.
E tuttavia, l'amicizia dei due uomini solitari che parlavano appassionatamente ciascuno dei fatti propri e nella propria lingua, inaccessibile all'altro, andò aumentando e, vedendosi ogni sera e parlando fino all'alba, si trasformò per entrambi in una necessità.
Quando Garfias dovette partire per il Messico, si salutarono bevendo e parlando, abbracciandosi e piangendo. L'emozione che li univa così profondamente era la separazione delle proprie solitudini.
— Pedro — dissi molte volte al poeta — che cosa credi che ti raccontasse?
— Non ho mai capito una parola, Pablo, ma mentre l'ascoltavo ho avuto sempre la sensazione, la certezza di capirlo. E. quando parlavo io, sono sicuro che anche lui mi capiva.
IL « WINIPEG »
Una mattina, al mio arrivo, i funzionar! dell'ambasciata mi consegnarono un lungo telegramma. Sorridevano. rne. Era strano che mi sorridessero, dato che ormai non mi salutavano nemmeno più. Quel messaggio doveva contenere qualcosa che faceva loro piacere.
Era un telegramma dal Cile. Lo firmava niente meno che il presidente, don Pedro Aguirre Cerda, lo stesso a cui avevo ricevuto la tassativa istruzione per l'imbarco degli spagnoli in esilio.
Lessi con stupore che don Pedro, il nostro buon predente, aveva saputo quella mattina, con sorpresa, che stavo preparando l'ingresso degli emigrati spagnoli in Cile. Mi chiedeva di smentire immediatamente una così insolita notizia.
L'insolito per me era il telegramma del presidente II lavoro di organizzare, esaminare, selezionare l'immigrazione era stato un compito duro e solitario. Per fortuna il governo spagnolo in esilio aveva compreso l'importanza della mia missione. Ma ogni giorno sorgevano nuovi ed inaspettati ostacoli. Nel frattempo, dai campi di concentramento che in Francia e in Africa raccoglievano migliaia di rifugiati, centinaia partivano o si preparavano a partire per il Cile.
Il governo repubblicano in esilio era riuscito ad acquistare una nave: il « Winipeg ». La nave era stata trasformata per aumentare la sua capienza e aspettava, attraccata al molo di Trompeloup, un porticciolo vicino a Bordeaux.
Che fare? Quel lavoro intenso e drammatico, proprio alla vigilia mite della seconda guerra mondiale, era per me come il culmine della mia vita. La mia mano tesa verso i combattenti perseguitati significava per loro la salvezza e mostrava loro la natura della mia patria ospitale e lottatrice. Tutti questi sogni venivano distrutti dal telegramma del presidente.
Decisi di consultarmi sul da farsi con Negrín. Avevo avuto la fortuna di fare amicizia col presidente Juan Negrín, col ministro Alvarez del Vayo e con alcuni altri degli ultimi governanti repubblicani. L'alta politica spagnola mi parve sempre un tantino parrocchiale o provinciale, priva d'orizzonti. Negrín invece era universale, o per lo meno europeo, aveva compiuto gli studi a Leipzig, aveva una statura universitaria. E a Parigi, con assoluta dignità, manteneva quell'ombra immateriale che sono i governi in esilio.
Parlammo. Gli illustrai la situazione, lo strano telegramma presidenziale che, di fatto, mi lasciava come un impostore, come un ciarlatano che offriva a un popolo di esiliati un asilo inesistente. Le possibili soluzioni erano tre. La prima, abominevole, era annunciare semplicemente che l'emigrazione degli spagnoli per il Cile era annullata. La seconda, drammatica, era annunciare pubblicamente il mio dissenso, dare per finita la mia missione e spararmi un colpo nella tempia. La terza, di sfida, era riempire la nave di emigrati, imbarcarmi
insieme a loro, e lanciarmi senza autorizzazione verso Valparaíso e vedere che cosa sarebbe accaduto.
Negrín si buttò indietro sulla poltrona, fumando il suo grande avana. Poi sorrise malinconicamente e mi rispose:
-— Non potrebbe usare il telefono?
In quei giorni le comunicazioni telefoniche fra l'Europa e l'America erano insopportabilmente difficili, con ore di attesa. Fra rumori assordanti e brusche interruzioni, riuscii a sentire la voce remota del ministro degli Esteri. Attraverso una conversazione smozzicata, con frasi che si dovevano ripetere venti volte, senza sapere se ci capivamo o no, lanciando grida fenomenali o ascoltando come risposta strombettii oceanici del telefono, credetti di far capire al ministro Ortega che non accettavo il contrordine del Presidente. Credetti anche di capire che il ministro mi chiedeva di aspettare fino all'indomani.
Passai, com'era logico, una notte agitata nel mio alberghetto di Parigi. La sera seguente seppi che il ministro degli Esteri aveva presentato quella mattina le dimissioni. Neppure lui accettava il mio esautoramento. Il governo tremò, e il nostro buon presidente, temporaneamente confuso dalle pressioni, aveva riacquistato la sua autorità. Ricevetti allora un nuovo telegramma che mi diceva di continuare l'immigrazione.
Finalmente imbarcammo i profughi sul « Winipeg ». Al porto di imbarco si ritrovarono mariti e mogli, padri e figli, che erano stati separati per molto tempo e che venivano dall'uno o dall'altro confine dell'Europa e dell'Africa. Ad ogni treno che arrivava la folla di coloro che aspettavano si precipitava. Fra corse, lacrime e grida, riconoscevano gli esseri amati che sporgevano la testa in grappoli umani dai finestrini. Tutti salirono sulla nave. Erano pescatori, contadini, operai, intellettuali, un campione della forza, dell'eroismo e del lavoro. La mia poesia nella sua lotta era riuscita a trovar loro una patria. Mi sentii orgoglioso. (19)
Comperai un giornale. Stavo camminando per una strada di Varennes sur Seine. Passavo vicino al vecchio castello le cui rovine arrossate dai rampicanti leavano al cielo le torrette d'ardesia. Quel vecchio castello in cui Ronsard e i poeti della Pléyade (20) si erano
un tempo riuniti, aveva per me un prestigio di pietra e di marmo, di endecasillabo scritto in vecchie lettere d'oro. Aprii il giornale. Quel giorno scoppiava la seconda guerra mondiale. L'annunciava, a grandi caratteri di sudicio inchiostro nero, il giornale che m'era caduto fra le mani in quel vecchio villaggio sperduto.
Tutto il mondo l'aspettava. Hitler s'era andato inghiottendo territori su territori e gli statisti inglesi e francesi correvano con i loro ombrelli ad offrirgli più città, più regni, più uomini.
Una terribile nube di confusione riempiva le coscienze. Dalla mia finestra a Parigi, guardavo direttamente verso gli Invalides e vedevo uscirne i primi contingenti, i ragazzini che non hanno mai saputo vestirsi da soldati e che partivano per entrare nelle grandi fauci della morte.
La loro partenza era triste, e niente lo nascondeva. Era come una guerra perduta in anticipo, qualcosa di indefinibile. Le forze scioviniste percorrevano le strade alla caccia di intellettuali progressisti. Il nemico per loro non erano i discepoli di Hitler, i Laval, (21) ma il fior
fiore del pensiero francese. Accogliemmo nell'ambasciata, che era cambiata molto, il gran poeta Louis Aragon. Passò quattro giorni a scrivere giorno e notte, mentre le orde lo cercavano per ucciderlo. Lì nell'ambasciata del Cile, finì il suo romanzo I viaggiatori dell'Imperiale. (22) AI quinto giorno, vestito in uniforme, partì per il fronte. Era la sua seconda guerra contro i tedeschi.
In quei giorni crepuscolari mi abituai a questa incertezza europea, che non soffre rivoluzioni continue né terremoti, ma mantiene il veleno mortale della guerra saturando l'aria e il pane. Per timore dei bombardamenti la grande metropoli di notte spegneva le sue luci e questa oscurità di sette milioni di esseri uniti, queste tenebre fitte in cui bisognava camminare in piena ville lumière, mi rimasero impresse nella memoria.
Alla fine di quest'epoca, come se tutto questo lungo viaggio fosse stato inutile, torno a rimanere solo nei territori appena scoperti. Come nella crisi della nascita, come nell'inizio allarmante, e allarmato, del terrore metafisico da cui sgorga la sorgente dei miei primi versi, come in nuovo crepuscolo che la mia stessa creazione ha provocato, entro in un'agonia e nella seconda solitudine. Dove andare? Dove ritornare, dirigere, tacere o palpitare? Guardo verso tutti i punti della luce e dell'ombra e non trovo che lo stesso vuoto che le mie mani hanno creato con cura fatale.
Ma il più prossimo, il più fondamentale, il più esteso, il più incalcolabile non appariva che in questo momento sulla mia strada. Avevo pensato a tutti i mondi, ma non all'uomo. Avevo esplorato con crudeltà ed agonia il cuore dell'uomo; senza pensare agli uomini
avevo visto città, ma città vuote; avevo visto fabbriche di tragico aspetto ma non avevo visto la sofferenza sotto i tetti, sulle strade, in tutte le stazioni, nelle città, e nella campagna.
Ai primi proiettili che attraversarono le chitarre di Spagna, quando invece di suoni ne uscirono fiotti di sangue, la mia poesia si arresta come un fantasma in mezzo alle strade della angoscia umana e su di lei comincia a salire una corrente di radici e di sangue. Da allora la mia strada si unisce con la strada di tutti. E, ad un tratto, vedo che dal sud della solitudine sono andato verso il nord che è il popolo, il popolo al quale la mia umile poesia vorrebbe servire da spada e da fazzoletto, per asciugare il sudore dei suoi grandi dolori e per offrirgli un'arma nelle lotte del pane.
Allora lo spazio si fa grande, profondo e permanente. Siamo ormai in piedi sulla terra. Vogliamo entrare nel possesso infinito di quanto esiste. Non cerchiamo il mistero, siamo il mistero. La mia poesia comincia ad essere parte materiale di un ambiente infinitamente spaziale, d'un ambiente al tempo stesso sottomarino e sotterraneo, ad entrare per gallerie di vegetazione straordinaria, a conversare a pieno giorno con fantasmi solari, ad esplorare la cavità del minerale nascosto nel segreto della terra, a determinare i rapporti dimenticati
dell'autunno e dell'uomo. L'atmosfera si fa oscura e, a volte, l'illuminano lampi carichi di fosforescenza e di terrore; una nuova costruzione lontana dalle parole più evidenti, più logore, appare alla superficie dell'aria; un nuovo continente si innalza dalla più segreta materia della mia poesia. Nel popolare queste terre, nel classificare questo regno, nel toccare tutte le sue rive misteriose, nel placare la sua spuma, nel percorrere la sua zoologia e la sua geografica longitudine, ho passato anni oscuri, solitari e remoti.
Quaderno 7
MESSICO FIORITO E SPINOSO
Il mio governo mi inviava in Messico. (1) Oppresso da quell'angoscia mortale prodotta da tanti dolori e tanto disordine, giunsi nel 1940 a respirare sull'altipiano di Anahuac, che Alfonso Reyes (2) considerava come la regione più trasparente dell'aria.
Il Messico col suo fico d'India e il suo serpente; il Messico fiorito e spinoso, secco e tempestoso, violento di contorno e di colore, violento di eruzione e di creazione mi invase col suo sortilegio e la sua luce sorprendente.
Lo percorsi per anni interi da mercato a mercato. Perché il Messico sta nei mercati. Non sta nelle gutturali canzoni dei film, né nel ciarpame folkloristico di baffi e pistole. Il Messico è una terra di scialli color carminio e turchese fosforescente. Il Messico è una terra di vasi e di orci e di frutta spaccata sotto uno sciame di insetti. Il Messico è un campo infinito di agavi dal color azzurro acciaio e dalla corona di spine gialle.
Tutto questo lo offrono i mercati più belli del mondo. La frutta e la lana, la terracotta e i telai, mostrano il potere meraviglioso delle dita messicane feconde ed eterne.
Vagai per il Messico, ne percorsi tutte le coste, le Sue alte coste a picco, incendiate da un perpetuo lampo fosforico. Da Topolabambo a Sinaloa, discesi per questi nomi emisferici, aspri nomi che gli dei lasciarono in eredità al Messico quando sul suo territorio vennero a comandare gli uomini, meno crudeli degli dei. Andai per tutte queste sillabe di mistero e di splendore, per questi suoni aurorali. Sonora e Yucatàn; Anahuac che si innalza come un bracere freddo cui giungono tutti i confusi aromi da Nayarit a Michoacán, da cui si avverte il fumo della piccola isola di Janitzio, e l'odore di mais che sale da Jalisco, e lo zolfo del nuovo vulcano di Paricutín, che si mescola all'umidità fragrante dei pesci del lago di Pátzcuaro. Il Messico è l'ultimo dei paesi magici; magico di antichità e di storia, magico di musica e di geografia. Percorrendo la mia strada da vagabondo per queste pietre sferzate dal sangue perenne, intrecciate ad un ampio filo di sangue e di muschio mi sentii immenso ed antico, degno di andare fra tante creazioni immemorabili. Valli scoscese divise da immense pareti di roccia; di tanto in tanto alte colline tagliate alla sommità come da un coltello; immense selve
tropicali, ferventi di legna e di serpenti, di uccelli e di leggende. In quel vasto territorio, abitato fino ai suoi ultimi confini dalla lotta dell'uomo nel tempo, nei suoi grandi spazi, trovai che il Cile e il Messico erano i paesi antipodi dell'America. Non mi ha mai impressionato la convenzionale frase diplomatica per cui l'ambasciatore del Giappone nei ciliegi del Cile, e l'inglese nella nostra nebbia della costa, e l'argentino o il tedesco nella neve che ci circonda, trovano che siamo simili, assai. simili, a tutti i paesi. Mi piace la diversità terrena, la frutta terrestre differenziata in tutte le latitudini. Non tolgo niente al Messico, il paese amato, ponendolo nel punto più lontano dal nostro paese oceanico e cereale, ma anzi ne esalto le differenze perché la nostra America ostenti tutti i suoi strati, le sue altezze e le sue profondità. E non c'è in America, e forse sul pianeta, paese di maggior profondità umana del Messico e dei suoi uomini. Attraverso le sue verità luminose, come attraverso i suoi errori giganteschi, si vede la stessa catena di grandiosa generosità, di vitalità profonda di inesauribile storia, di germinazione incessante.
Per i villaggi pescatori, dove la rete diviene così diafana che pare una gran farfalla che torni alle acque per acquistare le squame d'argento che le mancano; per i centri minerari in cui, appena uscito, il metallo da duro lingotto si trasforma in geometria splendente; per le balze da cui sorgono i conventi cattolici spessi e spinosi come cactus colossali; per i mercati in cui gli ortaggi son rappresentati come fiori e la ricchezza di colori e sapori giunge al parossismo; noi un giorno ci smarriamo finché, attraversando il Messico, giungiamo a Yucatán, culla sommersa della più vecchia razza del mondo, l'idolatrico Mayab. (3) Lì la terra è scossa dalla storia e dalla semente, e accanto alle radici dell'agave crescono ancora le rovine piene di intelligenza e di sacrifici.
Quando si percorrono le ultime strade giungiamo all'immenso territorio in cui quegli antichi messicani hanno lasciato la loro storia ricamata nascosta fra la foresta. Qui troviamo una nuova specie di acqua, la più misteriosa di tutte le acque terrestri. Non è il mare, né il ruscello, né il fiume, e nessuna delle acque conosciute. A Yucatán non c'è altra acqua che sotto la terra, ed essa ad un tratto si fende, producendo dei pozzi enormi e selvaggi, le cui pareti piene di vegetazione tropicale lasciano intravedere sul fondo un'acqua profondissima,
verde e zenitale. I maya trovarono queste aperture terrestri chiamate cenotes e le divinizzarono con i loro strani riti. Come in tutte le religioni, all'inizio consacrarono la necessità e la fecondità, e in quella terra l'aridità fu sconfìtta da queste acque nascoste, per cui la terra si schiantava.
Allora, sui cenotes sacri, per migliala di anni le religioni primitive e invasore aumentarono il mistero dell'acqua misteriosa. Sui bordi del cenote, centinaia di vergini adorne di ori e d'oro, dopo cerimonie nuziali, furono coperte di gioielli e precipitate dall'alto nelle acque correnti e insondabili. Dalla profondità salivano alla superficie i fiori e le corone delle vergini, ma le fanciulle rimanevano nel fango del suolo remoto, trascinate a fondo dalle loro catene d'oro.
Le gioie sono state in minima parte riscattate dopo migliala di anni e si trovano sotto le vetrine dei musei del Messico e del Nordamerica. Ma io, penetrando in queste solitudini, non cercai l'oro ma il grido delle fanciulle affogate. Mi sembrava di udire nelle strane strida degli uccelli la roca agonia delle vergini; e nel veloce volo con cui attraversavano la tenebrosa grandezza dell’acqua immemorabile, scorgevo le mani gialle delle giovani morte.
Sulla statua che allungava la sua mano di pietra chiara sull'acqua e l'aria eterne, vidi una volta posarsi una colomba. Non so quale aquila l'inseguisse. Non aveva niente a che vedere con quel luogo in cui gli unici uccelli, l’atajacaminos dalla voce balbettante, il quetzal dal piumaggio favoloso, il colibrì (4) di turchese e gli uccelli rapaci, conquistavano la foresta alla loro crudeltà e al loro splendore. La colomba si posò sulla mano della statua, bianca come una goccia di neve sulle pietre tropicali. La guardai perché veniva da un altro mondo
da un mondo misurato e armonico, da una colonna pitagorica o da un numero mediterraneo. Indugiò al margine delle tenebre, rispettò il mio silenzio perché io stesso ormai appartenevo a quel mondo originale, americano, sanguinoso ed antico, e volò di fronte ai miei occhi fino a perdersi nel cielo.
I PITTORI MESSICANI
La vita intellettuale del Messico era dominata dalla pittura.
I pittori messicani ricoprivano la città di storia e geografia, di incursioni civili, di polemiche ferruginose. Sulla cima per così dire più alta si trovava José Clemente Orozco, (5) titano monco e allampanato, specie di Goya della sua fantasmagorica patria. Ho parlato spesso con lui. La sua persona sembrava mancare della violenza che ha avuto la sua opera. Aveva la dolcezza di un vasaio che abbia perduto la mano nel tornio e che con la mano che gli resta si senta obbligato a continuare a creare universi. I suoi soldati e le sue soldatesse, i suoi contadini fucilati dai capoccia, i suoi sarcofaghi con crocefissi terribili, sono la cosa più immortale della nostra pittura americana e resteranno come la rivelazione della nostra crudeltà.
Diego Rivera, (6) aveva già lavorato tanto in quegli anni e aveva già tanto litigato con tutti, che ormai il gigante tedesco pittore apparteneva alla leggenda. Guardandolo mi sembrava strano non scoprirgli code squamate o zampe ungulate.
Diego Rivera fu sempre un fantasioso contastoriePrima della prima guerra mondiale Ilya Ehrenburg, a Parigi, aveva pubblicato un libro sulle sue gesta e le sue mistificazioni: Vita e avventure di Julio Jurenito (7)
Trent'anni dopo Diego Rivera continuava ad essere un gran maestro della pittura e della tabulazione. Consigliava di mangiare carne umana come dieta igienica e da grande buongustaio. Dava ricette per cucinare gente di tutte le età. Altre volte si impegnava a teorizzare sull'amore lesbico sostenendo che questo rapporto era l'unico normale, secondo quanto provavano le testimonianze storiche più remote scoperte in scavi che lui stesso aveva diretto.
A volte mi parlava per ore muovendo i suoi accigliati occhi indios e mi rivelava la sua origine ebraica. Altre volte, dimenticando la conversazione precedente, mi giurava di essere il padre di Rommel, ma che questa confidenza restasse assolutamente segreta perché la sua
rivelazione avrebbe potuto scatenare serie conseguenze internazionali.
Il suo tono di persuasione straordinario e il suo pacato modo di dare i particolari più insignificanti ed inaspettati delle sue menzogne, ne facevano un ciarlatano meraviglioso, il cui fascino nessuno che l'abbia conosciuto può mai dimenticare.
David Alfaro Siqueiros (8) in quel periodo era in carcere. Qualcuno lo aveva coinvolto in un attacco armato contro la casa di Trotzky. Lo conobbi in prigione, ma, in verità, anche fuori di prigione, perché uscivamo col comandante Pérez Rulfo, direttore del carcere e ce ne
andavamo a bere un bicchiere là dove non ci vedessero troppo. E tardi, ormai notte, tornavamo e io salutavo con un abbraccio David che restava dietro le sbarre.
In uno di questi ritorni di Siqueiros dalla strada al carcere, conobbi suo fratello, un tipo stranissimo, di nome Jesus Siqueiros. La parola losco, ma in senso buono è quella che più si adatta a descriverlo. Scivolava lungo i muri senza far rumore né movimento alcuno. Ad un tratto lo sentivi dietro di te o al tuo fianco. Parlava pochissimo, e quando lo faceva, era appena un sussurro. Il che non impediva che in una piccola valigetta che si portava appresso, anch'essa silenziosamente, trasportasse quaranta o cinquanta pistole. Una volta mi capitò d'aprire, distrattamente, la valigetta, e di scoprire con stupore quell'arsenale di calci neri, intarsiati di madreperla o d'argento.
Tutto per niente, perché Jesus Siqueiros era tanto pacifico quanto turbolento era suo fratello David Anche Jesus aveva doti di grande artista o di attore una specie di mimo. Senza muovere il corpo né le mani' senza fare il minimo rumore, facendo agire solo il viso che cambiava di lineamenti a volontà, esprimeva vivamente, come maschere successive, il terrore, l'angoscia l'allegria, la tenerezza. Quel pallido viso da fantasma lo accompagnava nel suo labirinto vitale da cui di tanto in tanto emergeva, carico di pistole che non ha mai usato.
Questi vulcanici pittori mantenevano desta l'attenzione del pubblico. A volte sostenevano polemiche terribili. In una di esse, esauriti gli argomenti, Diego Rivera e Siqueiros estrassero delle grandi pistole e spararono quasi contemporaneamente, ma contro le ali degli angeli di gesso del soffitto del teatro. Quando le pesanti piume di gesso cominciarono a cadere in testa agli spettatori, questi se ne andarono, abbandonando il teatro, e quella discussione finì con un forte odore di polvere e una sala vuota.
Rufino Tamayo, (9) non viveva in quei tempi in Messico. Da New York si diffusero i suoi dipinti complessi e ardenti, rappresentativi del Messico, come la frutta o i tessuti dei mercati.
Non c'è parallelo fra la pittura di Diego Rivera e quella di David Alfaro Siqueiros. Diego è un classico lineare; con quella linea infinitamente sinuosa, specie di calligrafia storica, andò legando la storia del Messico, dando rilievo a fatti, costumi e tragedie. Siqueiros è l'esplosione di un temperamento vulcanico che combina una tecnica meravigliosa a lunghe ricerche.
Fra uscite clandestine dal carcere e conversazioni su quanto esiste, io e Siqueiros tramammo la sua liberazione definitiva. Provvisto di un visto che io stesso gli avevo impresso sul passaporto, Siqueiros con la moglie, Angela Arenales, si recò in Cile.
II Messico aveva costruito una scuola nella città di Chillán, che era stata distrutta dai terremoti, e in quella « Escuela Mexico », Siqueiros dipinse uno dei suoi straordinari murali. Il governo del Cile, mi pagò questo servigio alla cultura nazionale sospendendomi dalle mie
funzioni di console per due mesi.
NAPOLEONE UBICO (10)
Decisi di visitare il Guatemala. Partii per quel paese in automobile. Passammo per l'istmo di Tehuantepec, regione dorata del Messico, con donne vestite come farfalle ed un odore di miele e di zucchero nell'aria. Poi entrammo nella grande foresta di Chiapas. Di notte
fermavamo la macchina sbigottiti dai rumori, dalla telegrafia della foresta. Migliala di cicale emettevano un suono violento, planetario, che pareva incredibile. Il misterioso Messico stendeva la sua ombra verde su antiche costruzioni, su remote pitture, gioie e monumenti,
teste colossali, animali di pietra. Tutto questo giaceva nella foresta, nella milionaria esistenza dell'inaudito messicano. Passata la frontiera, nell'alto dell'America Centrale, la stretta via del Guatemala mi abbagliò con le sue liane e i suoi fogliami giganteschi; e poi con i suoi placidi laghi sulle vette come occhi dimenticati da dei stravaganti, e infine con pinete ed ampi fiumi primordiali da cui affioravano, come esseri umani, branchi di sirenidi e di lamantini. (11)
Passai una settimana vivendo insieme a Miguel Angel Asturias (12) che non si era ancora rivelato con i suoi romanzi vittoriosi. Capimmo di essere nati fratelli e in quei giorni non ci separammo quasi mai. A sera preparavamo visite inattese a lontane località di monti avvolti dalla nebbia o a porti tropicali della United Fruit. (13)
I guatemaltechi non avevano diritto di parlare e nessuno di loro parlava di politica davanti ad un altro. I muri avevano orecchie e denunciavano. Qualche volta fermavamo la macchina sulla sommità di un altipiano e lì, sicuri che non ci fosse nessuno dietro un albero,
discutevamo avidamente della situazione.
Il caudillo si chiamava Ubico e governava da moltissimi anni. Era un uomo corpulento, dallo sguardo freddo, conseguentemente crudele. Dettava legge e in Guatemala nessuno si muoveva senza che lui lo disponesse espressamente. Conobbi uno dei suoi segretari, era mio amico, un rivoluzionario. Avendo questi discusso un pò un piccolo particolare. Ubico lo fece legare ad una colonna dello studio presidenziale e lo frustò senza pietà.
I giovani poeti mi chiesero di tenere un recital della mia poesia. Mandarono un telegramma ad Ubico chiedendo il permesso. Tutti i miei amici e giovani studenti riempivano il locale. Lessi con piacere le mie poesie perché mi sembrava che socchiudessero almeno un poco la finestra di quella prigione così vasta. Il capo della polizia si sedette con boria in prima fila. Poi venni a sapere che erano state disposte quattro mitragliatrici puntate contro di me e contro il pubblico e che sarebbero entrate in funzione qualora il capo della polizia avesse abbandonato ostentatamente la sua poltrona e avesse interrotto il recital.
Ma non accadde nulla, perché il tizio rimase fino alla fine ad ascoltare i miei versi.
Poi vollero presentarmi al dittatore, un uomo infiam-mato da pazzia napoleonica. Si tirava una ciocca sulla fronte, e si faceva fotografare spesso nella posa di Bonaparte. Mi dissero che era pericoloso respingere quell'invito ma io preferii non stringergli la mano e me ne tornai rapidamente in Messico.
ANTOLOGIA DI PISTOLE
II Messico di quei tempi era più pistolista che pistolero. C'era un culto del revolver, un feticismo della « quarantacinque ». I pistoloni uscivano a brillare di continuo. I candidati al parlamento e i giornali lanciavano campagne di « depistolizzazione », ma poi capivano che a un messicano era più facile strappare un dente che non la sua amatissima arma da fuoco.
Una volta i poeti mi festeggiarono con una passeggiata in una barca fiorita. Sul lago di Xochimilco si riunirono quindici o venti bardi che mi fecero navigare tra le acque e i fiori, per i canali e le strette insenature di quell'estuario destinato a passeggiate floreali fin da tempo degli aztechi. L'imbarcazione viene decorata in ogni sua parte di fiori, traboccante di figure e di colori splendidi. Le mani dei messicani, come quelle dei cinesi sono incapaci di creare qualcosa di brutto, sia in pietra, che in argento, in terracotta o in garofani.
Ma uno di quei poeti, durante la traversata, dopo numerose tequile e per rendermi un deferente omaggio, insistette perché io sparassi al cielo con la sua bella pistola che ostentava sul calcio fregi d'oro e d'argento. Allora il collega più vicino estrasse rapidamente la sua da una cartucciera e, spinto dall'entusiasmo, diede una manata alla pistola del primo offerente e mi invitò a sparare con l'arma di sua proprietà. A quel baccano accorsero gli altri rapsodi, ognuno sfoderò con decisione la sua pistola, e tutti insieme si misero ad agitarmele attorno alla testa insistendo ognuno perché scegliessi la sua e non quella di un altro. Quel baldacchino mobile di pistole che mi si incrociavano davanti al naso o mi passavano sotto le ascelle, diveniva sempre più minaccioso, finché afferrai uno dei grandi e tipici sombreros e le raccolsi tutte al suo interno, dopo averle chieste al battaglione di poeti in nome della poesia e della pace. Tutti obbedirono e così riuscii a confiscare loro le armi per molti giorni, custodendole a casa mia. Penso di essere stato l'unico poeta in onore del quale sia stata composta un'antologia di pistole.
PERCHÉ NERUDA
Il sale del mondo si era riunito in Messico. Scrittori esiliati da tutti i paesi si erano accampati al riparo della libertà messicana, mentre in Europa la guerra continuava, con vittorie su vittorie da parte delle forze di Hitler che avevano già occupato la Francia e l'Italia.
In Messico, fra gli altri, si trovavano Anna Seghers e L’oggi scomparso umorista ceco Egon Erwin Kish. (14) Questo Kish lasciò alcuni libri affascinanti ed io ammiravo molto il suo grande ingegno, la sua invadenza infantile E le sue conoscenze di prestidigitazione. Appena entraVa in casa mia si cavava un uovo dall'orecchio, o inghiottiva una dopo l'altra fino a sette monete di cui certo non doveva abbondare il povero grande scrittor in esilio. Ci eravamo già conosciuti in Spagna e dato che manifestava con insistenza la curiosità di saper per quale motivo mi chiamassi Neruda senza esser nato con quel cognome, io gli dicevo scherzando:
— Gran Kish, tu sei stato lo scopritore del mistero del colonnello Redi (famoso caso di spionaggio avvenuto in Austria nel 1914) ma non chiarirai mai il mistero del mio nome Neruda.
E così fu. Kish sarebbe morto a Praga, in mezzo a tutti gli onori che potè dargli la sua patria liberata, ma quel ficcanaso di professione non sarebbe mai riuscito a sapere perché Neruda si chiamava Neruda.
La risposta era fin troppo semplice e tanto priva di originalità che la tacevo con cura. Quando avevo quattordici anni, mio padre perseguitava fieramente la mia attività letteraria. Non era d'accordo d'avere un figlio poeta. Per nascondere la pubblicazione dei miei primi
versi mi cercai un cognome che lo mettesse del tutto fuori strada. Trovai su una rivista questo nome ceco, (15) senza neppure sapere che si trattava di un grande scrittore, venerato da tutto un popolo, autore di ballate e romanze bellissime e con un monumento eretto nel quartiere di Mala Strana a Praga. Appena giunto in Cecoslovacchia, molti anni dopo, deposi un fiore ai piedi della sua statua barbuta.
LA VIGILIA DI PEARL HARBOR
Frequentavano casa mia gli spagnoli Wenceslao Roces, di Salamanca, e Constancia de la Mora, repubblicana, parente del Duca de Maura, il cui libro In Place of Splendor fu un bestseller nel Nordamerica, e i poeti Leon Felipe, Juan Rejano, Moreno Villa, Herrera Petere, e i pittori Miguel Prieto, e Rodriguez Lima, tutti spagnoli. Gli italiani Vittorio Vidali, (16) famoso per essere stato il comandante Carlo del 5° Reggimento, e Mario Montagnana, esuli italiani, pieni di ricordi, meravigliose storie e di cultura sempre in movimento. Venivano anche Jacques Soustelle e Gilbert Medioni, che erano i capi gollisti, rappresentanti di Francia Libera. Pullulavano inoltre gli esuli volontari o forzati del Centro America, guatemaltechi, salvadoregni, honduregni. Tutto questo riempiva Città del Messico di un interesse multinazionale e a volte casa mia, una vecchia villa del quartiere di San Angel, palpitava come se fosse il cuore del mondo.
Con Soustelle, che era allora socialista di sinistra e che anni dopo avrebbe dato tanto filo da torcere al presidente De Gaulle come capo politico dei golpisti d'Algeria, mi accadde qualcosa che debbo raccontare.
Era ormai il 1941 inoltrato. I nazisti assediavano Leningrado e si addentravano in territorio sovietico. Le volpi militariste giapponesi, impegnate nell'asse Roma-Berlino-Tokio, correvano il rischio che la Germania vincesse la guerra lasciandoli senza la loro parte di bottino. Circolavano diverse voci per il mondo. Si segnalava l'ora zero in cui l'immenso potere giapponese si sarebbe scatenato in Estremo Oriente. Nel frattempo una missione di pace giapponese faceva salamelecchi a Washington al governo nordamericano. Non c'era dubbio che i giapponesi avrebbero attaccato all'improvviso e di sorpresa, dato che la «guerra lampo» era la moda sanguinosa di quell'epoca.
Debbo raccontare, perché la mia storia sia comprensibile, che una vecchia linea di navigazione giapponese univa il Giappone al Cile. Io avevo viaggiato più di una volta su quelle navi e le conoscevo benissimo. Si fermavano nei nostri porti e i loro capitani si dedicavano ad acquistare ferro vecchio e a scattare fotografie. Toccavano tutto il litorale cileno, peruviano ed ecuadoriano e proseguivano verso il porto messicano di Manzanillo, da cui puntavano la prua su Yokohama attraversando il Pacifico.
Un giorno, dunque, quando io ero ancora console generale del Cile in Messico, ricevetti la visita di sette giapponesi che chiedevano con urgenza un visto per il Cile. Venivano dal litorale nordamericano, da San Francisco, da Los Angeles, e da altri porti. Dal loro viso traspariva una certa inquietudine. Erano ben vestiti e avevano documenti in regola. Avevano l'aspetto di ingegneri o di dirigenti industriali.
Naturalmente chiesi loro perché volevano partire per il Cile con il primo aereo, dato che erano appena arrivati. Mi risposero che desideravano prendere una nave giapponese nel porto cileno di Tocopilla, porto minerario del nord del paese. Risposi che per questo non avevano bisogno di recarsi in Cile, all'altro capo del continente, dato che quelle stesse navi giapponesi facevano scalo al porto messicano di Manzanillo, dove se volevano, potevano andare a piedi e arrivare in tempo.
Si guardarono e sorrisero confusi. Parlottarono nella loro lingua. Si consultarono col segretario dell'ambasciata giapponese che li accompagnava.
Costui decise di essere franco con me e mi disse:
— Vede caro collega, questa nave ha cambiato il suo itinerario e non farà più scalo a Manzanillo. E quindi questi esimi professionisti la devono prendere nel porto cileno.
Ebbi, in un lampo, la sensazione confusa di trovarmi di fronte a qualcosa di molto importante. Chiesi loro i passaporti, le fotografie, i dati di lavoro negli Stati Uniti, ecc., e dissi poi di ritornare il giorno dopo.
Non furono d'accordo. Avevano bisogno immediatamente del visto e l'avrebbero agato a qualsiasi prezzo.
Dato che cercavo di guadagnar tempo, dissi che non avevo la facoltà di concedere dei visti su due piedi e che ne avremmo parlato il giorno dopo.
Restai solo.
A poco a poco i pezzi dell'enigma andavano a posto. Perché la fuga precipitosa dal Nordamerica e l'estrema urgenza del visto? E la nave giapponese che per la prima volta in 30 anni cambiava rotta? Che cosa voleva dire tutto questo?
Cominciai a vederci chiaro. Si trattava di un gruppo importante e ben informato, appartenente certo allo spionaggio giapponese, che fuggiva dagli Stati Uniti, nell'imminenza di qualcosa di grave. E questo qualcosa non poteva essere altro che l'ingresso del Giappone
in guerra. I giapponesi della mia storia erano implicati nel complotto.
La conclusione cui giunsi mi provocò un estremo nervosismo. Che cosa potevo fare?
Dei rappresentanti delle nazioni alleate in Messico non conoscevo né inglesi né nordamericani. Ero in rapporto diretto solo con quelli che erano stati accreditati ufficialroente come delegati del generale De Gaulle e con accesso al governo messicano.
Mi misi in contatto con urgenza con loro. Spiegai loro la situazione. Avevamo in mano i nomi e i dati di questi giapponesi. Se i francesi si decidevano ad intervenire li avremmo messi in trappola. Parlai con entusiasmo prima, e poi con impazienza di fronte all'impassibilità dei rappresentanti gollisti.
— Giovani diplomatici — dissi loro. — Copritevi di gloria e scoprite il segreto di questi agenti nipponici. Da parte mia, non darò loro i visti. Ma voi dovete prendere una decisione immediata.
Questo tira e molla durò altri due giorni. Soustelle non si interessò alla faccenda. Non vollero far nulla. E io, semplice console cileno, non potevo spingermi oltre. Di fronte al mio rifiuto di conceder loro visti, i giapponesi si procurarono rapidamente dei passaporti diplomatici, andarono all'ambasciata del Cile, e arrivarono a tempo per imbarcarsi a Tocopilla.
Una settimana dopo il mondo si svegliava con l'annuncio di Pearl Harbor.
IO, IL MALACOLOGO
Su un giornale del Cile, anni fa, venne pubblicata questa notizia; quando il mio buon amico, il celebre Professor Julian Huxiey (17) arrivò a Santiago, all'aereoporto chiese di me:
— Il poeta Neruda? — gli risposero i giornalisti.
— No. Non conosco nessun poeta Neruda. Voglio parlare col malacologo Neruda. Questa parola greca, malacologo, significa specialista in molluschi.
Questa storiella, destinata a farmi arrabbiare, mi divertì molto; non poteva essere vera, perché io e Huxiey ci conoscevamo da anni e perché è certo un tipo arguto e molto più vivo ed autentico del suo famoso fratello Aldous.
In Messico andai lungo le spiagge, mi immersi nelle acque trasparenti e tiepide, e raccolsi meravigliose conchiglie marine. Poi a Cuba, e in altri posti, per scambio o per acquisto, per regalo e per furto (non c'è un solo collezionista onesto), il mio tesoro marino crebbe fino a riempire stanze e stanze di casa mia.
Ebbi le specie più rare dei mari della Cina e delle Filippine, del Giappone e del Baltico; conchiglie antartiche e mitili cubani o conchiglie pittrici dipinte vestite di rosso e di zafferano, d'azzurro e di violetto, come ballerine dei Caraibi. (18) A dire il vero fra le poche specie che mi mancarono vi fu una conchiglia di terra del Mato Grosso brasiliano, che vidi una sola volta e che non potei comperare, né recarmi nella foresta a raccogliere. Era tutta verde con una bellezza di giovane smeraldo.
Esagerai in questa mania delle conchiglie fino a visitare i mari più remoti. Anche i miei amici cominciarono a cercare conchiglie marine, a inconchigliarsi.
Quanto a quelle che mi appartenevano, quando superarono le quindicimila, cominciarono ad occupare tutti gli scaffali e a cadere dalle tavole e dalle sedie. I libri di conchigliologia, o malacologia, comunque si dica, riempirono la mia biblioteca. Un giorno presi il tutto e in immensi scatoloni le portai all'Università del Cile, facendo così la mia prima donazione all'Alma Mater. Era ormai una collezione famosa. Come ogni buona istituzione sudamericana, la mia università le ricevette con elogi e discorsi e poi le seppellì in un sotterraneo. Non si sono più riviste.
« ARAUCANÍA »
Mentre ero lontano, in missione, nelle isole del lontano arcipelago, il mare sussurrava e il mondo silenzioso era pieno di cose che parlavano alla mia solitudine. Ma le guerre fredde e calde deturparono il servizio consolare e trasformarono ogni console in un automa senza personalità, che non può decidere niente e il cui lavoro si avvicina in modo sospetto a quello della polizia.
Il ministero mi imponeva di accertare le origini razziali delle persone, africani, asiatici o israeliti. Nessuno di questi gruppi umani poteva entrare nella mia patria.
L'idiozia raggiungeva gradi così estremi che io stesso ne rimasi vittima quando fondai, senza nessun sussidio da parte dell'amministrazione cilena, una bella rivista. La intitolai «Araucanía» e in copertina misi il ritratto di una graziosa araucana, che sorrideva con tutti i suoi denti. Bastò questo perché il Ministero degli Esteri di allora richiamasse severamente la mia attenzione su quello che giudicava un intollerabile affronto al limite dell'insubordinazione. E questo nonostante che il presidente della repubblica fosse don Pedro Aguirre Cerda, sul cui simpatico e nobile volto si vedevano tutti gli elementi della nostra mescolanza razziale.
Si sa che gli araucani furono annientati e, alla fine, dimenticati o vinti, e la storia la scrivono o i vincitori o coloro che han tratto profitto dalla vittoria. Ma ci sono poche razze sulla terra più degne della razza araucana. Forse un giorno vedremo università araucane, libri stampati in araucano, e ci renderemo conto di quello che abbiamo perduto in trasparenza, in purezza e in energia vulcanica.
Le assurde pretese « razziste » di alcune nazioni sudamericane, che a loro volta sono il prodotto di molteplici incroci e mescolanze di razza, sono una tara di tipo coloniale. Vogliono montare un palcoscenico su cui alcuni snobs, scrupolosamente bianchi o bianchicci si presentano in società, gesticolando di fronte agli ariani puri o ai turisti sofisticati. Per fortuna tutto questo va rimanendo indietro e l'ONU si sta riempiendo di rappresentanti negri o mongolici: il fogliame delle razze umane sta cioè mostrando, con la linfa dell'intelligenza che sale, tutti i colori delle sue foglie.
Finii con lo stancarmi e un giorno qualunque rinunciai per sempre alla mia carica di console generale.
MAGIA E MISTERO
Inoltre mi resiconto che il mondo messicano, represso, violento e nazionalista, immerso nella sua cortesia precolombiana, avrebbe continuato com'era senza la mia presenza o la mia testimonianza.
Quando decisi di ritornare al mio paese capivo meno la vita messicana di quando ero arrivato in Messico.
Le arti e le lettere si producevano in circoli rivali, ma guai a chi dal di fuori avesse preso posizione pro o contro questo o quel gruppo: gli uni e gli altri gli davano addosso.
Quando ormai mi preparavo a partire mi fecero oggetto di una manifestazione mostruosa: un pranzo di circa tremila persone, senza contare centinaia che non erano riuscite a trovar posto. Molti presidenti della repubblica mandarono la loro adesione. Ciononostante,
il Messico è la pietra di paragone delle Americhe, e non a caso fu proprio in questo paese che venne inciso il calendario solare dell'America antica, il circolo centrale dell'irradiazione, della sapienza e del mistero.
Poteva accadere di tutto e di tutto accadeva. L'unico giornale dell'opposizione era sovvenzionato dal governo. Era la democrazia più dittatoriale che possa essere concepita.
Ricordo un tragico avvenimento che mi sconvolse profondamente. In una fabbrica uno sciopero si trascinava senza che si scorgesse soluzione. Le mogli degli scioperanti si riunirono e decisero di recarsi dal presidente della repubblica, per raccontargli forse le loro
privazioni e le loro angosce. Naturalmente non portavano armi. Per strada comperarono dei fiori per offrirli al presidente o alla sua signora. Le donne stavano entrando nel palazzo quando una guardia le fermò. Non potevano continuare. Il signor presidente non le avrebbe ricevute. Dovevano rivolgersi al ministero competente. Inoltre, era necessario che sgomberassero immediatamente. Era un ordine tassativo.
Le donne difesero la loro causa. Non avrebbero dato il minimo fastidio. Volevano solo offrire quei fiori al presidente e chiedergli di risolvere al più presto lo sciopero. Non avevano da mangiare per i loro figli; non potevano continuare così. L'ufficiale della guardia rifiutò di portare alcun messaggio. Le donne, dal canto loro, non si ritirarono.
Allora si udì una fitta scarica di fucileria che proveniva dalla guardia del palazzo. Sei o sette donne caddero morte sul posto, e molte altre rimasero ferite.
Il giorno dopo si svolsero i frettolosi funerali. Io pensavo che un immenso corteo avrebbe accompagnato le bare delle donne assassinate. Invece si riunirono solo poche persone. Parlò, è vero, il gran leader sindacale. Questi era noto come un eminente rivoluzionario. Il suo discorso al cimitero fu stilisticamente irreprensibile. Lo lessi completamente il giorno dopo sui giornali. Non conteneva una sola riga di protesta, non c'era
una parola d'ira, nessuna richiesta che i responsabili di un fatto tanto atroce venissero giudicati. Due settimane dopo nessuno parlava più del massacro. E non ho mai visto scritto che qualcuno lo ricordasse in seguito.
Il presidente era azteco, mille volte più intoccabile della famiglia reale di Inghilterra. Nessun giornale, né per scherzo, né sul serio, poteva criticare l'eccelso funzionario senza ricevere immediatamente un colpo mortale.
II pittoresco avvolge talmente i drammi messicani che uno vive sbalordito di fronte all'allegoria; un'allegoria che si allontana sempre più dal palpito intrinseco, dallo scheletro sanguinante. I filosofi son divenuti preziosi cavillatori, lanciati in disquisizioni esistenziali che paiono ridicole accanto al vulcano. L'azione civile è smozzicata e difficile. La sottomissione adotta diverse correnti che si stratificano attorno al trono. Ma tutto il magico sorge e risorge sempre in Messico. Da quel vulcano che è spuntato nel povero orto d'un contadino, mentre seminava fagioli. Alla sfrenata ricerca dello scheletro di Cortez, che, a quanto si dice, riposa in Messico col suo elmo d'oro che copre da secoli il cranio del conquistatore, e la non meno intensa ricerca dei resti dell'imperatore azteco Cuauthémoc, (19) perduti da quattro secoli, e che all'improvviso appaiono qua e là, custoditi da indios segreti, per tornare a immergersi senza tregua nella notte inspiegabile.
Il Messico vive nella mia vita come una piccola aquila sviata che mi circola nelle vene. Solo la morte piegherà le sue ali sul mio cuore di soldato addormentato. (20)
Quaderno 8
LA PATRIA IN TENEBRE
MACCHU PICCHU
II Ministero si affrettò ad accettare la fine volontaria della mia carriera. (1)
Il mio suicidio diplomatico mi procurò la più grande gioia: poter rientrare in Cile. Penso che l'uomo debba vivere nella sua patria e credo che lo sradicamento degli esseri umani sia una frustrazione che in un modo o nell'altro offusca la chiarezza dell'anima. Io non posso vivere che nella mia terra; non posso vivere senza mettere in essa piedi, mani, orecchie, senza sentire la circolazione delle sue acque e delle sue ombre, senza sentire come le mie radici cercano nelle sue zolle le sostanze materne. (2)
Ma prima di arrivare in Cile feci un'altra scoperta che avrebbe aggiunto un nuovo strato allo sviluppo della mia poesia.
Feci una sosta in Perù e salii fino alle rovine di Macchu Picchu. (3) Ci andammo a cavallo. In quei tempi non c’era strada. Dall'alto vidi le antiche costruzioni di pietra circondate dalle altissime vette delle Ande verdeggianti. Dalla cittadella consunta e smangiata dal passo
dei secoli precipitavano torrenti. Dal nume Wilcamayo si alzava a cumuli caliginosi la nebbia. Mi sentii infinitamente piccolo al centro di quell'ombelico di pietra, ombelico d'un mondo disabitato, orgoglioso ed eminente, a cui in qualche modo io appartenevo. Sentii che le mie stesse mani avevano lavorato lì in un'epoca lontana, scavando solchi, levigando macigni.
Mi sentii cileno, peruviano, americano. Avevo trovato fra quelle alture difficili, fra quelle rovine gloriose e disperse, una professione di fede per la continuazione del mio canto.
Lì nacque il mio poema Altura de Macchu Picchu. (4)
LA PAMPA DEL SALNITRO
Alla fi del 1943 ero di nuovo a Santiago. Mi installai nella casa che avevo comperato a rate col sistema delle cambiali. In questa abitazione dai grandi alberi raccolsi i miei libri e cominciai un'altra volta la difficile vita.
Cercai di nuovo la bellezza della mia patria, lo splendore potente della natura, l'incanto delle donne, il lavoro dei miei compagni, l'intelligenza dei miei compatrioti.
Il paese non era cambiato. Campi e villaggi addormentati, la terribile miseria delle regioni minerarie e la gente elegante che riempiva il suo Country Club. Bisognava decidersi.
La mia decisione mi provocò persecuzioni e momenti stellari.
Quale poeta potrebbe pentirsi?
Curzio Malaparte (5) che mi intervistò anni dopo quanto sto raccontando, disse bene sul suo giornale: « Non sono comunista, ma se fossi un poeta cileno, lo sarei, come lo è Pablo Neruda. In questo paese bisogna prender partito: o per le Cadillac o per la gente senza scuole e senza scarpe ».
Questa gente senza scuole e senza scarpe mi elesse senatore della repubblica il 4 marzo 1945. Sarò sempre orgoglioso del fatto che per me votarono migliaia di cileni della regione più dura del Cile, la regione delle grandi miniere, del rame e del salnitro.
Era difficile ed aspro camminare per la pampa. Per mezzo secolo in queste regioni non piove e il deserto ha plasmato i minatori. Sono uomini dal volto bruciato; tutta la loro espressione di solitudine e di abbandono si deposita negli occhi dall'oscura intensità. Salire dal deserto alla cordigliera, entrare in ogni casa povera conoscere quel lavoro inumano, e sentirsi depositario delle speranze dell'uomo isolato e miserabile, non è una responsabilità qualsiasi. (6) Tuttavia la mia poesia aprì la strada di comunicazione e potei andare e circolare ed essere accolto come un fratello imperituro, dai miei compatrioti dalla vita dura.
Non ricordo se a Parigi o a Praga mi venne un piccolo dubbio sull'enciclopedismo dei miei amici lì presenti. Erano quasi tutti scrittori, o almeno studenti.
— Stiamo parlando molto del Cile — dissi loro, — certamente perché io sono cileno. Ma voi sapete qualcosa del mio lontanissimo paese? Per esempio, quale mezzo di trasporto usiamo? L'elefante, il treno, l'aereo, la bicicletta, il cammello, la slitta?
La risposta della maggioranza fu e molto seriamente: l'elefante.
In Cile non ci sono né elefanti né cammelli. Ma capisco come possa essere enigmatico un paese che nasce nel gelido Polo Sud e si stende fino alle saline e ai deserti dove non piove da un secolo. Quei deserti dovetti percorrerli per anni come senatore eletto dagli abitanti, di quelle solitudini, come rappresentante di innumerevoli lavoratori del salnitro e del rame che non hanno mai usato colletto o cravatta.
Entrare in quelle pianure, affrontare quegli arenili, è entrare nella luna. Quella specie di pianeta vuoto custodisce la grande ricchezza del mio paese, ma il concime bianco e il minerale colorato debbono essere strappati alla terra secca e ai monti di pietra. In pochi posti al mondo la vita è così dura e al tempo stesso così priva di qualsiasi attrattiva. Costa indicibili sacrifici trasportare l'acqua, conservare una pianta che dia il fiore più umile, allevare un cane, un coniglio, un maiale.
lo vengo dall'altro capo della repubblica. Sono nato in terre verdi, dai grandi albereti selvatici. Ho avuto una infanzia di pioggia e di neve. Il solo fatto di affrontare quel deserto lunare significava una svolta nella mia vita. Rappresentare in parlamento quegli uomini, il loro isolamento, le loro terre titaniche, era anch’essa una difficile impresa. La terra nuda, senza un
filo d'erba, senza una goccia d'acqua, è un segreto immenso e scontroso. Sotto i boschi, accanto ai fiumi tutto parla all'essere umano. Il deserto, invece, è muto. (7) Io non capivo la sua lingua, cioè il suo silenzio.
Per molti anni le imprese del salnitro hanno costituito nella pampa dei veri e propri domini, feudi o regni. Gli inglesi, i tedeschi, ogni specie di invasori, chiusero i territori della produzione e diedero loro il nome di stabilimenti. Lì imposero una propria moneta; impedirono qualsiasi riunione; misero al bando i partiti e la stampa popolare. Non si poteva entrare in quei luoghi senza un'autorizzazione speciale, che naturalmente pochissimi riuscivano ad ottenere.
Una sera stavo parlando con gli operai di una maestranza negli stabilimenti del salnitro di Maria Elena. Il suolo dell'enorme laboratorio è sempre intriso d'acqua, di olio e di acidi, I dirigenti sindacali che mi accompagnavano ed io poggiavamo i piedi su un tavolato che ci isolava dalla fanghiglia.
— Questo tavolato — mi dissero — c'è costato 15 scioperi successivi, 8 anni di petizioni e 7 morti.
I morti furono dovuti al fatto che durante uno di quegli scioperi la polizia della compagnia portò via sette dirigenti. Le guardie andavano a cavallo, mentre gli operai, legati ad una corda, li seguivano a piedi attraverso arenili solitari. Li assassinarono con alcune scariche. I loro corpi rimasero distesi sotto il sole e il freddo del deserto, finché non furono trovati e sepolti dai loro compagni.
In precedenza le cose erano andate molto peggio. Nel 1906, ad esempio, ad Iquique, gli scioperanti scesero in città da tutti gli stabilimenti del salnitro, per presentare le loro richieste direttamente al governo. Migliaia di uomini, sfiniti dalla traversata, si riunirono a riposare in una piazza, di fronte ad una scuola. All'indomani si sarebbero recati dal governatore per esporgli le loro rivendicazioni. Ma non poterono mai farlo. All'alba, le truppe dirette da un colonnello, circondarono la piazza. Senza parlare cominciarono a sparare, ad uccidere. In quel massacro caddero più di seimila uomini. (8)
Nel 1945 le cose andavano meglio, ma a volte mi sembrava di tornare al tempo dello sterminio. Una volta mi fu vietato parlare agli operai nella sede del sindacato. Io li radunai fuori e in pieno deserto cominciai a spiegar loro la situazione, i possibili sbocchi del conflitto. Eravamo circa duecento. Ad un tratto sentii un rumore di motori e notai che un carro armato dell'esercito si avvicinava fino a quattro o cinque metri dalle mie parole. La torretta si aprì e dall'apertura comparve una mitragliatrice puntata dritta sul mio capo. Insieme all'arma si levò un ufficiale, molto azzimato, ma molto serio, che prese a guardarmi mentre io continuavo il mio discorso. Fu tutto.
La fiducia che quella moltitudine di operai, molti dei quali analfabeti, aveva nei comunisti, era nata con Luis Emilio Recabárren, che iniziò le sue lotte in questa zona desertica. Da semplice agitatore operaio, antico anarchico, Recabárren si trasformò in una presenza fantasmagorica e colossale. Riempì il paese di sindacati e di federazioni. Riuscì a pubblicare più di quindici giornali destinati esclusivamente alla difesa delle nuove organizzazioni che aveva creato. (9) Tutto senza un centesimo. I soldi provenivano dalla nuova coscienza che i lavoratori andavano acquistando.
In certi posti mi capitò di vedere i torchi di Recabárren, torchi che erano serviti in modo così eroico e continuavano a funzionare quarant'anni dopo. Alcune di quelle macchine furono sfasciate dalla polizia, ed erano state poi riparate con cura. Su di esse si notavano le enormi cicatrici ancora visibili sotto le saldature amorevoli che le avevano fatte funzionare di nuovo.
In quei lunghi giri mi abituai ad abitare nelle povenssime case, casette o capanne, degli uomini del deserto. All'ingresso delle imprese c'era quasi sempre un gruppo di persone ad attendermi, con delle piccole bandiere. Poi mi mostravano dove avrei dormito. Nella mia stanza, per tutto il giorno, sfilavano donne e uomini con le loro lagnanze di lavoro, con i loro conflitti più o meno intimi. A volte le lagnanze assumevano un carattere che forse un estraneo avrebbe giudicaro umoristico, capriccioso, e persino grottesco. La mancanza di tè, ad esempio, poteva essere per loro motivo di uno sciopero di grandi proporzioni. Sono concepibili esigenze tanto londinesi in una regione tanto desolata? Certo è che il popolo cileno non può vivere senza prendere il tè parecchie volte al giorno. Alcuni degli operai scalzi, che mi domandavano angosciati il motivo della scarsità dell'esotico ma imprescindibile intruglio, mi dicevano a mo' di discolpa:
— Il fatto è che se non lo beviamo ci viene un terribile mal di testa.
Quegli uomini chiusi in muri di silenzio, sulla terra solitaria e sotto il cielo solitario, ebbero sempre una curiosità politica vitale. Volevano sapere che cosa stava succedendo, tanto in Jugoslavia che in Cina. Erano preoccupati per le difficoltà e le trasformazioni nei paesi socialisti, per il risultato dei grandi scioperi italiani, per le voci di guerre, per il nascere di rivoluzioni nei paesi più lontani.
In centinaia di riunioni, molte lontane una dall'altra, ascoltavo una richiesta costante: che leggessi loro le mie poesie. Spesso me le chiedevano con i loro titoli. Naturalmente non ho mai saputo se tutti capivano o non capivano alcuni o molti dei miei versi. Era difficile rendersene conto in quella atmosfera di assoluto mutismo, di sacro rispetto con cui mi ascoltavano. Ma che importanza ha? Io che sono uno zuccone matricolato, non ho mai potuto capire non pochi versi di Hölderlin o di Mallarmé. (10) E sia chiaro che li ho letti con lo stesso sacro rispetto.
Il pranzo, quando voleva essere diverso dal solito, da festa, consisteva in una fricassea di gallina, rara avis nella pampa. La carne che più spesso riempiva i piatti era qualcosa che mi riusciva difficile mettere sotto i denti: lo spezzatino di porcellini d'india. Le circostanze facevano un piatto prelibato di questo animaletto nato per morire nei laboratori.
I letti che mi toccavano invariabilmente, nelle innumerevoli case in cui dormivo, avevano due caratteristiche conventuali. Delle lenzuola bianche come la neve e tese a forza d'amido, capaci di starsene in piedi da sole. E una durezza di letto paragonabile a quella della terra del deserto; non conoscevano materasso ma delle tavole lisce quanto implacabili.
Malgrado tutto dormivo come un sasso. Senza nessuno sforzo condividevo il sonno con l'innumerevole legione dei miei compagni. Il giorno era sempre secco e incandescente come una brace, ma la notte del deserto estendeva la sua freschezza sotto una volta meravigliosamente stellata.
La mia poesia e la mia vita sono trascorse come un fiume americano, come un torrente d'acque del Cile, nate nella profondità segreta delle montagne australi, dirigendo senza posa verso uno sbocco marino il movimento delle loro correnti. La mia poesia non ha rifiutato niente di quanto ha potuto trascinare nel suo corso; ha accettato la passione, ha sviluppato il mistero, si è aperta il passo fra i cuori del popolo.
Mi è toccato soffrire e lottare, amare e cantare; nella spartizione del mondo mi son toccati il trionfo e la sconfitta, ho provato il gusto del pane e quello del sangue. Che cosa può voler di più un poeta? E tutte le alternative, dal pianto ai baci, dalla solitudine al popolo, sono presenti e vivono nella mia poesia, e in essa agiscono, perché ho vissuto per la mia poesia, e la mia poesia ha sostenuto le mie lotte. E se ho ottenuto molti premi, premi fugaci come farfalle di polline fuggitivo, ho ottenuto un premio ben più grande, un premio che molti disprezzano ma che in realtà è per molti irraggiungibile. Attraverso una dura lezione di estetica e di ricerca, attraverso i labirinti della parola scritta sono riuscito ad essere poeta del mio popolo. (11) È questo il mio premio, non i libri e le poesie tradotte o i libri scritti per descrivere o sezionare le mie parole. Il mio premio è quel momento grave della mia vita quando nel fondo del carbone di Lota, in pieno sole nella salina abbruciata, dal pozzo della miniera è uscito un uomo come se venisse su dall'inferno, col viso stravolto dalla fatica terribile, con gli occhi arrossati dalla polvere e, porgendomi la mano indurita, quella mano
che reca tutta la mappa della pampa nei suoi calli e delle sue rughe, mi ha detto, con occhi brillanti: « ti conoscevo da molto tempo, fratello ». Ecco l'alloro della mia poesia, quel buco nella pampa terribile, da cui esce un operaio cui il vento, la notte e le stelle del Cile han detto molte volte « non sei solo; c'è un poeta che pensa ai tuoi dolori ». (12)
Sono entrato nel Partito Comunista del Cile il 15 luglio 1945.
GONZÁLES VIDELA
Difficilmente arrivavano al senato le amarezze e i dolori che io e i miei compagni rappresentavamo. Quella comoda sala parlamentare era come imbottita perché non vi si ripercuotessero le grida delle moltitudini scontente. I miei colleghi del partito avverso erano
esperti accademici nell'arte dei grandi discorsi patriottici e sotto tutto quell'arazzo di falsa seta che dispiegavano mi sentivo soffocare. (13)
Ben presto si rinnovò la speranza, perché uno dei candidati alla presidenza, Gonzáles Videla, (14) giurò di far giustizia, e la sua attiva eloquenza gli procurò grandi simpatie. Io fui nominato capo della propaganda della sua campagna elettorale e dovunque, nel territorio, portai la buona novella.
Con una travolgente maggioranza di voti il popolo lo elesse presidente.
Ma i presidenti, nella nostra America criolla, subiscono spesso una metamorfosi straordinaria. Nel caso di cui parlo, il nuovo presidente cambiò rapidamente, imparentò la sua famiglia con la « aristocrazia » e, a poco a poco, da demagogo si trasformò in magnate.
La verità è che Gonzáles Videla non entra nel quadro dei tipici dittatori sudamericani. In Melgarejo, della Bolivia, o nel generale Gómez, (15) del Venezuela, ci sono giacimenti tellurici riconoscibili. Hanno il segno di una certa grandezza e sembrano mossi da una forza
desolata, ma non per questo meno implacabile. Del resto quelli furono caudillos che affrontarono le battaglie e i proiettili.
Gonzáles Videla, invece, fu un prodotto dell'alchimia politica di bassa lega, un frivolo impenitente, un debole che ostentava forza.
Nella fauna della nostra America, i grandi dittatori sono stati dei sauri giganteschi, superstiti d'un feudalesimo colossale in terre preistoriche. Il giuda cileno fu solo un apprendista tiranno e alla scala dei sauri sarebbe solo una lucertola velenosa. Ma fece abbastanza per rovinare il Cile. Per lo meno ricacciò indietro il paese nella sua storia. I cileni si guardavano con vergogna senza capire esattamente come era potuto accadere tutto questo.
L'uomo fu un equilibrista, un acrobata da assemblea. Riuscì ad assumere una spettacolare posizione di sinistra. In questa « commedia delle menzogne » fu un campione matricolato. Questo nessuno lo discute. In un paese in cui, in genere, i politici sono, o sembrano essere, troppo seri, alla gente piacque l'arrivo della frivolezza, ma quando questo ballerino di conga straripò era ormai troppo tardi: le carceri erano piene di perseguitati politici e furono persino aperti campi di concentramento come quello di Pisagua. (16) Allora, come una novità nazionale, fu instaurato lo stato poliziesco. Non c'era altra strada che tener duro e lottare clandestinamente per il ritorno alla decenza.
Molti degli amici di Gonzáles Videla, gente che l'aveva accompagnato fino alla fine nei suoi andirivieni elettorali, furono messi in prigione nell'alta cordigliera o nel deserto perché dissentivano dalla sua metamorfosi.
La verità è che la classe alta, coi suoi intrighi, col suo potere economico, si era ancora una volta inghiottito il governo della nostra nazione, com'era accaduto tante volte. Ma questa volta la digestione fu difficile e il Cile ne ebbe una malattia che oscillava fra lo stupore e l'agonia.
Il presidente della repubblica, eletto con i nostri voti, si trasformò, sotto la protezione nordamericana, in un piccolo vampiro vile e sanguinario. Certamente i suoi rimorsi non lo lasciavano dormire, malgrado avesse installato, vicino al palazzo presidenziale, delle garconnières e dei postriboli privati, con tappeti e specchi per i suoi piaceri. Il miserabile aveva una mentalità insignificante, ma contorta. La stessa sera che iniziò la sua grande repressione anticomunista, invitò a cena due o tre dirigenti operai. Alla fine della cena scese insieme a loro le scale del palazzo e, asciugandosi una lacrima, li abbracciò dicendo: « Piango perché ho dato l'ordine di mettervi in galera. All'uscita vi arresteranno. Non so se ci vedremo ancora ».
« EL CUERPO REPARTIDO »
I miei discorsi si fecero violenti e la sala del senato era sempre piena per ascoltarmi. Ben presto fu chiesta ed ottenuta la mia espulsione e fu ordinato alla polizia il mio arresto. (17)
Ma noi poeti, fra le nostre caratteristiche originali abbiamo quella di esser fatti in gran parte di fuoco e di fumo.
Il fumo era destinato a scrivere. Il resoconto storico di quanto mi accadeva si avvicinò drammaticamente agli antichi temi americani. In quell'anno di pericolo e di clandestinità terminai il mio libro più importante, il Canto General. (18
Cambiavo casa quasi ogni giorno. Dovunque s'apriva una porta per nascondermi. Era sempre gente sconosciuta che in qualche modo aveva espresso il desiderio di ospitarmi per molti giorni. Chiedevano di darmi asilo, fosse per poche ore o per qualche settimana. Passai per campi, porti, città, accampamenti, per case di contadini, di ingegneri, di avvocati, di marinai, di medici di minatori. (19)
C'è un vecchio tema della poesia folkloristica che si ripete in tutti i nostri paesi. Si tratta del « cuerpo repartido ». Il cantore popolare immagina di avere i piedi in un posto, il cuore in un altro, e descrive tutto il suo organismo che ha lasciato sparso per campi e città. Io in quei giorni mi sentivo così.
Fra tutti i posti commoventi che mi hanno ospitato, ricordo una casa di due stanze, sperdute fra i colli poveri di Valparaíiso.
Io ero relegato in un cantuccio di stanza e in un angolino di finestra da cui osservavo la vita del porto. Da quell'infimo osservatorio il mio sguardo abbracciava un pezzetto di strada. Di sera vedevo circolare gente frettolosa. Era un sobborgo povero e quella piccola strada, cento metri sotto la mia finestra, accaparrava tutta l'illuminazione del quartiere. Era una stradina piena di bottegucce e di bettole.
Rintanato nel mio angolo, la mia curiosità era infinita. Le mie considerazioni e le mie deduzioni solitarie. A volte non riuscivo a risolvere i problemi. Ad esempio perché la gente che passava, anche gli indifferenti e i frettolosi, si fermava sempre in uno stesso posto? Che
merci magiche venivano mai esibite in quella vetrina? Famiglie intere si fermavano lì, a lungo, con i bambini sulle spalle. Non riuscivo a vedere i volti estasiati che senza dubbio avevano nel contemplare la magica vetrina, ma me li immaginavo.
Sei mesi dopo venni a sapere che era la vetrina di una semplice calzoleria. La scarpa è ciò che più interessa l'uomo, ne conclusi. Giurai di studiare questo argomento, di esaminarlo e di esprimerlo. Non ho avuto mai tempo di realizzare un tale proposito o promessa formulata in circostanze così strane. Tuttavia ci sono non poche scarpe nella mia poesia. Circolano con un ticchettio di tacchi nelle mie strofe, senza che mi sia mai proposto di essere un poeta ciabattino. (21)
All'improvviso arrivavano a casa visitatori che prolungavano le loro conversazioni, senza immaginare che a breve distanza, separato da una tramezza fatta di cartoni e di giornali vecchi, c'era un poeta inseguito da non so quanti professionisti della caccia all'uomo.
Il sabato pomeriggio, e anche la domenica mattina, arrivava il fidanzato di una delle ragazze della casa. Era uno di quelli che non dovevano sapere niente. Era un giovane lavoratore, disponeva del cuore della ragazza, però, ahimè, non gli davano ancora fiducia. Dalla finestra del mio balcone lo vedevo smontare dalla bicicletta, su cui distribuiva uova per tutto quel quartiere popolare. Poco dopo lo sentivo entrare canticchiando in casa. Era un nemico della mia tranquillità. Dico nemico, perché si intestardiva nel restarsene a bisbigliare alla ragazza a pochi centimetri dalla mia testa. Lei lo invitava a praticare l'amore platonico in
qualche parco o al cinema, ma lui resisteva eroicamente. E io maledicevo fra i denti l'ostinazione casalinga di quell'innocente distributore di uova.
Il resto delle persone di casa erano al corrente del segreto: la mamma vedova, le due incantevoli ragazze e i, due figli marinai. Questi ultimi scaricavano banane nella baia e a volte andavano su tutte le furie perché nessuna nave li assumeva. Da loro venni a sapere della demolizione di una vecchia imbarcazione. E dirigendo io dal mio angolo segreto le operazioni, staccarono la bella statua di prua della nave e la nascosero in un magazzino del porto. Io la conobbi solo parecchi anni dopo, ormai terminati la mia evasione e il mio esilio. La bella donna di legno, dal volto greco come tutti i mascheroni degli antichi velieri, mi sta guardando con la sua malinconica bellezza, mentre scrivo queste memorie vicino al mare. (22)
Il piano era che io mi imbarcassi clandestinamente nella cabina di uno dei ragazzi e all'arrivo a Guayaquil sbarcassi, sbucando dal bel mezzo delle banane. Il marinaio mi spiegava che avrei dovuto comparire inaspettatamente in coperta, quando la nave gettava l'ancora nel porto equadoriano, vestito da passeggero elegante, e fumando uno di quei sigari cubani che non ho mai potuto soffrire. In famiglia, essendo ormai prossima la partenza, si decise di confezionare il vestito appropriato, elegante e tropicale, e mi furono prese le misure.
In quattro e quattr'otto il mio vestito era pronto. Non mi sono mai divertito tanto come quando l'ho ricevuto. L'idea della moda che avevano le donne di casa era influenzata da un famoso film del tempo: « Via col vento ». I ragazzi, dal canto loro, consideravano come archetipo dell'eleganza quello che avevano visto nei dancings di Harlem e nei bar e nei locali dei Caraibi. La giacca, a doppio petto e attillatissima, mi arrivava alle ginocchia. I pantaloni mi stringevano le caviglie.
Ho conservato una così pittoresca acconciatura, elaborata da così brave persone, ma non ho mai avuto occasione di indossarla. Non uscii mai dal mio nascondiglio su una nave, e non sbarcai mai fra le banane di Guayaquil, vestito come un falso Clark Gable. Scelsi invece la via del freddo. Partii per l'estremo sud del Cile, che è l'estremo sud dell'America, e mi accinsi ad attraversare la cordigliera.
UNA STRADA NELLA FORESTA
II segretario generale del mio partito era stato fino a quel momento Ricardo Fonseca. Era un uomo molto fermo e sorridente, originario, come me, del sud, dei climi freddi di Carahue. Fonseca aveva provveduto alla mia vita illegale, ai miei nascondigli, alle mie apparizioni clandestine, alla pubblicazione dei miei pamphlets ma soprattutto, aveva custodito gelosamente il segreto dei miei domicili. L'unico che veramente sapeva, durante l'anno e mezzo che durò la mia clandestinità, dove andavo a mangiare e a dormire ogni sera, era il mio giovane e splendido capo e segretario generale Ricardo Fonseca. Ma la sua salute si andò minando in quella fiamma verde che gli s'affacciava agli occhi, il suo sorriso si andò spegnendo e un giorno il buon compagno ci lasciò per sempre.
In piena illegalità fu eletto come nuovo massimo dirigente un uomo tarchiato e duro, scaricatore di sacchi a Valparaíso. Si chiamava Gaio Gonzáles. Era un uomo complesso, con un viso che traeva in inganno e una fermezza mortale. Debbo dire che nel nostro partito non vi fu mai culto della personalità, nonostante fosse una vecchia organizzazione passata attraverso tutte le debolezze ideologiche. Ma ad esse si sovrappose sempre quella coscienza cilena, di popolo che ha fatto tutto con le proprie mani. Abbiamo avuto pochissimi caudillos nella vita del Cile e questo si è riflettuto anche nel nostro partito.
Tuttavia la politica piramidale dell'epoca staliniana ha prodotto anche in Cile, favorita dall'illegalità, un'atmosfera un po' rarefatta.
Gaio Gonzáles non poteva comunicare con la moltitudine del partito. La persecuzione si rafforzava. Avevamo migliaia di prigionieri e sulla costa desertica di Pisagua funzionava un campo di concentramento speciale.
Gaio Gonzáles conduceva una vita illegale piena di attività rivoluzionaria, ma la mancanza di comunicazione della dirigenza col corpo generale del partito si andoò accentuando. Fu un grand'uomo, una specie di saggio popolare e un lottatore coraggioso.
A Gonzáles arrivarono i piani della mia nuova fuga che questa volta venne messa scrupolosamente in pratica. Si trattava di trasferirmi a mille chilometri di istanza dalla capitale e attraversare la cordigliera a cavallo. I compagni argentini mi avrebbero atteso in un posto convenuto.
Al cader della sera uscimmo protetti da un'automobile provvidenziale. Il mio amico, il dottor Raul Bulnes, era allora medico della polizia a cavallo. Bulnes, con la sua automobile invulnerabile, mi portò fin nei dintorni di Santiago dove venni preso in consegna dall'organizzazione del partito. Su un'altra automobile appositamente attrezzata per il lungo viaggio, mi aspettava un vecchio compagno del partito, l'autista Escobar.
Viaggiammo giorno e notte per le strade. Durante il giorno, per rafforzare l'effetto della barba e degli occhiali con cui m'ero travestito, mi imbacuccavo in un ampio mantello che mi nascondeva, soprattutto quando attraversavamo villaggi e città, o quando ci fermavamo a far benzina.
Passai per Temuco a mezzogiorno. Non mi fermai in nessun posto, e nessuno mi riconobbe. Per un semplice caso, la mia vecchia Temuco si trovava sulla strada della mia fuga. Attraversammo il ponte e il paesino di Padre Las Casas. Ormai lontani dalla città, facemmo una sosta, a mangiare qualcosa seduti su di un masso. Per la collina passava un ruscello poco profondo, e le sue acque suonavano. Era la mia infanzia che mi salutava. Io ero cresciuto in quella città, la mia poesia era nata fra il colle e il fiume, aveva preso la voce dalla
pioggia, si era impregnata dei boschi come la legna. E ora, sulla strada verso la libertà, mi fermavo un istante vicino a Temuco e sentivo la voce dell'acqua che mi aveva insegnato a cantare.
Continuammo il viaggio. Solo una volta ci fu un attimo di scompiglio. Fermo in mezzo alla strada, un deciso ufficiale dei carabinieri dava il segnale di alt alla nostra macchina. Ammutolii, ma lo spavento risultò infondato. L'ufficiale chiedeva solo un passaggio, che lo
portassimo a cento chilometri di distanza. Si sedette vicino all'autista, il mio compagno Escobar, e parlò amabilmente con lui. Io feci finta di dormire per non parlare. Persino le pietre del Cile conoscevano la mia voce di poeta.
Senza ulteriori peripezie giungemmo a destinazione. Era un'impresa di legname, apparentemente disabitata. L'acqua la toccava da tutte le parti. Prima si attraversava l'ampio lago Ranco e si sbarcava fra macchie e alberi giganti. Da lì si continuava a cavallo per un tratto fino ad imbarcarsi di nuovo, questa volta sulle acque del lago Maihue. La casa padronale si scorgeva appena, nascosta com'era sotto le immense giogaie, il fogliame gigantesco, il ronzio profondo della natura. Si sente dire spesso che il Cile è l'ultimo angolo del mondo. Quel posto ricoperto dalla foresta vergine, circondato dalla neve e dalle acque lacustri era davvero uno degli ultimi posti abitabili del pianeta.
La casa in cui mi diedero una camera era provvisoria, come tutto in quella regione. Una stufa di ottone e di ferro, carica di legna selvatica, appena tagliata, ardeva giorno e notte. La tremenda pioggia del sud batteva senza tregua alle finestre, come se bussasse per entrare in casa. La pioggia dominava la cupa foresta, i laghi, i vulcani, la notte, e si ribellava furiosa perché quel rifugio di esseri umani aveva un altro statuto, e non accettava la sua vittoria.
Io conoscevo pochissimo l'amico che mi aspettava, Jorge Bellet. Ex pilota d'aviazione, un misto di uomo pratico e di esploratore, calzato di stivali e vestito con pesanti giubbotti corti, aveva un'innata aria di comando, una rudezza militare che in un certo qual modo quadrava bene con l'ambiente, anche se lì i reggimenti allineati erano solo gli alberi colossali del bosco naturale.
La padrona di casa era una donna fragile e lamentosa, assediata dalla nevrosi. Considerava un insulto alla sua persona la pesante solitudine di quella regione, la pioggia eterna, il freddo. Piagnucolava gran parte del giorno, ma tutto funzionava a puntino e si mangiavano cibi definitivi, provenienti dalla foresta e dall'acqua.
Bellet dirigeva l'impresa di legname. Il lavoro si riduceva a costruire traversine ferroviarie, destinate alla Svezia o alla Danimarca. Tutto il giorno con lamento acuto stridevano le seghe che tagliavano i grandi tronchi. Prima si sentiva il colpo profondo, sotterraneo, dell’albero che cadeva. Ogni cinque o dieci minuti la terra si scuoteva come un oscuro tamburo, quando la percoteva il rovinio dei raulí, dei larici, dei mañios, opere colossali della natura, alberi piantati lì dal vento da mille anni. Poi si alzava il lamento della sega che tagliava il corpo dei giganti. Il suono della sega, metallico, stridente e acuto come un violino selvatico, dopo il tamburo oscuro della terra che accoglieva i suoi dei, tutto questo creava un'atmosfera d'intensità mitologica un circolo di mistero e di terrore cosmico. La foresta moriva. Io udivo sgomento i suoi lamenti, come se fossi venuto ad ascoltare le più antiche voci che mai più sarebbero risonate.
Il gran padrone, il proprietario della foresta, era un uomo di Santiago che non conoscevo. La sua visita era annunciata, e temuta, per l'estate inoltrata. Si chiamava
Pepe Rodríguez. Mi informarono che era un capitalista moderno, proprietario di aziende tessili e di altre fabbriche, uomo industrioso, agile ed elettrizzante. Per giunta era un famoso reazionario, membro eminente del partito più di destra del Cile. Dato che io ero di passaggio nel suo regno, senza che lui lo sapesse, questi aspetti della sua personalità mi tornavano utili nella mia situazione. Nessuno sarebbe potuto venirmi a cercare proprio lì. Le autorità civili e quelle di polizia agivano sempre come vassalli del grand'uomo della cui ospitalità io stavo godendo e in cui pareva impossibile dovessi un giorno imbattermi.
La mia partenza era imminente. Sulla cordigliera stavano per iniziare le nevicate, e con le Ande non si scherza. La strada veniva studiata ogni giorno dai miei amici. In realtà era un'esplorazione attraverso sentieri che il fango e la neve avevano cancellato da tempo. L'attesa si faceva angosciosa per me. Inoltre i compagni che mi attendevano alla frontiera argentina sarebbero già andati a cercarmi.
Quando tutto sembrava pronto, Jorge Bellet, direttore generale delle falegnamerie, mi avvertì che c'era una novità. Me lo disse con aria preoccupata. Il padrone annunciava la sua visita. Sarebbe arrivato nel giro di due o tre giorni.
Rimasi sconcertato. I preparativi non erano ancora a punto. La cosa più pericolosa per la mia situazione, dopo tutto quel lungo lavoro, era che il proprietario venisse a sapere che mi trovavo nelle sue terre. Era noto che si trattava di un intimo amico del mio persecutore,
González Videla. Ed era noto che González Videla aveva messo una taglia sulla mia testa. Che fare?
Bellet fin dal primo momento sostenne l'opportunità che parlassi faccia a faccia con Rodríguez, il propnetario.
— Lo conosco benissimo — mi disse. — E un uomo leale e non ti denuncerà mai.
Non ero d'accordo. Le istruzioni del partito erano di mantenere un assoluto segreto e Bellet voleva violarle. Glielo dissi. Discutemmo accaloratamente. E nel corso della discussione politica decidemmo che io andassi a vivere a casa di un cacicco mapuche, (23) una capanna nascosta ai piedi della foresta.
Mi trasferii alla capanna e lì la mia situazione divenne quanto mai precaria. Tanto che alla fine, dopo molte obiezioni, decisi di incontrarmi con Pepe Rodríguez, il proprietario della azienda, dei monti e dei boschi. Fissammo un punto neutrale per il nostro incontro, che non fosse né casa sua né la capanna del cacicco. Sul far della sera vidi arrivare una jeep, da cui smontò, insieme al mio amico Bellet, un uomo maturo e giovanile, dai capelli bianchi e dal viso risoluto. Le sue prime parole furono per dirmi che da quel momento si assumeva lui
la responsabilità di badare a me. Così nessuno avrebbe osato attentare alla mia sicurezza.
Parlammo senza gran cordialità, ma l'uomo, a poco a poco, mi conquistò. Dato che faceva molto freddo, lo invitai a casa del cacicco. Lì la nostra conversazione continuò. Ad un suo ordine comparvero una bottiglia di champagne, un'altra di whisky, e del ghiaccio.
Al quarto bicchiere di whisky, stavamo discutendo ad alta voce. L'uomo era assolutista nelle sue convinzioni. Diceva cose interessanti ed era al corrente di tutto, ma il suo fare di insolenza mi faceva arrabbiare. Tutt'e due davamo delle grandi manate sulla tavola del cacicco, finché finimmo in santa pace quella bottiglia.
La nostra amicizia continuò per molto tempo. Fra le sue qualità c'era una franchezza irriducibile di uomo abituato ad avere il coltello per il manico. Ma sapeva anche leggere la mia poesia in modo straordinario, con un tono così intelligente e virile che i miei stessi versi mi parevano rinascere.
Rodríguez tornò alla capitale, ai suoi affari. Fece un ultimo gesto. Chiamò i suoi dipendenti accanto a me, e con la sua caratteristica voce di comando disse:
— Se il signor Legarreta, da qui a una settimana, dovesse incontrare difficoltà a partire per l'Argentina attraerso il passo dei contrabbandieri, voi aprirete un'altra strada che arrivi alla frontiera. Fermerete tutti i lavori della segheria e vi metterete tutti a costruire la strada. Sono i miei ordini.
Legarreta in quel momento era il mio nome.
Pepe Rodr 0237guez, quell'uomo dominante e feudale, morì due anni dopo, povero e perseguitato. Lo accusarono di contrabbando in grande stile. Passò molti mesi in carcere. Deve essere stata una sofferenza indicibile per una natura così arrogante.
Non ho mai saputo con certezza se era colpevole o innocente del delitto di cui fu accusato. Seppi però che la nostra oligarchia, un tempo incantata da un invito dello
splendido Rodríguez, lo abbandonò appena lo vide processato e rovinato.
Per quanto mi riguarda, continuo ad essere dalla sua parte senza potermelo cancellare dalla memoria. Pepe Rodríguez è stato per me un piccolo imperatore che ha ordinato di aprire sessanta chilometri di strada nella foresta vergine perché un poeta potesse raggiungere la libertà.
LA MONTAGNA ANDINA
La montagna andina (24) ha passi sconosciuti, usati anticamente dai contrabbandieri, e così ostili e difficili che le guardie di frontiera non si preoccupano più di sorvegliarli. Ci pensano i fiumi e i precipizi a fermare il viandante.
Il mio compagno Jorge Bellet era il capo della spedizione. Alla nostra scorta di cinque uomini, tutti buoni cavalieri e buone guide, si unì il mio vecchio amico Victor Bianchi, che era capitato in quei luoghi come agrimensore in certe cause di terra. Non mi riconobbe. Io avevo una barba che m'era cresciuta in un anno e mezzo di vita clandestina. Appena seppe del mio progetto di attraversare la foresta, ci offrì i suoi inestimabili servigi di esploratore provetto. Anni prima aveva scalato l'Aconcagua (25) in una tragica spedizione di cui fu quasi l'unico superstite.
Procedevamo in fila indiana, protetti dalla solennità dell'alba. Erano molti anni, dalla mia infanzia, che non montavo a cavallo, ma qui andavamo al passo. La frontiera andina australe è popolata di grandi alberi separati uno dall'altro. Sono larici giganteschi, maitenes, (26) querce e conifere. I raulí stupiscono per il loro spessore. Mi fermai a misurarne uno. Aveva il diametro di un cavallo. In alto, il cielo non si vede. In basso, le foglie, cadute per secoli e secoli, formano uno strato di humus in cui affondano gli zoccoli delle cavalcature.
In una marcia silenziosa attraversavamo quella grande cattedrale della natura selvaggia.
Poiché il nostro itinerario era segreto e vietato, ci orientavamo soltanto per mezzo dei segni più labili. Non vi erano orme, non esistevano i sentieri ed io e i miei quattro compagni a cavallo cercavamo, in una cavalcatura ondeggiante, — eliminando gli ostacoli di alberi imponenti, di fiumi impossibili, di immensi massicci, di nevi desolate, con l'intuizione soprattutto — il sentiero della mia libertà. Coloro che mi accompagnavano conoscevano l'orientamento, le possibilità offerte dalla fitta vegetazione, ma per sentirsi più sicuri, segnavano con un colpo di machete, ora qui ora là, le cortecce dei grandi alberi, lasciando tracce che li avrebbero guidati al ritorno, quando mi avrebbero lasciato solo col mio destino.
Ciascuno avanzava immerso in quella solitudine senza margini, in quel silenzio verde e bianco, fra gli alberi. i grandi rampicanti, l'humus depositato da centinaia di anni, i tronchi semiabbattuti che all'improvviso rappresentavano un'ulteriore barriera sul nostro cammino.
Tutto era, al tempo stesso, natura sconvolgente e segreta e crescente minaccia di freddo, di neve, di persecuzione. Tutto si mischiava: la solitudine, il pericolo, il silenzio e l'urgenza della mia missione.
A volte seguivamo una traccia sottilissima, lasciata forse da contrabbandieri o da delinquenti comuni in fuga, ignoravamo se molti di essi eran morti, sorpresi all’ improvviso dalle mani glaciali dell'inverno, dalle tremende tormente di neve che, quando le Ande si scatenano, avvolgono il viaggiatore, lo fanno affondare sotto sette strati di candore.
Ai due lati del sentiero osservai, in quella desolazione selvaggia, qualcosa come una costruzione umana. Erano pezzi di rami accumulati che avevano sopportato molti inverni, vegetale offerta di centinaia di viaggiatori, alti tumuli di legname per ricordare i caduti, far riflettere su quanti non avevano potuto proseguire ed erano rimasti lì per sempre sotto le nevi. Anche i miei compagni tagliarono con i loro machetes i rami che ci sfioravano la testa e scendevano su di noi dall'alto delle immense conifere, dai roveri il cui ultimo fogliame palpitava prima delle tempeste dell'inverno. E anch'io lasciai in ogni tumulo un ricordo, un frammento di legno, un ramo tagliato dal bosco per ornare le tombe di questo o quel viaggiatore sconosciuto.
Dovevamo attraversare un fiume. Quei piccoli torrenti, nati sulla vetta delle Ande, precipitano, scaricano la loro forza vertiginosa e travolgente, si trasformano in cascate, rompono terre e rocce con l'energia e la velocità che hanno portato con sé dalle altezze più insigni: ma quella volta trovammo una gora, un grande specchio d'acqua, un guado. I cavalli vi entrarono, perdettero il contatto con la terra e nuotarono verso l'altra riva. Ben presto il cavallo fu sommerso quasi interamente dalle acque, io cominciai a dondolare senza appoggio, i miei piedi andavano alla deriva mentre la bestia lottava per mantenere alta la testa. Guardammo il fiume in quel modo. E appena arrivati sull'altra riva, le guide, i contadini che mi accompagnavano, mi chiesero con un certo sorriso:
— Ha avuto molta paura?
— Molta. Ho creduto che fosse venuta la mia ultima ora — dissi.
— La seguivamo con il laccio in mano — mi risposero.
— Proprio in quel punto — aggiunse uno — cadde mio padre e la corrente lo portò via. Con lei non sarebbe accaduta le stessa cosa.
Continuammo fino ad entrare in un tunnel naturale, aperto forse da un grosso fiume scomparso, o da un fremito del pianeta che collocò sulle vette quell'opera, quel canale rupestre di pietra perforata, di granito, nel quale penetrammo. Fatti pochi passi le cavalcature scivolavano, cercavano di sostenersi ai dislivelli della pietra, si piegavano sulle zampe, facevano scintille dai ferri: più di una volta mi vidi disarcionato e sbattuto sulla roccia. Il mio cavallo sanguinava dalle narici e dalle zampe, ma continuammo testardi lungo quel sentiero vasto, splendido e difficile.
Qualcosa ci aspettava in mezzo a quella selva selvaggia. D'un tratto, come una visione singolare, giungemmo ad una radura piccola e splendente, raccolta nel cuore delle montagne: acqua chiara, prato verde, fiori silvestri, rumori di fiumi e in alto, il cielo azzurro, luce generosa non interrotta da nessun fogliame.
Lì ci arrestammo come dentro un circolo magico, come ospiti di un recinto sacro: e ancor più sacra fu la cerimonia alla quale presi parte. I vaccari smontarono dalle loro cavalcature. Al centro del recinto era collocato come in un rito, un teschio di bue. I miei compagni si avvicinarono silenzionsamente, ad uno ad uno, per lasciare una moneta e qualche cibo nelle cavità ossee. Mi unii a loro in quell'offerta destinata a torvi Ulissi perduti, a fuggitivi di tutte le risme che avrebbero trovato del pane e un aiuto nelle occhiaie del toro morto.
Ma quell'indimenticabile cerimonia non si fermò qui, I miei rustici amici si tolsero i loro sombreros e iniziarono una strana danza su un piede solo attorno al teschio abbandonato, ricalpestando la traccia circolare lasciata dai balli di quanti erano passati prima per quel luogo. Compresi allora in una maniera imprecisa, accanto ai miei impenetrabili compagni, che esisteva una comunicazione da sconosciuto a sconosciuto, che esisteva una sollecitazione, una domanda e una risposta, anche nelle più lontane ed isolate solitudini del mondo.
Più oltre, sul punto ormai di attraversare le frontiere che mi avrebbero tenuto per molti anni lontano dalla mia patria, giungemmo di notte alle ultime gole delle montagne. Vedemmo all'improvviso una luce accesa, indizio sicuro di un'abitazione umana e, quando ci avvicinammo, trovammo delle costruzioni sconnesse, dei baracconi sconquassati apparentemente vuoti. Entrammo in uno di essi e, al chiarore di un lume, vedemmo dei grandi tronchi che ardevano al centro della stanza, corpi di alberi giganteschi che ardevano giorno e notte, lasciando sfuggire dalle fessure del tetto un fumo che vagava in mezzo alle tenebre come uno spesso velo azzurro. Vedemmo grandi mucchi di formaggi accumulati da quelli che li avevano fatti cagliare fra quelle cime. Accanto al fuoco, raggruppati come sacchi, giacevano
alcuni uomini. Nel silenzio distinguemmo le corde di una chitarra e le parole di una canzone che, nascendo dalle braci e dalla oscurità, ci portava la prima voce umana che avevamo incontrato lungo il cammino. Era una canzone d'amore e di separazione, un lamento d'amore e di nostalgia rivolto alla primavera lontana, alle città dalle quali venivamo, all'infinita estensione della vita. Essi ignoravano chi eravamo, non sapevano niente del fuggiasco, non conoscevano né la mia poesia né il mio nome. O forse lo conoscevano, ci conoscevano? La realtà è che giunti presso quel fuoco cantammo e mangiammo, e poi ci muovemmo dentro quell'oscurità verso certe stanze elementari. Vi scorreva dentro una corrente termale, un'acqua vulcanica nella quale ci immergemmo, un calore che si staccava dalla cordigliera e ci accoglieva nel suo seno.
Vi sguazzammo felici, liberandoci, ripulendoci del peso di quell'immensa cavalcata. Ci sentimmo freschi, rinati, battezzati, quando all'alba percorremmo gli ultimi chilometri della giornata che mi avrebbe separato da quell'eclisse della patria. Ci allontanammo cantando
sulle cavalcature, pieni di un'aria nuova, di un'energia che ci spingeva verso la grande strada del mondo che mi stava aspettando. Quando volemmo dare (ne ho un ricordo vivissimo) a quei montanari qualche moneta di ricompensa per le canzoni, per i cibi, per le acque termali, per il tetto e per i letti, cioè per l'inatteso rifugio che ci era venuto incontro, rifiutarono le nostre offerte senza un gesto. Ci avevano reso un servizio e nient'altro. E in quel « nient'altro », in quel silenzioso nient'altro, c'erano molti sottintesi, forse la riconoscenza, forse gli stessi sogni.
SAN MARTIN DE LOS ANDES
Una baracca abbandonata ci indicò la frontiera. Ero ormai libero. Sui muri della capanna scrissi: « A presto, patria mia. Me ne vado ma ti porto con me ».
A San Martin de los Andes doveva aspettarci un amico cileno. Questo paesino della cordigliera argentina tanto piccolo che mi avevano detto come unica indicazione:
— Vai al miglior albergo; lì verrà a cercarti Perito Ramírez.
Ma così va il mondo. A San Martin de los Andes non c'era un miglior albergo, ce n'erano due. Quale scegliere? Decidemmo per il più caro, situato nel quartiere dei sobborghi disprezzando il primo che avevamo visto di fronte alla bella piazza della città.
Ma l'albergo che scegliemmo era talmente di prim'ordine che non ci vollero accettare. Osservarono con ostilità gli effetti dei molti giorni di viaggio a cavallo, i nostri zaini, le facce barbute e impolverate. C'era qualcuno che aveva paura di accoglierci.
Non parliamo poi del direttore di un albergo che ospitava nobili inglesi che venivano dalla Scozia a pescare salmone in Argentina. Non avevano proprio niente dei lords. Il direttore ci intimò il « vade retro », affermando con smorfie e gesti teatrali che proprio dieci minuti prima l'ultima stanza disponibile era stata affittata. In quella, si affacciò alla porta un signore elegante, dall'inconfondibile aria militare, accompagnato da una bionda cinematografica, e gridò con voce tonante:
— Alt! I clienti non li si manda via proprio da nessun posto. Restano qui!
E restammo. Il nostro protettore assomigliava tanto a Perón, e la sua dama ad Evita, che tutti quanti pensammo: sono loro! Ma poi, ormai lavati e vestiti, seduti a tavola e bevendo una bottiglia di dubbio champagne, venimmo a sapere che l'uomo era comandante della
guarnigione locale e lei un'attrice di Buenos Aires che era venuta a trovarlo.
Noi passavamo per cileni commercianti in legname, decisi a fare buoni affari. Il comandante mi chiamava: « L'Uomo Montagna ». Victor Bianchi, che mi aveva accompagnato fin lì per amicizia e per amore d'avventura, scoprì una chitarra e con le sue maliziose canzoni cilene incantava argentini e argentine. Ma passarono tre giorni e tre notti e Pedrito Ramírez non veniva a cercarmi. Io non stavo più nella pelle. Ormai non avevamo più camicie pulite, né soldi per comperarne di nuove. Un buon commerciante in legname, diceva Victor Bianchi, deve avere almeno delle camicie.
Nel frattempo, il comandante ci offrì una cena al suo reggimento. La sua amicizia con noi si fece più intima e ci confessò di essere antiperonista, malgrado la sua rassomiglianza con Perón. Passavamo ore e ore a discutere su chi avesse peggior presidente, se il Cile o l'Argentina.
All'improvviso, una mattina, Pedrito Ramirez entrò nella mia stanza.
— Disgraziato! — gli gridai. — Perché hai tardato tanto?
Era accaduto l'inevitabile. Aspettava tranquillamente il mio arrivo nell'altro albergo, quello della piazza.
Dieci minuti dopo stavamo viaggiando per la pampa infinita. E continuammo a viaggiare giorno e notte. Di tanto in tanto gli argentini fermavano l'auto per prepararsi una mate (27) e poi continuavamo attraverso quell'interminabile monotonia.
A PARIGI E CON PASSAPORTO
Naturalmente la mia più grande preoccupazione a Buenos Aires fu quella di procurarmi una nuova identità. I documenti falsi che m'erano serviti a varcare la frontiera argentina sarebbero stati inutilizzabili se avessi voluto fare un viaggio e recarmi in Europa. Ma come procurarmene altri? Intanto la polizia argentina, avvertita dal governo del Cile, mi ricercava affannosamente.
Ero nei pasticci, ma mi ricordai qualcosa che dormiva nella mia memoria. Il romanziere Miguel Angel Asturias, mio vecchio amico centroamericano, si trovava probabilmente a Buenos Aires, dove svolgeva un incarico diplomatico per il suo paese, il Guatemala. Avevamo una vaga somiglianza. Di mutuo accordo ci eravamo classificati « chompipes », parola indigena con cui in Guatemala e in parte del Messico si indicano i tacchini. Naso lungo, viso e corpo opulento, ci univa una comune rassomiglianza col succulento gallinaceo.
Mi venne a trovare nel mio nascondiglio.
— Compagno chompipe — gli dissi. — Prestami il passaporto. Concedimi il piacere di arrivare in Europa trasformato in Miguel Angel Asturias.
Debbo dire che Asturias è sempre stato un liberale, abbastanza lontano dalla politica militante. Però non ebbe un attimo di esitazione. Di lì a pochi giorni, fra « signor Asturias di qua » e « signor Asturias di là », varcai l'ampio fiume che separa l'Argentina dall'Uruguay, entrai a Montevideo, attraversai aereoporti e posti d'i polizia e arrivai finalmente a Parigi travestito da grande romanziere guatemalteco.
Ma in Francia la mia identità tornava ad essere un problema. Il mio passaporto non avrebbe resistito all'implacabile esame critico della Sùreté. Dovevo per forza smettere di essere Miguel Angel Asturias e ridiventare Pablo Neruda. Ma come fare, se Pablo Neruda
non era mai arrivato in Francia? Chi c'era arrivato era Miguel Angel Asturias.
I miei consiglieri mi obbligarono a scendere all'Hotel George V.
— Lì, fra i potenti del mondo, nessuno ti chiederà i documenti — mi dissero.
Mi fermai in quell'albergo per alcuni giorni, senza preoccuparmi troppo dei miei abiti montanari che stonavano in quel mondo ricco ed elegante. Allora comparve Picasso, grande di genio come di cuore. (28) Era felice come un bambino perché aveva appena pronunciato il
primo discorso della sua vita. Un discorso sulla mia poesia, la mia persecuzione, la mia assenza. Ora, con tenerezza fraterna, il geniale minotauro della pittura moderna, si preoccupava della mia situazione nei minimi particolari. Parlava con le autorità; telefonava a mezzo mondo. Non so quanti quadri portentosi smise di dipingere per colpa mia. Mi dispiaceva profondamente fargli perdere il suo tempo tanto prezioso.
In quei giorni si teneva a Parigi un congresso della pace. All'ultimo momento feci una apparizione nei suoi saloni, e solo per leggere una delle mie poesie. Tutti i delegati mi applaudivano e mi abbracciavano. Molti mi credevano morto. Non riuscivano a credere che potessi aver eluso l'accanita persecuzione della polizia cilena.
II giorno dopo venne al mio albergo il signor Alderete, vete, veterano giornalista della «France Presse» Mi disse:
— Quando la stampa ha dato la notizia che lei si trova a Parigi, il governo del Cile ha dichiarato che la notizia è falsa; che si tratta di un suo sosia; che Pablo Neruda si trova in Cile e che se ne segue la pista da vicino; che il suo arresto è solo questione di ore. Che cosa si può rispondere?
Ricordai che in una discussione se Shakespeare avesse scritto o meno le sue opere, discussione lambiccata e assurda, Mark Twain era intervenuto per dire: « Veramente non è stato William Shakespeare a scrivere quelle opere, ma un altro inglese nato lo stesso giorno e la stessa ora, morto per giunta alla stessa data, e che, per colmo di coincidenze, si chiamava anche lui William Shakespeare ».
— Risponda — dissi al giornalista — che io non sono Pablo Neruda, ma un altro cileno che scrive poesie, lotta per la libertà, e si chiama anche lui Pablo Neruda.
Mettere in regola i miei documenti non fu una cosa tanto semplice. Aragon e Paul Eluard mi aiutavano. Nel frattempo dovevo vivere in una situazione di semiclandestinità.
Fra le case che m'ospitarono vi fu quella di Mme. Frangoise Giroux. Non dimenticherò mai questa signora così originale e intelligente. Il suo appartamento si trovava al Palais Royal, vicino a quello di Colette. (29) Aveva adottato un bambino vietnamita. L'esercito francese in un certo periodo si incaricò della missione che in seguito si sarebbero assunti i nordamericani: uccidere gente innocente nelle lontane terre del Vietnam. Allora ella adottò il bimbo.
Ricordo che in quella casa c'era un Picasso fra i più belli che abbia mai visto. Era un quadro di grandi dimensioni, anteriore al periodo cubista. Rappresentava due tende di velluto rosso che cadevano, incrociandosi e socchiudendosi come una finestra, su una tavola. La tavola appariva attraversata da un capo all'altro da un lungo pane francese. Il quadro mi parve reverenziale. Il pane sulla tavola era come l'immagine centrale delle antiche icone, o come il San Maurizio del Greco che si trova all'Escorial. Misi al quadro un titolo personale: la Ascensione del Santo Pane.
In uno di quei giorni venne a trovarmi nel mio nascondiglio proprio Picasso in persona. Lo condussi vicino a quel quadro, che aveva dipinto tanti anni prima. Io aveva completamente dimenticato. Si mise ad esaminarlo con molta serietà, immerso in quell'attenzione straordinaria e quasi malinconica che raramente gli si scorgeva. Stette più di dieci minuti in silenzio, avvicinandosi ed allontanandosi dalla sua opera dimenticata.
Mi piace sempre più — gli dissi, quando ebbe terminato la sua meditazione. — Proporrò al museo del mio paese di acquistarlo. La signora Giroux è disposta a vendercelo.
Picasso volse di nuovo la testa verso il quadro, fissò gli occhi nel pane magnifico, e rispose come unico commento:
— Non è male.
Trovai da affittare una casa che mi parve stravagante. Si trovava in via Pierre Mill, nel secondo arrondissement, cioè, a casa del diavolo. Era un quartiere operaio e di piccola borghesia poverissima. Per arrivarci bisognava fare un viaggio di ore in mètro. Ciò che mi piacque di quella casa era che assomigliava ad una gabbia. Era una costruzione a tre piani, con corridoio e piccole stanze. Un'indescrivibile uccelliera.
Il pian terreno, che era il più ampio, e aveva una stufa a legna, lo destinai a biblioteca e a sala per eventuali feste. Ai piani superiori si installarono dei miei amici, quasi tutti provenienti dal Cile. Vi abitarono i pittori José Venturelli, Nemesio Antúnez e altri che non ricordo.
In quei giorni ricevetti la visita di tre grandi della letteratura sovietica: il poeta Nicolaj Tichonov, il drammaturgo Aleksej Korneichuk (che era al tempo stesso governatore dell'Ucraina) e il romanziere Costantin Simonov. (30) Non li avevo mai visti prima. Mi abbracciarono come fossimo fratelli che si ritrovano dopo una lunga assenza. E oltre all'abbraccio, ognuno mi diede un solo bacio, uno dei quei baci slavi fra uomini, che
significavano grande amicizia e rispetto, e a cui mi costò fatica abituarmi. Anni dopo, quando capii il carattere di quei fraterni baci maschili, ebbi occasione di iniziare una delle mie storie con queste parole:
— Il primo uomo che mi baciò fu un console ceco-
slovacco...
Il governo del Cile non mi voleva. Non mi voleva in Cile, ma neppure fuori. Dovunque andassi, mi precedevano note e telefonate che invitavano altri governi a perseguitarmi.
Venni a sapere che al Quai d'Orsay esisteva un rapporto su di me che diceva più o meno così: « Neruda e sua moglie, Delia del Carril, compiono frequenti viaggi in Spagna, portando nel paese e fuori dal paese istruzioni sovietiche. Le istruzioni le ricevono dallo scrittore russo Ilya Ehrenburg, insieme al quale Neruda fa dei viaggi clandestini in Spagna. Neruda, per stabilire un contatto più privato con Ehrenburg, ha affittato ed è andato a vivere in un appartamento situato nello stesso edificio in cui abita lo scrittore sovietico ».
Era una sfilza di stupidaggini. Jean Richard Bloch (31) mi diede una lettera per un suo amico che era un capo importante dirigente al Ministero degli Esteri. Spiegai al funzionario come mi si volesse espellere dalla Francia in base a delle bugie madornali. Gli dissi che
desideravo ardentemente conoscere Ehrenburg, ma che, purtroppo, fino a quel momento non avevo avuto un tale onore. Il grande funzionario mi guardò con aria di compatimento e mi fece la promessa che avrebbero fatto un'inchiesta scrupolosa. Ma non la fecero mai e le
assurde accuse rimasero in piedi.
Decisi allora di presentarmi a Ehrenburg. Sapevo che andava ogni giorno alla Coupole, dove mangiava alla russa, cioè verso il tramonto.
— Sono il poeta Pablo Neruda, del Cile — gli dissi.
— Secondo la polizia noi siamo amici intimi. Dicono che vivo nel suo stesso palazzo. Siccome mi cacceranno per colpa sua dalla Francia, desidero almeno conoscerla da vicino e stringerle la mano. . .
Non credo che Ehrenburg manifestasse mai segni di sorpresa di fronte ad alcun fenomeno che potesse capitare al mondo. Ma quella volta gli vidi uscire di tra le ciglia irsute, sotto i ciuffi collerici e canuti, uno sguardo abbastanza simile allo stupore.
— Anch'io desideravo conoscerla, Neruda — mi disse. — La sua poesia mi piace. Intanto si sieda e mangi questa choucroute all'alsaziana.
Da quel momento divenimmo grandi amici. (32) Mi pare che proprio quel giorno abbia cominciato a tradurre il mio libro Espana en el corazón. Debbo riconoscere che, senza volere, la polizia francese mi procurò una delle più care amicizie della mia vita, e mi assicurò per giunta il più eminente dei miei traduttori in russo.
Un giorno venne a trovarmi Jules Supervielle. (33) In quel momento io avevo già un passaporto cileno, a mio nome e in regola. Il vecchio e nobile poeta uruguayano in quell'epoca usciva pochissimo di casa. La sua visita mi riempì di emozione e di sorpresa.
— Ti porto un messaggio importante. Mio genero, Bertaux, vuole vederti. Non so di che cosa si tratti.
Bertaux era il capo della polizia. Andammo al suo ufficio. Il vecchio poeta ed io ci sedemmo accanto al funzionario, di fronte alla sua scrivania. Non ho mai visto un tavolo con più telefoni. Quanti saranno stati? Penso non meno di venti. Il suo viso intelligente e astuto mi guardava da quel bosco telefonico. Io pensavo che su quel tavolo così ingombro c'erano tutti i fili della vita sotterranea parigina. Ricordai Fantomas e il commissario Maigret.
Il capo della polizia aveva letto i miei libri e aveva una conoscenza inattesa della mia poesia.
— Ho ricevuto da parte dell'ambasciata del Cile la richiesta di ritirarle il passaporto. L'ambasciatore dice che lei usa un passaporto diplomatico, e questo sarebbe illegale. È vera questa informazione?
— Il mio passaporto non è diplomatico — gli risposi — È un semplice passaporto ufficiale. Nel mio paese sono senatore e, come tale, ho diritto ad avere questo documento. Inoltre eccolo qui, lei lo può esaminare, ma non ritirarmelo, perché è mia proprietà privata.
— È in regola? E chi glielo ha rilasciato? — mi chiese il signor Bertaux prendendo il mio passaporto.
— È in regola, naturalmente — gli dissi. — Quanto a chi me l'ha rilasciato non posso dirglielo. Il governo del Cile destituirebbe quel funzionario.
Il capo della polizia esaminò con attenzione i miei documenti. Poi usò uno dei suoi innumerevoli telefoni ordinò che lo mettessero in comunicazione con l'ambasciatore del Cile.
La conversazione telefonica si svolse in mia presenza.
— No, signor ambasciatore, non posso farlo. Il suo passaporto è legale. Non so chi glielo ha rilasciato. Le ripeto che sarebbe un abuso ritirargli i documenti. Non posso, signor ambasciatore. Mi dispiace molto.
Dalla conversazione traspariva l'insistenza dell'ambasciatore, ed era anche evidente una leggera irritazione da parte di Bertaux. Alla fine questi riattaccò il telefono e mi disse:
— Sembra un suo grande nemico. Ma lei può rimanere in Francia per tutto il tempo che desidera.
Uscii con Supervielle. Il vecchio poeta non si spiegava che cosa stava accadendo. Da parte mia provavo una sensazione di vittoria mescolata ad un'altra di disgusto. Quell'ambasciatore che mi perseguitava, quel complice del mio persecutore del Cile, era lo stesso Joaquin Fernández che ostentava amicizia nei miei confronti, che non perdeva occasione per adularmi, e che quella stessa mattina mi aveva mandato un biglietto affettuoso insieme all'ambasciatore del Guatemala.
RADICI
Ehrenburg, che leggeva e traduceva i miei versi, mi rimbrottava: troppa radice, troppe radici nei tuoi versi. (34) Perché tante?
È vero. Le terre della frontiera han messo radici nella mia poesia e non hanno mai potuto uscirne. La mia vita è un lungo peregrinare che torna sempre al punto di partenza, al bosco australe, alla foresta perduta.
I grandi alberi, lì, furono abbattuti a volte da settecento anni di vita poderosa, o sradicati dall'uragano, o bruciati dalla neve, o distrutti dall'incendio. Ho sentito cadere nella profondità del bosco gli alberi titanici: il rovere che crolla con un suono di sorda catastrofe, come se bussasse con una mano colossale alle porte della terra chiedendo sepoltura.
Ma le radici rimangono allo scoperto, in balìa del tempo nemico, dell'umidità dei licheni, dell'annientamento successivo.
Niente di più bello di quelle grandi mani aperte, ferite e bruciate, che di traverso in un sentiero del bosco ci dicono il segreto dell'albero sepolto, l'enigma che sosteneva il fogliame, i muscoli profondi della dominazione vegetale. Tragiche e irsute, ci mostrano una nuova bellezza: sono sculture della profondità, capolavori segreti della natura.
Una volta, passeggiando con Rafael Alberti fra cascate, macchie e boschi, vicino ad Osorno, egli mi faceva osservare che la chioma di ogni albero era diversa dall'altra, che le foglie parevano competere nell'infinita varietà dello stile.
— Sembrano scelte da un paesaggista botanico per un parco stupendo — mi diceva.
Anni dopo, a Roma, Rafael ricordava quella passeggiata e l'opulenza naturale dei nostri boschi.
Era così. Ora non lo è più. Penso con malinconia ai miei vagabondaggi di bambino e di giovane fra Boroa e Carahue, o verso Toltén fra i monti boscosi della costa. Quante scoperte! La grazia del canelo (35) e la sua fragranza dopo la pioggia, i licheni la cui barba d'inverno pende dai volti innumerevoli del bosco!
Frugavo fra le foglie cadute, cercando di scoprire il lampo di qualche coleottero: i carabi dorati, (36) che s'eran vestiti di tornasole per danzare un minuscolo balletto sotto le radici.
O in seguito, quando attraversai a cavallo la cordigliera verso la frontiera argentina, sotto la volta verde degli alberi giganti, comparve d'improvviso un ostacolo: la radice di uno di quegli alberi, più alta delle nostre cavalcature, che ci sbarrava la strada. A forza di braccia e di ascia potemmo continuare la traversata. Quelle radici erano come cattedrali rovesciate: la maestà scoperta che ci imponeva la sua grandezza.
Quaderno 9
INIZIO E FINE DI UN ESILIO
IN UNIONE SOVIETICA
Nel 1949, appena uscito dal confino, fui invitato per la prima volta in Unione Sovietica, in occasione delle celebrazioni del centenario di Puskin. Arrivai assieme al crepuscolo al mio appuntamento con la perla fredda del Baltico, l'antica, nuova, nobile ed eroica Leningrado. La città di Pietro il Grande e di Lenin il Grande ha una sua « grazia », come Parigi. Una grazia grigia, viali color acciaio, palazzi di pietra color piombo e un mare d'acciaio verde. I musei più straordinari del mondo, i tesori degli zar, i loro quadri, le loro uniformi, i loro gioielli scintillanti, i loro abiti da cerimonia, le loro armi, i loro vasi, tutto mi si offriva alla vista. E i nuovi ricordi immortali: l'incrociatore « Aurora » i cui cannoni, assieme al pensiero di Lenin, abbatterono i muri del passato e aprirono le porte della storia.
Mi ero recato ad un appuntamento con un poeta morto cent'anni prima, Alessandro Puskin, autore di tante immortali leggende e racconti. Quel principe della poesia popolare occupa il cuore della grande Unione Sovietica. Per celebrare il suo centenario, i russi avevano ricostruito pezzo per pezzo il palazzo degli zar. Ogni muro era stato ricostruito come era esistito prima, risorgendo dalle macerie polverizzate a cui era stato ridotto dall’artiglieria nazista. Vennero utilizzati i vecchi piani del palazzo, i documenti dell'epoca, per costruire di nuovo le luminose vetrate, le cornici ricamate, i capitelli fioriti. Per edificare un museo in onore di un meraviglioso poeta d'altri tempi.
La prima cosa che mi ha colpito in Unione Sovietica è stato il sentimento della sua estensione, il suo raccoglimento spaziale, il movimento delle betulle nelle praterie, i boschi immensi miracolosamente puri, i grandi fiumi, i cavalli ondeggianti sui campi di grano.
Ho amato a prima vista la terra sovietica e ho capito che da essa emanava non solo una lezione morale per tutti gli angoli dell'esistenza umana, un'equiparazione delle possibilità e uno sviluppo crescente nel fare e nel distribuire, ma ho anche interpretato che da quel continente di steppe, così ricco di purezza naturale, doveva effettuarsi un grande volo. L'umanità intera sa che laggiù si sta elaborando la gigantesca verità e nel mondo c'è un'intensità attonita in attesa di quello che accadrà. Alcuni aspettano con terrore, altri aspettano e basta, altri ancora credono di presentire quanto accadrà.
Mi trovavo in mezzo ad un bosco in cui migliaia di contadini, con vecchi vestiti da festa, ascoltavano le poesie di Puskin. Sentivo tutto palpitare: uomini, foglie, superfici di terra in cui il grano nuovo cominciava a vivere. La natura sembrava formare un'unità vittoriosa con l'uomo. Da quelle poesie di Puskin nel bosco di Michaislowsky doveva nascere prima o poi
l'uomo che avrebbe volato verso altri pianeti.
Mentre i contadini partecipavano alla cerimonia cadde una fitta pioggia. Un fulmine cadde vicinissimo a noi, calcinando un uomo e l'albero che lo riparava. Tutto mi parve nel quadro torrenziale della natura. Di più, quella poesia accompagnata dalla pioggia c'era già nei miei libri, aveva a che fare con me.
Il paese dei soviet cambia costantemente. Si costruiscono immense città e canali; perfino la geografia sta cambiando. Ma durante la mia prima visita rimasero ben chiare in me le affinità che mi legavano a loro; e anche quanto di essi mi sembrava inafferrabile o più
distante dal mio spirito.
A Mosca gli scrittori vivono sempre in ebollizione,in continua discussione. Venni a sapere lì, molto prima che lo scoprissero gli scandalistici occidentali, che Pasternak era il primo poeta sovietico, assieme a Majakovsky Majakovsky era stato il grande poeta pubblico,
con voce tonante e aspetto di bronzo, cuore magnanimo chesconvolse il linguaggio e affrontò i più difficili problemi della poesia politica. Pasternak (1) era un grande poeta crepuscolare, dell'intimità metafisica, e politicamente un onesto reazionario che nella trasformazione della sua patria non vedeva più in là di un sagrestano illuminato. Ad ogni modo, le poesie di Pasternak mi furono recitate molte volte a memoria dai più severi critici del suo immobilismo politico.
L'esistenza di un dogmatismo sovietico nelle arti per lunghi periodi di tempo non può essere negata, ma va anche detto che questo dogmatismo fu sempre considerato un difetto e combattuto a viso aperto. Il culto della personalità ha prodotto, con i saggi critici di Zdanov, (2) brillante dogmatico, un grave irrigidimento nello sviluppo della cultura sovietica. Ma le reazioni erano numerose dappertutto e si sa bene che la vita è più forte e più testarda dei precetti. La rivoluzione è la vita e i precetti cercano la propria bara.
Ehrenburg ha ormai molti anni e continua ad essere un grande agitatore di quanto c'è di più vero e più vivo della cultura sovietica. Ho visitato molte volte il mio occhio buon amico nel suo appartamento di via Gorki, costellato dai quadri e dalle litografie di Picasso, o nella sua « dacia » vicino a Mosca. Ehrenburg ha una vera passione per le piante e se ne sta quasi sempre nel suo giardino estraendo erbacce e conclusioni da quanto cresce attorno a lui.
In seguito divenni grande amico del poeta Kirsanov (3) che ha mirabilmente tradotto in russo la mia poesia. Kirsanov è, come tutti i sovietici, un ardente patriota. La sua poesia ha improvvisi fulgori e una sonorità che Le viene dalla bella lingua russa lanciata all'aria dalla sua penna in esplosioni e cascate.
Facevo visita di continuo, a Mosca o in campagna, a altro grande poeta: il turco Nazim Hikmet, (4) leggendario scrittore incarcerato per 18 anni dagli estranei governi del suo paese.
Nazim, accusato di voler organizzare un sollevamento nella marina turca, fu condannato a tutte le pene dell'inferno. Il processo ebbe luogo su una nave da guerra. Mi raccontavano come lo fecero camminare fino all'esaurimento Sul ponte della nave, e poi lo misero nel locale delle latrine, dove gli escrementi raggiungevano il mezzo metro sul pavimento. Il mio fratello poeta si sentì venir meno. Il puzzo lo faceva traballare. Allora pensò: i miei carnefici mi stanno sicuramente osservando da qualche parte, vogliono vedermi cadere
vogliono contemplarmi con disprezzo. Con superbia le sue forze risorsero. Cominciò a cantare, dapprima a bassa voce, poi a voce più alta, a squarciagola alla fine. Cantò tutte le canzoni, tutti i versi d'amore che ricordava, le sue poesie, le romanze dei contadini, gli inni di lotta del suo popolo. Cantò tutto quello che sapeva. Così trionfò sull'immondizia e sul martirio. Quando mi raccontava queste cose gli dissi: « Fratello mio, hai cantato per tutti noi. Non abbiamo più bisogno di dubitare, di pensare a quello che faremo. Ormai sappiamo tutti quando dobbiamo cominciare a cantare ».
Mi parlava anche dei dolori del suo popolo. I contadini sono brutalmente perseguitati dai signori feudali della Turchia. Nazim li vedeva arrivare alla prigione, li vedeva dare in cambio di tabacco il tozzo di pane chericevevano come unica razione. Cominciavano a guardare l'erba del cortile distrattamente. Poi con attenzione, quasi con gola. Un bei giorno si portarono qualche filo d'erba alla bocca. In seguito la strappavano a ciuffi che divoravano in gran fretta. Alla fine mangiavano l'erba a quattro zampe, come cavalli.
Fervente antidogmatico Nazim è vissuto per lunghi anni in esilio in Unione Sovietica. Il suo amore per questa terra che lo accolse, è espresso in questa frase sua: « Io credo nel futuro della poesia. Credo perché vivo nel paese in cui la poesia rappresenta l'esigenza più indispensabile dell'anima ». In queste parole vibrano molti segreti che da lontano non si riesce a vedere. L'uomo sovietico, che ha libero accesso a tutte le biblioteche, a tutte le aule, a tutti i teatri, è al centro della preoccupazione degli scrittori. Non bisogna dimenticarselo quando si discute del destino dell’azione letteraria. Da una parte, le nuove forme, il necessario rinnovamento di quanto esiste, deve superare e rompere i modelli letterari. Dall'altra come si fa a non accompagnare i passi di una profonda e spaziosa rivoluzione? Come allontanare dai temi centrali le vittorie, i conflitti, gli umani problemi, la fecondità, il movimento la germinazione di un immenso popolo che affronta un cambiamento totale di regime politico, economico, sociale? Come si fa a non essere solidali con quel popolo attaccato da feroci invasori, circondato da implacabili colonialisti, oscurantisti di ogni clima e di ogni risma? La letteratura e le arti potrebbero assumere un atteggiamento di aerea indipendenza rispetto ad avvenimenti tanto essenziali?
Il cielo è bianco. Alle quattro del pomeriggio è ormai nero. Da quell'ora in poi la notte ha chiuso la città.
Mosca è una città d'inverno. È una bella città d'inverno. Sui tetti che si ripetono all'infinito si è accumulata la neve. Brillano i pavimenti immancabilmente puliti. L'aria è un cristallo duro e trasparente. Un dolce color acciaio, le pagliuzze di neve che si accalcano, il va e vieni di migliaia di passanti come se non sentissero il freddo, tutto ci porta a sognare che Mosca è un grande palazzo d'inverno ricco di straordinarie decorazioni fantastiche e viventi.
Ci sono trenta gradi sotto zero in questa Mosca che come una stella di fuoco e di neve, come un acceso cuore, è situata nella metà del petto della terra.
Guardo dalla finestra. Dei soldati montano la guardia per le strade. Che succede? Perfino la neve ha smesso di cadere. Seppelliscono il grande Vishinsky. (5) Le strade si aprono solennemente per far passare il corteo funebre. Si fa un silenzio profondo, un riposo nel cuore dell'inverno, per il grande combattente. Il fuoco di Vishinsky ritorna alle fondamenta della patria sovietica.
I soldati che hanno presentato le armi al passaggio del funerale sono ancora schierati. Di quando in quante qualcuno di essi fa un piccolo ballo, sollevando le mani inguantate e battendo i piedi un istante con i suoi alti .stivali. In genere rimangono immobili.
Mi raccontava un amico spagnolo che durante la grande guerra, nei giorni di freddo più intenso e proprio dopo un bombardamento si potevano vedere i moscoviti mangiare il gelato per le strade. « Allora mi resi conto che avrebbero vinto la guerra — mi diceva il mio amico — quando li vidi mangiare il gelato con tanta tranquillità nel bei mezzo di una spaventosa guerra e di un freddo sotto zero ».
Gli alberi dei parchi, bianchi di neve, si son coperti di brina. Niente può essere paragonato a questi petali cristallizzati dei parchi nell'inverno di Mosca. Il sole li fa brillare, gli strappa fiamme bianche senza che si sciolga una goccia della loro floreale struttura. È un universo arborescente che lascia intravvedere, attraverso la sua primavera di neve, le antiche torri del Cremlino, le svelte cuspidi millenarie, le cupole dorate di San Basilio.
Superata la periferia di Mosca, diretto ad un'altra città, vedo alcuni ampi percorsi bianchi. Sono i fiumi gelati. Nell'alveo di questi fiumi immobili sorge ogni tanto, come una mosca su una tovaglia abbagliante, il profilo di un pescatore assorto. Il pescatore si ferma sul vasto lenzuolo gelato, sceglie un punto, e perfora il ghiaccio finché non si vede la corrente sepolta. Non può pescare subito perché i pesci sono fuggiti spaventati dal rumore dei ferri che hanno aperto il buco. Allora il pescatore sparge del cibo come esca per attirare i fuggitivi. Getta l'amo e aspetta. Aspetta per ore e ore in quel freddo boia.
Il lavoro degli scrittori, dico io, ha molto in comune con quello di quei pescatori artici. Lo scrittore deve cercare il fiume e, se lo trova gelato, deve perforare il gelo. Deve avere pazienza da vendere, sopportare i rigori dell'inverno e la critica avversa, sfidare il ridicolo,
cercare la corrente profonda, lanciare l'amo giusto, e dopo tanto lavoro, tirar fuori un pesciolino piccolo piccolo. Ma deve pescare di nuovo, contro il freddo, contro il ghiaccio, contro l'acqua, contro il critico, finchè non pescherà qualcosa di meglio.
Fui invitato ad un congresso di scrittori. Alla presidenza sedevano i grandi pescatori, i grandi scrittori sovietici. Fadeiev col suo bianco sorriso e i suoi capelli d'argento; Fedin con la sua faccia di pescatore magro e acuto; Ehrenburg con le sue ciocche di capelli ribelli e il suo vestito che, anche se lo indossa per la prima volta, sembra che ci sia andato a letto; Thikonov. (6)
Alla presidenza erano rappresentati, con i loro tratti mongoli e i loro libri appena stampati, i portavoce delle letterature delle più lontane repubbliche sovietiche, popoli di cui io prima ignoravo perfino il nome, paesi nomadi che non avevano neppure l'alfabeto.
L'INDIA RIVISITATA
Nel 1950 feci un viaggio in India nel modo più inatteso. A Parigi mi mandò a chiamare Joliot Curie per affidarmi una missione. Si trattava di andare a Nuova Delhi, di entrare in contatto con gente di diverse opinioni politiche, calibrare sul posto le possibilità di rafforzare il movimento indiano per la pace.
Joliot Curie (7) era il presidente mondiale del Partigiani della Pace. Parlammo a lungo. Era preoccupato per il fatto che l'opinione pacifista non pesasse abbastanza in India, nonostante che l'India abbia sempre avuto la reputazione di essere il paese pacifico per eccellenza. Lo stesso primo ministro, il Pandit Nehru, aveva fama di essere un paladino della pace, una causa tanto antica e profonda pei quella nazione.
Joliot Curie mi consegnò due lettere: una per un ricercatore scientifico di Bombay e un'altra da rimettere nelle mani del primo ministro. Mi sembrò strano che fossi scelto proprio io per un viaggio tanto lungo e un compito apparentemente tanto facile. Forse c'entrava il mio amore mai estinto per quel paese dove avevo passato alcuni anni della mia gioventù. Oppure
il fatto che io avevo ricevuto quello stesso anno il Premio per la Pace, per il mio poema Que despierte. el leñador, (8) riconoscimento che fu concesso allora anche a Pablo Picasso e a Nazim Hikmet.
Presi l'aereo per Bombay. Tornavo in India dopo trent'anni. Ora non era più una colonia che lottava per la sua emancipazione ma una repubblica sovrana; il sogno di Gandhi, ai cui primi congressi assistetti nel 1928. Forse non era più vivo nessuno dei miei amici di allora, studenti rivoluzionari che mi avevano fraternamente confidato le loro storie di lotta.
Appena sceso dall'aereo andai verso la dogana. Da lì sarei andato in un albergo qualsiasi, avrei consegnato la lettera al fisico Rama e avrei continuato il mio viaggio per Nuova Delhi. Avevo fatto i conti senza l'oste Le mie valige non parevano uscire dal recinto. Uno stuolo di persone che io avevo preso per funzionari della dogana stavano controllando con la lente d'ingrandimento il mio bagaglio. Io avevo visto molti controlli, ma nessuno come questo. Il mio bagaglio non era aumentato nel frattempo: solo una valigia di media grandezza con la mia roba e una borsetta di cuoio con il mio necessaire da toilette. I miei pantaloni, le mie mutande, le mie scarpe, venivano tirati su e controllati da cinque paia di occhi. Le tasche e le cuciture erano esplorate meticolosamente. Per non sporcare la mia roba, avevo avvolto a Roma le mie scarpe in una pagina di giornale tutta sgualcita che avevo trovato nella stanza del mio albergo. Credo che fosse dell'« Osservatore Romano ». Stesero quella pagina su un tavolo, la guardarono controluce, la piegarono attentamente come se fosse un documento segreto, e alla fine la misero da parte insieme ad altre carte mie. Anche le mie scarpe furono studiate da dentro e da fuori, come unici esemplari di favolosi fossili.
Due ore durò questo incredibile scrutinio. Dei miei documenti (il passaporto, il taccuino degli indirizzi, la lettera che dovevo consegnare al capo del governo e il foglio dell'«Osservatore Romano») fecero un vistoso pacchetto che molto cerimoniosamente sigillarono con la ceralacca davanti a me. Solo allora mi dissero che potevo andare all'albergo.
Facendo uno sforzo cileno per non perdere la pazienza dissi loro che nessun albergo mi avrebbe accettai privo di documenti di identità e che lo scopo del mio viaggio in India era di consegnare al primo ministro la lettera che non avrei potuto consegnargli perché loro me l'avevano sequestrata.
— Diremo all'albergo di accettarla. Per quanto riguarda i documenti, glieli restituiremo a suo tempo.
Questo è il paese la cui lotta per l'indipendenza è stata tanta parte della mia esperienza giovanile, pensai. Chiusi la valigia e contemporaneamente strinsi la bocca. All'interno, il mio pensiero formava una sola parola: Merda!
In albergo incontrai il professor Baera, al quale racontai le mie disavventure. Era un indù di buon umore. Non dette eccessiva importanza ai fatti. Era tollerante col suo paese che considerava ancora in formazione. Io invece sentivo qualcosa di perverso in quel disordine, qualcosa che non mi aspettavo come accoglienza di una nuova nazione indipendente.
L'amico di Joliot Curie, per il quale portavo la lettera di presentazione, era direttore degli studi fisico-nucleari in India. Mi invitò a visitale i suoi impianti. E aggiunse che lo stesso giorno eravamo invitati a pranzo dalla sorella del primo ministro. Questa era la mia sorte e tale ha continuato ad essere per tutta la vita: con una mano mi danno una bastonata nelle
costole e con l'altra mi offrono un ramo di fiori per chiedermi scusa.
L'Istituto di ricerche nucleari era uno di quegli edifici puliti, chiari, raggianti, nei quali uomini e donne vestiti di bianco, trasparenti, circolano come l'acqua che scorre, attraversano corridoi, dribblando strumenti, lavagne e bacinelle. Anche se capii molto poco delle spiegazioni scientifiche, quella visita mi fece l'effetto di un bagno lustrale che mi lavava delle macchie provocate dalle angherie della polizia. Ricordo vagamente che vidi, fra l'altro, una specie di fonte di mercurio. Non c'è niente di più sorprendente di questo metallo che mostra la sua energia come una vita animale. Mi ha sempre accattivato la sua mobilità; la sua capacità di trasformazione liquida, sferica, magica.
Ho dimenticato il nome della sorella di Nehru con cui pranzammo quel giorno. Davanti a lei il mio malumore scomparve del tutto. Era una donna di straordinaria bellezza, truccata e abbigliata come un'attrice esotica. Il suo sari era uno sfolgorio di colori. L’oro e le perle accrescevano la sua opulenza. A me piacque moltissimo. Faceva un certo contrasto vedere
quella delicatissima donna mangiare con le mani, mettere le lunghe dita inanellate nel riso e nella salsa di curry. Le dissi che sarei andato a Nuova Delhi, per vedere suo fratello e gli amici della pace mondiale. Mi rispose che, secondo lei, tutta la popolazione indiana avrebbe dovuto far parte di quel movimento.
Nel pomeriggio in albergo mi consegnarono il pacchetto con i miei documenti. Quegli impostori della polizia avevano rotto i sigilli di ceralacca che essi stessi avevano apposto nell'impacchettare i documenti davanti a me. Sicuramente avevano fotografato perfino i miei conti della lavanderia. Ho saputo in seguito che tutte le persone i cui indirizzi erano elencati nel mio taccuino furono rintracciate e interrogate dalla polizia. Fra le altre la vedova di Ricardo Guiraldes, (9) all'epoca mia cognata. Questa signora era una donna teosofica e
superficiale, la cui unica passione erano le filosofie asiatiche, e che viveva in un remoto villaggio indiano. Le diedero abbastanza fastidio per il semplice fatto che il suo nome era scritto nel mio taccuino.
A Nuova Delhi incontrai sei o sette personalità della capitale indiana, lo stesso giorno del mio arrivo, seduto in un giardino, sotto un ombrello che mi proteggeva dal fuoco celeste. Erano scrittori, filosofi, sacerdoti indù o buddisti, di quella gente indiana così adorabilmente semplice, così priva di qualsiasi arroganza. Dissero unanimamente che i sostenitori della pace costituivano un movimento che si identificava con lo spirito del loro antico paese, con la sua costante tradizione di bontà e di comprensione. Aggiunsero saggiamente che si dovevano correggere i difetti settari o egemonici: né i comunisti, né i buddisti, né i borghesi, nessuno doveva far proprio il movimento. Il contributo di tutte le tendenze era l'aspetto principale, il nodo della questione. Ero d'accordo con loro.
L'ambasciatore cileno, un mio vecchio amico, scrittore e medico, il dottor Juan Marin, venne a trovarmi all'ora di pranzo. Dopo molte tergiversazioni mi disse che aveva parlato col capo della polizia. Con la caratteristica serenità che adottano le autorità per rivolgersi ai diplomatici, il capo degli sbirri indiani gli aveva comunicato che le mie attività preoccupavano il governo indiano e che si augurava che lasciassi presto il paese. Risposi all'ambasciatore che le mie attività erano consistite soltanto nell'incontrarmi, nel giardino dell'albergo, con sei o sette persone importanti le cui opinioni credevo che non fossero un mistero per nessuno.
Quanto a me, gli dissi, non appena avrò consegnato il messaggio di Joliot Curie per il primo ministro, non avrò alcun interesse a rimanere in un paese che, nonostante il mio noto sentimento di adesione alla sua causa, mi tratta in così malo modo, senza alcuna giustificazione.
Il mio ambasciatore, per quanto fosse stato uno dei fondatori del Partito Socialista in Cile, era un uomo tranquillo, per l'età e per i privilegi diplomatici. Non espresse alcuna indignazione di fronte allo stupido atteggiamento del governo indiano. Io non gli chiesi nessuna forma di solidarietà e ci salutammo cortesemente, lui sicuramente sollevato dal pesante fardello che per lui doveva essere la mia visita e io disincantato per sempre della sua sensibilità e della sua amicizia.
Nehru mi aveva dato appuntamento per l'indomani mattina nel suo ufficio. Si alzò e mi tese la mano senza il minimo sorriso di benvenuto. La sua casa è stata tanto fotografata che non vale la pena di descriverla. Degli occhi scuri e freddi mi guardavano senza la minima emozione. Trent'anni prima me lo avevano presentato, lui e suo padre, in un'affollata riunione indipendista. Glielo ricordai, senza che questo facesse il minimo effetto sulla sua espressione. A quanto gli dicevo rispondeva con monosillabi, squadrandomi con uno sguardo implacabilmente freddo.
Gli porsi la lettera del suo amico Joliot Curie. Mi disse che nutriva per lo scienziato francese un grande rispetto e la lesse con calma. Nella lettera gli parlava di me e gli chiedeva aiuto per la mia missione. Finì di leggerla, la rimise nella busta e mi guardò senza dirmi niente. Pensai ad un tratto che la mia presenza doveva suscitare in lui un'irresistibile avversione. Mi passò anche per la mente il pensiero che quell'uomo dal colore bilioso, doveva attraversare un cattivo momento fisico, politico o sentimentale. C'era una certa alterigia nel suo modo di fare, una rigidità, come di persona abituata a comandare, ma senza la forza del
capo. Mi ricordai che suo padre, il Pandit Motilal Zemindar, proprietario terriero di antica razza di signori, era stato il grande tesoriere di Gandhi e aveva contribuito, non solo con la sua saggezza politica, ma anche con le sue sostanze, alla formazione del Partito di Congresso. Pensai che magari l'uomo che avevo tutto zitto davanti a me era tornato piano pianino ad essere di nuovo uno zemindar e mi contemplava con la stessa indifferenza e lo stesso disprezzo che avrebbe avuto per uno qualsiasi dei suoi contadini scalzi.
— Cosa debbo riferire al professor Joliot Curie al mio ritorno a Parigi?
— Risponderò alla sua lettera — mi disse asciutto.
Stetti zitto per qualche minuto che mi parve eterno. Mi sembrava che Nehru non avesse la minima voglia di dirmi alcunché, ma non mostrava neppure la minima impazienza, come se io potessi starmene lì seduto senza alcuno scopo, confuso dalla sensazione di far
perder tempo ad un uomo così importante.
Ritenni indispensabile dirgli qualche parola sulla mia missione. La guerra fredda rischiava di diventare incandescente da un momento all'altro. Un nuovo abisso poteva ingoiare l'umanità. Gli parlai del terribile pericolo delle armi nucleari. E dell'importanza di unire
la maggioranza di coloro che vogliono evitare la guerra.
Come se non fosse stato a sentirmi, continuò a rimanere assorto nei suoi pensieri. In capo ad alcuni minuti disse:
— Capita che da un lato e dall'altro ci si affronti reciprocamente con gli argomenti della pace.
— Per me — risposi — tutti quelli che parlano di pace o che vogliono contribuire ad essa, possono appartenere alle stesse file, allo stesso movimento. Non vogliamo escludere nessuno, se non i fautori del revanchismo e della guerra.
Il silenzio continuava. Capii che la conversazione era terminata. Mi alzai e gli tesi la mano per salutarlo. Me la strinse in silenzio. Quando ormai mi stavo dirigendo verso la porta, mi chiese con una certa premura:
— Cosa posso fare per lei? Non le abbiamo offerto nulla?
Sono abbastanza lento nelle reazioni e sono, disgraziatamente, sprovvisto di malignità. Tuttavia, per una volta nella vita approfittai dell'occasione:
— Ah si certo! Dimenticavo. Nonostante che io sia vissuto in passato in India, non ho mai potuto visitare il Taj MahaI che sta così vicino a Nuova Delhi. Sarebbe una magnifica occasione per vedere il meraviglioso monumento se la polizia non mi avesse notificato che
non posso uscire dalla città e che devo far ritorno in Europa quanto prima. Rientro domani.
Contento di avergli scoccato il dardo, lo salutai senza tanti complimenti e lasciai il suo ufficio.
In albergo mi aspettava il direttore.
— Ho un messaggio per lei. Hanno appena telefonato dal governo per dire che può visitare il Taj Mahai quando vuole. . . .
— Mi prepari il conto — gli risposi. — Mi dispiace di non poter fare questa visita. Vado immediatamente all'aeroporto, per prendere il primo aereo che mi porti a Parigi.
Cinque anni dopo mi trovavo a Mosca ad una riunione della commissione che ogni anno assegna il Premio Lenin per la Pace, una giuria internazionale di cui faccio parte. Quando giunse il momento di presentare e di votare le candidature corrispondenti a quell'anno, il delegato indiano propose il nome del primo ministro Nehru.
Io accennai ad un sorriso che nessuno degli altri membri della giuria potè capire e votai a favore. Con quel premio internazionale Nehru fu consacrato come uno dei campioni della pace nel mondo.
IL MIO PRIMO VIAGGIO IN CINA
Sono stato in Cina due volte dopo la rivoluzione. La Prima nel 1951, quando mi è toccato far parte della missione per la consegna del Premio Lenin per la Pace alla signora Sung Sin Ling, vedova di Sun Yat Sen. (10)
Quella medaglia d'oro le veniva assegnata su proposta di Kuo Mo Jo (11) vice-presidente della Repubblica Popolare Cinese e scrittore. Kuo Mo Jo era, inoltre, vice-presidente del comitato per i premi, assieme ad Aragon. Della stessa giuria facevano parte Anna Seghers, il cineasta Alexandrov, (12) altri che non ricordo, Ehrenburg ed io. C'era un accordo segreto fra Aragon, Ehrenburg e me, in base al quale riuscimmo ad assegnare il premio negli anni successivi a Picasso, a Berthold Brecht e a Rafael Alberti. Non era stato facile, naturalmente.
Partimmo per la Cina con la transiberiana. Salire su quel treno leggendario era come imbarcarsi su un battello che navigasse per terra nell'infinito e misterioso spazio. Tutto era giallo attorno a me, per miglia e miglia, ad ogni lato dei finestrini. Si era alla metà dell'autunno siberiano è non si vedevano che argentee betulle dai petali gialli. Subito dopo, la prateria sterminata, tundra o taiga. Di tanto in tanto, stazioni corrispondenti alle nuove città. Scendevamo con Ehrenburg per sgranchirci. Nelle stazioni i contadini aspettavano il treno con fagotti e valigie, stipati nelle sale d'aspetto.
Avevamo appena il tempo di fare due passi per quei villaggi. Eran tutti uguali e tutti avevano una statua di Stalin, di cemento. A volte era dipinta di colore argenteo, altre era dorata. Delle dozzine che abbiamo visto, matematicamente uguali, non saprei dire quali erano più brutte, se quelle argentate o quelle dorate. Di nuovo sul treno, per un'intera settimana, Ehrenburg mi intratteneva con la sua conversazione scettica, scintillante. Per quanto profondamente patriota e sovietico, Ehrenburg mi commentava con sdegno e sorridente ironia molti degli aspetti della vita di quell'epoca.
Ehrenburg era giunto a Berlino con l'Esercito Rosso. È stato, senza alcun dubbio, il più brillante corrispondente di guerra di quanti ne siano esistiti. I soldati rossi volevano molto bene a quest'uomo eccentrico e scontroso. Mi aveva mostrato poco prima a Mosca due regali che quei soldati gli avevan fatto dopo averli tirati fuori dalle rovine tedesche. Erano un fucile
costruito da un armaiolo belga per Napoleone Bonaparte e due tomi minuscoli delle opere di Ronsard, stampati in Francia nel 1650. I volumetti erano bruciacchiati e macchiati di pioggia o di sangue.
Ehrenburg cedette ai musei francesi il bel fucile di Napoleone. «Perché tenerlo?», mi diceva, accarezzando la canna lavorata e il calcio brunito. Quanto ai libriccini di Ronsard, li tenne gelosamente per sé.
Fhrenburg era un francesista appassionato. Nel tremi recitò una delle sue poesie clandestine. Era una poesia breve in cui cantava la Francia come se si rivolesse alla donna amata.
Ho detto che la poesia era clandestina perché era il periodo in Russia delle accuse di cosmopolitismo. Frequenti erano sui giornali le denunce oscurantiste. Pareva che tutta l'arte moderna fosse cosmopolita. Questo o quello scrittore o pittore cadeva e il suo nome era immediatamente cancellato sotto quella accusa. Per questo la poesia francesista di Ehrenburg dovette conservare la sua tenerezza come un fiore nascosto.
Molte delle cose che Ehrenburg mi faceva conoscere, scomparivano poi irrimediabilmente nella buia notte di Stalin, sparizioni che io attribuivo soprattutto al loro carattere protestatario e contraddittorio.
Con le sue ciocche di capelli disordinati, le sue profonde rughe, i suoi denti ingialliti dalla nicotina, i suoi freddi occhi grigi e il suo sorriso triste, Ehrenburg era per me lo scettico antico, il grande disilluso. Io aprivo appena gli occhi alla grande rivoluzione e non c'era posto in me per sinistri particolari. Dissentivo appena dal cattivo gusto generale dell'epoca, da quelle statue imbrattate di oro e d'argento. Il tempo avrebbe dimostrato che non ero io ad aver ragione, ma credo che neanche Ehrenburg arrivò a capire in tutta la sua portata l'immensità della tragedia. La sua grandezza ci sarebbe stata rivelata, a tutti dal XX Congresso.
Mi pareva che il treno avanzasse molto lentamente attraverso la gialla immensità, un giorno dopo l'altro, una betulla dopo l'altra. Così, attraverso la Siberia, ci avvicinavamo ai Monti Urali. Un giorno stavamo pranzando nel vagone ristorante quando la mia attenzione fu attirata da un tavolo occupato da un soldato. Era completamente ubriaco. Un giovane rubicondo e sorridente. Ogni tanto chiedeva delle uova crude al cameriere, le rompeva e con una esplosione di gioia le faceva cadere nel piatto. Subito dopo, chiedeva un altro paio di uova. Ogni volta si sentiva più felice, a giudicare dal suo sorriso estasiato e dai suoi occhi azzurri di bambino. Il gioco doveva durare già da un pezzo, perché i tuorli e le chiare
cominciavano pericolosamente a scivolar fuori dal piatto e a cadere sul pavimento del vagone.
— Tovarich! — il soldato chiamava con entusiasmo il cameriere e gli chiedeva altre uova per aumentare il suo tesoro.
Io seguivo con entusiasmo questa scena di un realismo così innocente, e così inatteso in quel quadro di oceanica solitudine siberiana.
Finché il cameriere allarmato chiamò un miliziano. II poliziotto, armato di tutto punto, squadrò dall'alto della sua statura, severamente, il soldato. Questi non lo degnò della minima attenzione e continuò nel suo lavoro a rompere e rompere uova.
Immaginai che l'autorità avrebbe strappato con violenza lo sprecone dal suo sogno. Ma rimasi di sasso. L’erculeo poliziotto gli si sedette accanto, gli passò la mano con tenerezza sulla testa bionda e cominciò a parlargli a mezza voce, sorridendogli e convincendolo. Finché d'un tratto lo fece alzare con dolcezza dal suo sedile e lo accompagnò, tenendolo per un braccio, come un fratello maggiore, fino all'uscita del vagone, alla stazione, alle strade del villaggio.
Pensai con amarezza a cosa sarebbe accaduto a un povero indio ubriaco che si fosse messo a rompere uova in un treno equatoriano.
Durante quelle giornate transiberiane si sentiva la mattina e la sera come Ehrenburg picchiava con energia sui tasti della sua macchina da scrivere. Lì terminò La nuova onda, il suo ultimo romanzo prima de Il disgelo. Da parte mia, scrivevo solo a tratti alcuni dei Los versos del capitán poesie d'amore per Matilde che avrei pubblicato in seguito a Napoli, anonime.
Lasciammo il treno ad Irkutzk. Prima di prendere l'aereo per la Mongolia, ce ne andammo a passeggiare lungo il lago, il famoso lago Baikal, ai confini della Siberia, che sotto lo zarismo significava la porta della libertà. A questo lago erano rivolti i pensieri e i sogni degli esiliati e dei prigionieri. Era l'unica strada possibile per evadere. Baikal! Baikal! ripetono ancora oggi le roche voci russe, cantando le antiche ballate.
L'Istituto di ricerche lacustri ci invitò a pranzo. Gli esperti ci rivelarono i loro segreti scientifici. Non si è mai potuta precisare la profondità di quel lago, figlio e occhio dei Monti Urali. A duemila metri di profondità, sì raccolgono pesci strani, pesci ciechi, strappati al loro abisso notturno. D'improvviso mi si svegliò l'appetito e ottenni che i ricercatori mi portassero
A tavola un paio di quegli strani pesci. Sono una delle rare persone al mondo che hanno mangiato pesci abissali annaffiati da ottima vodka siberiana.
Da lì prendemmo il volo per la Mongolia. Conservo un ricordo brumoso di quella terra lunare dove gli abitanti vivono ancora in tende nomadi, mentre creano le loro prime tipografie, le loro prime università. Attorno a Ulan Bator si apre un'aridità completa, infinita,
simile al deserto di Atacama nella mia patria, interrotta soltanto da gruppi di cammelli che rendono più arcaica la solitudine. Naturalmente ho assaggiato in tazze d'argento, straordinariamente lavorate, il whisky dei mongoli. Ogni popolo fa il suo alcool da quel che può. Questo era di latte di cammello fermentato. Ho ancora dei brividi quando penso al suo sapore. Però, che bello essere stato a Ulan Bator! Soprattutto per me che vivo nei bei nomi. Vivo in essi come in dimore di sogno che mi siano state assegnate. Così ho vissuto, godendo di ogni sillaba, nel nome di Singapore, in quello di Samarcanda. Quando muoio voglio essere
sepolto in un nome, in un nome sonoro ben scelto, affinché le sue sillabe cantino sulle mie ossa, vicino al mare.
Il popolo cinese è uno dei più sorridenti del mondo. Attraverso l'implacabile colonialismo, le rivoluzioni, le carestie, i massacri, sorride come nessun altro popolo sa sorridere. Il sorriso dei bambini cinesi è il più bei raccolto di riso che la grande moltitudine sgrana.
Però ci sono due tipi di sorrisi cinesi. Ce n'è uno naturale che illumina le facce color del grano. E quello dei contadini e del vasto popolo. L'altro è un sorriso metti e leva, posticcio, che si attacca e si stacca sotto il naso. È il sorriso dei funzionari.
Purtroppo fummo costretti a distinguere fra questi due tipi di sorriso quando con Ehrenburg arrivammo per la prima volta all'aeroporto di Pechino. Quelli veri, quelli migliori ci accompagnarono per molti giorni. Erano quelli dei nostri compagni scrittori cinesi, romanzieri e poeti che ci accolsero con nobile dignità. Così conoscemmo Tieng Ling, romanziere, premio Stalin, presidente dell'Unione degli Scrittori, Mao Dung, Emi Siao, e l'incantevole Ai Ching, (14) vecchio comunista e principe dei poeti cinesi. Parlavano inglese o francese Tutti furono sepolti dalla Rivoluzione Culturale, anni dopo. Ma in quel momento, al nostro arrivo, erano le personalità principali della letteratura.
Il giorno seguente, dopo la cerimonia di consegna del Premio Lenin, chiamato allora Premio Stalin, mangiammo nell'ambasciata sovietica. Erano presenti, oltre alla premiata, Ciu En Lai, il vecchio maresciallo Chu Teh (15) e pochi altri. L'ambasciatore era un eroe di Stalingrado, tipico militare sovietico, che cantava e brindava ripetutamente. Mi toccò sedermi accanto a Sung Sin Line molto dignitosa e ancora bella. Era la figura femminile più rispettata del momento.
Ciascuno di noi aveva a sua disposizione una bottiglietta di cristallo piena di vodka. I «gambé» schioccavano a profusione. Questo brindisi cinese vuole che si beva il bicchiere d'un fiato, senza lasciare una goccia. Il vecchio maresciallo Chu Teh, di fronte a me, riempiva spesso il suo bicchierino e col suo largo sorriso contadino mi incitava a brindare di continuo. Alla fine del pranzo approfittai di un momento di distrazione del vecchio stratega per assaggiare un sorso dalla sua bottiglia di vodka. I miei sospetti vennero confermati dalla constatazione che il maresciallo aveva bevuto acqua pura durante il pranzo, mentre io mi gettavo in corpo grandi quantità di fuoco liquido.
Al momento del caffè la mia vicina di tavolo Sung Sin Ling, la vedova di Sun Yat Sen, la donna portentosa che eravamo venuti a premiare, trasse una sigaretta dal suo portasigarette. Poi, con un sorriso squisito, ne offrì una a me. «No, non fumo, grazie infinite»,
le dissi. E ai miei complimenti al suo portasigarette, mi rispose: « Lo conservo, perché è un ricordo molto importante nella mia vita ». Era un oggetto abbagliante di oro massiccio, ornato di brillanti e rubini. Dopo averlo guardato coscienziosamente, e aver aggiunto altri elogi, lo restituii alla sua proprietaria.
Dimenticò quasi subito la restituzione, perché, quando ci alzammo da tavola si diresse verso di me con una certa intensità e mi disse:
— Il mio portasigarette, please?
Io ero sicuro di averglielo restituito però, ad ogni modo lo cercai sulla tavola, poi sotto, senza trovarlo. Il sorriso della vedova di Sun Yat Sen era svanito e solo due occhi neri mi trapassavano da parte a parte come fulmini implacabili. L'oggetto sacro non si trovava da nessuna parte e io cominciavo a sentirmi assurdamente responsabile della sua perdita. Quei due fulmini neri mi stavano convincendo. che io ero un ladro di gioielli cesellati.
Per fortuna, nell'ultimo minuto di agonia, intravidi il portasigarette ricomparso fra le sue mani. L'aveva trovato nella sua borsetta, semplicemente, naturalmente. Lei ritrovò il suo sorriso, ma io non ho potuto sorridere per diversi anni. Penso adesso che forse la Rivoluzione Culturale l'ha privata per sempre del suo bellissimo portasigarette d'oro.
In quella stagione dell'anno i cinesi vestivano di azzurro, una tuta da meccanico che copriva ugualmente uomini e donne, dando loro un aspetto unanime e celeste. Niente stracci. Neppure automobili. Una folla densa riempiva tutto, fluiva da ogni parte.
Era il secondo anno della rivoluzione. Dovevano esserci, sicuramente, scarsità e difficoltà in diversi posti, ma non si vedevano a percorrere la città di Pechino. Quello che preoccupava specialmente Ehrenburg e me, erano piccoli particolari, piccoli tic del sistema.
Quando volemmo comprare un paio di calzini, un fazzoletto, suscitammo un vero problema di stato. I compagni cinesi discussero fra di loro. Dopo nervose delibere, partimmo dall'hotel in carovana. In testa andava a nostra macchina, poi quella delle guardie, quella della polizia, quella degli interpreti. Il corteo di mac"me mosse velocemente e si fece strada fra la folla sempre spessa. Passavamo come una valanga per lo stretto canale che ci lasciava libero la gente. Giunti al magazzino scesero di corsa gli amici cinesi, fecero rapidamente dal negozio tutta la clientela, fermarono il traffico, formarono una barriera con i loro corpi, un corridoio umano che attraversammo a testa bassa. Ehrenburg ed io, per uscire di nuovo a testa bassa
un quarto d'ora dopo, con un pacchetto in mano. e la decisa risoluzione di non comperare mai più un paio di calzini.
Queste cose mandavano Ehrenburg su tutte le furie. Prendiamo il caso del ristorante che vi racconto ora. Nell'albergo ci servivano il pessimo cibo inglese che avevano lasciato come eredità in Cina i sistemi coloniali. Io, che sono un grande ammiratore della cucina cinese, dissi al mio giovane interprete che ardevo dal desiderio di approfittare della famosa arte culinaria pechinese. Mi rispose che si sarebbe informato.
Non so se si sia effettivamente informato, sta di fatto che continuavamo a masticare l'insipido rosbif dell'albergo. Gli riparlai della cosa. Ci pensò su un momento e mi disse:
— I compagni si sono riuniti diverse volte per esaminare la situazione. Il problema sta per essere risolto. Il giorno dopo ci si avvicinò un membro importante del comitato per gli ospiti. Dopo essersi messo bene a posto sul viso il suo sorriso, ci chiese se era vero che volevamo mangiare cibo cinese. Ehrenburg gli rispose chiaramente di sì. Io aggiunsi che conoscevo fin dall'infanzia la cucina cantonese e che ero ansioso di assaggiare il celeberrimo gusto di Pechino.
— La cosa è difficile — disse il compagno cinese, preoccupato.
Silenzio, dondolio della testa e quindi riassunse:
— Quasi impossibile.
Ehrenburg sorrise, con un sorriso amaro di scettico consumato. Io, invece, andai su tutte le furie.
— Compagno — gli dissi. — Mi faccia il favore di farmi preparare i miei documenti per il ritorno a Parigi. Se non posso mangiare cibo cinese in Cina, andrò a mangiarlo nel Quartiere Latino, dove non è così complicato.
La mia violenta richiesta ebbe successo. Quattro ore dopo, preceduti dalla nostra numerosa comitiva, sedevamo in un famoso ristorante dove da cinquecento anni si prepara l'anatra laccata. Un piatto squisito, memorabile.
II ristorante, aperto giorno e notte, distava appena trecento metri dal nostro albergo.
I VERSI DEL CAPITANO
Da un posto all'altro, in queste peripezie di esiliato, giunsi in un paese che non conoscevo allora e che imparai ad amare intensamente: l'Italia. In quel paese tutto mi sembrava favoloso. Specialmente la semplicità italiana: l'olio, il pane e il vino della naturalezza. Perfino quella polizia... Quella polizia che non mi ha mai maltrattato, ma che mi seguiva instancabile. Era una polizia che trovavo dovunque, perfino nei sogni e nella minestra.
Gli scrittori mi invitarono a leggere i miei versi. Li lessi in buona fede dappertutto, nelle università, negli anfiteatri, ai portuali di Genova, a Firenze, nel Palazzo della Lana, a Torino, a Venezia.
Leggevo con infinito piacere davanti a sale strabocchevoli di pubblico. Qualcuno accanto a me ripeteva poi le strofe in italiano supremo, e mi piaceva udire i miei versi con quello splendore che gli aggiungeva la lingua magnifica. Ma alla polizia non piaceva tanto.
In spagnolo, passi, ma la versione italiana aveva punti e puntini. Gli elogi alla pace, parola che era stata proscritta dagli « occidentali », e ancora di più il fatto che la mia poesia si rivolgeva alle lotte popolari, erano pericolosi.
I comuni erano stati conquistati nelle elezioni dai partiti popolari e così io fui ricevuto negli splendidi municipi come ospite d'onore. (16) Molte volte fui nominato cittadino onorario della città. Sono cittadino onorano di Milano, Firenze e Genova. Prima o dopo il mio recital i consiglieri comunali mi insignivano della cittadinanza. Nel salone si riunivano i notabili della
città, aristocratici e vescovi. Si beveva una piccola coppa di champagne che io gradivo in nome della mia patria lontana. Fra abbracci e baciamani scendevo finalmente le scalinate dei palazzi municipali. In strada mi aspettava la polizia che non mi mollava un momento.
A Venezia siccesse una scena degna di un film. Feci il mio solito recital in aula. Mi fecero ancora una volta cittadino onorario. Ma la Polizia voleva che io me ne andassi dalla città dove nacque Desdemona. Gli agenti erano appostati notte e giorno alle porte dell'albergo.
Il mio vecchio amico Vittorio Vidali, « il comandante Carlos », venne da Trieste ad ascoltare i miei versi. Mi accompagnò anche nell'infinito piacere di percorrere i canali e di veder passare dalla gondola i palazzi color della cenere. Quanto alla polizia, mi assediò molto di più. Andavano direttamente dietro di noi a due metri di distanza. Allora decisi di scappare, come Casanova, da una Venezia che voleva mettermi dentro. Uscimmo di corsa, insieme a Vittorio Vidali e allo scrittore costaricano Joaquín Gutierrez, che si trovava lì per caso. Dietro di noi si lanciarono i due poliziotti veneziani. Rapidamente riuscimmo a imbarcarci nella unica gondola a motore di Venezia, quella del sindaco comunista. La gondola del potere municipale solcò velocemente le acque del canale, intanto l'altro potere correva come un daino alla ricerca di un'altra barca. Quella che presero era una delle numerose romantiche imbarcazioni a remi, dipinta di nero e con decorazioni in oro, che adoperano gli innamorati di Venezia. Ci seguì da lontano e senza speranza, come un'anatra può seguire un delfino.
Tutta quella persecuzione precipitò una mattina a Napoli. La polizia arrivò all'albergo, non tanto presto, poiché a Napoli nessuno lavora di buon'ora, neppure la polizia. Con la scusa di un errore sul passaporto mi pregarono di seguirli in questura. Lì mi offrirono del
caffè « espresso » e mi notificarono che dovevo lasciare il territorio italiano il giorno stesso.
Il mio amore per l'Italia non serviva a nulla.
— Si tratta senz'altro di un equivoco — dissi.
— Niente affatto. Abbiamo molta stima per lei, ma deve lasciare il paese.
E poi, in modo indiretto, con modi obliqui, mi fecero sapere che era l'ambasciata cilena che chiedeva mia espulsione.
Il treno partiva nel pomeriggio. Alla stazione c'erano già i miei amici in missione di saluto. Baci. Fiori. Grida, Paolo Ricci, gli Alicata. Tanti altri. Arrivederci. Addio. Adios.
Durante il viaggio in treno, che mi avrebbe portato a Roma, i poliziotti che mi custodivano si prodigarono in gentilezze. Salivano e mettevano a posto le mie valigie. Mi compravano « L'Unità » e il « Paese Sera », in nessun caso stampa di destra. Mi chiedevano autografi, alcuni per loro stessi e altri per i loro familiari. Non ho mai visto una polizia più gentile.
-- Ci dispiace. Eccellenza. Siamo poveri padri di famiglia. Dobbiamo ubbidire agli ordini. È odioso...
Ormai nella stazione di Roma, dove dovevo scendere per cambiare il treno e continuare il mio viaggio fino alla frontiera, intravidi dal mio finestrino una grande folla. Udii gridare. Osservai movimenti confusi e violenti. Grossi fasci di fiori camminavano verso il treno
sollevati sopra un fiume di teste.
— Pablo! Pablo!
Sceso dal predellino del vagone, elegantemente custodito, mi trovai immediatamente al centro di una prodigiosa battaglia. Scrittori e scrittrici, giornalisti, deputati, circa un migliaio di persone, mi strapparono in pochi secondi dalle mani della polizia. La polizia avanzò a sua volta e mi riscattò dalle braccia dei miei amici. In quei momenti drammatici distinsi alcune facce famose. Alberto Moravia e sua moglie Elsa Morante, romanziera come lui. Il famoso pittore Renato Guttuso. Altri poeti. Altri pittori. Carlo Levi, il celebre autore di Cristo si è fermato a Eboli, mi allungava un ramo di rose. In mezzo al trambusto i fiori cadevano per terra, volavano cappelli e ombrelli, risuonavano i cazzotti come esplosioni. La polizia stava avendo la peggio e fui di nuovo recuperato dai miei amici. Nella mischia potei vedere la dolcissima Elsa Morante colpire col suo ombrellino di seta la testa di un poliziotto. D'un tratto
passarono i carrelli dei portabagagli e vidi uno di loro, un facchino corpulento, scaricare una randellata sulle spalle della forza pubblica. Erano le adesioni del popolo romano. La contesa divenne così complicata che i poliziotti mi dissero, a parte:
— Parli ai suoi amici. Dica loro di calmarsi...
La folla gridava:
— Neruda rimane a Roma! Neruda non se ne va dall’Italia. Rimanga il poeta! Rimanga il cileno! Fuori l’austriaco!
(L’«austriaco» era De Gasperi, primo ministro italiano)
A capo di mezz'ora di pugilato arrivò un ordine superiore grazie al quale mi era concesso il permesso di rimanere in Italia. I miei amici mi abbracciarono e mi baciarono e io mi allontanai da quella stazione calpestando con dispiacere i fiori rovinati dalla battaglia.
Mi svegliai il giorno dopo in casa di un senatore, con immunità parlamentare, dove mi aveva portato il pittore Renato Guttuso, che ancora non si fidava della parola del governo. Lì mi giunse un telegramma dall'isola di Capri. Era firmato dall'illustre storico Erwin Cerio, (17) che io non conoscevo personalmente. Esprimeva la sua indignazione per quello che considerava un oltraggio, un insulto alla tradizione e alla cultura italiana. Concludeva offrendomi una villa, nella stessa Capri, perché io vi abitassi.
Mi pareva un sogno. E quando arrivai a Capri, in compagnia di Matilde Urrutia, di Matilde, la sensazione irreale dei sogni si fece più forte.
Arrivammo di notte e d'inverno nell'isola meravigliosa. Nell'ombra si ergeva la costa, bianchiccia e altissima; sconosciuta e taciturna. Cosa sarebbe successo? Cosa ci sarebbe successo? Una carrozza a cavalli ci attendeva. La carrozzella saliva e saliva per le strade notturne. Case bianche e mute, strade strette e verticali. Alla fine si fermò. Il cocchiere depositò le nostre valige in quella casa, anch'essa bianca e apparentemente vuota.
Entrando vedemmo ardere il fuoco nel grande camino. Alla luce dei candelabri accesi c'era un uomo alto, coi capelli, la barba e il vestito bianco. Era don Erwin Cerio, proprietario di mezza Capri, storico e naturalista. Nella penembra si ergeva come l'immagine di Dio padre dei racconti infantili.
Aveva quasi novant'anni ed era l'uomo più illustre dell'isola.
— Faccia come se fosse a casa sua. Qui starà tranquillo.
E se ne andò per diversi giorni durante i quali, per gentilezza, non ci faceva visita, ma ci mandava brevi messaggi con notizie o consigli, scritti con una calligrafia perfetta e con qualche foglia o fiore del suo giardino. Erwin Cerio rappresentò per noi il grande, generoso e profumato cuore dell'Italia.
Poi vidi i suoi lavori, i suoi libri più veri di quellidi Alex Munthe, (18) anche se non erano altrettanto famosi. Il nobile vecchio Cerio ripeteva con umore picaresco:
— Il capolavoro di Dio è la piazza di Capri.
Matilde ed io ci rinchiudevamo nel nostro amore. Facevamo lunghe passeggiate per Anacapri. La piccola isola divisa in mille piccoli orti ha uno splendore naturale troppo decantato ma tirannicamente veridico. Fra le rocce, dove il sole e il vento sono più sferzanti,
dalla terra asciutta, spuntano piante e fiori minuscoli, cresciuti esattamente come in una grande composizione di giardinaggio. Questa Capri recondita, dove si entra soltanto dopo un lungo pellegrinaggio e quando ormai l'etichetta di turista ti si è staccata di dosso, questa Capri popolare di rocce e di vigne minuscole, di gente modesta, lavoratrice, essenziale, ha un fascino assorbente. Uno si sente ormai consustanziato con le cose e la gente; ti conoscono i cocchieri e le pescatrici; fai parte della Capri nascosta e povera; e sai dove trovare il buon vino che costa poco o dove comprare le olive che mangiano quelli di Capri. (19)
È probabile che dietro le grandi muraglie dei palazzi accadano tutte le romanzesche perversità che si leggono nei libri. Io però ho partecipato ad una vita felice in piena solitudine o fra la gente più semplice del mondo. Tempo memorabile! Lavoravo l'intera mattina e nel pomeriggio Matilde batteva a macchina le mie poesie. Per la prima volta vivevamo insieme nella stessa casa. In quel posto dalla bellezza inebriante il nostro amore crebbe. Non potemmo separarci mai più.
Lì ho finito di scrivere un libro d'amore, appassionato e doloroso, che fu pubblicato poi a Napoli, anonimo: Los versos del capitán.
E adesso vi racconto la storia di questo libro, uno dei più controversi dei miei. Rimase per molto, tempo un segreto, per molto tempo non portò il mio nome in copertina come se io lo avessi rinnegato o lo stesso libro non sapesse chi era suo padre. Come ci sono figli naturali, digli dell'amore naturale, Los versos del capitán erano cosi, un libro naturale.
Le poesie che lo compongono sono state scritte di qua e di là, lungo il mio esilio in Europa. Sono state pubblicate anonime a Napoli nel 1952. L'amore per Matilde, la nostalgia del Cile, le passioni civili riempirono le pagine di questo libro che rimase senza il nome dell'autore per molte edizioni.
Per la sua prima tiratura, il pittore Paolo Ricci riuscì a trovare una carta bellissima, e vecchi caratteri di stampa bodoniani, e incisioni prese dai vasi di Pompei. Con fervore fraterno Paolo elaborò anche la lista dei sottoscrittori. Ed ecco il bel volume finito, pronto
in non più di cinquanta esemplari. Festeggiammo a lungo l'avvenimento, con una tavola fiorita, frutti di mare, vino trasparente come l'acqua, figlio unico delle vigne di Capri. E con l'allegria dei nostri amici che amarono il nostro amore.
Alcuni critici sospettosi attribuirono a motivi politici la pubblicazione di questo libro senza firma. « II partito si è opposto, il partito non lo approva », dissero. Ma non era vero. Per fortuna, il mio partito non si oppose a nessuna espressione della bellezza.
L'unica verità è che non ho voluto, per molto tempo, che quelle poesie ferissero Delia, dalla quale mi ero separato. Delia del Carril, passeggera dolcissima, filo d'acciaio e miele che legò le mie mani negli anni sonori, è stata per me una compagna esemplare per diciotto anni. (20) Questo libro, di passione brusca e ardente, sarebbe arrivato come un sasso sulla sua tenera struttura. Queste erano, e non altre, le ragioni, profonde, personali, rispettabili, del mio anonimato.
Poi il libro, anche senza nome e cognome, si fece uomo, uomo naturale e coraggioso. Si fece strada nella vita e io dovetti, alla fine, riconoscerlo. Adesso vanno per il mondo, vale a dire per librerie e biblioteche, i « versi del capitano » firmati dal vero capitano.
FINE DELL'ESILIO
II mio esilio volgeva al termine. Era l'anno 1952. Passando per la Svizzera giungemmo a Cannes per prendere una nave italiana che doveva portarci a Montevideo. Questa volta non volevamo vedere nessuno in Francia. Avvertii del nostro passaggio soltanto Alice Gascar, la mia fedelissima traduttrice ed amica da tempo. A Cannes, però, ci aspettavano degli imprevisti.
Incontrai per strada, nei pressi della sede della compagnia di navigazione, Paul Eluard e Dominique, sua mogl.ie Avevano saputo del mio arrivo e volevano invitarmi a pranzo. Sarebbe venuto anche Picasso. Poi ci imbattemmo nel pittore cileno Nemesio Antunez e in Ines Figueroa, sua moglie, anch'essi avrebbero pranzato con noi.
Quella sarebbe stata l'ultima volta che avrei visto Paul Eluard. Lo ricordo sotto il sole di Cannes, col suo completo azzurro che sembrava un pigiama. Non dimenticherò mai il suo volto abbronzato e color di rosa, i suoi occhi azzurrissimi, il suo sorriso infinitamente giovanile, sotto la luce africana delle strade scintillanti di Cannes. Eluard era venuto da Saint Tropez per salutarmi, portò con sé Picasso e organizzò il pranzo. La festa era pronta.
Uno stupido incidente imprevisto mi rovinò la giornata. Matilde non aveva il visto per l'Uruguay. Doveva passare in fretta per il consolato di quel paese. L'accompagnai in taxi e attesi alla porta. Matilde sorrise ottimista quando il console uscì a riceverla. Sembrava un bravo ragazzo. Canticchiava un'aria della Madama Butterfly. Era vestito in modo molto poco consolare: una camicetta e un paio di pantaloncini corti. Non avrebbe mai potuto immaginare che nel corso della conversazione, quel tipo si sarebbe trasformato in un volgare ricattatore. Col suo aspetto da Pinkerton pretese il pagamento di ore di straordinario e sollevò tutta una serie di ostacoli. Ci fece correre per tutta la mattinata. La bouillabaisse del pranzo mi sembrò di ghiaccio. Matilde ci mise delle ore per ottenere il suo visto. Pinkerton le imponeva nuove formalità ogni due minuti: che portasse una fotografia, che cambiasse i dollari in franchi, che pagasse una conversazione telefonica con Bordeaux. La tariffa arrivò a superare i centoventi dollari per un visto di transito che avrebbe dovuto essere gratuito. Arrivai a temere che Matilde avrebbe perso la nave, e che neanche io sarei riuscito ad imbarcarmi. Ho ritenuto a lungo quel giorno come il più amaro della mia vita.
OCEANOGRAFIA DISPERSA
Io sono un patito del mare. Da anni colleziono noscenze che non mi servono molto perché navigo sulla terra.
Adesso ritorno in Cile, nel mio paese oceanico, e la mia nave si avvicina alle coste dell'Africa. Ha già superato le antiche colonne d'Erede, oggi corazzate al servizio del penultimo imperialismo.
Guardo il mare col più grande disinteresse; quello dell'oceanografo puro, che conosce la superfìcie e la profondità; senza piacere letterario, ma con un assaporamento da intenditore, da palato di cetaceo.
Mi son sempre piaciuti i racconti di mare e ho una rete sui miei scaffali. Il libro che consulto più spesso è uno di William Beebe (21) o una buona monografia descrittiva delle volute marine del mare antartico.
Mi interessa il plancton; quell'acqua nutriente, molecolare e elettrizzata che tinge i mari di un colore di lampo violetto. Così ho scoperto che le balene si nutrono quasi esclusivamente di questo innumerevole crescente marino. Piccolissime piante e irreali infusori popolano il nostro trepidante continente. Le balene aprono le loro immense bocche mentre si spostano,
sollevando la lingua fino al palato, di modo che queste acque vive e viscerali le riempiono e nutrono. Così si nutre la balena glauca (bachianetas glaucas) che passa, diretta verso il sud del Pacifico e verso le isole calde, di fronte alle finestre della mia Isla Negra.
Di lì passa anche la rotta migratoria del cachalote, o balena dentata, la più cilena di quelle cui si da la caccia. I marinai cileni hanno illustrato con esse il mondo folkloristico del mare. Sui suoi denti hanno inciso col coltello cuori e frecce, piccoli monumenti d'amore, ritratti infantili dei loro velieri e delle loro fidanzate. Ma i nostri balenieri, i più audaci dell’emisfero marino, non attraversavano lo stretto di Capo Horn, l'Antartico e le sue collere, semplicemente per sgranare la dentatura del minaccioso cachalote, per strappargli il suo tesoro di grasso e quello che vale ancora di più, la piccola sacca di ambra grigia che soltanto questo mostro nasconde nella sua montagna addominale.
Adesso vengo da un'altra parte. Ho lasciato dietro di me l'ultimo santuario azzurro del Mediterraneo, le grotte e i contorni marini e sottomarini dell'Isola di Capri dove le sirene uscivano a pettinarsi sulle rocce i loro azzurri capelli, perché il movimento del mare aveva tinto e inzuppato le loro folli capigliature.
Nell'acquario di Napoli ho potuto vedere le molecole elettriche degli organismi primevi e salire e scendere la medusa, fatta di vapore e argento, che si agita nella sua danza dolce e solenne, circondata all'interno dall'unica cintura elettrica portata fin'ora da qualsiasi dama delle profondità sottomarine.
Molti anni fa a Madras, nella buia India della mia gioventù, ho visitato un acquario meraviglioso. Ricordo ancora i pesci bruniti, le murene velenose, i banchi vestiti d'incendio e di arcobaleno, e ancora, i polipi straordinariamente seri e misurati, metallici come registratori di cassa, con innumerevoli occhi, gambe, ventose e conoscenze.
Di quel grande polipo che tutti abbiamo conosciuto per la prima volta ne I lavoratori del mare di Victor Hugo (anche Victor Hugo è un polipo tentacolare e poliforme della poesia), di quella specie sono riuscito a vedere soltanto un frammento di braccio nel Museo Naturale di Copenaghen. Questo era veramente l'antico Kraken, terrore dei mari antichi, che afferrava un veliero e lo travolgeva coprendolo e irretendolo. Il frammento che io vidi conservato nell'alcool indicava che la sua lunghezza superava i trenta metri. (22)
Ma quello che ho cercato con maggiore costanza è stata la traccia, o piuttosto il corpo del narval. Dato che il gigantesco unicorno marino dei mari del Nord era tanto sconosciuto ai miei amici, arrivai a sentirmi correo esclusivo dei narvali, e a credermi un narval io stesso.
Esiste il narval?
È mai possibile che un animale marino straordinariamente pacifico che porta in fronte una lancia di avorio di quattro o cinque metri, striata in tutta la sua lunghezza in stile salomonico, che termina a punta, possa passare inosservato da milioni di esseri viventi, perfino nel suo meraviglioso nome?
Del suo nome posso dire — narwhal o narval — che è il più bello dei nomi sottomarini, come di coppa marina che canta, nome di sperone di cristallo.
E perché allora nessuno conosce il suo nome^
Perché non esistono i Narval, la bella casa Narval anche Narval Ramirez o Narvala Carvajal?
Non esistono. L'unicorno marino continua a rimanere nel suo mistero, nelle sue correnti di ombra transmarina, con la sua lunga spada d'avorio sommersa nell'oceano ignoto.
Nel Medio Evo la caccia a tutti gli unicorni era uno sport mistico ed estetico. L'unicorno terrestre è rimasto immortalato per sempre, abbagliante, nella tappezzeria, circondato da dame d'alabastro vanitose, aureolato nella sua maestà da tutti gli uccelli che trillano o sfolgorano.
Quanto al narval i monarchi medievali si mandavano, come magnifico regalo qualche frammento del suo corno favoloso e da esso grattavano una polvere che diluita nel liquore, dava, oh eterno sogno dell'uomo, gioventù e potenza.
Mentre vagavo una volta in Danimarca, entrai in un'antico negozio di storia naturale, quei negozi sconosciuti nella nostra America che per me hanno tutto il fascino della terra. Lì, in un angolo, scoprii tre o quattro corni narval. I più grandi misuravano quasi cinque metri. Rimasi a lungo a blandirli e ad accarezzarli.
Il vecchio proprietario del negozio mi vedeva fare delle cariche con la lancia d'avorio in mano, contro gli invisibili mulini a vento del mare. Poi li lasciai ognuno nel suo angolo. Potei comprarmene soltanto uno piccolo, di narval appena nato, di quelli che salgono ad esplorare col loro sperone innocente le fredde acque artiche.
Lo misi nella mia valigia, ma nella mia piccola pensione svizzera, di fronte al lago Lemano, ebbi bisogno di vedere e toccare il magico tesoro dell'unicorno marino che mi apparteneva. E lo tirai fuori dalla valigia.
Adesso non lo trovo.
Lo avrò dimenticato nella pensione di Vésenaz, o sarà ruzzolato, all'ultimo momento sotto il letto? O veramente sarà tornato in modo misterioso e notturno al circolo polare?
Guardo le piccole onde di un nuovo giorno dell'Atlantico.
La nave lascia ad ogni lato della prua uno squarcio bianco, azzurro e solforico di acque, schiume e abissi.
Sono le porte dell'oceano che tremano.
Al di sopra di esse volano i minuscoli pesci volanti, di argento e trasparenza.
Ritorno dall'esilio.
Guardo a lungo le acque. Su di esse navigo verso altre acque: le onde tormentate della mia patria.
Il cielo di un lungo giorno copre tutto l'oceano.
La notte giungerà e con la sua ombra nasconderà ancora una volta il grande palazzo verde del mistero.
Quaderno 10
INIZIO E FINE DI UN ESILIO
UN AGNELLO IN CASA MIA
Avevo uno zio senatore che, dopo essere stato eletto di nuovo alle elezioni, venne a passare qualche giorno nella mia casa di Isla Negra. Così comincia la storia dell'agnello.
Accadde che i più entusiasti fra i suoi elettori vennero a festeggiare il senatore. Il primo pomeriggio della festa venne arrostito un agnello alla maniera campagnola del Cile, con un grande fuoco all'aria aperta e il corpo dell'animale infilzato su uno spiedo di legno. Questo si chiama « arrosto al palo » e si celebra con molto vino e lamentose chitarre criolle.
Un altro agnello rimase per la cerimonia del giorno dopo. In attesa che arrivasse il suo destino, lo legarono vicino alla mia finestra. Per tutta la notte gemette e pianse, belò e si lamentò della sua solitudine. Spezzava il cuore con i suoi lamenti quell'agnello. A tal punto che decisi di alzarmi di buon mattino e rapirlo.
Lo misi in un'automobile e me Io portai a centocinquanta chilometri da lì, nella mia casa di Santiago, dove non potessero raggiungerlo i coltelli. Appena entrato si mise a brucare voracemente la parte più scelta del mio giardino. Lo entusiasmavano i tulipani e non ne risparmiò neanche uno. Anche se per ragioni spinose non osò avvicinarsi ai roseti, divorò invece le violacciocche e gli iris con uno strano godimento. Non c'era da fare altro che legarlo un'altra volta. E immediatamente si mise a belare, cercando visibilmente di commuovermi come prima. Io ero disperato.
Adesso la storia dell'agnello s'intreccia con la storia di Juanito. In quel periodo c'era stato uno sciopero di contadini nel sud. I latifondisti della regione, che pagavano i loro mezzadri non più di venti centesimi di dollaro al giorno, fecero finire lo sciopero a colpi di bastone e facendo incarcerare gli scioperanti.
Un giovane contadino provò tanta paura che salì su un treno in corsa. Il ragazzo si chiamava Juanito era molto cattolico e non sapeva nulla delle cose di questo mondo. Quando passò il controllore, lui disse che il biglietto non ce l'aveva, lui andava a Santiago e che credeva che i treni c'erano perché la gente ci salisse sopra e ci viaggiasse quando ne aveva bisogno. Cercarono di farlo scendere, naturalmente. Ma i passeggeri di terza classe — gente del popolo, sempre generosa — fecero una colletta e gli pagarono il biglietto.
Juanito vagò per strade e piazze della capitale con un fagotto di roba sotto il braccio. Dato che non conosceva nessuno, non voleva parlare con nessuno. In campagna si diceva che a Santiago ci sono più ladri che abitanti e lui aveva paura che gli fregassero la camicia e le scarpe di paglia intrecciata che portava sotto il braccio avvolte in un giornale. Di giorno vagava per le strade più frequentate, dove la gente aveva sempre tanta fretta e spingeva da parte con uno spintone questo Gaspar Hauser (1) caduto da un altro pianeta. Di notte cercava anche i quartieri più frequentati, ma questi erano i viali dei cabarets e della vita notturna, e lì la sua presenza era ancora più strana, pallido pastore perduto fra i peccatori. Dato che non aveva un centesimo, non poteva mangiare, tanto e un giorno cadde al suolo, svenuto,
Una folla di curiosi circondò l'uomo disteso sulla strada. La porta di fronte alla quale cadde era quella di un piccolo ristorante. Lo portarono lì dentro e lo lasciarono per terra. È il cuore, dicevano alcuni. È sincope epatica, dicevano altri. Si avvicinò il proprietario del ristorante, lo guardò e disse: « È fame ». Non appena ebbe mangiato qualche boccone, quel cadavere resuscitò. Il padrone lo mise a lavar piatti e lo prese in grande simpatia. E ne aveva ben donde. Sempre con il sorriso sulle labbra, il giovane contadino lavava montagne di piatti. Tutto andava bene. Mangiava molto di più che a casa sua.
Il maleficio della città operò in modo tanto strano da far sì che alla fine si incontrassero in casa mia il pastore e l'agnello.
Al pastore venne voglia di conoscere la città e diresse i suoi passi un po' più in là delle montagne di piatti. Prese con entusiasmo per una strada, attraversò una piazza, e tutto lo affascinava. Ma quando volle tornare indietro, non fu in grado di farlo. Non aveva preso l'indirizzo perché non sapeva scrivere e cercò invano la porta ospitale che lo aveva accolto. Non la ritrovò più.
Un passante gli disse, impietosito dalla sua confusione, che doveva rivolgersi a me, al poeta Pablo Neruda. Non so perché gli suggerirono quest'idea. Probabilmente perché in Cile hanno la mania di affidarmi qualsiasi cosa peregrina gli passa per la testa alla gente, e al tempo stesso darmi la colpa di tutto quello che capita. Sono strane abitudini nazionali.
Di fatto il ragazzo arrivò a casa mia un bei giorno e s'incontrò con l'animale prigioniero. Mi ero già preso cura di quell'agnello inutile, un altro passo e prendermi cura di questo pastore non fu difficile. Gli detti il compito di badare che l'agnello gourmet non divorasse esclusivamente i miei fiori, ma che, ogni tanto, saziasse il suo appetito anche con l'erba del mio giardino.
La loro intesa fu perfetta. Nei primi giorni lui gli mise per formalità una cordicella al collo, come un nastro, e grazie ad essa lo portava da un posto all'altro. L'agnello mangiava senza sosta, come pure il pastore individualista, e tutti e due andavano a zonzo per tutta la
casa, perfino dentro le mie stanze. Era una compenetrazlone Perfetta, raggiunta attraverso il cordone ombelicale di madre terra, dall'autentico mandato dell’uomo. Così trascorsero molti mesi. Sia il pastore che l’agnello arrotondarono le loro fattezze carnali, specialmente il rumiriarlte che a malapena riusciva a star dietro al suo pastore tanto era ingrassato. A volte entrava parsimoniosamente nella mia stanza, mi guardava con indifferenza e ne usciva lasciandomi un piccolo rosario di grani scuri sul pavimento.
Tutto finì quando il contadino sentì la nostalgia della sua campagna e mi disse che se ne tornava alle sue terre lontane. Era una decisione dell'ultimo momento. Aveva fatto un voto alla Madonna del suo villaggio. Non poteva portarsi dietro l'agnello. Si salutarono con tenerezza. Il pastore prese il treno, questa volta col suo biglietto in mano. Quella partenza fu veramente patetica.
Nel mio giardino non rimase un agnello ma un problema grave, anzi un grosso problema. Che fare del ruminante? Chi se ne sarebbe occupato ora? Io avevo eccessive preoccupazioni politiche. La mia casa era stata messa a soqquadro dopo le persecuzioni politiche che mi aveva procurato la mia poesia combattente. L'agnello ricominciò a belare le sue lamentose partiture.
Chiusi gli occhi e dissi a mia sorella di portarselo via. Ahi! Questa volta ero proprio sicuro che non avrebbe potuto sfuggire al girarrosto.
DA AGOSTO 1952 AD APRILE 1957
Gli anni trascorsi fra l'agosto del 1952 e l'aprile del 1957 non figureranno in modo particolareggiato nelle mie memorie perché quasi tutto quel tempo l'ho trascorso in Cile e non mi sono capitate cose curiose né avventure capaci di divertire i miei lettori. Tuttavia, è necessario enumerare alcuni fatti importanti di quel periodo. Pubblicai il libro Las uvas y el viento che avevo già scritto. Lavorai intensamente alle Odas elementales, alle Nuevas odas elementales e al Tercer libro de las odas. (2) Organizzai un congresso continentale della cultura, che si svolse a Santiago e al quale parteciparono importanti personalità da tutta l'America. Festeggiai anche a Santiago il mio cinquantesimo compleanno, con la presenza di scrittori importanti da tutto il mondo: dalla Cina vennero Ai Cong e Emi Siao; Ilya Ehrenburg volò dall'Unione Sovietica; Dreda e Kutvalek dalla Cecoslovacchia; e dei latino-americani c'erano Miguel Angel Asturias, Oliverio Girondo, Norah Lange, Elvio Romero, Maria Rosa Oliver, Raul Larra e tanti altri. (3) Donai all'Università di Cile la mia biblioteca e altri beni. Feci un viaggio in Unione Sovietica, come membro della giuria del Premio Lenin per la Pace, che io stesso avevo ottenuto in quel periodo, quando ancora si chiamava Premio Stalin. Mi separai definitivamente da Delia del Carril. Costruii la mia casa « La Chascona » e andai a viverci con Matilde Urrutia. Fondai la rivista « Gaceta del Cile » e la diressi per alcuni numeri. Presi parte alle campagne elettorali e ad altre attività del Partito Comunista Cileno. La casa editrice Losada di Buenos Aires pubblicò le mie opere complete in carta da Bibbia.
ARRESTATO A BUENOS AIRES
Al termine di quel periodo fui invitato ad un congresso della pace che si riuniva a Colombo, nell'isola di Ceylon dove ero vissuto tanti anni prima. Eravamo nel mese di aprile del 1957.
Incontrarsi con la poesia segreta non sembra pericoloso, ma se si tratta della polizia segreta argentina l'incontro assume un altro carattere, non privo di hurnor anche se imprevedibile nelle sue conseguenze. Quella notte, appena arrivato dal Cile, disposto a proseguire il mio viaggio per i più lontani paesi, andai a letto stanco. Mi ero appena addormentato quando fecero irruzione nella casa diversi poliziotti. Perquisivano tutto con lentezza; raccoglievano i libri e le riviste; trascinavano i guardaroba.; controllavano la biancheria intima. Avevano già portato via l'amico argentino che mi ospitava quando mi scoprirono in fondo alla casa, dove si trovava la mia stanza.
— Chi è questo signore? — domandarono.
— Mi chiamo Pablo Neruda — risposi.
— È malato? — chiesero a mia moglie.
— Sì, non sta bene ed è molto stanco del viaggio. Siamo arrivati oggi e domani prendiamo un aereo per l'Europa.
— Molto bene, molto bene — dissero e uscirono dalla stanza.
Tornarono un'ora dopo, provvisti di un'autoambulanza. Matilde protestava, ma questo non cambiò le cose. Avevano istruzioni. Dovevano portarmi via, stanco o riposato, sano o malato, vivo o morto.
Pioveva quella notte. Grosse gocce cadevano dal cielo spesso di Buenos Aires. Io ero confuso. Perón era già caduto. Il generale Aramburu, (5) in nome della democrazia, aveva rovesciato la tirannia. Eppure, senza sapere né come né quando, perché né dove, se per questo o per quello, se per nulla o per tutto, sfinito e malato, io ero arrestato. La lettiga nella quale mi trasportavano fra quattro poliziotti diventava un serio problema nello scendere le scale, entrare negli ascensori, attraversare i corridoi. I quattro portatori soffrivano e sbuffavano. Matilde per accrescere le loro sofferenze, gli aveva detto con voce melliflua che io pesavo 110 chili. E in realtà dovevano essere tanti, con vestito e cappotto riparato fino alla testa dalle coperte. Sembravo una mole, come il vulcano Osorno, su quella lettiga che mi offriva la democrazia argentina. Pensavo, e questo alleviava i miei sintomi di flebite, che non erano quei poveri diavoli che mi portavano quelli che sudavano e si sforzavano sotto il mio peso, ma che era lo stesso generale Aramburu a portare la mia lettiga.
Fui accolto dalla consuetudine carceraria, la catalogazione del prigioniero e la requisizione degli oggetti personali. Non mi lasciarono tenere l'appetitoso romanzo giallo che avevo portato per non annoiarmi, in realtà non ebbi il tempo di annoiarmi. Si aprivano e si
chiudevano i cancelli. La lettiga attraversava cortili e porte di ferro; si internava sempre più profondamente fra rumori e catenacci. D'un tratto mi trovai in mezzo ad una folla. Erano gli altri arrestati della notte, più di duemila. Io ero incomunicado; nessuno poteva avvicinarmi. Però non mancò la mano che strinse la mia sotto le coperte, né il soldato che mise da parte
fucile e mi tese un pezzo di carta perché gli fassi un autografo.
Alla fine mi deposero in alto, nella cella più lontana con una finestrella molto alta. Io volevo riposare, dormire, dormire, dormire. Non ci riuscii perché era ormai giorno e i detenuti argentini facevano un rumore assordante, un vocìo strepitoso, come se stessero assistendo ad una partita fra il River e il Boca.
Oualche ora dopo era già entrata in funzione la solidarietà degli scrittori e degli amici, in Argentina, in Cile e in altri paesi. Mi fecero scendere dalla cella, mi portarono all'infermeria, mi restituirono gli effetti personali, mi rimisero in libertà. Ero sul punto di abbandonare il penitenziario quando mi si avvicinò una delle guardie in uniforme e mi mise in mano una pagina di carta. Era una poesia che mi dedicava, scritta in versi primitivi, pieni di disordine e di innocenza come un oggetto popolare. Credo che pochi poeti siano riusciti a ricevere un omaggio poetico dall'essere umano che era stato assegnato a loro custodia. (6)
POESIA E POLIZIA
Una volta a Isla Negra la ragazza ci disse: « Signora, don Pablo, sono incinta ». Quindi partorì. Non abbiamo mai saputo chi era il padre. A lei non importava. Mentre invece ci teneva che Matilde ed io fossimo i padrini della sua creatura. Ma non fu possibile. Non potemmo. La chiesa più vicina sta a El Tabo, un piccolo villaggio dove andiamo a far benzina per la macchina. Il parroco si rizzò come un porcospino: « Un padrino comunista? Mai. Neruda non passerà per quella porta neanche se porta lui in braccio tuo figlio ». La ragazza
tornò alle sue scope in casa, a testa bassa. Non capiva.
In un'altra occasione ho visto soffrire don Asterio. È un vecchio orologiaio. Ha ormai molti anni; è il miglior cronometrista di Valparaiso. Aggiusta tutti i cronometri della flotta. Sua moglie moriva. La sua vecchia compagna. Cinquant'anni di matrimonio. Pensai che dovevo scrivere qualcosa su di lui. Qualcosa che lo consolasse un pò in un dolore così grande. Che potesse leggere alla sua sposa agonizzante. Posi in essa la ammirazione e la mia emozione per l'artigiano e per la sua arte. Per quella vita così pura fra tutti i tic-tac dei vecchi orologi. Sarita Vial la portò al giornale. Si chiama « La Union » questo giornale Lo dirigeva un certo Pascal. Il signor Pascal era un sacerdote. Non volle pubblicarla. La poesia non sarebbe stata pubblicata. Neruda, il suo autore, è un comunista scomunicato. Non volle. La signora morì. La vecchia compagna di don Asterio. Il sacerdote non pubblicò la poesia.
Io voglio vivere in un mondo senza scomunicati. Non scomunicherò nessuno. Non dirò domani a quel sacerdote: « Non può battezzare nessuno perché lei è anticomunista ». Non dirò a quell'altro: « Non pubblicherò la sua poesia, la sua creazione, perché lei è anticomunista ». Voglio vivere in un mondo in cui gli esseri siano soltanto umani, senza altri titoli che questo, senza darsi in testa con una regola, con una parola, con un'etichetta. Voglio che si possa entrare in tutte le chiese, in tutte le tipografie. Voglio che non si aspetti più nessuno alla porta del municipio per arrestarlo e per espellerlo. Voglio che tutti entrino ed escano dal Palazzo del Municipio, sorridenti. Non voglio che nessuno fugga in gondola, che nessuno sia inseguito in motocicletta. Voglio che la grande maggioranza, l'unica maggioranza, tutti, possano parlare, leggere, ascoltare, fiorire. Non ho mai capito la lotta se non perché abbia termine. Non ho mai capito il rigore, se non perché il rigore non esista. Ho preso una strada perché credo che questa strada ci porti tutti a questa gentilezza duratura. Lotto per questa bontà ubiqua, estesa, inesauribile. Di tanti incontri fra la mia poesia e la polizia, di tutti questi episodi e di altri che non racconto perché son noti, e di altri che non capitarono a me, ma a molti che ormai non potranno raccontarli, mi resta tuttavia una fede assoluta nel destino umano, una convinzione sempre più cosciente che ci avviciniamo ad una grande tenerezza. Scrivo sapendo che sopra le nostre teste su tutte le teste, esiste il pericolo della bomba, della catastrofe nucleare che non lascerà niente e nessuno sulla terra. Eppure, questo non altera la mia speranza. In questo momento critico, in questo batter di palpebre dell'agonia, sappiamo che entrerà la luce definitiva attraverso gli occhi socchiusi. Ci capiremo tutti, Andremo avanti insieme. E questa speranza è irrevoca.
CEYLON RITROVATO
Una causa universale, la lotta contro la bomba atomica mi faceva tornare ancora una volta a Colombo. Attraversammo l'Unione Sovietica, diretti in India, nel TU-104 il meraviglioso aereo a reazione che effettuava un volo speciale per trasportare la nostra nutrita delegazione. Ci fermammo soltanto a Taskent, vicino a Samarcanda. In due giornate l'aereo ci avrebbe deposti nel cuore dell'India.
Volavamo a 10000 metri di altitudine. Per superare i monti Himalaya il passero gigantesco volò ancora più in alto, a circa 15000 metri. Da quell'altezza si intravede un paesaggio quasi immobile. Appaiono le prime barriere, contrafforti azzurri e bianchi delle cordigliere himalaye. Laggiù si aggirerà l'imponente uomo delle nevi nella sua spaventosa solitudine. Poi, a sinistra, si stacca la massa del monte Everest come un piccolo accidente in più fra i diademi di neve. Il sole colpisce in pieno lo strano paesaggio; la sua luce ritaglia i profili, le rocce dentellate, il dominante potere del silenzio innevato.
Evoco le Ande americane che ho attraversato tante volte. Qui non predomina quel disordine, quella furia ciclopica, quel deserto collerico delle nostre cordigliere. Queste montagne asiatiche mi sembrano più classiche, più ordinate. Le loro cupole di neve colpiscono monasteri o pagode nel vasto infinito. La solitudine è più ampia. Le ombre non si ergono come muri di pietra terribile, ma si estendono come misteriosi parchi azzurri di un monastero colossale.
Mi dico che sto respirando l'aria più alta del mondo e contemplando dall'alto le maggiori alture della terra. È una sensazione unica nella quale si mescolano la chiarezza e l'orgoglio, la velocità e la neve.
Voliamo verso Ceylon. Adesso siamo scesi a bassa quota, sulle terre calde dell'India. Abbiamo lasciato la nave sovietica a Nuova Delhi per prendere quest'aereo indiano. Le sue ali scricchiolano e sono scosse da nuvoloni violenti. Nel mezzo del trambusto i miei pensieri
vanno all'isola fiorita. Quando avevo 22 anni ho vissuto a Ceylon un'esistenza solitaria e lì ho scritto la mia poesia più amara circondato dalla natura del paradiso.
Ritorno dopo molto tempo, per questa impressionante riunione di pace, alla quale ha aderito il governo del paese. Avverto la presenza di numerosi e a volte di centinaia di monaci buddisti, a gruppi, vestiti con le loro tuniche color zafferano, immersi nella serietà e nella meditazione che caratterizza i discepoli di Budda. Lottando contro la guerra, la distruzione e la morte, questi sacerdoti affermano gli antichi sentimenti di pace e di armonia che predicava il principe Sidartha Gotamo detto anche Budda. Quanto lontana — penso — dall'assumere questa condotta è la chiesa dei nostri paesi americani, chiesa di tipo spagnolo, ufficiale e belligerante. Che conforto potrebbe essere per i veri cristiani vedere i sacerdoti cattolici, dai loro pulpiti, combattere il crimine più grave e più terribile; quello della morte atomica, che assassina milioni di innocenti e lascia per sempre le sue macchie biologiche nella stirpe dell'uomo.
Me ne andai in esplorazione per le stradine in cerca della casa in cui vissi, nei sobborghi di Wellawhata. Feci fatica a trovarla. Gli alberi erano cresciuti; il volto della strada era cambiato.
Il vecchio edificio in cui avevo scritto dolorosi versi sarebbe stato demolito di lì a poco. Le porte erano marce, l'umidità del tropico aveva danneggiato i muri, ma mi aveva atteso in piedi per quest'ultimo minuto di addio.
Non trovai nessuno dei miei vecchi amici. Eppure l'isola tornò a chiamare nel mio cuore, col suo tagliente suono, col suo immenso scintillio. Il mare continuava a cantare lo stesso antico canto sotto le palme, contro la scogliere. Ripercorsi i sentieri della selva, rividi gli elefanti dal passo maestoso che percorrevano i sentieri, sentii di nuovo l'ebbrezza dei profumi esasperanti, il rumore della crescita e della vita della selva. Giunsi fino alla roccia Sigiriya dove un rè folle si fece costruire una fortezza. Riverii come ieri le immense statue di Budda alla cui ombra camminano gli uomini come piccoli insetti.
E mi allontanai di nuovo, sicuro ora che questa volta sarebbe stato per non tornare mai più.
SECONDO VIAGGIO IN CINA
Da questo congresso della pace a Colombo volammo attraverso l'India con Jorge Amado (7) e Zelia, sua moglie. Gli aerei indiani viaggiavano sempre strapieni di passeggeri col turbante, pieni di colori e canestri. Sembrava impossibile che si potesse mettere tanta gente in un aereo. Una folla scendeva al primo aereoporto e un'altra moltitudine prendeva il suo posto. Noi dovevamo proseguire oltre Madras, fino a Calcutta. L'aereo trasaliva sotto le tempeste tropicali. Una notte diurna, più oscura di quella notturna, ci avvolgeva d'un tratto, e ci abbandonava per dar luogo ad un cielo abbagliante. L'aereo si rimetteva a traballare; lampi e scintille rischiaravano l'oscurità istantanea. Io guardavo come la faccia di Jorge Amado passava dal bianco al giallo e dal giallo al verde. Nel frattempo lui vedeva sulla mia faccia lo stesso cambiamento di colori provocato dalla paura che ci garrotava. Cominciò a piovere dentro l'aereo. L'acqua colava da grosse fessure che mi ricordavano la mia casa di Temuco, d'inverno. Ma queste fessure non mi facevano affatto sorridere a 10000 metri di altitudine. Divertente fu, invece, un monaco che stava dietro di noi. Aprì un ombrello e continuò a leggere, con serenità tutta orientale, i suoi testi di antica sapienza.
Giungemmo senza incidenti a Rangoon, in Birmania. Ricorrevano in quei giorni trent'anni dalla mia residenza in quella terra, della mia residenza in Birmania, durante la quale, completamente sconosciuto, scrissi i miei versi. Esattamente nel 1927, all'età di 23 anni, sbarcavo in questa stessa Rangoon. Era un territorio delirante di colore, impenetrabile di lingue, torrido e affascinante. La colonia era sfruttata e oppressa dai suoi governanti inglesi, ma la città era pulita e luminosa, le strade splendenti di vita, le vetrine ostentavano le loro coloniali tentazioni.
Questa di adesso era una città semivuota, con le vetrine prive di tutto, con l'immondizia accumulata nelle strade. La lotta dei popoli per l'indipendenza non è una strada facile. Dopo l’esplosione delle anime, delle bandiere della liberazione, bisogna farsi strada fra difficoltà e tormente. Ancora oggi non conosco la storia della Birmania indipendente, così chiusa com'è vicino al poderoso Irrawadhy e ai piedi delle sue pagode d'oro, ma ho potuto indovinare — oltre l'immondizia delle strade e la tristezza ondeggiante — tutti quei drammi che scuotono le nuove repubbliche. È come se il passato continuasse ad opprimerle.
Neanche l'ombra di Josie Bliss, la mia aguzzino, la mia eroina del Tango del viudo. Nessuno seppe darmi un'idea della sua vita o della sua morte. Ormai non esisteva più neppure il quartiere dove siamo vissuti insieme. (8)
Adesso voliamo dalla Birmania superando i contrafforti montagnosi che la separano dalla Cina. Il paesaggio è austero, di idillica serenità. Da Mandalay l'aereo si sollevò sulle risaie, sulle pagode barocche, su milioni di palme, sulla guerra fratricida dei birmani, e entrò
nella calma severa, lineare del paesaggio cinese.
A Kumming, la prima città cinese oltre la frontiera, ci aspettava il mio vecchio amico, il poeta Ai Ching. La sua ampia faccia bruna, i suoi grandi occhi pieni di malizia e di bontà, la sua intelligenza sveglia, erano un'altra volta un anticipo di allegria per un viaggio così lungo.
Ai Ching, come Ho Chi Minh, era un poeta del vecchio ceppo orientale, formato fra la durezza coloniale dell'Oriente e una difficile esistenza a Parigi. Usciti dalle prigioni, questi poeti dalla voce dolce e naturale divennero fuori del loro paese studenti poveri o camerieri
di ristorante. Mantennero salda la loro fiducia nella rivoluzione. Dolcissimi in poesia e ferrei in politica, ritornarono in tempo per compiere il loro destino.
A Kumming gli alberi dei parchi erano stati trattati con chirurgia estetica. Tutti assumevano forma fuori del naturale e a volte si distingueva un'amputazione coperta di fango o un ramo ritorto ancora bendato come un braccio ferito. Ci portarono dal giardiniere, dal genio maligno che regnava su un così strano giardino. Grossi e vecchi abeti non erano cresciuti più di trenta centimetri e vedemmo perfino degli aranci nani coperti di arance minuscole come dorati chicchi di riso.
Visitammo anche un bosco di pietre bizzarre. Ogni roccia si allungava come un monolitico ago o si increspava come onde di un mare immobile. Scoprimmo che questo gusto per le pietre di forma strana era vecchio di secoli. Molte grandi rocce di aspetto enigmatico ornano le piazze delle vecchie città. I governatori di un tempo quando volevano offrire il loro miglior regalo all'imperatore, gli mandavano qualcuna di queste pietre colossali. I regali ci mettevano degli anni per arrivare a Pechino, decine di schiavi spingevano i blocchi per migliala di chilometri.
A me, la Cina non mi sembra enigmatica. Anzi, anche dentro il formidabile impeto rivoluzionario, la vedo come un paese già costruito da millenni e che si ordina sempre, si stratifica. Immensa pagoda, entrano ed escono dalla sua antica struttura gli uomini e i miti, i
guerrieri, i contadini e gli dei. Non c'è niente di spontaneo: neppure il sorriso. Invano uno cerca dappertutto i piccoli e rozzi oggetti dell'arte popolare, quell'arte fatta con errori di prospettiva che tante volte tocca i limiti del prodigio. Le bambole cinesi, le ceramiche, le
pietre e i legni lavorati, riproducono modelli millenari. Tutto reca il segno di una perfezione ripetuta.
La mia sorpresa maggiore l'ebbi quando trovai al mercato di un villaggio delle piccole gabbie per cicale fatte di delicato bambù. Erano meravigliose perché nella loro precisione architettonica sovrapponevano un'abitazione all'altra, ciascuna con la sua cicala prigioniera, fino a formare castelli di quasi un metro di altezza. Mi sembrava, guardando i nodi che legavano i bambù e il colore verde tenero delle stecche, che spuntasse risorta la mano popolare, l'innocenza che può fare miracoli. Accortisi della mia ammirazione, i contadini non vollero vendermi quel castello sonoro. Me lo regalarono. Così il canto rituale delle cicale mi accompagnò per settimane, molto all’interno, per le terre cinesi. Ricordo che solo nella mia infanzia ho ricevuto regali così indimenticabili e silvestri.
Iniziamo il viaggio su una nave che porta mille passeggeri, lungo il fiume Yang Tse. Sono contadini, operai, pescatori, una folla vitale. Per diversi giorni, diretti a Nankino, percorriamo il fiume spazioso, pieno di imbarcazioni e lavori, attraversato e solcato da migliaia di vite, di preoccupazioni e di sogni. Questo fiume è la via principale della Cina. Larghissimo e tranquillo, lo Yang Tse si restringe a volte e a mala pena la nave risce a passare tra le sue titaniche gole. A ciascun lato le altissime pareti di pietra sembra che si tocchino su in alto, dove si vede di tanto in tanto una nuvoletta nel cielo, disegnata con la maestria di un pennello orientale, o spunta una piccola abitazione umana fra le cicatrici della pietra.
Pochi paesaggi ha la terra di così impressionante bellezza. Forse gli si possono paragonare le violente gole del Caucaso o i nostri solitari e solenni canali magellanici.
In cinque anni che sono stato lontano dalla Cina osservo una trasformazione visibile che si va confermando man mano che mi inoltro di nuovo nel paese.
All'inizio me ne rendo conto in modo confuso. Che noto, che è cambiato nelle strade, nella gente? Ah, si vede di meno il colore azzurro. Cinque anni fa ho visitato in questa stessa stagione dell'anno le strade di Cina, sempre piene, sempre palpitanti di vite umane. Però allora tutti andavano vestiti di azzurro proletario, di una specie di saia o di tessuto misto operaio. Uomini, donne e bambini vestivano così. A me piaceva questa semplificazione del vestito, con le sue diverse gradazioni di azzurro. Era bello vedere le innumerevoli macchie di
azzurro attraversare strade, e sentieri.
Ora questo è cambiato, cos'è successo?
Semplicemente che l'industria tessile in questi cinque anni si è sviluppata fino a poter vestire con tutti i colori, con tutti i tessuti a fiori, con tutte le righe e i puntini, con tutte le variazioni della seta, milioni di donne cinesi; e fino a permettere anche a milioni di uomini cinesi di usare altri colori e tele migliori.
Adesso le strade sono l'arcobaleno delicato del radinato gusto della Cina, questa razza che non sa fare niente brutto, questo paese dove il più primitivo sandalo sembra un fiore di paglia.
Navigando lungo lo Yang Tse mi resi conto della fedeltà dei vecchi dipinti cinesi. Lì, in cima alle gole, un pino contorto come una minuscola pagoda mi richiamò alla mente d'un tratto le vecchie stampe fantastiche. Poche località sono più irreali, più fantastiche e sorprendenti di queste gole del grande fiume che si elevano ad altezze incredibili e che non appena c'è una fessura nella roccia mostrano l'antica impronta umana del popolo prodigioso: cinque o sei metri di verdura appena pianta o un tempietto di cinque o sei tegole per contemplare e meditare. Più in là ci sembra di vedere, in vetta ai calvi dirupi, le tuniche o il vapore degli antichi miti; sono soltanto le nubi e magari un volo di passeri che e già stato dipinto tante volte dai più antichi e saggi miniaturisti della terra. Una profonda poesia emana
da questo grandioso spettacolo naturale; una poesia breve e nuda come il volo di un uccello o come il riflesso argenteo dell'acqua che scorre immobile fra i muri di pietra.
Ma la cosa definitivamente straordinaria in questo paesaggio, è la vista dell'uomo che lavora su piccoli rettangoli, su qualche neo verde fra le rocce. Ad immensa altezza, in cima a muri verticali, dove c'è una piega che trattiene un po' di terra vegetale, lì c'è un cinese che la coltiva. La madre terra cinese è ampia e dura. Essa ha disciplinato e dato forma all'uomo, trasformandolo in uno strumento di lavoro, instancabile, sottile e tenace. Quella combinazione di vasta terra, di straordinario lavoro umano, e di eliminazione graduale di tutte le ingiustizie, farà fiorire la bella, estesa e profonda umanità cinese.
Per tutta la traversata dello Yang Tse, Jorge Amado mi sembrò nervoso e malinconico. Innumerevoli aspetti della vita sulla nave gli davano fastidio, a lui e a Zelia, la sua compagna. Ma Zelia ha un umore sereno che le permette di passare attraverso il fuoco senza bruciarsi.
Uno dei motivi era che noi venivamo ad essere involontariamente privilegiati nella navigazione. Con le nore cabine speciali e la nostra sala da pranzo esclusiva ci sentivamo male, in mezzo a centinaia di cinesi stipati dappertutto sull'imbarcazione. Il romanziere bralano mi guardava con occhi sarcastici e lasciava cadequalcuno dei suoi commenti spiritosi e crudeli.
La verità è che le rivelazioni sull'epoca staliniana avevano come spezzato una molla nel fondo di Jorge Amado. Siamo vecchi amici, abbiamo condiviso anni di esilio, ci siamo sempre identificati in una convinzione e in una speranza comuni. Però io credo di essere stato un settario di minore portata; la mia stessa natura e il temperamento del mio paese mi portavano ad intendermi con gli altri. Jorge, invece, era stato sempre rigido. Il suo maestro, Luis Carlos Prestes, (9) passò circa quindici anni in prigione. Son cose che non si possono dimenticare, che induriscono l'animo. Io giustificavo di fronte a me stesso, senza condividerlo, il settarismo di Jorge.
Il rapporto al XX Congresso fu una mareggiata che spinse tutti i rivoluzionari verso situazioni e conclusioni nuove. Alcuni di noi sentirono nascere, dall'angoscia provocata da quelle dure rivelazioni, il sentimento di tornare a nuova vita. Rinascevamo puliti dalle tenebre e dal terrore. Disposti a continuare la strada con la verità in mano.
Jorge, invece, sembra aver cominciato lì, a bordo di quella nave, fra le favolose gole dello Yang Tse, una fase diversa della sua vita. Da allora in poi fu più tranquillo, fu molto più sobrio nei suoi atteggiamenti e nelle sue dichiarazioni. Non credo che abbia perduto la sua fede rivoluzionaria, ma si concentrò di più sulla sua opera e le tolse il carattere politico diretto che l'aveva caratterizzata fino a poco prima. Come se si fosse rivelato l'epicureo che c'è in lui, si è messo a scrivere i suoi libri migliori, a cominciare da Gabriela, clavo y canela, capolavoro traboccante di sensualità e di allegria.
Il poeta Ai Ching era il capo della delegazione che ci accompagnava. Ogni sera mangiavamo Jorge Amado, Zelia, Matilde, Ai Ching e io in una stanza a parte. La tavola si ricopriva di legumi dorati e verdi, di pesci all'agrodolce, di anatre e polli preparati in modo raro, sempre delizioso. Dopo diversi giorni quel cibo esotico ci andava per traverso tanto ci piaceva. Trovammo un'occasione per liberarci per una volta di piatti così saporiti, ma la nostra iniziativa ebbe un percorso difficile. Si contorse sempre di più come un ramo di quegli alberi
torturati.
In quei giorni ricorreva il mio compleanno. Matilde e Zelia progettarono di festeggiarmi con un piatto occidentale che variasse la nostra dieta. Si trattava di un umilissimo ricevimento: preparare un pollo, arrostito alla nostra maniera e accompagnato da un'insalata di pomodori e cipolla alla cilena. Le donne fecero un grande mistero di questa sorpresa. Si rivolsero confidenzialmente al nostro buon fratello Ai Ching. Il poeta rispose, un po' preoccupato, che doveva riunirsi con gli altri della comitiva per rispondere.
La risoluzione fu sorprendente. Tutto il paese attraversava un momento di austerità; Mao Tse Tung aveva rinunciato ai festeggiamenti per il suo compleanno. Come si poteva festeggiare il mio di fronte a tanti severi precedenti? Zelia e Matilde replicarono che si trattava
esattamente dell'opposto: volevamo sostituire quella tavola coperta di manicaretti (sulla quale c'erano polli, anatre, pesci, che rimanevano intatti) con un solo pollo, un modestissimo pollo, ma fatto al forno a modo nostro. Una seconda riunione di Ai Ching con l'invisibile comitato che dirigeva l'austerità rispose il giorno dopo che non c'era forno sull'imbarcazione nella quale viaggiavamo. Zelia e Matilde, che avevano già parlato col cuoco, dissero a Ai Ching che si sbagliavano, che un magnifico forno si stava scaldando in attesa del nostro possibile pollo. Ai Ching socchiuse gli occhi e il suo sguardo si perdette nella corrente dello Yang Tse.
Quel 12 luglio, data del mio compleanno, avemmo sulla tavola il nostro pollo arrosto, premio dorato di quel dibattito. Un paio di pomodori, con la cipolla tritata, splendevano su un piccolo vassoio. Più in là si estendeva la grande tavola, adornata come tutti i giorni di fonti sfolgoranti di ottimo cibo cinese.
Io ero passato nel 1928 da Hong Kong e da Shangai. Quella era una Cina ferreamente colonizzata; un paradiso di biscazzieri, di fumatori d'oppio, di postriboli, di aggressori notturni, di false duchesse russe, di pirati del mare e della terra. Davanti ai grandi istituti di credito di quelle grandi città, la presenza di otto o nove mezzi blindati grigi rivelava l'insicurezza e la paura, l'estorsione coloniale, l'agonia di un mondo che comincia a puzzare di cadavere. Le bandiere di molti paesi, autorizzate da consoli indegni, sventolavano su navi corsare di malfattori cinesi e malesi. I bordelli dipendevano da compagnie internazionali. In altra parte di queste memorie ho raccontato come una volta mi aggredirono e mi lasciarono senza vestiti, senza soldi e senza documenti, abbandonato in una strada cinese.
Tutti questi ricordi ritornarono alla mia mente quando arrivai alla Cina della rivoluzione. Questo era un nuovo paese, impressionante per la sua pulizia etica. I difetti, i piccoli conflitti e le incomprensioni, molto di quanto racconto, sono circostanze minuscole. La mia impressione dominante è stata di contemplare un mutamento vittorioso nella vasta terra della più vecchia
cultura del mondo. Dappertutto si dava inizio a innumerevoli sperimentazioni. L'agricoltura feudale stava per cambiare. L'atmosfera morale era trasparente come dopo il passaggio di un ciclone.
Quello che mi ha allontanato dal processo cinese non è stato Mao Tse Tung, ma il maotsetunghismo. Vale a dire, il maostalinismo, la ripetizione del culto di una deità socialista. Chi potrebbe negare a Mao la personalità politica di grande organizzatore, di grande liberatore di un popolo? Come potrei sfuggire all'influsso della sua aureola epica, della sua semplicità così poetica, così malinconica e così antica?
Ma durante il mio viaggio vidi centinaia di poveri contadini che tornavano dalle loro fatiche, prosternarsi prima di deporre i loro attrezzi, per salutare il ritratto del modesto guerrigliero di Yunan, adesso trasformato in dio. Ho visto centinaia di persone agitare il loro libretto rosso, panacea universale per vincere a ping-pong, curare l'appendicite e risolvere i problemi politici. L'adulazione esce da ogni bocca e da ogni giorno, da ogni giornale e da ogni rivista, da ogni quaderno e da ogni libro, da ogni calendario e da ogni teatro, da ogni scultura e da ogni pittura.
Io avevo dato il mio contributo al culto della personalità, nel caso di Stalin. Ma a quell'epoca Stalin ci sembrava come il vincitore che soggiogava gli eserciti di Hitler, come il salvatore dell'umanesimo mondiale. La degenerazione della sua personalità fu un processo misterioso, fino ad ora enigmatico per molti di noi. (10)
E adesso qui, in piena luce, nell'immenso spazio terrestre e celeste della nuova Cina, si impiantava di nuovo davanti ai miei occhi la sostituzione di un uomo con un mito. Un mito destinato a monopolizzare la coscienza rivoluzionaria, a rinchiudere in un solo pugno la creazione di un mondo che sarà di tutti. Non potevo ingoiare, per la seconda volta, quella pillola amara.
A Chungking i miei amici mi condussero al ponte della città. Io ho amato i ponti per tutta la vita. Mio padre, ferroviere, mi inculcò un grande rispetto per loro. Non li chiamava mai ponte. Sarebbe stata una profanazione. Li chiamava opere d'arte, attributo che non concedeva alle pitture, né alle sculture, né naturalmente alle mie poesie. Soltanto ai ponti. Mio padre mi condusse diverse volte a contemplare il meraviglioso viadotto del Malleco, nel sud del Cile. Fin'ora avevo pensato che il ponte più bello del mondo fosse quello, teso fra il verde australe delle montagne, alto e sottile e puro, come un violino d'acciaio con le sue corde tese, pronte ad essere suonate dal vento di Collipulli. L'immenso ponte che attraversa lo Yang Tse è un'altra cosa. È l'opera d'arte più grandiosa dell'ingegneria cinese, realizzata con la partecipazione degli ingegneri sovietici. Ed è, inoltre, il punto di arrivo di una lotta secolare. La città di Chungking era divisa da secoli dal fiume, una mancanza di
comunicazione che comportava ritardo, lentezza e isolamento.
L'entusiasmo degli amici cinesi che mi mostrano il ponte è eccessivo per la forza delle mie gambe. Mi fanno salire torri e scendere abissi, per ammirare l'acqua che scorre da migliaia di anni, attraversata oggi da questa ferreria di chilometri. Su questi binari passeranno i treni; queste corsie saranno per i ciclisti; questo enorme viale sarà destinato ai pedoni. Mi sento schiacciato da tanta grandezza.
Ai Ching ci porta la sera a mangiare in un vecchio ristorante, riparo della cucina più tradizionale: pioggia di fiori di ciliegio, arcobaleno con insalata di bambù, uova di 100 anni, labbra di giovane pescecane femmina. Questa cucina cinese non si può descrivere nella sua
complessità, nella sua favolosa varietà, nella sua inventiva stravagante, nel suo formalismo incredibile. Ai Ching ci da alcune nozioni. Le tre regole supreme che devono dirigere un buon cibo sono: primo, il sapore; secondo, l'odore; terzo il colore. Questi tre aspetti devono essere attentamente rispettati. Il sapore dev'essere squisito. L'odore dev'essere delizioso. Il colore dev'essere stimolante e armonioso. In questo ristorante in cui mangeremo — disse Ai Ching — si unirà un altro virtuosismo: il suono. Alla grande fontana di porcellana circondata dai piatti si aggiunge all'ultimo momento una piccola cascata di code di gamberi che cadono sulla piastra di metallo riscaldata al rosso per produrre una melodia di flauto, una frase musicale che si ripete sempre uguale.
A Pechino fummo ricevuti da Tien Ling, che presiedeva il comitato di scrittori incaricato di accoglierci Jorge Amado e me. C'era anche il nostro vecchio amico il poeta Emi Siao con la sua moglie tedesca e fotografa. Tutto era gradevole e sorridente. Andavamo a spasso in un'imbarcazione, fra i fiori di loto dell'immenso lago artificiale che era stato costruito per intrattenimento dell'ultima imperatrice. Visitavamo fabbriche, case editrici, musei e pagode. Abbiamo mangiato nel più esclusivo ristorante del mondo (tanto esclusivo che ha un solo tavolo), gestito dai discendenti della casa imperiale. Le due coppie sudamericane da noi composte si ritrovavano nella casa degli scrittori cinesi per bere, fumare e ridere, come avremmo fatto in qualsiasi parte del nostro continente. Io passavo ogni giorno il giornale al mio giovane interprete che si chiamava Li. Gli mostravo col dito le impenetrabili colonne di caratteri cinesi e gli dicevo:
— Mi traduca!
Lui cominciava a farlo nel suo spagnolo appena appreso. Mi leggeva editoriali agricoli, prodezze natatorie di Mao Tse Tung, disquisizioni maomarxiste, notizie militari che mi annoiavano appena cominciava.
— Stop! — gli dicevo. — Mi legga invece quest'altra colonna.
Così rimasi sorpreso un giorno quando trovai una piaga nel posto dove avevo messo il dito. Lì si parlava di un processo politico nel quale apparivano nella veste di accusati gli amici che io vedevo ogni giorno. Essi continuavano a far parte del nostro « comitato per le accoglienze ». Per quanto sembrasse che il processo fosse in corso già da tempo, essi non ci avevano mai detto una parola sul fatto che erano sotto inchiesta, né avevano mai riferito che una minaccia pendeva sul loro futuro.
L'epoca era cambiata. Tutti i fiori si chiudevano. Quando questi fiori si erano aperti per ordine di Mao Tse Tung, comparvero innumerevoli foglietti di carta — nelle fabbriche e nelle officine, nelle università e negli uffici, nelle fattorie e nei casali — che denunciavano
ingiustizie, estorsioni, azioni disoneste di capi e burocrati.
Così come m precedenza era cessata per ordine supremo la guerra alle mosche e ai passeri, quando si apprese che il loro annientamento avrebbe comportato conseguenze inattese, così anche terminò drasticamente il periodo in cui si erano aperte le corolle. Un nuovo ordine venne dall'alto: scoprire quelli di destra. E subito in ogni organizzazione, in ogni luogo di lavoro, in ogni casa, i cinesi cominciarono a confessare il loro prossimo, o ad autoaccusarsi di deviazione di destra.
La mia amica romanziera Tieng Ling fu accusata di aver avuto rapporti amorosi con un soldato di Chiang Kai Shek. Era vero, ma la cosa era accaduta prima del grande movimento rivoluzionario. Per la rivoluzione lei respinse il suo amante, e da Yenan, con un bimbo appena nato in braccio, fece tutta la grande marcia degli anni eroici. Ma questo non le valse nulla. Fu destituita dal suo incarico di presidente dell'Unione degli Scrittori e condannata a servire i pasti come impiegata del ristorante della stessa Unione degli Scrittori che aveva presieduto per tanti anni. Ma faceva il suo lavoro di dipendente con tanto orgoglio o dignità che fu mandata in seguito a lavorare nella cucina di una remota comune contadina. Questa è l'ultima notizia che ho avuto della grande scrittrice comunista, figura di primo piano della letteratura cinese.
Non so cosa sia successo a Emi Siao. Quanto ad Ai Ching, il poeta che ci accompagnava dappertutto, il suo destino fu molto triste. Dapprima fu mandato nel deserto dei Gobi. Poi fu autorizzato a scrivere, sempre che non firmasse mai i suoi scritti col suo vero nome, un nome già famoso dentro e fuori della Cina. Così fu condannato al suicidio letterario.
Jorge Amado era già partito alla volta del Brasile. Io me ne sarei andato di lì a poco con un gusto amaro nella bocca. Lo sento ancora.
LE SCIMMIE DI SUJUMI
Sono ritornato in Unione Sovietica e mi invitano a fare un viaggio nel sud. Quando scendo dall'aereo, dopo aver attraversato un immenso territorio, ho lasciato dietro le grandi steppe, le fabbriche e le strade, le grandi città e i villaggi sovietici. Sono arrivato alle imponenti montagne del Caucaso popolate di abeti e di animali selvatici. Ai miei piedi il Mar Nero si è messo un vestito azzurro per accoglierci. Un violento profumo di aranci in fiore arriva da tutte le parti.
Siamo a Sujumi, capitale dell'Afgasia, piccola repubblica sovietica. Questa è la leggendaria Colchide, la regione del vello d'oro che Giasone venne a rubare sei Secoli prima di Cristo, la patria greca dei dioscuri. Più tardi vedrò nel museo un enorme bassorilievo di marmo ellenico appena estratto dalle acque del Mar Nero. Sulle rive di quel mare gli dei ellenici celebravano i loro misteri. Oggi al posto del mistero c'è la vita semplice e lavoratrice del popolo sovietico. Non è la stessa gente di Leningrado. Questa terra di sole, di grano e di grandi vigne, ha un altro tono, un accento mediterraneo. Questi uomini camminano diversamente, queste donne hanno occhi e mani d'Italia o di Grecia.
Passo qualche giorno in casa del romanziere Simonov, e ci bagnamo nelle tiepide acque del Mar Nero. Simonov mi mostra nel suo orto i suoi begli alberi. Li riconosco e ad ogni nome che mi dice gli replico come un contadino patriottico:
— Questo c'è in Cile. E anche quest'altro. E anche quell'altro.
Simonov mi guarda con un sorriso burlone. Io gli dico:
— È triste per me pensare che forse tu non vedrai mai la pergola della mia casa a Santiago, né i pioppi dorati dell'autunno cileno: non c'è oro pari a quello. Se vedessi i ciliegi in fiore a primavera e conoscessi l'aroma del boldo di Cile. Se vedessi sulla strada di Melipilla come i contadini dispongono le dorate pannocchie di mais sui tetti. Se mettessi i piedi nelle acque pure e fredde di Isla Negra. Però, mio caro Simonov, i paesi innalzano barriere, giocano al nemico, si sparano in guerre fredde e gli uomini rimangono isolati. Ci avviciniamo
al cielo in missili veloci e non avviciniamo le nostre mani nella fraternità umana.
— Forse le cose cambieranno — mi dice Simonov ridendo, e lancia un sasso bianco verso gli dei sommersi del Mar Nero.
L'orgoglio di Sujumi è la sua vasta collezione di scimmie. Approfittando del clima subtropicale, un Istituto di medicina sperimentale ha allevato lì tutte le specie di scimmie del mondo. Entriamo. In ampie gabbie vedremo scimmie elettriche e scimmie statiche, immense e minuscole, pelate e pelose, dalla faccia riflessiva o dagli occhi scintillanti; ce ne sono anche di taciturne e di dispotiche.
Ci sono scimmie grigie, ci sono scimmie bianche, ci sono mandrilli con didietro tricolore; ci sono grandi scimmie austere, altre poligame che non permettono a nessuna delle loro femmine di mangiare senza il loro consenso, permesso che concedono solo dopo che esse hanno divorato con solennità il loro cibo.
In questo istituto si effettuano i più avanzati studi di biologia. Nell'organismo delle scimmie si studia il sistema nervoso, l'ereditarietà, le delicate ricerche sul mistero e sul prolungamento della vita.
Richiama la nostra attenzione una scimmietta con due cuccioli. Uno di essi la segue senza lasciarla un momento e l'altro lo porta in braccio con umana tenerezza. Il direttore ci racconta che il piccolo scimmiotto che tanto accarezza non è suo figlio ma una scimmia adottiva. Lei aveva appena partorito quando morì un'altra scimmia che aveva appena dato alla luce un figlio. Immediatamente questa madre scimmia adottò l'orfanello. Da allora la sua passione materna, la sua dolcezza di ogni minuto, si proiettano sul figlio adottivo, ancor più che sul suo vero figlio. Gli scienziati pensarono che una così intensa vocazione materna l'avrebbe portata ad adottare altri figli altrui, ma lei li ha respinti uno dopo l'altro. Perché il suo comportamento non rispondeva soltanto ad un istinto vitale ma ad una coscienza di solidarietà materna.
ARMENIA
Adesso voliamo verso una terra lavoratrice e leggendaria. Siamo in Armenia. In lontananza, verso il sud testimone della storia dell'Armenia è la cima nevosa del monte Ararat. Qui si fermò l'arca di Noè, secondo la Bibbia, per ripopolare la terra. Compito difficile perché l'Armenia è pietrosa e vulcanica. Gli armeni coltivarono questa terra con indicibile sacrificio e elevarono la loro cultura nazionale ai livelli più elevati del mondo antico. La società socialista ha dato uno sviluppo e una fioritura straordinaria a questa nobile nazione martirizzata. Per secoli gli invasori turchi massacrarono e resero schiavi gli armeni. Ogni pietra dei deserti, ogni mattonella dei monasteri contiene una goccia di sangue armeno. La resurrezione socialista di questo paese è stata un miracolo e la più grande smentita a quanti
in malafede parlano di imperialismo sovietico. Ho visitato in Armenia delle fabbriche tessili che occupano 5000 operai, immense opere di irrigazione e per la produzione di energia, e altre industrie poderose. Ho percorso in lungo e in largo le città e le campagne pastorali, e non ho visto che armeni, uomini e donne armene. Incontrai un solo russo, un solitario ingegnere dagli occhi azzurri, fra le migliala di occhi neri di quella popolazione bruna. Quel russo dirigeva una centrale idro-elettrica sul lago Sevan. La superficie del lago, le cui acque escono da un solo emissario, è troppo grande. La preziosa acqua evapora senza che l'assetata Armenia arrivi a raccogliere e utilizzare i suoi doni. Per prender tempo all'evaporazione è stato allargato il letto dellemissario. Così sarà ridotto il livello del lago e, al tempo stesso, saranno create con le nuove acque del fiume otto centrali idroelettriche, nuove industrie, potenti fabbriche di alluminio, elettricità e irrigazione per tutto il paese. Non potrò mai dimenticare la mia visita a quella centrale idroelettrica affacciata sul lago che nelle sue acque purissime riflette l'indimenticabile azzurro del cielo di Armenia. Quando i giornalisti mi chiesero le mie impressioni sulle antiche chiese e monasteri l'Armenia, risposi con un po' di esagerazione:
— La chiesa che mi è piaciuta di più è stata la centrale idroelettrica, il tempio vicino al lago.
Molte cose vidi in Armenia. Penso che Erevan è una delle città più belle, costruita in tufo vulcanico, armoniosa come una rosa. Indimenticabile la visita al centro astronomico di Binakan, dove per la prima volta ho visto la scrittura delle stelle. Vi si captava la tremula luce
degli astri; delicatissimi meccanismi descrivevano la palpitazione della stella nello spazio, come una specie di elettrocardiogramma del cielo. In quei grafici osservai che ogni stella ha un tipo di calligrafia diversa, affascinante e trepidante, anche se incomprensibile ai miei occhi di poeta terrestre.
Nel giardino zoologico di Erevan, andai direttamente alla gabbia del condor, ma il mio compatriota non mi riconobbe. Se ne stava in un angolo della gabbia, calvo e con i suoi occhi scettici di condor senza illusioni, di grande passero nostalgico delle nostre cordigliere. Lo guardai tristemente, perché mentre io sarei tornato in patria lui sarebbe rimasto prigioniero all'infinito.
La mia avventura col tapiro fu diversa. Il giardino zoologico di Erevan è uno dei pochi che possiede un tapiro delle Amazzoni, quello straordinario animale, dal corpo di bue, dalla faccia nasuta e gli occhi piccini. Devo confessare che i tapiri mi assomigliano. Questo non è
un segreto.
Il tapiro di Erevan sonnecchiava nel suo recinto, vicino alla laguna. Quel verme mi rivolse uno sguardo d'intesa, chissà, magari ci eravamo incontrati in Brasile. Il direttore mi ch'ese se volevo vederlo nuotare e io gli risposi che solo per il piacere di veder nuotare un
tapiro facevo il giro del mondo. Gli aprirono una porticina. Mi lanciò un'occhiata di felicità e si buttò in acqua, sbuffando come un cavallo marino, come un tritone peloso. Si ergeva con tutto il corpo fuori dell'acqua; si, tuffava producendo ondate di tempesta; si sollevava ebbro di allegria, sbuffava e soffiava, e poi riprendeva a grande velocità le sue incredibili acrobazie.
— Non lo abbiamo mai visto così contento — mi disse il direttore dello zoo.
A mezzogiorno, al pranzo offerto dalla Società degli Scrittori, raccontai nel mio discorso di ringraziamento le prodezze del tapiro amazzonico e parlai della mia passione per gli animali. Non mi stanco mai di visitare uno zoo.
Nel discorso di risposta, il presidente degli scrittori armeni disse:
— Che bisogno aveva Neruda di andare a visitar il nostro zoo? Venendo alla Società degli Scrittori avrebbe incontrato tutte le specie di animali. Qui abbiamo leoni e tigri, volpi e foche, aquile e serpenti, cammelli e pappagalli.
IL VINO E LA GUERRA
Sulla via del ritorno mi fermai a Mosca. Per me questa città non solo è la magnifica capitale del socialismo, la sede di tanti sogni realizzati, ma anche la residenza di alcuni dei miei più cari amici. Mosca per me è una festa. Appena arrivo esco da solo per le strade, contento di respirare, fischiettando dei motivi. Guardo la faccia dei russi, gli occhi e le trecce delle russe, i gelati che si vendono agli angoli delle strade, i popolari fiori di carta, le vetrine, in cerca di cose nuove, delle piccole cose che fanno grande la vita.
Andai a trovare ancora una volta Ehrenburg. Il buon amico mi mostrò dapprima una bottiglia di grappa norvegese, di acquavite. L'etichetta era un gran veliero dipinto. In un altro posto c'era la data di partenza e quella di ritorno della nave che portò fino in Australia questa bottiglia e la riportò nella sua Scandinavia originaria.
Ci mettemmo a parlare di vini. Ricordai quell'epoca della mia giovinezza in cui i nostri vini patrimoniali prendevano la via dell'estero, per esigenza e per eccellenza. Furono sempre troppo cari per chi, come noi, usava vestimenta da ferroviere e viveva in torrnentosa bohème.
Dovunque sono andato ho sempre avuto curiosità per gli itinerari del vino, da quando nasce dai « piedi del popolo » a quando si imbottiglia in vetro verde o in cristallo sfaccettato. Mi piacque bere in Galizia il vino di Ribeiro che si beve in tazza e lascia sulla maiolica una spessa traccia di sangue. Ricordo in Ungheria un vino spesso chiamato « sangue di toro », i cui assalti fanno trepidare i violini della gitaneria.
I miei bisavoli avevano delle vigne. Parral, il villaggio in cui sono nato, è culla di aspri mosti. Da mio padre e dai miei zii, don José Angel, don Joel, don Oseas e don Amos, ho imparato a distinguere il vino pipeño da quello filtrato. Ce n'è voluto perché capissi la loro preferenza per il vino non raffinato che gocciola dalla botte, dal cuore originale, e irriducibile. Come in tutte le cose, a fatica sono tornato al primitivo, al vigore, dopo aver praticato il perfezionamento del gusto, assaggiato il bouquet delle forme. Lo stesso accade con l'arte: ci si sveglia con l'Afrodite di Prassitele e poi si passa la vita con le statue selvagge dell'Oceania.
È stato a Parigi che ho assaggiato un vino eccelso in una casa eccelsa. Il vino era un Mouton Rothschild, dal corpo impeccabile, dall'aroma inesprimibile, dal perfetto contatto. La casa era quella di Aragon e di Elsa Triolet.
— Ho appena ricevuto queste bottiglie e le apro per te — mi disse Aragon.
E mi raccontò la storia.
Avanzavano gli eserciti tedeschi dentro la terra francese. Il soldato più intelligente di Francia, poeta e ufficiale, Louis Aragon, giunse fino ad un avamposto. Comandava un distaccamento di infermieri. Gli era stato ordinato di andare oltre quel posto, fino ad un edificio distante trecento metri da lì. Il capitano della posizione francese lo fermò. Era il conte Alfonso de Rothschild, più giovane di Aragon e di sangue impaziente come il suo.
— Non può passare di qui, gli disse. È imminente il fuoco tedesco.
— Le mie istruzioni sono di raggiungere quell'edificio — replicò vivacemente Aragon.
— E i miei ordini sono che non vada oltre e che si fermi qui — rispose il capitano.
Conoscendo Aragon, come lo conosco io, sono sicuro che nella discussione schizzarono scintille come granate, contestazioni come stoccate. Ma essa non durò più di dieci minuti. D'un tratto, davanti agli occhi aperti di Rothschild e di Aragon, una granata di un mortaio tedesco cadde su quell'edificio vicino trasformandolo mediatamente in fumo, macerie e faville.
Così si salvò il primo poeta di Francia grazie all’ostinazione di un Rothschild.
Da allora, ad ogni anniversario di quell'avvenimento Aragon riceve un certo numero di « bonnes bouteilles » di Mouton-Rothschild, dalle vigne del conte che fu suo capitano nell'ultima guerra.
Adesso sono a Mosca, in casa di Ilya Ehrenburg. Questo grande guerrigliero della letteratura, pericoloso nemico del nazismo come una divisione di quarantamila uomini, era anche un raffinato epicureo. Non ho mai capito se sapesse più di Stendhal o di foie gras. Assaporava i versi di Jorge Manrique con tanto piacere come se gustasse un Pommery-Greno. Il suo amore più acceso era la Francia interna, l'anima e il corpo della Francia
saporita e fragrante.
Accadde che, dopo la guerra, corse voce a Mosca che sarebbero state poste in vendita certe misteriose bottiglie di vino francese. L'Esercito Rosso aveva conquistato, nella sua avanzata verso Berlino, una fortezza-cantina, piena dell'insana propaganda di Goebbels e dei vini che questi aveva saccheggiato nelle osterie della dolce Francia. Carte e bottiglie furono spediti ai quartieri generali dell'esercito vincitore, l'Esercito Rosso, che analizzò i documenti e non seppe che farsene delle bottiglie.
Le bottiglie erano gloriosi vetri che ostentavano su etichette speciali la loro data di nascita. Tutti provenivano da origini illustri e da celeberrima vendemmia. I Romané, i Beaune, i Chateaux-neuf du Pape, accanto ai rossi Pouilly, agli ambrati Vouvray, ai vellutati Chambertin. L'intera collezione era accreditata dai dati cronologici dei più supremi raccolti.
La mentalità egualitaria del socialismo distribuì nelle bottiglierie questi sublimi trofei delle cantine francese allo stesso prezzo dei vini russi. Fu imposto però tastivamente che ogni compratore poteva acquistare soltanto un numero ristretto e determinato di bottiglie.
Grandi sono i disegni del socialismo, ma i poeti sono uguali dappertutto. Ognuno dei miei compagni di lettere mandò parenti, vicini, conoscenti, a comperare ad un prezzo così basso bottiglie di così elevato lignaggio. Si esaurirono in un giorno.
Non dirò quante ne arrivarono alla casa Ehrenburg, l’irriducibile nemico del nazismo. E per questo motivo mi trovo in una compagnia, parlando di vini e bevendoci parte della cantina di Goebbeis, in onore della poesia e della vittoria.
I PALAZZI RICONQUISTATI
Mai mi hanno invitato i magnati nelle loro grandi magioni, e la verità è che ho sempre avuto poca curiosità. In Cile lo sport nazionale è l'asta. Si vede molta gente partecipare in modo tumultuoso alle aste settimanali che sono caratteristiche del mio paese. Ogni casona di queste ha il suo destino. Giunto il momento si mettono all'asta al miglior offerente i cancelli che non mi lasciarono passare, né me né il volgo di cui faccio parte, e coi cancelli cambiano di padrone le grosse seggiole, i cristi sanguinolenti, i ritratti d'epoca, i piatti, i cucchiai, e le lenzuola fra le quali sono state procreate tante vite oziose. Ai cileni piace entrare, toccare e vedere. Pochi sono quelli che alla fine comprano. Poi l'edificio viene demolito e si mettono all'asta pezzi di casa. I compratori si portano via gli occhi, vale a dire, le finestre; gli intestini, vale a dire le scale; i pavimenti sono i piedi; e alla fine si dividono anche le palme.
In Europa, invece, le immense case si conservano. A volte possiamo vedere i ritratti dei loro duchi e delle loro duchesse che solo qualche pittore fortunato vide in carne ed ossa e grazie alla loro felicità noi ora possiamo usufruire di quella pittura e di quelle curve. Possiamo sbirciare anche i segreti, i crimini inquisiTori , le parrucche, e quegli archivi sconcertanti che sono Le pareti tappezzate che assorbirono tante conversazioni deinate al palco elettronico dell'avvenire.
Fuisvitato in Romania e ci andai. Gli scrittori mi portarono a riposare nella loro casa di campagna collettiva, in mezzo ai bei boschi transilvani. La residenza degli scrittori rumeni era stata prima il palazzo di Carol, (12) di quel mattacchione i cui amori extrareali divennero la favola del mondo intero. Il palazzo, con i suoi mobili moderni e i suoi bagni di marmo, era adesso al servizio del pensiero e della poesia della Romania. Dormii molto bene nel letto di sua maestà la regina e il giorno dopo, andammo a visitare altri castelli trasformati in musei e in case di riposo o di vacanze. Mi accompagnavano i poeti Jebeleanu, Beniuc e Radu
Bourreanu. (13) Nella mattinata verde, sotto la profondità degli abeti degli antichi parchi reali, cantavamo a squarciagola, ridevamo a crepapelle, gridavamo versi in tutte le lingue. I poeti rumeni, con la loro lunga storia di sofferenze sotto i regimi monarco-fascisti, sono i più coraggiosi e anche i più allegri del mondo. Quel gruppo di giullari, rumeni come i passeri delle loro terre forestali, così decisi nel loro patriottismo, così saldi nella loro rivoluzione, e così ebriamente innamorati della vita, furono una rivelazione per me. In pochi posti ho acquisito con tanta prontezza tanti fratelli.
Raccontai ai poeti rumeni, per loro godimento, una mia visita precedente ad un altro nobile palazzo. Il palazzo di Liria, a Madrid, in piena guerra. Mentre Franco marciava con i suoi italiani, i suoi mori e le sue croci uncinate, impegnato nel sacro compito di uccidere spagnoli, i miliziani occuparono quel palazzo che io avevo visto tante volte passando per la Calle de Argüelles, negli anni 1934 e 1935. Dall'autobus rivolgevo il mio sguardo rispettoso, non per vassallaggio verso i nuovi duchi di Alba che a me ormai non potevano sottomettermi,
irredento americano e poeta semibarbaro, ma affascinato da quella maestosità che hanno i silenziosi e bianchi sarcofaghi. .
Quando scoppiò la guerra, il duca rimase in Inghilterra, perché il suo cognome è in realtà Berwick. Rimase lì con i suoi quadri migliori e con i suoi più ricchi tesori. Ricordando questa ducale fuga dissi ai rumeni che in Cina, dopo la liberazione, l'ultimo discendente di
Confucio, che si era arricchito con un tempio e con le ossa del defunto filosofo, se ne andò a Formosa anche lui provvisto di quadri, di servizi da tavola e di vasellame. Senza trascurare le ossa. Lì dev'essersi sistemato riscuotendo l'ingresso per mostrare le reliquie.
Dalla Spagna, in quei giorni, uscivano verso il resto del mondo tremebonde notizie: «LO STORICO PALAZZO DEL DUCA D’ALBA SACCHEGGIATO DAI ROSSI», «LUBRICHE SCENE DI DISTRUZIONE», «SALVIAMO QUESTO GIOIELLO STORICO».
Andai a vedere il palazzo giacché adesso mi lasciavano entrare. I pretesi saccheggiatori stavano alla porta con pastrano azzurro e fucile in mano. Cadevano le prime bombe su Madrid dagli aerei dell'esercito tedesco. Chiesi ai miliziani che mi lasciassero passare. Esaminarono minuziosamente i miei documenti. Già mi credevo a posto per fare i primi passi negli opulenti saloni quando me lo impedirono inorriditi: non mi ero pulito le scarpe sul grande zerbino dell'ingresso. In effetti i pavimenti risplendevano come specchi. Mi pulii le scarpe e entrai. I rettangoli vuoti ai muri, stavano per quadri assenti. I miliziani ne erano al corrente. Mi raccontarono come il duca teneva quei quadri da anni nella sua banca di Londra, depositati in una buona cassetta di sicurezza. Nella grande hall l'unica cosa importante erano i trofei di caccia, innumerevoli teste cornute e musi di diverse bestiole. La cosa più evidente era un immenso orso bianco piantato su due zampe in mezzo alla stanza, con le sue due braccia polari aperte e una faccia disseccata che rideva con tutti i denti. Era il favorito dei miliziani che lo spazzolavano ogni mattina.
Naturalmente mi interessavano le stanze da letto in cui tanti Alba avevano dormito con incubi provocati da spettri fiamminghi che di notte venivano a far loro solletico ai piedi. I piedi non c'erano più, ma c'era la più grande collezione di scarpe che io abbia mai visto. Quest'ultimo duca non accrebbe mai la sua pinacoteca, peró la sua scarperia era sorprendente e incalcolabile. Lunghi scaffali chiusi da cristalli che arrivavano fino al soffitto conservavano migliala di scarpe. Come nelle Biblioteche, c'erano delle scalette speciali, forse per afferrarle delicatamente per i tacchi. Guardai attentamente. C’erano centinaia di paia di magnifici stivali da equitazione, gialli e neri. C'erano anche di quegli stivaletti con un giubbettino felpato e i bottoni di madreperla. E una massa di scarponi, di scarpine e di gambali, tutti con le loro forme dentro, il che le faceva sembrare come se avessero gambe e piedi solidi a loro disposizione. Se qualcuno avesse aperte le vetrine sarebbero corse tutte a Londra dietro al duca! Si poteva fare una festa di stivaletti, allineati lungo tre o quattro stanze. Una festa con lo sguardo e solo con lo sguardo, perché i miliziani, fucile in spalla, non permettevano neanche ad una mosca di toccare quelle scarpe. « La cultura » dicevano. « La storia », dicevano. Io pensavo ai poveri ragazzi con sandali di paglia che affrontavano il fascismo sulle vette terribili di Somosierra, sepolti dalla neve e dal fango.
Vicino al letto del duca c'era un quadretto con una cornice dorata le cui maiuscole gotiche mi attirarono. Caramba, pensai, qui ci dev'essere stampato l'albero genealogico degli Alba. Mi sbagliavo. Era « If » di Rudyard Kipling, (14) quella poesia pedestre e bacchettona,
precursora del « Reader's Digest », la cui altezza intellettuale non superava a mio avviso quella delle scarpe del duca d'Alba. Con buona pace dell'impero britannico!
Il bagno della duchessa sarà eccitante, pensavo. Evocava tante cose. Soprattutto quella madonna distesa del museo del Prado, alla quale Goya mise i capezzoli così distanti uno dall'altro, che uno pensa come il pittore rivoluzionario misurò la distanza aggiungendo un
bacio dietro l'altro fino a lasciare una collana invisibile da seno a seno. Ma l'errore continuava. L'orso, la raccolta di scarpe da operetta, « If », e, infine, invece di un bagno da dea trovai un recinto rotondo, falsamente pompeiano, con una vasca sotto il livello del suolo, piccoli cigni goffi di alabastro, grotteschi lampadari, insomma, una stanza da bagno da odalisca da film nord-americano.
Me ne stavo andando triste e deluso quando ebbi la mia ricompensa. I miliziani mi invitarono a pranzo. Scesi con loro in cucina. Quaranta o cinquanta camerieri e servitori, cucinieri e giardinieri del duca, continuavano a cucinare per se stessi e per i miliziani che
custodivano il palazzo. Mi consideravano un ospite d onore. Dopo alquanti bisbigli, gira e rigira, ricevute firmate, tirarono fuori una polverosa bottiglia. Era una « lacrima christi » di cent'anni, di cui mi lasciarono bere solo alcuni sorsi. Era un vino ardente, con una contestura di miele e fuoco severo e impalpabile ad un tempo. Non dimenticherò tanto facilmente quelle
crime del duca d'Alba.
Una settimana dopo i bombardieri tedeschi sgancia quattro bombe incendiarie sul palazzo di Liria. Dalla terrazza della mia casa vidi volare i due passeri del malaugurio. Un bagliore colorato mi fece capire poi che stavo assistendo agli ultimi minuti del palazzo.
— Quello stesso pomeriggio passai sulle rovine fumanti — dico agli scrittori, rumeni per concludere il mio racconto. — Lì appresi un particolare commovente. I nobili miliziani, sotto il fuoco che cadeva dal cielo le esplosioni che scuotevano la terra e il fuoco che aumentava, si preoccupavano soltanto di salvare l'orso bianco. Quasi lasciavano la pelle nel tentativo. Si sfasciavano le travi, tutto bruciava, e l'immenso animale imbalsamato si ostinava a non voler passare attraverso le finestre e le porte. Lo vidi di nuovo e per l'ultima volta, con le braccia bianche aperte, morto dalle risa, sul prato del giardino del palazzo.
TEMPO DI COSMONAUTI
Mosca di nuovo. Il 7 novembre di mattino assistetti alla sfilata del popolo, dei suoi atleti, della luminosa gioventù sovietica. Marciavano decisi e sicuri sulla Piazza Rossa. Li contemplavano gli acuti occhi di un uomo morto molti anni fa, fondatore di questa sicurezza, di questa allegria e di questa forza: Vladimir Ilich Ulianov, immortalmente conosciuto come Lenin.
Questa volta hanno sfilato poche armi. Ma, per la prima volta, si sono visti gli enormi proiettili intercontinentali. Avrei potuto quasi toccare con la mano quegli immensi sigari, dall'apparenza bonacciona, capaci di Portare la distruzione atomica in qualsiasi punto del
pianeta.
Quel giorno premiavano i due russi che tornavano dal cielo. Io mi sentivo molto vicino alle loro ali. Il mestiere di poeta è, in gran parte, svolazzare come un passero. Proprio per le strade di Mosca, lungo le coste del Mar Nero, fra le montagnose gole del Caucaso sovietico,
mi vnne la tentazione di scrivere un libro sugli uccelli del Cile. (15) Il poeta di Temuco era coscientemente dedicato a svolazzare, a scrivere sugli uccelli della sua terra tanto lontana, su fringuelli e usignoli, su calandre e cardellini, su condor e queltehues, intanto due uccelli umani, due cosmonauti sovietici, si alzavano nello spazio e sbigottivano di ammirazione il mondo intero. Tutti trattenemmo il respiro sentendo sulle nostre teste, guardando con i nostri occhi il doppio volo cosmico.
Quel giorno li premiavano. Accanto ad essi, completamente terrestri, stavano i loro familiari, la loro origine, la loro radice di popolo. I vecchi avevano immensi baffi contadini; le vecchie col capo coperto col tipico fazzolettone dei villaggi, e delle campagne. I cosmonauti erano come noi, anime del campo, del villaggio, della fabbrica, dell'ufficio. Sulla Piazza Rossa li ricevette Nikita Kruscev, in nome della nazione sovietica. Poi li vedemmo nella sala San Giorgio. Mi presentarono German Titov, l'astronauta numero due, un ragazzo simpatico, dai grandi occhi luminosi. Gli chiesi a bruciapelo:
— Mi dica, comandante, quando navigava per il cosmo e guardava verso il nostro pianeta, si vedeva chiaramente il Cile?
Era come dirgli: « Lei capisce che la cosa importante del suo viaggio era di vedere il piccolo Cile dall'alto ».
Non sorrise come mi aspettavo, ma dopo aver riflettuto alcuni istanti mi disse:
— Ricordo alcune cordigliere gialle per il Sud America. Si vedeva che erano molto alte. Forse era il Cile. Certo che era il Cile, compagno.
Proprio quando la rivoluzione socialista compiva quarant'anni, lasciai Mosca, in treno, diretto in Finlandia. Mentre attraversavo la città, diretto alla stazione, grandi fasci di razzi luminosi, fosforici, azzurri, rossi, violetti, verdi, gialli, arancio, salivano molto in alto come
scariche di allegria, come segnali di comunicazione e di amicizia che partivano verso tutti i popoli dalla notte vittoriosa.
In Finlandia comperai un dente di narval e continuammo il viaggio. A Goteborg prendemmo la nave che ci avrebbe riportati in America. Anche l'America e la mia patria avanzano con la vita e col tempo. Infatti quando passammo per il Venezuela, in rotta per Valparaíso, il tiranno Pérez Jiménez, (16) figlio prediletto del Dipartimento di Stato, bastardo di Trujillo e di Somoza, mandò tanti soldati come per una guerra allo scopo di impedirci di scendere dalla nave a me e alla mia compagna. Ma quando giunsi a Valparaíso, la libertà aveva già cacciato il despota venezuelano, ormai il maestoso satrapo era corso a Miami come un coniglio sonnambulo. Veloce corre il mondo dal volo dello sputnik. Chi mi avrebbe detto che la prima persona che avrebbe bussato alla porta della mia cabina a Valparaíso, per darci il benvenuto, sarebbe stato il romanziere Simonov, che avevo lasciato a fare i bagni in riva al Mar Nero?
Quaderno 11
LA POESIA È UN MESTIERE
IL POTERE DELLA POESIA
È stato privilegio della nostra epoca — fra guerre, rivoluzioni e grandi movimenti sociali — sviluppare la fecondità della poesia fino a limiti insospettati. L'uomo della strada ha dovuto affrontarla in modo che ferisce o è ferita, sia nella solitudine, sia nella massa montagnosa delle riunioni pubbliche.
Non ho mai pensato quando ho scritto i miei primi solitari libri, che col passar degli anni mi sarei trovato in piazze, strade, fabbriche, aule, teatri e giardini, a recitare i miei versi. Ho percorso praticamente tutti gli angoli del Cile, disseminando la mia poesia fra la gente del mio popolo.
Racconterò quanto mi accadde alla Vega Centrale, il mercato più grande e più popolare di Santiago del Cile. Lì arrivano la mattina gli infiniti carri, carrettoni, carrette e camion che portano i legumi, la frutta, i commestibili, da tutte le fattorie che circondano la capitale divoratrice. I caricatori — una categoria numerosa, mal pagata e spesso scalza —, pullulano per i caffè, per gli asili notturni e le osterie dei quartieri vicini alla Vega.
Qualcuno venne a cercarmi un giorno in automobile e io ci salii senza sapere esattamente dove andavo e a che fare. Portavo in tasca una copia del mio libro España en et corazón. (1) In macchina mi spiegarono che ero invitato a fare una conferenza nel sindacato dei caricatori della Vega.
Quando entrai in quella sala sconquassata sentii il freddo del Notturno di José Asuncion Silva, non solo perché era inverno avanzato, ma anche per l'ambiente che mi lasciava attonito. Seduti su alcuni cassoni o su improvvisate panche di legno, una cinquantina di uomini mi aspettavano. Alcuni portavano alla cinta un sacco legato a mò di grembiule, altri si coprivano con vecchie camiciole rattoppate, e altri sfidavano il freddo mese di luglio cileno col torso nudo. Io mi sedetti dietro un tavolino che mi separava da quello strano pubblico. Tutti mi guardavano con gli occhi di carbone statici del popolo del mio paese.
Mi venne in mente il vecchio Lafferte. (2) Questi spettatori imperturbabili, che non muovono un muscolo della faccia e guardano in modo sostenuto, Lafferte li indicava con un nome che mi faceva ridere. Una volta nella pampa del salnitro mi diceva: « Guarda, laggiù,
in fondo alla sala, appoggiati alla colonna, ci stanno guardando due musulmani. Gli manca soltanto il caffettano per assomigliare agli impavidi credenti del deserto ».
Che fare con questo pubblico? Di cosa potevo parlargli? Che cosa della mia vita avrebbe potuto interessarli? Senza arrivare a decidere niente e nascondendo la voglia di scappare di corsa, presi il libro che avevo con me e dissi loro:
— Poco tempo fa sono stato in Spagna. Lì c'era molta lotta e molti spari. Ascoltate quello che ho scritto in proposito.
Devo spiegare che il mio libro España en el corazón non mi è mai sembrato un libro di facile comprensione. Ha un'aspirazione alla chiarezza che però è intrisa nel turbine di quei grandi, molteplici dolori.
In realtà pensai di leggere poche strofe, aggiungere qualche parola, e salutare tutti. Ma le cose non andarono così. A leggere una poesia dopo l'altra, a sentire il silenzio come di acqua profonda in cui cadevano le mie parole, a vedere come quegli occhi e quelle ciglia oscure seguivano intensamente la mia poesia, capii che il mio libro stava arrivando al suo destino. Continuai a leggere e a leggere, commosso anch'io dal suono della mia poesia, scosso dalla magnetica relazione fra i miei versi e quelle anime abbandonate.
La lettura durò più di un'ora. Quando stavo per andarmene, uno di quegli uomini si alzò. Era di quelli che avevano il sacco annodato alla cintola.
— Voglio ringraziarla a nome di tutti — disse ad alta voce. — Voglio dirle, inoltre, che mai nulla ci ha impressionato tanto.
Dette queste parole scoppiò in singhiozzi. Anche molti altri piangevano. Uscii in strada fra sguardi umidi e rudi strette di mano.
Può un poeta essere lo stesso dopo essere passato per queste prove di freddo e fuoco?
Quando voglio ricordare Tina Modotti devo fare uno sforzo, come se si trattasse di afferrare un pugno di nebbia. Fragile, quasi invisibile. L'ho conosciuta o non l'ho conosciuta?
Era ancora molto bella: un ovale pallido circondato da due ali nere di capelli raccolti, grandi occhi di velluto che continuano a guardare attraverso gli anni. Diego Rivera ci ha lasciato la sua figura in uno dei suoi murales, aureolata da coronazioni vegetali e da lance
di mais.
Questa rivoluzionaria italiana, grande artista della fotografia, arrivò in Unione Sovietica tempo fa col proposito di ritrarre folle e monumenti. Ma lì, attratta dal prorompente ritmo della creazione socialista, gettò la sua macchina fotografica nella Moscova e giurò a se stessa di consacrare la sua vita ai più umili compiti del partito comunista. Mentre adempiva a questo giuramento la conobbi in Messico e la sentii morire quella notte.
Accadde nel 1941. Suo marito era Vittorio Vidali, il celebre Comandante Carlos del 5° Reggimento. Tina Modotti è morta di un attacco cardiaco nel taxi che la riportava a casa. Lei sapeva che il suo cuore non stava bene, ma non lo diceva affinchè non le riducessero il lavoro rivoluzionario. Era sempre disposta a fare quello che nessuno vuoi fare: scopare gli uffici, andare a piedi nei posti più lontani, passare le notti in bianco scrivendo lettere o traducendo articoli. Nella guerra spagnola fece l'infermiera per i feriti della Repubblica.
Aveva avuto un episodio tragico nella sua vita, quando era la compagna del grande dirigente della gioventù cubana Julio Antonio Mella, allora in esilio in Messico. Il tiranno Gerardo Machado mandò dall'Avana alcuni sicari per uccidere il dirigente rivoluzionario. Stavano uscendo dal cinema un pomeriggio, Tina al braccio di Mella, quando questi cadde sotto una raffica di mitra. (3) Caddero insieme a terra, lei spruzzata dal sangue del suo
compagno morto, mentre gli assassini fuggivano ben protetti. E il colmo fu che gli stessi funzionari di polizia che avevano protetto i criminali volevano accusare Tina Modotti dell'assassinio.
Dodici anni dopo si esaurirono silenziosamente le forze di Tina Modotti. La reazione messicana cercò di far rivivere l'infamia coprendo di scandalo la sua morte, come prima aveva voluto coinvolgerla nella morte di Mella. Intanto, Carlos ed io vegliavamo il piccolo cadavere. Vedere soffrire un uomo così robusto e coraggioso non è uno spettacolo gradevole. Quel leone sanguinava nel ricevere sulla ferita il veleno corrosivo dell'infamia
che voleva macchiare Tina Modotti ancora una volta, dopo morta. Il Comandante Carlos ruggiva con gli occhi arrossati; Tina era di cera nella sua piccola bara di esiliata; io tacevo impotente di fronte a tutta l'angoscia umana riunita in quella stanza.
I giornali riempivano intere pagine di immondizia da romanzo d'appendice. La chiamavano « la donna misteriosa di Mosca ». Alcuni aggiungevano: « È morta perché sapeva troppo ». Impressionato dal furioso dolore di Carlos presi una decisione. Scrissi una poesia minacciosa contro quanti offendevano la nostra morta. La mandai a tutti i giornali senza alcuna speranza di vederla pubblicata. Oh, miracolo! Il giorno dopo, invece delle nuove e favolose rivelazioni che avevano promesso il giorno prima, comparve su tutte le prime pagine la mia indignata e straziata poesia.
La poesia s'intitolava « Tina Modotti ha muerto ». (4)
La lessi quella mattina al cimitero di Città del Messico, dove lasciammo il suo corpo e dove giace per sempre sotto una pietra di granito messicano. Su quella pietra sono incise le mie strofe.
Quella stampa non scrisse mai più una riga contro di lei.
Accadde a Lota, molti anni fa. Diecimila minatori erano venuti alla manifestazione. La zona del carbone, sempre agitata nella sua secolare povertà, aveva riempito di minatori la piazza di Lota. Gli oratori politici parlarono a lungo. Aleggiava nell'aria calda del mezzogiorno un odore di carbone e di salmarino. Vicinissimo stava l'oceano, sotto le cui acque si e estendono per dieci chilometri le buie gallerie in cui quegli uomini cavavano il carbone.
Adesso ascoltavano in pieno sole. La tribuna era molto alta e da lì io vedevo quel mare di capelli neri e di caschi da minatore. Mi toccò parlare per ultimo. Quando fu annunciato il mio nome, e la mia poesia « Nuevo canto de amor a Stalingrado », (5) accadde qualcosa di insolito, una cerimonia che non potrò mai dimenticare.
L'immensa folla, non appena sentito il mio nome e il titolo della mia poesia, si scoprì silenziosamente. Si scoprì perché dopo quel linguaggio categorico e politico, stava per parlare la mia poesia, la poesia. Io vidi, dall'alto della tribuna, quell'immenso movimento di
cappelli: diecimila mani che si abbassavano all'unisono, in una mareggiata indescrivibile, in un colpo di mare silenzioso, in una nera spuma di silenziosa riverenza.
Allora la mia poesia crebbe e raggiunse come mai il suo accento di guerra e di liberazione. (6)
Quest'altro mi accadde nei miei verdi anni. Io ero quel poeta studentesco dalla cappa scura, magro e denutrito come un poeta di quel tempo. Avevo appena pubblicato Crepusculario e pesavo meno di una piuma nera.
Entrai coi miei amici in un cabaret malfamato. Era l'epoca dei tanghi e della camorra ruffianesca. D'un tratto il ballo si fermò e il tango s'infranse come una coppa in frantumi contro il muro.
Nel centro della pista gesticolavano e si insultavano due famosi furfanti. Quando uno avanzava per aggredire l'altro, questi retrocedeva, e con lui rinculava la moltitudine filarmonica che si parapettava dietro i tavoli. Sembrava una danza di due bestie primitive
in una radura della selva primordiale.
Senza pensarci molto mi feci avanti e li rimproverai dall'alto della mia magrolina debolezza:
— Miserabili briganti, avanzi di galera, spregevole gentaglia, lasciate in pace la gente che è venuta per ballare e non per assistere a questa commedia!
Si guardarono sorpresi, come se non fosse chiaro quello che avevano udito. Il più basso, che aveva fatto il pugile prima di diventare un furfante, si diresse verso di me per farmi fuori. E ci sarebbe riuscito, se non fosse stato per l'apparizione repentina di un cazzotto ben assestato che mise a terra il gorilla. Era il suo contendente che, finalmente, si era deciso a dargliele.
Mentre il campione sconfitto veniva portato via come un sacco e dai tavoli ci tendevano le bottiglie, e le ballerine ci sorridevano entusiaste, il gigantone che aveva dato il colpo di grazia volle dividere giustamente la gioia della vittoria. Ma io lo apostrofai catoniano:
— Ma va via da qui! Tu sei della stessa risma!
I miei minuti di gloria finirono poco dopo. Dopo aver attraversato uno stretto corridoio vedemmo una specie di montagna con la cintura di pantera che bloccava l'uscita. Era l'altro pugile della malavita, il vincitore colpito dalle mie parole, che ci impediva il passaggio a custodia della sua vendetta.
— La stavo aspettando — mi disse.
Con una lieve spinta mi deviò verso una porta, mentre i miei amici se la davano a gambe sconcertati. Rimasi interdetto di fronte al mio carnefice. Gettai una rapida occhiata per vedere se c'era qualcosa che potevo afferrare per difendermi. Niente, Non c'era niente. Le pesanti superfici di marmo dei tavoli, le sedie di ferro, impossibile sollevarli. Né un vaso da fiori, né una bottiglia, né un misero bastone dimenticato.
— Parliamo — disse l'uomo.
Compresi l'inutilità di qualsiasi sforzo e pensai che voleva esaminarmi prima di divorarmi, come la tigre davanti ad un cerbiatto. Mi resi conto che tutta la mia difesa stava nel non dare ad intendere la paura che provavo. Gli restituii la spinta che mi aveva dato, ma non riuscii a spostarlo di un millimetro. Era un muro di pietra.
D'un tratto buttò la testa all'indietro e i suoi occhi di belva cambiarono espressione.
— Lei è il poeta Pablo Neruda? — disse.
— Sì sono io.
Abbassò la testa e continuò:
— Che disgraziato che sono! Sto di fronte al poeta che tanto ammiro ed è proprio lui che mi getta in faccia quanto sono miserabile!
E continuò a lamentarsi con la testa presa fra le due mani:
— Sono un ruffiano e quell'altro che si è battuto con me è un trafficante di cocaina. Siamo la feccia della feccia. Però nella mia vita c'è una cosa pulita. È la mia fidanzata, l'amore della mia fidanzata. La guardi, don Pablito. Guardi la sua fotografia. Un giorno le dirò che lei l'ebbe fra le sue mani. Questo la farà felice.
Mi tese la fotografia di una ragazza sorridente.
— Mi ama per lei, don Pablito, per i suoi versi che abbiamo imparato a memoria.
E senza aggiunger motto cominciò a recitare:
— Dal fondo di te e inginocchiato, un bambino triste come me ci guarda...
In quel momento si aprì la porta con uno spintone. Erano i miei amici che tornavano con rinforzi armati. Vidi le teste che si affollavano attonite sulla porta.
Uscii lentamente. L'uomo rimase solo, senza cambiare atteggiamento, dicendo « per quella vita che arderà nelle sue vene dovranno uccidere le mani mie », sconfitto dalla poesia. (7)
L'aereo del pilota Powers, inviato in missione di spionaggio sul territorio sovietico, cadde da incredibile altezza. Due fantastici proiettili lo avevano raggiunto, lo avevano buttato giù dalle nuvole. I giornalisti corsero in quella sperduta località di montagna da dove erano partiti gli spari.
Gli artiglieri erano due ragazzi solitari. In quel mondo immenso di abeti, di neve e di fiumi, mangiavano mele, giocavano a scacchi, suonavano la fisarmonica, leggevano libri e facevano la guardia. Avevano puntato verso l'alto a difesa del vasto cielo della patria russa.
Li subissarono di domande:
— Cosa mangiate? Chi sono i vostri genitori? Vi piace il ballo? Che libri leggete?
Rispondendo a quest'ultima domanda, uno dei giovani artiglieri rispose che leggevano versi e che fra i loro poeti preferiti c'erano il classico russo Puskin e il cileno Neruda.
Mi sentii infinitamente contento quando lo seppi. Quel proiettile che salì tanto in alto, e fece cadere l'orgoglio tanto in basso, portava in qualche modo un atomo della mia ardente poesia.
LA POESIA
...Quante opere d'arte... Non c'entrano più nel mondo... Bisogna metterle fuori dalle stanze... Quanti libri... Quanti libretti... Chi è capace di leggerli?... Se fossero commestibili... Se in un'ondata di grande appetito ne facessimo insalata, li tritassimo, li condissimo... Non se ne può più... Ne abbiamo fin sopra i capelli... Il mondo affoga nella marea... Reverdy (4) mi
diceva: « Ho avvertito la posta di non mandarmeli. Non potevo aprirli. Non avevo posto. Si arrampicavano su per i muri, temetti una catastrofe, mi sarebbero crollati in testa ».... Tutti conoscono Eliot... Prima di fare il pittore, di dirigere teatri, di scrivere luminose critiche leggeva i miei versi... Io mi sentivo lusingato... Nessuno li capiva meglio di lui... Finché un giorno cominciò a leggermi i suoi e io, egoisticamente, corsi via protestando: « Non me li leggere, non me li leggere »... Mi chiusi nel bagno, ma Eliot, attraverso la porta, me li leggeva... Mi sentii molto triste... Il poeta Frazer, scozzese, era presente... Mi rimproverò: «Perché tratti così Eliot?»... Gli risposi: « Non voglio perdere il mio lettore. L'ho coltivato. Ha conosciuto perfino le rughe della mia poesia... Ha tanto talento... Può dipingere dei quadri... Può scrivere dei saggi... Ma voflio conservare questo lettore, conservarlo, innaffiarlo come una pianta esotica... Mi capisci, Frazer »... Perché in realtà, se va avanti così, i poeti pubblicheranno soltanto per altri poeti... Ciascuno tirerà il suo libretto e lo metterà nella tasca dell'altro... la tua poesia... e la lascerà nel piatto dell'altro... Quevedo la lasciò un giorno sotto il tovagliolo di un re... quello valeva la pena... O in pieno sole, la poesia in una piazza... O che i libri si sfascino, si spezzettino fra le dita della folla umana... Ma questa pubblicazione da poeta a poeta non mi tenta, non mi provoca, non mi incita se non ad imboscarmi nella natura, davanti ad una roccia e ad un'onda, lontano dalle case editrici, dalla carta stampata... La poesia ha perso il suo legame col lontano lettore... Deve recuperarlo... Deve camminare nell'oscurità e incontrarsi col cuore dell'uomo, con gli occhi della donna, con gli sconosciuti della strada, di quelli che ad una certa ora del crepuscolo, o in piena notte stellata, hanno bisogno magari di un solo verso... Questa visita all'improvviso vale tutto quanto si è visto in giro, tutto quanto si è letto, tutto quanto si è appreso... Bisogna perdersi fra quelli che non conosciamo affinchè d'un tratto raccolgano il nostro dalla strada, dalla sabbia, dalle foglie cadute mille anni nello stesso bosco... e prendano teneramente quest'oggetto che abbiamo fatto noi... Solo allora saremo veramente poetiIn quest'oggetto vivrà la poesia...
VIVENDO CON IL LINGUAGGIO
Sono nato nel 1904. Nel 1921 uscì un opuscolo con delle mie poesie. Nel 1923 fu pubblicato il mio primo libro Crepusculario. Sto scrivendo questi ricordi nel 1973. Sono ormai passati 50 anni da quel momento emozionante in cui un poeta sente i primi vagiti della creatura stampata, viva, agitata e desiderosa di richiamare l'attenzione come qualsiasi altro neonato.
Non si può vivere tutta una vita con un linguaggio, muovendolo longitudinalmente, esplorandolo, frugandogli i capelli e il ventre, senza che questa intimità arrivi a far parte dell'organismo. Così mi è accaduto con la lingua spagnola. La lingua parlata ha altre dimensioni: la lingua scritta acquista una longitudine imprevista. L'uso della lingua come vestito o come pelle del corpo; con le sue maniche, le sue toppe, la sua traspirazione e le sue macchie di sangue o di sudore, rivelano lo scrittore. Questo è lo stile. Io ho trovato la mia epoca frastornata dalle rivoluzioni della cultura francese. Mi hanno sempre attratto, però non riuscivo in nessun modo a metterle come un vestito al mio corpo. Huidobro, poeta cileno, si fece carico delle mode francesi che lui adottò al modo suo di esistere e di esprimersi, in modo ammirevole. A volte mi sembrava che superasse i suoi modelli. Qualcosa del genere è accaduto, su scala più grande, con l'irruzione di Ruben Darío nella poesia ispanica. Ma Ruben Darío è stato un grosso elefante sonoro che ha mandato in frantumi tutti i cristalli di un'epoca della lingua spagnola affinchè entrasse nel suo ambito l'aria del mondo. Ed è entrata.
Fra americani e spagnoli la lingua ci separa qualche volta. Ma soprattutto è l'ideologia della lingua che si divide in due. La bellezza congelata di Gongora (9) non conviene alle nostre latitudini, e non c'è poesia spagnola, neanche la più recente, senza il sapore, senza
l'opulenza gongorina. La nostra cappa americana è di pietra polverosa, di lava triturata, di argilla con sangue. Non sappiamo tagliare il cristallo. I nostri preziosisti suonano a vuoto. Una sola goccia di Martin Fierro o del miele torbido di Gabriela Mistral li mette al loro posto: molto impacciati nel salotto come vasi con fiori di un'altra parte. (10)
La lingua spagnola si è fatta dorata dopo Cervantes, ha acquisito un'eleganza cortigiana, ha perso la forza selvaggia che le veniva da Gonzalo de Berceo, dall'Arciprete, ha perso la passione zenitale che ancora ardeva in Quevedo. La stessa cosa accadde in Inghilterra, in Francia, in Italia. Le smisuratezze di Chaucer, di Rabelais, furono castrate: la petrarchizzazione preziosista fece brillare gli smeraldi, i diamanti, ma la fonte della grandezza cominciò ad estinguersi. (11)
Questa sorgente precedente aveva a che vedere con l'uomo intero, con la sua apertura, la sua abbondanza strabocchevole.
Almeno questo era il mio problema anche se io non me lo ponevo in questi termini. Se la mia poesia ha qualche significato, è questa tendenza spaziale, illimitata, che non può essere soddisfatta in una stanza. La mia frontiera dovevo superarla io stesso, non me l'ero tracciata sul telaio di una cultura distante. Io dovevo essere me stesso, sforzandomi di estendermi come le stesse terre dove mi è toccato nascere. Un altro poeta di questo continente mi ha aiutato su questa strada. Mi riferisco a Walt Whitman, (12) il mio compagno di Manhattan.
I CRITICI DEVONO SOFFRIRE
Los cantos de Maldoror formano in fondo un grande romanzo d'appendice. Non si dimentichi che Isidoro Ducasse prese il suo pseudonimo da un romanzo di Eugène Sue: Lautréamont, scritto a Chatenay nel 1837. (13) Ma Lautréamont, lo sappiamo, è andato molto più in là di Lautréamont. È andato molto più in basso, ha voluto essere infernale. E molto più in alto, un arcangelo maledetto. Maldoror, nella grandezza della disdetta, celebra il « Matrimonio del Cielo y el Infierno ». La furia, i ditirambi e l'agonia formano le onde travolgenti della retorica ducassiana: Maldoror: Maldolor.
Lautréamont progettò una nuova fase, rinnegò la sua faccia scura e scrisse il prologo di una nuova poesia ottimista che non arrivò a creare. Il giovane uruguayano se lo portò via la morte di Parigi. Ma questo promesso cambiamento della sua poesia, questo movimento verso la bontà e la salute, che non riuscì a compiere, ha suscitato molte critiche. Viene celebrato nei suoi dolori e viene condannato nel suo passaggio all'allegria. Il poeta deve torturarsi e soffrire, deve vivere disperato, deve continuare a scrivere la canzone disperata. Questa è stata l'opinione di uno strato sociale, di una classe. Questa formula lapidaria fu rispettata da molti che si piegarono alla sofferenza imposta da leggi non scritte, ma non meno lapidarie. Questi decreti invisibili condannavano il poeta al tugurio, alle scarpe sfondate, all'ospedale e alla camera mortuaria. Tutti così erano contenti: la festa continuava con pochissime lacrime. (14)
Le cose cambiarono perché il mondo cambiò. E noi poeti, d'un tratto, siamo stati alla testa della ribellione dell'allegria. Lo scrittore sventurato, lo scrittore crocifisso, fanno parte del rituale della felicità nel crepuscolo del capitalismo. La direzione del gusto venne abilmente avviata a magnificare la disgrazia come fermento della grande creazione. La cattiva condotta e la sofferenza vennero considerate ricette nell'elaborazione poetica. Holderlin, lunatico e disgraziato: Rimbaud, errante e amaro; Gerard de Neyval, che s'impicca ad un lampione di una miserabile viuzza; (15) hanno dato alla fine del secolo non solo il parossismo della bellezza, ma anche il cammino dei tormenti. Il dogma era che questo cammino di spine doveva essere la condizione inerente della produzione spirituale.
Dylan Thomas (16) è stato l'ultimo nel martirologio diretto.
La cosa strana è che queste idee dell'antica ed ispida borghesia continuino a vivere in alcuni spiriti. Spiriti che non sentono il polso del mondo nel naso, che è dove bisogna sentirlo perché il naso del mondo annusa il futuro.
Ci son dei critici cucurbitacei le cui propaggini cercano l'ultimo sospiro della moda col terrore di perderlo. Ma le loro radici continuano ad affondare nel passato.
Noi poeti abbiamo il diritto di essere felici, sulla base del fatto che siamo ferreamente uniti ai nostri popoli e alla lotta per la loro felicità.
« Pablo è uno dei pochi uomini felici che ho conosciuti », dice Ilya Ehrenburg in uno dei suoi scritti. Quel Pablo sono io e Ehrenburg ha ragione.
Per questo non mi stupisce che chiarissimi saggisti settimanali si preoccupino del mio benessere materiale, anche se il personalismo non dovrebbe essere argomento critico. Capisco se la probabile felicità offende molti. Ma si da il caso che io sia felice di dentro. Ho la coscienza tranquilla e l'intelligenza inquieta.
I critici che sembrano rimproverare ai poeti un migliore livello di vita, io li inviterei a mostrarsi orgogliosi del fatto che i libri di poesia si stampino, si vendano e svolgano il loro compito di preoccupare la critica. Ad essere contenti che i diritti d'autore siano pagati e che alcuni autori, almeno, possano vivere del loro santo lavoro. Questo orgoglio deve proclamare il critico e non seminare zizzania.
Per questo, quando poco tempo fa ho letto i paragrafi che mi ha dedicato un critico giovane, brillante e eccilesiastico, per quanto brillante non mi è parso meno in errore.
Secondo lui la mia poesia sapeva troppo di felicità. Mi prescriveva il dolore. In base a questa teoria una appendicite dovrebbe produrre eccellente prosa e una peritonite se possibile canti sublimi.
Io continuo a lavorare con i materiali che ho e che Sono. Sono onnivoro di sentimenti, di esseri, di libri, di avvenimenti e di battaglie. Mi mangerei tutta la terra. Mi berrei tutto il mare.
VERSI CORTI E LUNGHI
Come poeta attivo ho combattuto la mia autoesaltazione. Perciò il dibattito fra il reale e il soggettivo si è deciso all'interno del mio essere. Senza voler consigliare nessuno, la mia esperienza può essere d'aiuto. Vediamo a prima vista i risultati.
È naturale che la mia poesia sia sottoposta al giudizio tanto della critica elevata quanto che sia esposta alla passione del libello. Questo fa parte del gioco. Su questa parte della discussione non ho diritto di parola, ma ho diritto di voto. Per la critica delle essenze il mio voto sono i miei libri, la mia intera poesia. Per il libello ostile ho anche il diritto di voto e anche questo è costituto dalla mia stessa e costante creazione.
Se quello che dico suona vanitoso avreste ragione. Nel caso mio si tratta della vanità dell'artigiano che ha esercitato un mestiere per lunghi anni con amore indelebile. (17)
Ma di una cosa sono soddisfatto ed è che in un modo o nell'altro ho fatto rispettare, almeno nella mia patria, il mestiere di poeta, la professione della poesia.
All'epoca in cui cominciai a scrivere, il poeta era di due tipi. Alcuni erano poeti gran signori che si facevano rispettare col loro denaro, che li aiutava nella loro legittima o illegittima importanza. L'altra famiglia di poeti era quella dei militanti errabondi della poesia, giganti da osteria, folli affascinanti, tormentati sonnambuli. (18) C'era anche, per non dimenticarmene, la
situazione di quegli scrittori legati, come il galeotto alla sua catena, al banco della pubblica amministrazione. I loro sogni sono stati quasi sempre affogati da montagne di carta timbrata e da terribili timori nei confronti dell'autorità e del ridicolo.
Io mi sono lanciato alla vita più nudo di Adamo ma disposto a conservare l'integrità della mia poesia. Questo atteggiamento irriducibile non solo valse per me, ma anche perché smettessero di ridere gli sciocchi. Ma dopo questi sciocchi, se hanno avuto cuore e coscienza, si sono arresi come buoni esseri umani davanti all'essenziale che i miei versi risvegliavano. E se erano maligni cominciarono ad aver paura di me.
E così la Poesia, con la P maiuscola, fu rispettata. Non solo la poesia, ma anche i poeti furono rispettatati. Tutta la poesia e tutti i poeti.
Di questo servizio reso alla cittadinanza sono cosciente e questo riconoscimento non me lo lascio strappare da nessuno, perché mi piace portarlo come una decorazione. Il resto può essere discusso, ma questo che dico è la vera storia.
Gli ostinati nemici del poeta faranno valere molte argomentazioni che non servono a nulla. A me mi chiamarono morto di fame in gioventù. Adesso mi osteggiano facendo credere alla gente che sono un potentato, padrone di una favolosa fortuna che, se è vero che non ho, mi piacerebbe avere, tra l'altro, per dargli più fastidio.
Altri misurano le righe dei miei versi e dicono che io li divido in piccoli frammenti o li allungo troppo. Non ha importanza. Chi decide i versi più corti o più lunghi, più stretti o più larghi, più gialli o più rossi? È il poeta che li scrive a deciderlo. Lo determina con la sua respirazione e col suo sangue, con la sua sapienza o la sua ignoranza, perché tutto ciò entra nel pane della poesia.
Il poeta che non è realista è morto. Ma il poeta che è solo realista è morto anche lui. Il poeta che è solo irrazionale sarà capito solo da se stesso o dalla sua amata, e questo è abbastanza triste. Il poeta che è solo un razionalista sarà capito perfino dagli asini e anche questo è sommamente triste. Per equazioni del genere non ci sono cifre alla lavagna, non ci sono ingredienti decretati da Dio o dal Diavolo, se non che questi due importantissimi personaggi tengono viva una lotta nella poesia, e in questa battaglia vince ora l’uno ora l'altro, ma la poesia non può essere sconfitta. (19)
È vero che il mestiere di poeta è un po' abusato. Spuntano tanti poeti novelli e incipienti poetesse che presto sembreremo tutti poeti, e scompariranno i lettori. I lettori dovremo andarli a cercare in spedizioni che attraverseranno i deserti sui cammelli o circoleranno per il cielo in astronavi.
L'inclinazione profonda dell'uomo è la poesia e da essa derivò la liturgia, i salmi, e anche il contenuto delle religioni. Il poeta affrontò i fenomeni della natura e nelle prime età si diede il titolo di sacerdote per preservare la sua vocazione. Quindi nell'epoca moderna, il poeta, per difendere la sua poesia, deve prendere l'investitura che gli danno la strada e le masse. Il poeta civile di oggi continua ad essere quello del più antico sacerdozio. Prima venne a patti con le tenebre e ora deve interpretare la luce.
L'ORIGINALITÀ
Io non credo nell'originalità. È un altro feticcio creato nella nostra epoca di vertiginoso dirupo. Credo nella personalità attraverso qualsiasi linguaggio, qualsiasi forma, qualsiasi senso della creazione artistica. Ma la originalità delirante è un'invenzione moderna o un artificio elettorale. C'è chi vuoi farsi eleggere Primo Poeta, del suo paese, della sua lingua o del mondo. Allora corrono in cerca di elettori, insultano quelli che ritengono in grado di contender loro lo scettro, e in questo modo la poesia si trasforma in una mascherata. (20)
Tuttavia, è essenziale conservare la direzione interna. mantenere il controllo della crescita che la natura, la cultura e la vita sociale apportano per sviluppare le qualità del poeta.
Nei tempi antichi, i più nobili e rigorosi poeti, come Quevedo, per esempio, scrissero poesie con questo avviso: « Imitazione di Orazio », « Imitazione di Ovidio », « Imitazione di Lucrezio ».
Per quanto mi riguarda, conservo il mio tono proprio che è andato irrobustendosi per sua natura come crescono tutte le cose vive. È indubbio che le emozioni sono la parte principale dei miei primi libri, e guai al poeta che non risponde col suo canto ai teneri e furiosi appelli del cuore. Tuttavia, dopo quarant'anni di esperienza, credo che l'opera poetica possa giungere ad un dominio più sostanziale delle emozioni. Credo nella spontaneità diretta. Per questo sono necessarie delle riserve che debbono stare sempre a disposizione del poeta, diciamo nelle sue tasche, in caso di emergenza. In primo luogo la riserva di osservazioni formali, virtuali, di parole, suoni o figure, quelle che ti passano accanto come delle luci. Bisogna catturarle immediatamente e metterle in tasca. Io sono molto pigro in questo senso, ma so che sto dando un buon consiglio. Majakovsky aveva un quadernetto e se ne serviva in
continuazione. C'è anche la riserva di emozioni. Come si conservano queste? Avendo coscienza di esse quando si producono. Poi, di fronte alla carta, ricorderemo quella coscienza nostra, più vivamente nella stessa emozione.
In buona parte della mia opera ho voluto provare che il poeta può scrivere su quello che gli viene richiesto, su quello che sia necessario per una collettività umana. Quasi tutte le grandi opere dell'antichità furono fatte sulla base di precise richieste. Le Georgiche sono la propaganda delle culture nell'agro romano. Un poeta può scrivere per un'università o un sindacato, per le arti e i mestieri. Mai si è perduta la libertà per questo. L'ispirazione magica e la comunicazione del poeta con Dio, sono invenzioni interessate. Nei momenti di maggiore trance creativo, il prodotto può essere parzialmente altrui, influenzato da letture e pressioni esterne.
E adesso interrompo queste considerazioni un pò teoriche e mi metto a ricordare la vita letteraria dei miei verdi anni. Pittori e scrittori si agitavano sordamente. C'era un lirismo autunnale nella pittura e nella poesia. Ognuno cercava di essere più anarchico, più dissolvente, più disordinato. La vita sociale cilena subiva profondi sconvolgimenti. Alessandri pronunciava discorsi sovversivi. Nella pampa del salnitro si organizzavano gli operai che avrebbero creato il movimento popolare più importante del continente. Erano sacrosanti giorni della lotta. Carlos Vicuña, Juan Gandulfo. Io aderii subito all'ideologia anarcosindacalista studentesca. Il mio libro preferito era Sacha Yegulev di Andreiev. Altri leggevano i romanzi pornografici di Arzivachev (21) e gli attribuivano conseguenze ideologiche, esattamente come succede oggi con la pornografia esistenzialista. Gli intellettuali si rifugiavano nelle bettole. Il vino vecchio faceva brillare la miseria che risplendeva come l'oro fino al mattino seguente.
Juan Egaña, poeta straordinariamente dotato, si accasciava fino alla tomba. Si raccontava che ereditata una fortuna, lasciò tutti i soldi su un tavolo, in una casa abbandonata. I frequentatori assidui che dormivano di giorno uscivano di notte a cercar vino in barili. Comunque, quel raggio lunare della poesia di Juan Egaña è un sussulto sconosciuto della nostra « selva lirica ». Questo era il titolo romantico della grande antologia modernista di Melina Nuñez e O. Segura Castro. È un libro plenario, pieno di grandezza e di generosità. È la Summa Poetica di un'epoca confusa, segnata da immensi vuoti e da uno splendore purissimo. La personalità che più mi impressionò fu il dittatore della giovane letteratura. Ormai nessuno lo ricorda. Si chiamava Aliro Oyarzun. Era un baudelairiano emaciato, un decadente pieno di qualità, un Barba-Jacob cileno, tormentato, cadaverico, bello e lunatico. Parlava con voce cavernosa dall'alto della sua statura. Inventò quel modo geroglifico di proporre i problemi estetici, così peculiare in certe parti del nostro mondo letterario. Alzava la voce; la sua fronte sembrava una cupola gialla del tempio dell'intelligenza. Diceva per esempio: « il circolare del cerchio », « il dionisiaco di Dioniso », « l'oscuro degli oscuri ». Però
Aliro Oyarzun non era affatto scemo. Riassumeva in se il paradisiaco e l'infernale di una cultura. Era un cosmopolita che a forza di teorizzare finì per uccidere la sua essenza. Dicono che per vincere una scommessa scrisse la sua unica poesia, e non capisco perché quella poesia non figuri in tutte le antologie della Poesia cilena.
BOTTIGLIE E POLENE
Si avvicinava il Natale. Ogni Natale che passa ci avvicina al 2000. Per questa allegria futura, per questa pace di domani, per questa giustizia universale, per quelle campagne del 2000, abbiamo lottato e cantato noi, poeti di questo tempo. (22)
Attorno agli anni '30, Socrate Aguirre, quell'uomo sottile e eccellente che fu il mio capo al consolato di Buenos Aires, mi chiese un 24 dicembre di fare da Babbo Natale in casa sua. Ho fatto molte cose male in vita mia, ma niente mi è riuscito male come quel Babbo Natale. Mi cadevano i baffi di cotone e feci una terribile confusione nella distribuzione dei giocattoli.
E come camuffare la mia voce, che la natura del sud del Cile mi rese chioccia, nasale e inconfondibile, fin dalla mia tenera età? Ricorsi a un trucco: mi rivolsi ai bambini in inglese, ma i bambini mi inchiodavano con diverse paia di occhi neri e azzurri e mostravano più sfiducia di quanta ne conviene ad un'infanzia ben educata.
Chi l'avrebbe detto che fra quei bambini c'era quella che sarebbe divenuta una delle mie amiche predilette, scrittrice notevole e autrice di una delle mie migliori biografìe? Parlo di Margarita Aguirre. (23)
Nella mia casa ho raccolto giocattoli piccoli e grandi senza i quali non potrei vivere. Il bimbo che non gioca non è un bimbo, però l'uomo che non gioca ha perso per sempre il bimbo che viveva in lui e che gli mancherà molto. Anche la mia casa l'ho costruita come un giocattolo e ci gioco dalla mattina alla notte.
Sono i miei giocattoli. Li ho messi insieme nel corso di tutta la mia vita con lo scopo scientifico di divertirmici da solo. Li descriverò per i bambini piccoli e per quelli di tutte le età.
Ho un veliero dentro una bottiglia. A dire la verità ne ho più di uno. È una vera e propria flotta. Hanno i loro nomi scritti, i loro alberi, le loro vele, le loro prue e le loro ancore. Alcuni vengono da lontano, da altri minuscoli mari. Uno dei più belli me l'han mandato dalla Spagna, in pagamento dei diritti d'autore di un libro delle mie odi. In alto, sull'albero maestro c'è la nostra bandiera con la sua solitaria e piccola stella. Ma quasi tutti gli altri sono stati fatti dal signor Carlos Hollander. Il signor Hollander è un vecchio marinaio e ha riprodotto per me molte di quelle navi famose e maestose che venivano da Amburgo, da Salem, o dalla costa bretone a caricare salnitro o a caccia di balene nei mari del sud.
Quando scendo la lunga strada del Cile per incontrare a Coronel il vecchio marinaio, fra l'odore di carbone e pioggia della città meridionale, entro in realtà nel più piccolo cantiere del mondo. Nella piccola sala, nella stanza da pranzo, in cucina, in giardino, si accumulano e si ordinano gli elementi che saranno messi nelle chiare bottiglie dalle quali il pisco se n'è andato. Don Carlos tocca con il suo fischietto magico prue e vele, trinchetti e gabbie. Perfino il fumo più piccolino del porto passa per le sue mani e diventa una creazione, un'altra nave imbottigliata, fresca e raggiante, disposta per il mare chimerico.
Nella mia collezione emergono, fra le altre navi comperate ad Anversa o a Marsiglia, quelle che sono uscite dalle modeste mani del navigatore di Coronel. Perché non solo gli diede vita, ma le rese illustri con la sua sapienza, attaccandoci all'etichetta che riporta il nome
e il numero delle prodezze del modello, i viaggi che ha affrontato contro venti e maree, le merci che ha distribuito sballottate per il Pacifico con quelle vele che non vedremo più.
Io ho in bottiglia navi famose come la poderosa « Potosì » e la grande « Prussia » di Amburgo, che naufragò nel Canale della Manica nel 1910. Il maestro Hollander mi ha fatto contento anche facendo per me due versioni della « Maria Celeste » che dal 1882 si trasformò in stella, in mistero dei misteri.
Non sono disposto a rivelare il segreto navigatorio che vive nella sua trasparenza. Si tratta di dire come entrarono le minuscole navi nelle loro tenere bottiglie. Io, ingannatore di professione, allo scopo di mistificare, ho descritto minuziosamente in un'ode il dilatato e minimo lavoro dei misteriosi costruttori e ho raccontato come entravano e uscivano dalle bottiglie marinare. Ma il segreto non è stato ancora svelato.
I miei giocattoli più grandi sono le polene. Come molte cose mie, queste polene sono state fotografate e pubblicate sui giornali, sulle riviste, e sono state discusse con benevolenza e con rancore. Quelli che le giudicano con benevolenza ne ridono comprensibilmente e dicono:
— Che svitato. Guarda cosa si è messo a collezionare!
I maligni vedono le cose in un altro modo. Uno di essi, amareggiato dalle mie collezioni e dalla bandiera azzurra con un pesce bianco che io ho fatto nella mia casa di Isla Negra, disse:
— Io non espongo una mia bandiera. Io non posseggo polene.
Piangeva il poveretto come un bambino che invidia la trombetta degli altri bambini. Intanto, le mie polene marine sorridevano lusingate dall'invidia che suscitavano.
In realtà bisognerebbe dire polene di prua. Sono figure a mezzo busto, statue marine, effigi dell'oceano perduto. L'uomo, nel costruire le sue navi, volle elevare le loro prue con un senso superiore. Pose anticamente sulle navi figure di uccelli, di passeri totemici, di animali mitici, scolpiti nella pietra. Poi, nel XIX secolo, le navi baleniere scolpirono figure di carattere simbolico: divinità seminude o matrone repubblicane dal berretto frigio.
Io ho polene di diverso tipo. La più piccola e deliziosa, che molte volte Salvador Allende ha cercato di portarmi via, si chiama Maria Celeste. Apparteneva ad una nave francese, di piccole dimensioni, che probabilmente ha navigato solo nelle acque della Senna. È di colore scuro, incisa in leccio; con tanti anni e viaggi è diventata bruna per sempre. È una donna piccola che sembra volare con i segni del vento incisi sulle sue belle vesti Secondo Impero. Sopra le fossette delle sue guance, gli occhi di maiolica guardano l'orizzonte. E per quanto sembri strano, questi occhi piangono durante l'inverno, tutti gli anni. Nessuno sa spiegarlo. Il legno tostato forse ha qualche impregnazione che raccoglie l'umidità. Però sta di fatto che quegli occhi francesi piangono d'inverno e che io vedo tutti gli anni le preziose lacrime scendere lungo il piccolo volto di Maria Celeste. (24)
Forse nell'essere umano si sveglia un sentimento religioso di fronte alle immagini, cristiane o pagane che siano. Un'altra delle mie polene di prua è stata per alcuni anni dove stava meglio, di fronte al mare, nella sua posizione obliqua, come se navigasse sulla nave.
Ma Matilde ed io scoprimmo un pomeriggio che, saltato il recinto, come fanno di solito i giornalisti che vogliono intervistarmi, alcune signore beate di Isla Negra si erano inginocchiate nel giardino davanti alla polena di prua illuminata da non poche candele che le avevano acceso. Forse era nata una nuova religione. Però anche se la polena alta e solenne somigliava molto a Gabriela Mistral, dovemmo deludere le credenti affinchè non continuassero ad adorare con tanta innocenza un'immagine di donna marina che aveva viaggiato per i mari più peccaminosi del nostro peccaminoso pianeta.
Da allora l'ho tolta dal giardino e adesso sta più vicina a me, vicino al caminetto.
LIBRI E CONCHIGLIE
Un bibliofilo povero ha infinite occasioni di soffrire. I libri non gli sfuggono dalle mani, ma gli passano nell'aria, a volo d'uccello, a volo di prezzo. Eppure, a forza di cercare salta fuori la perla. Ricordo la sorpresa del libraio Garcia Rico, a Madrid, nel 1934, quando gli proposi di comperargli una antica edizione di Gongora, che costava solo cento pesetas, a rate di venti pesetas mensili. Era una cifra modesta, però io non ce l'avevo. La pagai puntualmente nel corso di quel semestre. Era l'edizione di Foppens. Questo editore fiammingo del XVII secolo aveva stampato con incomparabili e magnifici caratteri le opere
dei maestri spagnoli del Secolo d'Oro.
Non mi piace leggere Quevedo se non in quelle edizioni in cui i sonetti si dispongono in linea di combattimento, come navi di ferro. Poi mi addentrai nella selva delle librerie, per gli impervi suburbi di quelle di seconda mano o per le navate da cattedrale delle grandiose librerie di Francia e d'Inghilterra. Ne uscivo con le mani impolverate, ma ogni tanto trovavo qualche tesoro, o per lo meno l'allegria di presumerlo.
Premi letterari contanti e sonanti mi hanno aiutato ad acquistare certi esemplari dai prezzi stravaganti. La mia biblioteca divenne considerevole. Gli antichi libri di poesia risplendevano in essa e la mia inclinazione per la storia naturale la riempì di grandiosi libri
di botanica illuminati a tutto colore; e libri di uccelli, di insetti e di pesci. Trovai per il mondo miracolosi libri di viaggi; Don Chisciotte incredibili, stampati da Ibarra; in folio di Dante con la meravigliosa tipografia bodoniana; perfino qualche Molière fatto in pochissimi esemplari, « Ad usum delphini », per il figlio del rè di Francia.
Però, in realtà, la cosa migliore che io ho collezionato in vita mia sono state le mie conchiglie. Mi davano il piacere della loro prodigiosa struttura: la purezza lunare di una porcellana misteriosa aggiunta alla molteplicità delle forme, tattili, gotiche, funzionali.
Migliala di porte sottomarine si aprirono alla mia conoscenza da quel giorno in cui don Carlos de la Torre, illustre malacologo di Cuba, mi regalò i migliori esemplari della sua collezione. Da allora e seguendo il caso dei miei viaggi ho percorso i sette mari pedinandole e cercandole. Ma devo riconoscere che è stato il mare di Parigi che, fra un'onda e l'altra, mi ha scoperto più conchiglie. Parigi aveva fatto trasmigrare tutta la madreperla degli oceani nei suoi negozi di naturalisti, nei suoi « mercati delle pulci ».
Più facile che mettere le mani fra le rocce di Veracruz o della Bassa California, è stato trovare sotto il sargasso della città, fra lampade rotte e scarpe vecchie, la squisita silhouette della Oliva Textil. O sorprendere la lancia di quarzo che si allunga, come un verso dell'acqua, nella Roselaria Fusus. Nessuno mi toglierà l'abbagliante soddisfazione di aver estratto dal mare l’Espondylus Roseo, una grossa ostrica adornata di spine di corallo. E più in là dischiudere l’Espondylus Bianco, dai denti innevati come stalagmiti di una grotta gongorina.
Alcuni di questi trofei avrebbero potuto essere storici. Ricordo che nel Museo di Pechino aprirono la cassa più sacra dei molluschi del mare di Cina per regalarmi uno dei due unici esemplari della Thatcheria Mirabilis. E così ho potuto tesaurizzare quell'incredibile opera nella quale l'oceano regalò alla Cina lo stile dei templi e delle pagode che è durato tanto a lungo a quelle latitudini.
Ci ho messo trent'anni a raccogliere molti libri. I miei scaffali conservavano incunaboli e altri volumi che mi emozionavano; Quevedo, Cervantes, Gongora, in edizioni originali, oltre a Laforgue, Rimbaud, Lautréamont. Queste pagine mi pareva che conservassero il tatto dei poeti amati. Avevo dei manoscritti di Rimbaud. Paul Eluard mi regalò a Parigi, per il mio compleanno, le due lettere di Isabelle Rimbaud a sua madre, scritte all'ospedale di Marsiglia dove l'errante poeta ebbe una gamba amputata. Erano tesori ambiti dalla Bibliothèque Nationale de Paris e dai voraci bibliofili di Chicago.
Io andavo tanto in giro per il mondo che la mia biblioteca crebbe a dismisura e superò le caratteristiche di una biblioteca privata. Un bei giorno regalai la grande collezione di conchiglie che avevo impiegato vent'anni a mettere insieme e quei cinquemila volumi da me scelti col più grande amore in tutti i paesi. Li regalai all'università della mia patria. E furono ricevuti come uno splendido dono dalle belle parole del rettore.
Qualsiasi uomo cristallino penserà alla gioia con cui è stata accolta in Cile questa donazione mia. Ma ci sono anche uomini anti-cristallini. Un critico ufficiale scrisse articoli furiosi. Protestava con veemenza contro il mio gesto. Quando si potrà mettere un freno al
comunismo internazionale? proclamava. Un altro signore fece nel parlamento un acceso discorso contro la università che aveva accettato i miei meravigliosi cunaboli e incunaboli; minacciò di tagliare i fondi all'istituto nazionale. Fra l'articolista e il parlamentare riuscirono a gettare un'ondata di gelo sul piccolo mondo cileno. Il rettore dell'università andava su e giù
per i corridoi del parlamento, stravolto.
Sta di fatto che sono passati vent'anni da quella data e nessuno ha mai più visto né i miei libri né le mie conchiglie. Come se fossero tornati alle librerie e all'oceano.
CRISTALLI ROTTI
Tre giorni fa sono tornato, dopo un lunga assenza, nella mia casa di Valparaiso. Grandi crepe ferivano le pareti. I cristalli frantumati formavano un doloroso tappeto sul pavimento delle stanze. Gli orologi, anche essi dal pavimento, segnavano caparbiamente l'ora del terremoto. Quante cose belle che adesso Matilde spazza via con una scopa; quanti oggetti rari che la scossa della terra ha trasformato in immondizia.
Dobbiamo pulire, mettere in ordine e cominciare di nuovo. Si fa fatica a trovare la carta in mezzo alla confusione; e poi è difficile trovare i pensieri.
I miei ultimi lavori erano stati una traduzione di Romeo e Giulietta e una lunga poesia d'amore in ritmi antiquati, poesia che rimase incompiuta.
Andiamo, poesia d'amore, sollevati dai vetri rotti, che è giunta l'ora di cantare.
Aiutami, poesia d'amore, a ristabilire l'integrità, a cantare sopra il dolore.
È vero che il mondo non si pulisce dalle guerre, non si lava dal sangue, non si corregge dall'odio. È vero.
Ma è altrettanto vero che ci avviciniamo ad un'evidenza: i violenti si riflettono nello specchio del mondo e la loro faccia non è bella neppure per loro.
E continuo a credere nella possibilità dell'amore. Ho la certezza della comprensione fra gli esseri umani, raggiunta sopra i dolori, sopra il sangue e sopra i cristalli spezzati.
MATILDE URRUTIA, MIA MOGLIE
Mia moglie è provinciale come me. È nata in una città del sud, Chillan, famosa nei tempi felici per la sua ceramica contadina e nella sventura per i suoi terribili terremoti. Su di lei ho detto tutto nei miei Cien sonetos de amor. (25)
Forse questi versi definiscono quello che lei significa per me. La terra e la vita ci hanno uniti.
Anche se questo non interessa a nessuno, siamo felici. Dividiamo il nostro tempo comune in lunghi soggiorni sulla solitaria costa del Cile. Non d'estate, perché il litorale riarso dal sole appare allora giallo e desertico. Ma d'inverno, quando in una strana fioritura si veste con la piogga e il freddo, di verde e giallo, di azzurro e di purpureo. A volte usciamo dal selvaggio e solitario oceano alla nervosa città di Santiago, nella quale insieme soffriamo la complicata esistenza degli altri.
Matilde canta con voce potente le mie canzoni.
Io le dedico quanto scrivo e quanto ho. Non è molto, lei però è contenta.
Adesso la vedo mentre affonda con scarpe minuscole nel fango del giardino e poi affonda anche le sue minuscole mani nella profondità della pianta.
Dalla terra, con piedi e mani e occhi e voce, mi ha portato tutte le radici, tutti i fiori, tutti i frutti fragranti della sorte.
UN INVENTORE DI STELLE
Un uomo dormiva nella sua stanza d'albergo a Parigi. Dato che era un nottambulo incallito, non vi stupirete se vi dico che erano le dodici del mattino e l'uomo continuava a dormire.
Dovette svegliarsi. La parete di sinistra cadde rapidamente demolita. Poi crollò quella di fronte. Non si trattava di un bombardamento. Attraverso le gallerie appena aperte penetravano operai baffuti, con piccone in mano, che rimproveravano l'addormentato:
— Eh, lève-toi, bourgeois! Bevi un bicchiere con noi!
Stapparono una bottiglia di champagne. Entrò un sindaco, con la sciarpa tricolore al petto. Una fanfara suonò gli accordi della Marsigliese. Cosa c'era all'origine di fatti così strani? Accadde che proprio nel sottosuolo della stanza da letto di quel sognatore era venuto a trovarsi il punto di congiungimento di due tratti della metropolitana di Parigi, all'epoca in co-
struzione.
Dal momento in cui quell'uomo mi raccontò questa storia, decisi di essere suo amico, o meglio suo adepto, suo discepolo. Dato che gli accadevano cose così strane, e io non volevo perdermene nessuna, Federico Garcia Lorca adottò una posizione simile alla mia, cattivato dalla fantasia di quel fenomeno.
Federico ed io eravamo seduti alla birreria della Posta, vicino alla Cibele madrilena, quando il dormiente di Parigi fece irruzione nella riunione. Per quanto allegro e mappamondico in apparenza, arrivò stravolto. Gli era capitato, ancora una volta l'inenarrabile. Stava nel suo modestissimo nascondiglio di Madrid e decise di mettere in ordine le sue carte musicali. Perché ho dimenticato di dire che il nostro protagonista era un compositore magico. E cosa accadde?
— Una macchina si è fermata alla porta del mio albergo. Ho sentito i passi salire le scale, entrare nella stanza vicina alla mia. Poi il nuovo inquilino cominciò a russare. All'inizio era come un sussurro. Poi cominciò a tremare l'ambiente. Gli armadi, i muri si muovevano sotto l'impulso ritmico del grande russatore.
Si trattava, senza dubbio,, di un animale selvaggio. Quando i suoi rumori si scatenarono in un'immensa cataratta, il nostro amico non ebbe più alcun dubbio: era il Cinghiale Cornupeto. In altri paesi il suo rumore aveva fatto tremare basiliche, ostruito strade, infuriato il mare. Cosa sarebbe successo con questo pericolo planetario, con questo mostro abominevole che minacciava la pace in Europa?
Ogni giorno ci raccontava nuove spaventose peripezie del Cinghiale Cornupeto a Federico, a me; a Rafael Alberti, allo scultore Alberto, a Fulgencio Diaz Pastor, a Miguel Hernandez. Tutti noi lo accoglievamo anelanti e lo salutavamo con ansia.
Finché un giorno giunse col suo vecchio sorriso globulare. E ci disse:
— Il terribile problema è stato risolto. Il Graaf Zeppelin tedesco ha accettato di trasportare il Cinghiale Cornupeto. Lo lascerà cadere nella foresta brasiliana. I grandi alberi lo nutriranno. Non c'è pericolo che si beva il Rio delle Amazzoni d'un sol sorso. Da lì continuerà a far rintronare la terra col suo terribile russare.
Federico Io ascoltava scoppiando dalle risa, con gli occhi chiusi dall'emozione. Allora il nostro amico gli raccontava di quella volta che andò a spedire un telegramma e il telegrafista lo convinse a non mandare mai telegrammi ma lettere, perché la gente si spaventava molto quando riceveva quei dispacci alati, e c'era anche chi moriva d'infarto prima di aprirli. Ci raccontava di quella volta in cui assistette per curiosità ad un'asta di cavalli « purosangue » a Londra e alzò la mano per salutare un amico, per cui il banditore gli aggiudicò per diecimila sterline una cavalla che l'Aga Khan aveva spinto fino a novemilacinquecento.
— Dovetti portarmi la cavalla in albergo e restituirla il giorno dopo — concludeva.
Adesso il favoleggiatore non può raccontare la storia del Cinghiale Cornupeto, né nessun'altra. È morto qui, in Cile. Questo cileno orbitale, musico da pari a pari, inventore di storie ineguagliabili, si chiamò in vita Acario Cotapos. Ho dovuto parlare alla sepoltura di quest'uomo insotterrabile. Ho detto soltanto: « Oggi consegnarne alle ombre un essere splendente che ci regalava una stella al giorno ».
ELUARD, IL MAGNIFICO
II mio compagno Paul Eluard è morto poco tempo fa. Era così sincero, così compatto, che mi è costato dolore e lavoro abituarmi alla sua scomparsa. Era un normanno azzurro e rosa, di struttura robusta e delicata. La guerra del '14, nella quale fu gasato due volte, gli lasciò le mani tremanti per sempre. Ma Eluard mi ha dato in ogni momento l'idea del color celeste di un'acqua profonda e tranquilla, di una dolcezza che conosceva la sua forza. Per la sua poesia così pulita trasparente come le gocce di pioggia di primavera contro i vetri, era sembrato che Paul Eluard fosse un uomo apolitico, un poeta contro la politica. Non era così. Si sentiva fortemente legato al popolo di Francia, alle sue ragioni, alle sue lotte.
Era solido Paul Eluard. Una specie di torre francese con quella lucidità appassionata che non è la stessa cosa della stupidità appassionata, tanto comune.
Per la prima volta, in Messico, dove eravamo andati insieme, lo vidi sul bordo di un oscuro abisso, lui che aveva sempre lasciato un posto riposato alla tristezza, un posto così assiduo come alla saggezza.
Era accasciato. Io avevo convinto, io avevo trascinato questo francese centrale fino a queste terre lontane e lì, lo stesso giorno in cui seppellimmo José Clemente Orozco, caddi ammalato di una pericolosa trombo-flebite che mi costrinse a letto per quattro mesi. Paul Eluard si sentì solitario, oscuramente solitario, con l'abbandono dell'esploratore cieco. Non conosceva nessuno, non gli si aprivano le porte. Gli cadde addosso la vedovanza; si sentiva lì solo e senza amore. Mi diceva: « Abbiamo bisogno di vedere la vita in compagnia, di partecipare in tutti i frammenti della vita. È irreale, è criminale la mia solitudine ».
Chiamai i miei amici e lo costringemmo ad uscire. A denti stretti lo portarono a percorrere le strade del Messico e in una di quelle svolte si incontrò con l'amore, col suo ultimo amore: Dominique.
È molto difficile per me scrivere di Paul Eluard. Continuerò a vederlo vivo assieme a me, accesa nei suoi occhi l'elettrica profondità azzurra che guardava così ampio e da così lontano.
Usciva dal suolo francese in cui allori e radici intessono le loro fragranti eredità. La sua altezza era fatta di acqua e pietra, e ad essa si arrampicavano antichi rampicanti portatori di fiore e fulgore di nidi e canti trasparenti.
Trasparenza, è questa la parola. La sua poesia era cristallo di pietra, acqua immobilizzata nella sua cantante corrente.
Poeta dell'amore zenitale, fuoco puro di melodia, nei giorni disastrosi di Francia mise in mezzo alla sua patria il cuore e da esso uscì fuoco decisivo per le battaglie.
Così giunse naturalmente alle file del partito comunista. Per Eluard essere comunista era confermare con la sua poesia e la sua vita i valori dell'umanità e dell'umanismo.
Non si creda che Eluard fosse meno politico che poeta. Spesso mi impressionò la sua chiara visione e la sua formidabile ragione dialettica. Insieme abbiamo esaminato molte cose, uomini e problemi del nostro tempo, e la sua lucidità mi è servita per sempre.
Non si perdette nell'irrazionalismo surrealista perché non fu un imitatore ma un creatore e come tale scaricò sul cadavere del surrealismo spari di chiarezza e di intelligenza.
Fu il mio amico di ogni giorno e perdo la sua tenerezza che era parte del mio pane. Nessuno potrà darmi più quello che lui mi toglie per sempre perché la sua fraternità attiva era uno dei preziosi lussi della mia vita.
Torre di Francia, fratello! Mi chino sui tuoi occhi chiusi che continueranno a darmi la luce e la grandezza, la semplicità e la rettitudine, la bontà e l'ingenuità che piantasti sulla terra.
PIERRE REVERDY
Non chiamerò mai magica la poesia di Pierre Reverdy. Questa parola, luogo comune di un'epoca, è come un cappello da istrione di fiera: nessun piccione selvatico uscirà dalla sua vacuità per alzarsi in volo.
Reverdy fu un poeta materiale, che nominava e toccava innumerevoli cose di terra e cielo. Nominava la evidenza e lo splendore del mondo.
La sua poesia era come una vena di quarzo, sotterranea e splendida, inesauribile. A volte risplendeva duramente, con lo splendore del minerale nero, strappato a fatica dalla terra spessa. D'un tratto volava in una scintilla fosforica, o si nascondeva nella sua galleria di miniera, lontano dalla chiarezza ma stretto alla propria verità. A volte questa verità, quest'identità del corpo della sua poesia con la natura, questa tranquillità reverdiana, questa autenticità inalterabile gli anticipò l'oblio. A poco a poco fu considerato dagli altri come un'evidenza, un fenomeno naturale, casa, fiume o strada conosciuta, che non avrebbe mai cambiato di vestito né di posto.
Adesso che ha cambiato di posto, adesso che un gran silenzio, più grande del suo rispettabile e orgoglioso silenzio, se l'è portato via; vediamo che non c'è più, che questo fulgore insostituibile se n'è andato, è stato sepolto in terra e in cielo.
Io dico che il suo nome, o addirittura lui resuscitato, farà cadere un bei giorno le porte ingiuste dell'oblio.
Senza trombe, circondato dal silenzio sonoro della sua grande e continua poesia, lo vedremo nel giudizio finale, nel Giudizio Essenziale, abbagliarci con la semplice eternità della sua opera.
JERZY BOREZJHA
In Polonia non mi aspetta più Jerzy Borezjha. A questo vecchio emigrato il destino riservò la restituzione della sua patria. Quando vi entrò come soldato, dopo molti anni di assenza, Varsavia era soltanto un mucchio di rovine informi. Non c'erano strade, né alberi. Lui, nessuno l'aspettava. Borezjha, fenomeno dinamico, lavorò col suo popolo. Dalla sua testa uscirono piani colossali, e poi un'immensa iniziativa: la Casa della Parola Stampata. Costruirono i piani uno ad uno; giunsero le rotative più grandi del mondo; e lì si stampano ora migliala e migliala di libri e di riviste. Borezjha era un instancabile trasmutatore terreno dalle illusioni ai fatti. Nella vitalità incredibile della nuova Polonia, i suoi audaci progetti si realizzarono come i castelli dei sogni.
Io non lo conoscevo. Andai a conos'cerlo nel campo di vacanza dove mi aspettava, nel nord della Polonia, nella regione dei laghi Masuri.
Quando scesi dall'automobile vidi un uomo sgarbato e non rasato, vestito solo con un paio di shorts di colore indefinibile. D'un tratto mi gridò con energia frenetica, in uno spagnolo appreso sui libri: « Pablo, non dovrai lavorare. Devi riposarti ». Nei fatti concreti non mi lasciò riposare affatto. La sua conversazione era vasta, multiforme, inattesa e piena di interiezioni. Mi esponeva contemporaneamente sette diversi piani di edificazione, mischiati con l'analisi di libri che apportavano nuove interpretazioni sui fatti storici o sulla vita. « II vero eroe era Sancho Panza e non don Chisciotte, Pablo. » Per lui Sancho era la voce del realismo popolare, il centro vero del suo mondo e del suo tempo. « Quando Sancho governa lo fa bene, perché governa il popolo. »
Mi tirava già dal letto di buon'ora, sempre gridandomi « devi riposarti », e mi portava per le foreste di abeti e pini a mostrarmi un convento di una setta religiosa che era emigrata un secolo prima dalla Russia e che conservava tutti i suoi riti. Le monache lo accoglievano come una benedizone. Borezjha era tutto tatto e rispetto verso quelle suore.
Era tenero e attivo. Quegli anni erano stati terribili. Una volta mi mostrò la pistola con cui era stato giustiziato, dopo un processo sommario, un criminale di guerra.
Gli avevano trovato un quaderno in cui quel nazista aveva accuratamente annotato i suoi crimini. Vecchi e bambini impiccati con le sue mani, bimbette violate. Lo sorpresero nello stesso villaggio delle sue malefatte. Sfilarono i testimoni. Gli lessero il suo quaderno accusatore. Lo strafottente assassino rispose soltanto una frase: « Lo farei di nuovo se potessi ricominciare daccapo ». Io tenni quel quaderno nelle mie mani e quella pistola che aveva soppresso la vita di quel crudele fuorilegge.
Nei laghi Masuri, che si moltiplicano all'infinito si pescano le anguille. Di buon mattino partivamo per la pesca e poi le vendevamo palpitanti e bagnate, come cinture nere.
Mi familiarizzai con quelle acque, con i suoi pescatori e il suo paesaggio. Dalla mattina alla sera il mio amico mi faceva salire e scendere, correre e remare conoscere gente e alberi. Tutto al grido di : « Qui ti devi riposare. Non c'è un posto come questo per riposare ».
Quando partii dai laghi Masuri, mi regalò un'anguilla affumicata, la più lunga che io abbia visto.
Questo strano bastone mi complicò la vita. Io volevo mangiarmela, perché sono un grande sostenitore delle anguille affumicate e questa veniva direttamente dal suo lago natale, senza magazzini né intermediari, insospettabile. Però in quei giorni non mancava nel mio albergo l'anguilla in ogni menu. E io non avevo occasione di servirmi della mia anguilla privata, né di giorno né di notte. Cominciò ad essere un'ossessione per me.
Di notte la mettevo sul balcone perché prendesse il fresco. A volte, nel bei mezzo di conversazioni interessanti, mi ricordavo che era già mezzogiorno e che la mia anguilla era ancora esposta alle intemperie, in pieno sole. Allora perdevo ogni interesse per l'argomento,
e correvo a metterla in un luogo fresco della mia stanza, dentro un armadio per esempio.
Alla fine trovai un intenditore al quale regalai, non senza rimorsi, la più lunga, la più tenera e la meglio affumicata anguilla che sia mai esistita.
Adesso il grande Borezjha, Chisciotte magro e dinamico, ammiratore di Sancho come l'altro Chisciotte, sensibile e saggio, costruttore e sognatore, riposa per la prima volta. Riposa nelle tenebre che tanto amò. Accanto al suo riposo si continua a creare un mondo al quale egli diede la sua vitale esplosione, il suo instancabile fuoco.
SOMLYO GEORGY
Amo in Ungheria l'intreccio della vita e della poesia, della storia e della poesia, del tempo e del poeta. In altri posti si discute questo argomento con più o meno innocenza, con più o meno ingiustizia. In Ungheria ogni poeta è impegnato prima di nascere. Attila Joseph,
Ady Endre, Gyula Illés (26) sono prodotti naturali del gran de andirivieni fra il dovere e la musica, fra la patria e l'ombra, fra l'amore e il dolore.
Somlyo Georgy è un poeta che ho visto crescere, con sicurezza e potere, da vent'anni. Poeta dal tono delicato e ascendente come un violino, poeta preoccupato della sua vita e delle altre, poeta ungherese fino all'osso; ungherese nella sua generosa disposizione a condividere la realtà e i sogni del suo popolo. Poeta dell'amore più deciso e dell'azione più ardente, conserva nella sua universalità il sigillo singolare della grande poesia della sua patria.
Un giovane poeta maturo, degno dell'attenzione della nostra epoca. Una poesia quieta, trasparente e inebriante come il vino delle sabbie d'oro.
QUASIMODO
La terra d'Italia conserva le voci dei suoi antichi poeti nelle sue purissime viscere. Nel calpestare il suolo delle campagne, nell'attraversare i parchi dove l'acqua scintilla, nel solcare le sabbie del suo piccolo oceano azzurro, mi sembrò di calpestare diamantine sostanze, cristalli segreti, tutto lo splendore conservato dai secoli. L'Italia ha dato forma, suono, grazia e impeto alla poesia dell'Europa; la trasse dalla sua prima forma informe, dalla sua rozzezza vestita di panno e di armatura. La luce dell'Italia ha trasformato le vesti a brandelli dei giullari e le corazze di ferro delle canzoni di gesta in un fiume abbondante di scintillanti diamanti.
Ai nostri occhi di poeti arrivati da poco alla cultura venuti da paesi in cui le antologie cominciano con i poeti del 1880, faceva impressione vedere nelle antologie italiane la data del 1230 e tanto, o del 1310, o del 1450 e fra queste date le terzine abbaglianti, l'appassionata bellezza, la profondità e la preziosità degli Alighieri, dei Cavalcanti, dei Petrarca, dei Poliziano.
Questi nomi e questi uomini prestarono luce fiorentina al nostro dolce e poderoso Garcilaso de la Vega, al benigno Boscan, illuminarono Gongora e tinsero col loro dardo di ombra la malinconia di Quevedo, modellarono i sonetti di William Shakespeare d'Inghilterra e
accesero le essenze di Francia facendo fiorire le rose di Ronsard e di du Bellay.
Così quindi, nascere nelle terre d'Italia è difficile impresa per un poeta, impresa stellata che comporta far proprio un firmamento di splendenti eredità.
Conosco da anni Salvatore Quasimodo, e posso dire che la sua poesia rappresenta quella coscienza che a noi sembra fantasmagorica per il suo pesante e ardente carico. Quasimodo è un europeo che dispone a scienza certa della conoscenza, dell'equilibrio e di tutte le armi dell'intelligenza. Eppure, la sua posizione di italiano centrale, di protagonista attuale di un intermittente ma inesauribile classicismo, non lo ha trasformato in un guerriero prigioniero dentro la sua fortezza. Quasimodo è un uomo universale per eccellenza, che non divide il mondo bellicosamente in Occidente e Oriente ma che considera come assoluto dovere contemporaneo cancellare le frontiere della cultura e stabilire come doni indivisibili la poesia, la verità, la libertà, la pace e l'allegria.
In Quasimodo si uniscono i colori e i suoni di un mondo malinconicamente sereno. La sua tristezza non significa la sconfitta insicurezza di Leopardi ma il raccoglimento germinale della terra alla sera; quella unzione che acquista la sera quando i profumi, le voci, i colori e le campane proteggono il lavoro dei semi più profondi. Amo il linguaggio raccolto di questo grande poeta, il suo classicismo e il suo romanticismo e soprattutto ammiro in lui la sua impregnazione nella continuità della bellezza, così come il suo potere di trasformare tutto in un linguaggio di vera e commovente poesia.
Al di sopra del mare e della distanza sollevo una fragrante corona fatta con le foglie dell'Aracania e la faccio volare nell'aria affinchè se la porti il vento e la vita per deporla sulla fronte di Salvatore Quasimodo. Non è la corona apollinea di alloro che tante volte abbiamo
visto nei ritratti di Francesco Petrarca. È una corona dei nostri boschi inesplorati, di foglie che non hanno ancora un nome, imbevute della rugiada delle aurore australi.
VALLEJO VIVE ANCORA
Altro uomo fu Vallejo. Non potrò mai dimenticare la sua grande testa gialla, simile a quelle che si vedono nelle antiche finestre del Perù. Vallejo era serio e puro. È morto a Parigi. È morto per l'aria sporca di Parigi, per il fiume sporco da dove han tirato fuori tanti morti. Vallejo è morto di fame e di asfissia. Se l'avessimo portato al suo Perù, se gli avessimo fatto respirare aria e terra peruviana, forse sarebbe vivo e cantante. Ho scritto in epoche diverse due poesie sul mio amico intimo, sul mio buon compagno. In esse credo che sia descritta la biografia della nostra amicizia decentralizzata. La prima « Oda a César Vallejo », compare nel primo tomo delle Odas elementales.
In questi ultimi tempi, in questa piccola guerra della letteratura, guerra tenuta viva da piccoli soldati dai denti feroci, hanno scagliato Vallejo, l'ombra di César Vallejo, l'assenza di César Vallejo, la poesia di César Vallejo contro me e la mia poesia. Questo può accadere dovunque. Si tratta di ferire quelli che hanno molto lavorato. Dire: « Questo non è buono; Vallejo sì che era buono ». Se Neruda fosse morto lo scaglierebbero contro Vallejo vivo.
La seconda poesia, il cui titolo è di una sola lettera (la lettera V), compare in Estravagario. (28)
Per cercare l'indefinibile, la guida o il filo che unisce l'uomo all'opera, parlo di quelli che hanno avuto un po' o molto a che fare con me. Abbiamo vissuto in parte la vita insieme e adesso io sono sopravvissuto. Non ho altro mezzo per indagare quello che è stato chiamato il
mistero poetico e che io chiamerei la chiarezza poetica. Ci dev'essere qualche rapporto fra le mani e l'opera, fra gli occhi, le viscere, il sangue dell'uomo e il suo lavoro. Però io non ho teoria. Non vado in giro con un dogma sottobraccio per lasciarlo cadere in testa a qualcuno.
Come quasi tutti gli esseri umani, vedo tutto chiaro il lunedì, tutto oscuro il martedì e penso che quest'anno è chiaroscuro. I prossimi anni saranno di colore azzurro.
GABRIELA MISTRAL
Ho già detto sopra che Gabriela Mistral l'ho conosciuta nel mio villaggio, a Temuco. Da questo villaggio lei si separò per sempre. Gabriela si trovava a metà della sua laboriosa e travagliata vita ed era esteriormente monastica, qualcosa come la madre superiora di un vivaio rettilineo.
In quei giorni scrisse i Poemas del hijo, fatti in prosa pulita, lavorata e costellata, perché la sua prosa fu spesso la sua più penetrante poesia. Dato che in queste poesie del figlio descrive la gravidanza, il parto e la crescita, qualcosa di confuso si sussurrò a Temuco,
qualcosa di impreciso, qualcosa di innocentemente turpe, forse un commento grossolano che feriva la sua condizione di nubile, fatto da quella gente ferroviera e legnaiola che conosco così bene, gente altera e tempestosa che dice pane al pane e vino al vino.
Gabriela si sentì offesa e morì offesa.
Anni dopo, nella prima edizione del suo grande libro, mise una lunga nota inutile contro ciò che si era detto e sussurrato sulla sua persona in quelle montagne in capo al mondo.
In occasione della sua memorabile vittoria, col Premio Nobel cinto alla sua testa, doveva passare nel viaggio per la stazione di Temuco. Le scuole l'aspettavano ogni giorno. Le scolarette arrivavano schizzate di pioggia e palpitanti di copihues. Il copihues è il fiore australe la corolla bella e selvaggia dell'Araucania. Inutile attesa. Gabriela Mistral fece in modo di passare di lì di notte, andò a prendere un complicato treno notturno per non ricevere i copihues di Temuco.
Ebbene, questo parla male di Gabriela? Questo vuol dire semplicemente che le ferite duravano nelle pieghe della sua anima e non si cicatrizzavano facilmente. Questo rivela nell'autrice di così grandiosa poesia che nella sua anima battagliarono, come in qualsiasi anima umana, l'amore e il rancore.
Per me ebbe sempre un sorriso aperto di buona compagna, un sorriso di farina sul suo volto di pane bruno.
Però, quali furono le migliori sostanze nel forno dei suoi lavori? Quale fu l'ingrediente segreto della sua sempre dolorosa poesia?
Non sarò certo io a controllarlo e certamente non riuscirei a saperlo e, se lo sapessi, non lo direi.
In questo mese di settembre fioriscono gli yuyos; (29) il campo è un tappeto tremulo e giallo. Qui sulla costa sferza, da quattro giorni, con magnifica furia il vento sud. La notte è piena del suo movimento sonoro. L'oceano è ad un tempo aperto cristallo verde e titanica
bianchezza.
Vieni, Gabriela, amata figlia di questi yuyos, di queste pietre, di questo vento gigante. Tutti ti accogliamo con allegria. Nessuno dimenticherà i tuoi canti alle spine, alle nevi del Cile. Sei cilena. Appartieni al popolo. Nessuno dimenticherà le tue strofe ai piedi scalzi dei bambini. Nessuno ha dimenticato la tua « parola maledetta ». Sei una commovente partigiana della pace. Per queste, e per altre ragioni, ti amiamo.
Vieni, Gabriela, agli yuyos e alle spine del Cile. È giusto che io ti dia il benvenuto vero, fiorito e aspro, in conformità alla tua grandezza e alla nostra amicizia incrollabile. Le porte di pietra e primavera di settembre si aprono per te. Niente di più gradito al mio cuore che vedere il tuo ampio sorriso entrare nella sacra terra che il popolo del Cile fa fiorire e cantare.
Mi spetta condividere con te l'essenza e la verità che, grazie alla nostra voce e ai nostri atti, sarà rispettata. Che il tuo cuore meraviglioso riposi, viva, lotti, canti e crei nell'oceanica e andina solitudine della patria. Bacio la tua nobile fronte e riverisco la tua vasta poesia.
VICENTE HUIDOBRO
II grande poeta Vicente che adottò sempre un'aria di traverso nei confronti di tutte le cose, mi perseguitò con i suoi molteplici tiri birboni, mandandomi infantili lettere anonime contro di me e accusandomi continuamente di plagio. Huidobro è il rappresentante di una lunga fila di egocentrici impenitenti. Questo modo di difendersi nella contraddittoria vita dell'epoca, che non concedeva nessun ruolo allo scrittore, è stata una caratteristica degli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale. L'atteggiamento di sfida individuale si ripercosse in America facendo eco alla sfrontatezza di D'Annunzio in Europa. Questo scrittore italiano, grande scialacquatore e violatore dei canoni piccolo borghesi, ha lasciato in America una scia vulcanica di messianesimo. Il più pomposo e rivoluzionario dei suoi seguaci è stato Vargas Vila. (30)
Mi è difficile parlar male di Huidobro che per tutta la sua vita mi ha onorato con una spettacolare guerra d'inchiostro. Conferì a se stesso il titolo di « Dio della Poesia » e non trovava giusto che io, molto più giovane di lui, facessi parte del suo Olimpo. Non ho mai capito bene di che si trattasse in quell'Olimpo. La gente di Huidobro creazionava, surrealizzava, divorava l'ultimo foglio di carta di Parigi. Io ero infinitamente inferiore, irriducibilmente provinciale, terrestre, semisilvestre.
A Huidobro non bastava essere un poeta straordinariamente dotato, quale in realtà era. Voleva essere anche superman. C'era qualcosa di infantilmente bello nelle sue traversie. Se fosse vissuto fino ai nostri giorni, si sarebbe offerto come volontario insostituibile per il primo viaggio sulla luna. Me l'immagino che dimostra agli scienziati che il suo cranio era l'unico sulla terra genuinamente dotato, per la sua forma e flessibilità, ad adattarsi ai missili cosmici.
Alcuni aneddoti lo definiscono. Per esempio, quando tornò in Cile dopo l'ultima guerra, ormai vecchio e prossimo alla sua fine, mostrava a tutti un telefono arrugginito e diceva:
— L'ho portato via personalmente a Hitler. Era il telefono preferito dal Fùhrer.
Una volta gli mostrarono una brutta scultura accademica e disse:
— Che orrore! È peggio di quella di Michelangelo.
Vale la pena raccontare anche un'avventura stupenda che lo ebbe come protagonista a Parigi, nel 1919. Huidobro aveva pubblicato un opuscolo intitolato Finis Britanniae, nel quale pronosticava la fine immediata dell'impero britannico. Dato che nessuno fece caso alla sua profezia, il poeta decise di scomparire. La stampa si occupò del caso: « Diplomatico cileno misteriosamente rapito ». Alcuni giorni dopo ricomparve steso davanti alla porta di casa.
— Dei boy scouts inglesi mi tenevano sequestrato — dichiarò alla polizia. — Mi hanno tenuto legato a una colonna, in un sotterraneo. Mi hanno costretto a gridare migliata di volte: « Viva l'Impero Britannico ».
E svenne di nuovo. Però la polizia esaminò un pacchetto che aveva sotto il braccio. Era un pigiama nuovo, comperato tre giorni prima in un buon negozio di Parigi dallo stesso Huidobro. Tutto fu scoperto. Ma Huidobro perse un amico. Il pittore Juan Gris, che aveva creduto fino in fondo al rapimento e sofferto le pene dell'inferno per l'oltraggio imperialista al poeta cileno, non gli perdonò mai quella menzogna.
Huidobro era un poeta di cristallo. La sua opera brilla in ogni parte e ha un'allegria affascinante. In tutta la sua poesia c'è uno splendore europeo che egli cristallizza e sgrana con un gioco pieno di grazia e di intelligenza.
Quello che più mi sorprende nel rileggere la sua opera è la sua diafanità. Questo poeta letterario che seguì tutte le mode di un'epoca scapigliata e che si propose di staccare la solennità dalla natura, fa scorrere attraverso la sua poesia un costante canto di acqua, un rumore di foglie e di aria e una grave umanità che domina completamente le sue penultime e ultime poesie.
Dagli artifici incantatori della sua poesia francesizizante fino alle poderose forze dei suoi versi fondamentali, c'è un Huidobro in lotta fra il gioco e il fuoco, fra evasione e immolamento. Questa lotta rappresenta uno spettacolo, si realizza in piena luce e quasi in piena coscienza, con una chiarezza abbagliante.
Non c'è dubbio che siamo vissuti allontanati dalla sua opera da un pregiudizio di sobrietà. È vero che il peggior nemico di Vicente Huidobro è stato Vicente Huidobro. La morte ha spento la sua esistenza contraddittoria e irriducibilmente burlona. La morte ha steso un velo sulla sua vita mortale, ma ha sollevato un altro velo che ha lasciato per sempre scoperta la sua abbagliante qualità. Io ho proposto un monumento per lui, assieme a Ruben Darío. Ma i nostri governi sono parchi nell'erigere statue ai creatori, quanto prodighi in monumenti senza senso.
Non potremmo pensare a Huidobro come a un protagonista politico, nonostante le sue rapide incursioni in campo rivoluzionario. Ebbe verso le idee incoerenza da bambino viziato. Ma tutto questo rimase indietro, nel dimenticatoio, e saremmo incoerenti noi se ci mettessimo a infilzargli degli aghi a rischio di compromettere le sue ali. Diremo, piuttosto, che le sue poesie alla Rivoluzione d'Ottobre e alla morte di Lenin sono un contributo fondamentale di Huidobro al risveglio del mondo.
Huidobro è morto nel 1948, a Cartagena, vicino a Isla Negra, non senza aver prima scritto alcune delle più strazianti e serie poesie che io abbia mai letto. Poco prima di morire venne a trovarmi a Isla Negra, assieme a Gonzalo Losada, il mio buon amico e editore. Huidobro ed io parlammo come poeti, come cileni e come amici.
NEMICI LETTERARI
Suppongo che i conflitti di maggiore o minore portata fra gli scrittori sono esistiti e continueranno ad esistere in tutte le regioni del mondo.
Nella letteratura del continente americano abbondano i grandi suicidi. Nella Russia rivoluzionaria, Maiakovski fu attaccato fino a spararsi dagli invidiosi.
I piccoli rancori si esacerbano in America Latina. L'invidia arriva a volte ad essere una professione. Si dice che questo sentimento lo abbiamo ereditato dalla vecchia Spagna coloniale. È vero che in Quevedo, in Lope e in Gongora incontriamo con frequenza le ferite che si provocarono reciprocamente. Malgrado il suo favoloso splendore intellettuale, il Secolo d'Oro è stato un periodo sfortunato, con la fame che girava attorno ai palazzi.
In questi ultimi anni il romanzo ha assunto una nuova dimensione nei nostri paesi. I nomi di García Marquez, Juan Rulfo, Vargas Llosa, Sábato, Cortázar, Carlos Fuentes, il cileno Donoso, (31) si sentono e si leggono dappertutto. Alcuni di essi furono battezzati col termine boom. È normale anche sentir dire che essi formano un gruppo che si autoelogia.
Io li ho conosciuti quasi tutti e li trovo notevolmente sani e generosi. Comprendo — ogni giorno con maggiore chiarezza — che alcuni siano stati costretti ad emigrare dai loro paesi alla ricerca di migliori condizioni per il lavoro, lontani dall'iniqua politica e dalla pullulante
invidia. Le ragioni del loro esilio volontario sono irrefutabili: i loro libri sono stati sempre più essenziali nella realtà e nel sogno delle nostre Americhe.
Esitavo a parlare delle mie esperienze personali in questo settore dell'invidia. Non volevo apparire egocentrico, come eccessivamente preoccupato di me stesso. Però mi sono toccati in sorte così persistenti e pittoreschi invidiosi che vale la pena di parlarne.
È probabile che queste ombre persecutrici qualche volta mi abbiano irritato. Tuttavia, è un fatto che svolgevano involontariamente uno strano dovere propagandistico, come se formassero un'impresa specializzata nel lar risuonare il mio nome.
La morte tragica di uno di questi oscuri contendenti ha lasciato una specie di vuoto nella mia vita. Per tanti anni fu in stato di belligeranza contro quanto io facevo che adesso che non c'è più mi sembra strano sentirne la mancanza.
Quarant'anni di persecuzione letteraria è qualcosa di fenomenale. Provo un certo piacere a resuscitare questa solitaria battaglia di un uomo contro la sua stessa ombra, dato che io non ci ho mai preso parte.
Venticinque riviste furono pubblicate dallo stesso direttore (sempre lui), destinate a distruggermi letterariamente, ad attribuirmi ogni tipo di crimini, tradimenti, liquidazione politica, vizi pubblici e segreti, plagio, sensazionali aberrazioni sessuali. Circolavano anche dei pamphiets distribuiti assiduamente, e reportages non privi di humour, e infine un volume intero intitolato Neruda y yo, libro obeso, farcito di insulti e di imprecazioni.
Il mio contendente era un poeta cileno più anziano di me, acerrimo e assolutista, più gesticolatorio che intrinseco. Questa specie di scrittori dotati di egocentrica ferocia proliferano nelle Americhe; adottano diverse forme di asprezza e di autosufficienza, ma la loro ascendenza dannunziana è tragicamente vera.
Alle nostre povere latitudini, noi, poeti quasi straccioni e affamati, saccheggiavamo di buon mattino immisericordi, fra il vomito e gli ubriachi. In quegli ambienti miserabili la letteratura produceva insolitamente figure un pò folli, spettri della sopravvivenza picaresca. Un gran nihilismo, un falso cinismo nietzchiano, spingeva molti dei nostri a coprirsi di maschere delinquenziali. Non pochi deviarono per questa scorciatoia la loro vita, fino al delitto o fino alla propria distruzione.
Il mio leggendario antagonista emerse da quell'ambiente. Dapprima cercò di sedurmi, di imbarcarmi nelle regole del gioco. Cosa assolutamente inammissibile per il mio provincialismo piccolo borghese. Non osavo e non mi piaceva vivere di espedienti. Il nostro protagonista, invece, era un tecnico nel succhiare il succo alle congiunture. Viveva in un mondo di continua farsa, nel quale truffava se stesso inventandosi una personalità minacciosa che gli serviva da professione e da protezione.
È ormai tempo di nominare il personaggio. Si chiamava Perico de Palothes. Era un uomo forte e peloso che cercava di impressionare con la sua teorica quanto col suo aspetto. Una volta, quando io non avevo che diciotto o diciannove anni, mi propose di pubblicare insieme a lui una rivista letteraria. La rivista avrebbe avuto soltanto due sezioni: una in cui lui, in diversi toni, in prosa e in metro, avrebbe sostenuto che io ero il poeta più poderoso e geniale; e l'altra in cui io avrei dovuto sostenere a tutti i venti che lui era dotato di intelligenza assoluta, di talento senza limiti. Così tutto era a posto. Anche se io ero troppo giovane, quel progetto mi parve esagerato. Nonostante ciò, feci fatica a dissuaderlo. Lui era un portentoso pubblicatore di riviste. Era impressionante vedere come raggranellava i fondi per mantenere la sua perpetuità panfletaria.
Nelle isolate province invernali si tracciava un preciso piano d'azione. Aveva fabbricato una lunga lista di medici, avvocati, dentisti, agronomi, professori, ingegneri, capi di servizi pubblici, eccetera. Aureolato dal velo delle sue voluminose pubblicazioni, riviste, opere complete, opuscoli epici e lirici, il nostro personaggio arrivava come messaggero della cultura universale. Tutto ciò lui lo offriva severamente ai confusi uomini che visitava, e quindi si degnava di riscuotere alcuni miserabili escudos. Davanti al suo magniloquente verbo, la vittima si rimpiccioliva fino alle dimensioni di una mosca. In generale de Palothes usciva con gli escudos in tasca e lasciava la mosca a meditare sulla Cultura Universale.
Altre volte Perico de Palothes si presentava come tecnico pubblicitario e proponeva ai selvatici agricoltori meridionali di realizzare lussuose monografie sulle loro aziende, con fotografie dei proprietari e delle vacche. Era uno spettacolo vederlo arrivare con pantaloni da
equitazione e stivali da pompiere, avvolto in una magnifica cappa di provenienza esotica. Fra complimenti e minacce oblique di pubblicazioni ostili, il nostro uomo usciva dai fondi con qualche assegno. I proprietari, taccagni, ma realisti, gli allungavano qualche biglietto per toglierselo di torno.
La caratteristica suprema di Perico de Palothes, filosofo nietzchiano e grafomane irredimibile, era il suo sopruso intellettuale e fisico. Fece il gradasso nella vita letteraria del Cile. Ebbe per molti anni una piccola corte di poveri diavoli che lo esaltavano. Ma la vita è solita gonfiare in modo implacabile questi esseri di circostanza.
Il tragico finale del mio iracondo antagonista — si suicidò ormai anziano — mi ha fatto esitare molto prima di scrivere questi ricordi. Lo faccio finalmente, obbedendo ad un imperativo dell'epoca e del luogo. Una grande cordigliera di odio attraversa i paesi di lingua
spagnola; corrode i compiti dello scrittore con affannosa invidia. L'unico modo di por fine a tanta distruttiva ferocia è di esporre in pubblico i suoi accidenti.
Così insana, e egualmente persistente, è stata la persecuzione letterario-politica da romanzo d'appendice scatenata contro la mia persona e la mia opera da un tal ambiguo uruguayano dal nome gallego, qualcosa come Ribero. Il tipo pubblica da diversi anni, in spagnolo e in francese, opuscoli nei quali mi squadra. La cosa sensazionale è che le sue prodezze antinerudiche vanno al di là della carta da stampa che lui stesso paga, e questo
ha speso un sacco di soldi in viaggi costosi tesi alla mia implacabile distruzione.
Questo curioso personaggio s'incamminò fino alla sede universitaria di Oxford, quando fu annunciato che lì mi avrebbero dato il titolo di doctor honoris causa. Fin lì arrivò il poetastro uruguayano con le sue fantastiche incriminazioni, disposto al mio squartamento letterario. I Decani mi riferirono divertiti le sue accuse contro di me, quando ancora avevo indosso la toga
scarlatta, subito dopo aver ricevuto l'onorifico riconoscimento, mentre bevevamo il porto di rito.
Più inconcepibile e più avventuroso fu il viaggio a Stoccolma di questo stesso uruguayo, nel 1963. Correva voce che io avrei ottenuto in quella occasione il Premio Nobel. Allora, il tipo andò a trovare gli accademici, rilasciò interviste alla stampa, parlò alla radio per assicurare che io ero uno degli assassini di Trotzky. Con questa manovra pretendeva rendermi inabile a ricevere il premio.
Col passar del tempo fu provato che gli è andata sempre male e che, sia ad Oxford che a Stoccolma, ha perso tristemente il suo denaro e i suoi sforzi.
CRITICA E AUTOCRITICA
Non si può negare che ho avuto alcuni buoni critici. Non mi riferisco alle adesioni di banchetti letterari, né parlo tantomeno delle ingiurie che ho involontariamente suscitato.
Mi riferisco ad altra gente. Fra i libri sulla mia poesia, oltre a quelli scritti da giovani infervorati, devo citare al posto d'onore quello del sovietico Leon Ospovat. Questo giovane è giunto a dominare la lingua spagnola e ha visto nella mia poesia qualcosa di più del senso e
del suono: le ha dato una prospettiva ventura applicandole la luce boreale del suo mondo.
Emir Rodriguez Monegal, critico di prim'ordine, ha pubblicato un libro sulla mia opera poetica intitolato El Viajero inmóvil. Si vede a prima vista che non è scemo questo dottore. Si è reso conto effettivamente che mi piace viaggiare senza muovermi di casa, senza uscire dal mio paese, senza allontanarmi da me stesso. (In una copia che ho di quel meraviglioso libro giallo intitolato La piedra lunar, c'è un'incisione che mi piace molto. Rappresenta un vecchio cavaliere inglese; avvolto nella sua cappa, o mac-farlan o palandrana o quello che sia, seduto davanti al caminetto, con un libro in mano, la pipa nell'altra e due cani sonnolenti ai suoi piedi. Così mi piacerebbe starmene sempre, davanti al fuoco, vicino al mare, fra due cani, a leggere i libri che ho raccolto a costo di tanta fatica, fumando la mia pipa.)
Il libro di Amado Alonso — Poesia y estilo de Pablo Neruda — è valido per molti. Interessante il suo appassionato frugare nell'ombra, cercando i livelli fra le parole e la scorrevole realtà. Inoltre, lo studio di Alonso rivela la prima preoccupazione seria nella nostra lingua per l'opera di un poeta contemporaneo. E questo mi onora più di ogni altra cosa.
Per studiare ed esprimere un'analisi della mia poesia molti critici hanno fatto ricorso a me, fra di essi lo stesso Amado Alonso, che mi braccava con le sue domande e mi metteva contro il muro della chiarezza dove molte volte io non ero in grado di seguirlo in quel momento.
Alcuni mi credono un poeta surrealista, altri un realista e altri non mi credono un poeta. Tutti hanno un po' di ragione e un po' di torto.
Residencie en la tierra è stata scritta, o quanto meno iniziata, prima dell'apogeo surrealista, come pure Tentativo del hombre infinito, ma non c'è da fidarsi sulle date. L'aria del mondo trasporta le molecole della poesia, leggera come il polline e dura come il piombo, e quei semi cadono nei solchi o sulle teste, danno alle cose aria di primavera o di battaglia, producono ugualmente fiori e proiettili.
Quanto al realismo devo dire, perché non mi conviene farlo, che detesto il realismo quando si tratta di poesia. Non solo, la poesia non deve essere surrealista o sottorealista, ma può essere antirealista. Quest'ultima a piena ragione, oppure senza, vale a dire con tutta la poesia.
Mi piace il libro, la densa materia del lavoro poetico, il bosco della letteratura, mi piace tutto, perfino le coste dei libri, ma non le etichette delle scuole. Voglio libri senza scuola e senza classificare, come la vita.
L'« eroe positivo » mi piace in Walt Whitman e in Majakovski, cioè in chi lo ha trovato senza ricetta e lo ha incorporato non senza sofferenza, nell'intimità della nostra vita corporea, facendogli dividere il pane e i sogni con noi.
La società socialista deve por fine alla mitologia di un'epoca affrettata, nella quale valevano di più i cartelli che le merci, nella quale le essenze furono messe da parte. Ma la necessità più imperiosa per gli scrittori è scrivere buoni libri. Allo stesso modo in cui mi piace l'« eroe positivo » incontrato nelle turbolente trincee delle guerre civili dal nordamericano Whitman o dal sovietico Majakovski, c'entra anche nel mio cuore l'eroe a lutto di Lautréamont, il cavaliere. Attenzione a separare queste metà della mela della creazione, perché magari ci tagliamo il cuore e finiamo di essere. Attenzione! Per il poeta dobbiamo esigere posto nella strada e nella lotta, come nella luce e nell'ombra.
Forse i doveri del poeta sono stati sempre gli stessi nella storia. L'onore della poesia è stato uscire in strada, è stato prender parte a questa o quella lotta. Non si spaventò il poeta quando gli dissero insorto. La poesia è un'insurrezione. Non si offese il poeta quando lo
chiamarono sovversivo. La vita supera le strutture e ci sono nuovi codici per l'anima. Dappertutto saltano i semi tutte le idee sono esotiche; aspettiamo ogni giorno cambiamenti immensi; viviamo con entusiasmo la mutazione dell'ordine umano: la primavera è insurrezionale.
Io ho dato quello che avevo. Ho lanciato la mia poesia nell'arena, e spesso mi sono dissanguato con essa, soffrendo le agonie e esaltando le glorie cui ho dovuto assistere e vivere. Per una cosa o per l'altra sono stato incompreso, e questo non è poi del tutto male.
Un critico equadoriano ha detto che nel mio libro Las uvas y el viento non ci sono più di sei pagine di vera poesia. Si da il caso che l'equadoriano ha letto senza amore il mio libro perché quel libro è un libro politico, così come altri critici superpolitici hanno detestato Residencia en la tierra considerandola interna e tenebrosa. Lo stesso Juan Marinello, (33) così eminente, la condannò in altri tempi in nome dei principi. Ritengo che entrambi commettono errori, che derivano dalle stesse fonti.
Anch'io ho parlato qualche volta contro Residencia en la tierra. Ma l'ho fatto pensando non alla poesia, ma al clima duramente pessimista che questo libro mio respira. Non posso dimenticare che qualche anno fa un ragazzo di Santiago si è suicidato ai piedi di un albero, e ha lasciato aperto il mio libro a quella poesia che s'intitola « Significa sombras ». (34)
Credo che tanto Residencia en la tierra, libro oscuro ed essenziale nella mia opera, quanto Las uvas y el viento, libro di grandi spazi e molta luce, hanno diritto ad esistere da qualche parte. E non mi contraddico dicendo questo.
La verità è che una certa predilezione per Las uvas y el viento, forse perché è il mio libro più incompreso; o perché attraverso le sue pagine io cominciai ad andare per il mondo. C'è polvere di strada e acqua di fiumi; ci sono esseri, continuità e oltremare di altri posti che io
non conoscevo e che mi furono rivelati con tanto andare. È uno dei libri che amo di più, ripeto.
Di tutti i miei libri, Estravagario non è quello che conta di più, ma quello che salta meglio. I suoi versi salterini passano oltre alla distinzione, al rispetto, alla reciproca protezione, agli stabilimenti e alle obbligazioni, per auspicare la reverente irriverenza. Per la sua portata raggiunge la trascendenza nella mia poesia. A mio modo di pensare è un libro arduo, con quel sapore di sale che ha la verità.
Nelle Odas elementales mi proposi un basamento originario, nascente. Volli ridescrivere molte cose già cantate, dette e ridette. Il mio punto di partenza deliberato doveva essere quello del bambino che intraprende, succhiandosi il lapis, una composizione obbligatoria sul sole, la lavagna, l'orologio o la famiglia umana. Nessun tema poteva rimanere fuori della mia orbita; dovevo toccare tutto andando e volando, sottoponendo la mia espressione alla massima trasparenza e verginità.
Perché paragonai alcune pietre con alcune anatre, un critico uruguayano si scandalizzò. Lui avrebbe decretato che gli anatroccoli non sono materiale poetico, così come altri piccoli animali. A questa mancanza di serietà è arrivato il verbococco letterario. Vogliono costringere i creatori a trattare soltanto temi sublimi. Ma si sbagliano. Faremo poesia perfino con le cose più disprezzate dai maestri del buon gusto. (35)
La borghesia esige una poesia sempre più staccata dalla realtà. Il poeta che sa dire pane al pane e vino al vino è pericoloso per il capitalismo agonizzante. E più conveniente che il poeta si creda, come direbbe Vicente Huidobro, « un piccolo dio ». Questa credenza e atteggiamento non disturba le classi dominanti. Il poeta rimane così commosso dal suo isolamento divino, e non è necessario corromperlo o schiacciarlo. Lui stesso si è corrotto condannandosi al cielo. Intanto, la terra trema nella sua marcia, nel suo fulgore.
I nostri popoli americani hanno milioni di analfabeti, la mancanza di cultura è preservata come circostanza ereditaria e privilegio del feudalesimo. Potremmo dire, di fronte alla remora dei nostri settanta milioni di analfabeti, che i nostri lettori non sono ancora nati. Dobbiamo affrettare questo parto affinchè ci leggano a noi e utti i poeti. Bisogna aprire la matrice all'America, per far uscire da essa la gloriosa luce.
Spesso i critici dei libri si prestano a compiacere idee degli imprenditori feudali. Nel 1961, per esempio ucirono tre libri miei. Canción de gesta, Las piedras de Chile e Cantos cerimoniales. (36) Neppure i loro titoli furono menzionati dai critici del mio paese nel corso di tutto l'anno.
Quando fu pubblicata, per la prima volta la mia poesia « Alturas de Macchu Picchu », anche allora nessuno Osò parlarne in Cile. Negli uffici del giornale cileno più voluminoso « El Mercurio », (37) un giornale che si pubblica da un secolo e mezzo, arrivò l'editore della poesia.
Urtava un avviso a pagamento in cui si annunciava la pubblicazione del libro. Lo accettarono a condizione che cancellasse il mio nome.
— Ma se Neruda è l'autore — protestava Neira.
— Non importa — gli risposero.
« Altura de Macchu Picchu » dovette apparire come se fosse di autore anonimo nell'avviso. A che gli servivano centocinquant'anni di vita a quel giornale? In tanto tempo non ha imparato a rispettare la verità, né i fatti, né la poesia.
A volte le passioni negative contro di me non rispondono semplicemente ad un ostinato riflesso della lotta di classe, ma ad altre cause. Con oltre quarant'anni di lavoro, onorato da vari premi letterari, pubblicati i miei libri nelle lingue più impensate, non passa un giorno senza che io riceva un colpetto dall'invidia circostante. È il caso della mia casa. Anni fa ho acquistato questa casa a Isla Negra, in un posto completamente deserto, quando qui non c'era né acqua potabile né elettricità. A colpi di libri l'ho migliorata e elevata. Ci ho portato amate statue di legno, polene di vecchie navi che sotto il mio tetto hanno trovato asilo e riposo dopo tanti lunghi viaggi.
Ma molti non possono tollerare che un poeta abbia raggiunto, come frutto della sua opera pubblicata dappertutto, il decoro materiale che meritano tutti gli scritlon, tutti i musicisti, tutti i pittori. Gli anacronistici scribacchini reazionari, che chiedono ogni minuto onori per Goethe, negano ai poeti di oggi il diritto alla vita. Il fatto che io possegga un'automobile li fa uscire letteralmente dai gangheri. Secondo loro, l'automobile deve essere esclusività dei commercianti, degli speculatori, dei gestori di postriboli, degli usurai e dei truffatori.
Per farli andare su tutte le furie regalerò la mia casa Di Isla Negra al popolo, e lì si svolgeranno un giorno Riunioni sindacali e giornate di riposo per minatori e contadini. La mia poesia sarà vendicata.
COMINCIA UN ALTRO ANNO
Un giornalista mi chiede:
— Come vede il mondo in quest'anno che inizia?
Gli rispondo:
— In questo momento esatto, alle nove e venti del mattino del giorno cinque gennaio, vedo il mondo interamente rosa e azzurro.
Questo non ha implicazione letteraria, né politica, né soggettiva. Significa che dalla mia finestra mi colpiscono la vista grandi massicci di fiori rosa e, più lontano, il mare pacifico e il cielo ci confondono in un abbraccio azzurro.
Ma capisco, e lo soppiamo, che altri colori esistono nel panorama del mondo. Chi può dimenticare il colore di tanto sangue versato inutilmente ogni giorno in Vietnam. Chi può dimenticare il colore dei villaggi bruciati dal napalm?
Rispondo ad un'altra domanda del giornalista. Come altri anni, in questi nuovi trecentosessantacinque giorni pubblicherò un altro libro. Ne sono sicuro. Lo accarezzo, lo maltratto, lo scrivo ogni giorno.
— Di cosa si tratta in esso?
Che posso rispondere? Nei miei libri si tratta sempre delle stesse cose; scrivo sempre lo stesso libro. Mi perdonino i miei amici se anche questa volta, in questo nuovo anno pieno di nuovi giorni, non ho altro da offrir loro se non i miei versi, gli stessi nuovi versi.
L'anno che termina ci ha portato vittorie a tutti i terrestri: vittorie nello spazio e sulle sue rotte. Nel corso dell'anno tutti gli uomini volevano volare. Tutti abbiamo viaggiato in sogni cosmonauti. La conquista delle grandi altezze ci appartiene a tutti, non importa che sano stati nordamericani o sovietici a cingersi il primo nembo lunare o a mangiare le prime uve lunari.
A noi poeti, deve toccarci la maggior parte dei doni scoperti. Da Giulio Verne, che meccanizzò in un libro l'antico sogno spaziale, fino a Jules Laforgue, Heinrich Heine e José Asuncion Silva, (senza dimenticare Baudelaire che scoprì il suo maleficio), il pallido pianeta è
stato analizzato, cantato e pubblicato, prima di chiunque altro, da noi poeti.
Ppassano gli anni. Uno si consuma, fiorisce, soffre e gode. Gli anni ti portano la vita e se la prendono. Gli addii si fanno più frequenti; gli amici entrano o escono di prigione; vanno e tornano dall'Europa; o semplicemente muoiono.
Quelli che se ne vanno quando uno sta lontano dal posto dove muoiono, sembra che muoiano di meno; continuano a vivere dentro di noi, com'erano. Un poeta che sopravvive ai suoi amici tende a compiere nella sua opera una antologia a lutto. Mi sono astenuto dal continuarla per timore della monotonia del dolore umano di fronte alla morte. È che uno non vuole diventare un catalogo di defunti, anche se questi sono fra i più amati. Quando scrissi a Ceylon, nel 1928, « Ausencia de Joaquín », per la morte del mio compagno il poeta Joaquín Cifuentes Sepulveda, e quando più tardi scrissi « Alberto Rojas Jiménez viene volando » (38) a Barcellona, nel 1931, pensai che non mi sarebbe morto più nessuno. Ma ne sono morti molti. Qui accanto, sulle colline argentine di Cordoba, giace sepolto il migliore dei miei amici
argentini: Rodolfo Araos Alfaro, che ha lasciato vedova la nostra cilena Margarita Aguirre.
In quest'anno che è appena terminato, il vento si è portata la fragile statura di Ilya Ehrenburg, amico carissimo, eroico difensore della verità, titanico demolitore della menzogna. Sempre a Mosca han sepolto quest'anno il poeta Ovadi Savich, traduttore della poesia di Gabriela Mistral e della mia, non solo con esattezza e bellezza ma anche con splendido amore. Lo stesso vento della morte si è portato via i miei fratelli poeti Nazim Hikmet e Samion Kirsanov. (39) E ce ne sono altri.
Amaro avvenimento è stato l'assassinio ufficiale di Che Guevara nella tristissima Bolivia. Il telegramma della sua morte ha fatto il giro del mondo come un brivido sacro. Milioni di elegie cercarono di far coro alla sua esistenza eroica e tragica. Alla sua memoria sono stati scritti a iutte le latitudini, versi non sempre degni di tale dolore. Ricevetti un telegramma da Cuba, da un colonello letterario, che mi chiedeva i miei. Non li ho ancora scritti. Penso che quella elegia deve contenere, npn solo l’immedlata protesta, ma anche l'eco profonda della dolorosa storia. Mediterò questa poesia finchè maturi nella mia testa e nel mio sangue. (40)
Mi commuove il fatto che nel diario di Che Guevara io sia l'unico poeta citato dal grande capo guerrigliero. Ricordo che il Che mi raccontò una volta, davanti al sergente Retamar, (41( come lesse molte volte il mio Canto general ai primi, umili e gloriosi barbudos della Sierra Maestra. Nel suo diario trascrive, con un rilievo da presentimento, un verso del mio « Canto a Bolivar»: (42) « il suo piccolo cadavere di capitano coraggioso... »
IL PREMIO NOBEL
II mio Premio Nobel ha una lunga storia. Per molti anni il mio nome è risuonato come candidato senza che questo suono si cristallizzasse in nulla.
Nel 1963 la cosa fu seria. Le radio dissero e ripeterono diverse volte che il mio nome era discusso seriamente a Stoccolma e che io ero il più probabile vincitore fra i candidati al Premio Nobel. Allora Matilde ed io mettemmo in pratica il piano n. 3 di difesa domestica. Mettemmo un grosso lucchetto al vecchio portone di Isla Negra e ci rifornimmo di cibo e di vino rosso. Aggiunsi alcuni gialli di Simenon a queste prospettive di clausura.
I giornalisti non si fecero attendere. Li tenemmo a bada. Non riuscirono a superare quel portone, salvaguardato da un enorme catenaccio di bronzo tanto bello quanto poderoso. Dietro il muro esterno si aggiravano come tigri. Cosa volevano? Cosa potevo dire io di una
discussione alla quale partecipavano accademici svedesi all'altro lato del mondo? Senz'altro i giornalisti non facevano mistero delle loro intenzioni di cavare acqua da una pietra.
La primavera era stata tardiva sulla costa del Pacifico meridionale. Quei giorni solitari mi servirono per entrare in intimità con la primavera marina che, anche se in ritardo, si era fatta bella per la sua festa solitaria. Durante l'inverno non cade una sola goccia di pioggia; la terra è argillosa, irsuta, pietrosa; non c'è un filo verde. Durante l'inverno, il vento del mare scatena furia, sale, schiuma a grandi ondate, e allora la natura angosciata, vittima di quelle forze terribili.
La primavera comincia con un grande lavoro giallo. Tutto si copre di innumerevoli, minuscoli fiori d'oro. Questa germinazione piccola e possente riveste i declivi, circonda le rocce, avanza verso il mare e spunta in mezzo ai nostri sentieri quotidiani, come se volesse
sfidarci, dimostrarci la sua esistenza. Quei fiori han dovuto sopportare per tanto tempo una vita invisibile, per tanto tempo li ha schiacciati la desolata negazione della terra sterile, che adesso tutto sembra poco alla loro fecondità gialla.
Poi si estinguono i piccoli fiori pallidi e tutto si copre di un'intensa fioritura violetta. Il cuore della primavera è passato dal giallo all'azzurro, e poi al rosso. Come han fatto a sostituirsi le une alle altre le piccole, sconosciute, infinite corolle? Il vento scuoteva un colore e il giorno dopo un altro colore, come se fra le solitarie colline cambiasse la bandiera della primavera e le diverse repubbliche ostentassero i loro stendardi invasori.
In questo periodo fioriscono i cactus della costa. Lontano da questa regione, sui contrafforti della cordigliera andina, i cactus si ergono giganteschi, striati e spinosi, come colonne ostili. I cactus della costa invece, sono piccoli e rotondi. Li ho visti incoronarsi con venti bottoni scarlatti, come se una mano avesse lasciato lì il suo ardente tributo di gocce di sangue. Poi si aprirono. Di fronte alle grandi schiume bianche dell'oceano si vedono migliala di cactus accesi dai loro fiori sbocciati.
Il vecchio agave della mia casa tirò fuori dal fondo delle sue viscere la sua fioritura suicida. Questa pianta, azzurra e gialla, gigantesca e carnosa, durò più di dieci anni accanto alla mia porta crescendo fino ad essere più alta di me. E adesso fiorisce per morire. Ha eretto una possente lancia verde che ha raggiunto sette metri di altezza, interrotta da una secca infiorescenza, appena coperta da un pulviscolo d'oro. Poi, tutte le foglie colossali dell’agave americana cadono e muoiono.
Accanto al fiore che muore, ecco un altro fiore titanico che nasce, Nessuno lo conoscerà fuori dalla mia patria; esiste solo su queste spiagge antartiche. Si chiama chachual (puya chilensis). Questa pianta ancestrale fu adorata dagli araucani. Ormai l'antico Arauco non esiste. Il sangue, la morte, il tempo e poi i canti epici di Alonso de Ercilla, chiusero l'antica storia di una tribù di argilla che si svegliò bruscamente dal suo sonno archeologico per difendere la sua patria invasa. Nel vedere spuntare i suoi fiori un'altra volta, sopra secoli di oscuri morti, sopra strati di sanguinoso oblio, credo che il passato della terra fiorisce contro quello che siamo adesso. Soltanto la terra continua ad essere, preservando l'essenza.
Ma ho dimenticato di descriverla.
È una bromeliacea dalle foglie acute e seghettate. Irrompe nei sentieri come un incendio verde, accumulando in una panoplia le sue misteriose spade di smeraldo. Però, d'un tratto, un solo fiore colossale, un racemo le nasce alla cintura, un'immensa rosa verde dell'altezza di un uomo. Quest'unico fiore, composto da una moltitudine di fiorellini che si raccolgono in una sola cattedrale verde, incoronata dal polline d'oro, risplende alla luce del mare. È l'unico immenso fiore verde che io abbia visto, il solitario monumento all'onda.
I contadini e i pescatori del mio paese hanno dimenticato da tempo i nomi delle piccole piante, dei piccoli fiori che adesso non hanno nome. L'hanno dimenticato a poco a poco e lentamente i fiori han perso il loro orgoglio. Sono rimasti ammucchiati e oscuri, come le pietre che i fiumi trascinano dalla neve andina fino alle sconosciute spiagge. Contadini e pescatori, minatori e contrabbandieri, hanno continuato a dedicarsi alla propria asprezza, alla continua morte e resurrezione dei loro doveri, delle loro sconfitte. È oscuro essere eroi di territori non ancora scoperti; la verità è che in essi, nel loro canto, non risplende se non il sangue anonimo e i fiori di cui nessuno conosce il nome.
Tra i quali ce n'è uno che ha invaso la mia casa. È un fiore azzurro dal lungo, orgoglioso, lustroso e resistente stelo. Alla sua estremità si dondolano i molteplici fiorellini infrazzurri, ultrazzurri. Non so se a tutti gli umani sarà dato di contemplare il più eccelso azzurro. Sarà rivelato esclusivamente ad alcuni? Rimarrà chiuso, invisibile, ad altri esseri cui qualche dio azzurro ha negato questa contemplazione? Oppure si tratta della mia allegria, nutrita nella solitudine e trasformata in orgoglio, esaltata dall'incontro di questo azzurro, di quest’onda azzurra, di questa stella azzurra, nell'abbondante primavera?
Infine parlerò della doca. Non so se esiste altrove questa pianta che si moltiplica a milioni, che trascina, sulla sabbia le sue dita triangolari. La primavera riempì quelle mani verdi con insoliti anelli di colore amaranto. La doca ha un nome greco: aizoacea. Lo splendore di Isla Negra in questi ultimi giorni di primavera sono le azioaceae che si diramano come un'invasione marina, come l'emanazione della grotta verde del mare, come il succo dei grappoli purpurei che accumulò nella sua osteria il lontano Nettuno.
Proprio in quest'istante, la radio ci annuncia che un buon poeta greco ha ottenuto il rinomato premio. I giornalisti tolsero le tende. Matilde ed io, rimanemmo finalmente tranquilli. Solennemente togliemmo il grosso catenaccio dal vecchio portone affinchè tutti possano
continuare ad entrare senza chiamare alle porte della mia casa, senza annunciarsi. Come la primavera.
Nel pomeriggio vennero a trovarmi gli ambasciatori svedesi. Mi portavano una cesta con bottiglie e delicatessen. L'avevano preparata per festeggiare il Premio Nobel che ritenevano sicuro per me. Non fummo tristi e bevemmo un sorso alla salute di Seferis, (43) il poeta greco che l'aveva vinto. Al momento di salutarci, l'ambasciatore mi prese da parte e mi disse:
— Sicuramente la stampa verrà ad intervistarmi e non so nulla in proposito. Mi può dire chi è Seferis?
— Non lo so neanch'io — gli risposi sinceramente.
La verità è che ogni scrittore di questo pianeta chiamato terra vuole ottenere prima o poi il Premio Nobel, anche quelli che non lo dicono e anche quelli che lo negano.
In America Latina, specialmente, i paesi hanno i loro candidati, pianificano le loro campagne, tracciano la loro strategia. Questa ha perso alcuni che meritavano di riceverlo. È il caso di Romulo Gallegos. (44) La sua opera è grande e decorosa. Ma n Venezuela è il paese del petrolio, vale a dire il paese del denaro, e per questa via si propose di ottenerlo. Designò un ambasciatore in Svezia che fissò come scopo supremo l'ottenimento del premio per Gallegos. Era prodigo di inviti a pranzo; pubblicava le opere degli accademici svedesi in spagnolo, in tipografie della stessa Stoccolma. E tutto ciò è dovuto sembrare eccessivo ai suscettibili e riservati accademici. Romulo Gallegos non si è mai reso conto del fatto che la smodata efficacia di un ambasciatore venezuelano è stata, forse, la circostanza che gli ha impedito di ricevere un titolo letterario che tanto meritava.
A Parigi mi raccontarono una volta una storia triste fiorettata di crudele humour. Questa volta si trattava di Paul Valéry. (45) In Francia correva voce e si parlava sulla stampa di lui come del più probabile candidato al Premio Nobel di quell'anno. La mattina che si discuteva il verdetto a Stoccolma, per calmare il nervosismo che gli provocava l'attesa della notizia, Valéry uscì di buon'ora dalla sua casa di campagna, accompagnato dal suo bastone e dal suo cane.
Tornò dall'escursione a mezzogiorno, all'ora del pranzo. Appena aprì la porta, chiese alla segretaria:
— Ha chiamato qualcuno al telefono?
— Sì, signore. Pochi minuti fa l'han chiamata da Stoccolma.
— E cosa han detto? — disse, manifestando apertamente la sua emozione.
— Era una giornalista svedese che voleva sapere la sua opinione sul movimento di emancipazione della donna.
Lo stesso Valéry raccontava l'aneddoto con una certa ironia. In realtà un così grande poeta, uno scrittore così impeccabile, non ottenne mai il famoso premio.
Per quanto mi riguarda, devo riconoscere di essere stato molto prevenuto. Avevo letto in un libro di un erudito cileno, che voleva esaltare Gabriela Mistral, le numerose lettere che la mia austera compatriota aveva scritto in diversi posti, senza perdere la sua austerità ma spinta dal suo naturale desiderio di avvicinarsi al premio. Questo mi fece essere più reticente, Non appena seppi che veniva fatto il mio nome (e questo accadde non so quante volte) come candidato, decisi di non tornare in Svezia, paese che mi attrasse da giovane, quando con Tomas Lago ci proclamammo discepoli autentici di un pastore scomunicato e ubriacone e
mato Gosta Berling. (48)
Inoltre, ero ormai stufo di essere nominato ogni anno senza che le cose andassero più lontano. Ormai mi sembrava irritante veder comparire il mio nome nelle competizioni annue, come se io fossi un cavallo da corsa. D’altra parte i cileni, letterari e popolari, si consideravano aggrediti dall'indifferenza dell'accademia svedese. Era una situazione che rasentava pericolosamente il ridicolo.
Finalmente, come tutti sanno, mi dettero il Premio Nobel. Mi trovavo a Parigi, nel 1971, appena giunto per svolgere i miei compiti di ambasciatore del Cile, quando cominciò un'altra volta ad apparire il mio nome sui giornali. Matilde ed io aggrottammo le sopracciglia. Abituati all'annuale delusione, la nostra pelle era diventata insensibile. Una sera d'ottobre di quell'anno entrò Jorge Edwards, consigliere della nostra ambasciata e scrittore, nella nostra sala da pranzo. Con la parsimonia che lo caratterizza, mi propose di fare una scommessa molto semplice. Se mi davano il Premio Nobel quell'anno, io avrei pagato una cena nel migliore ristorante di Parigi, a lui e a sua moglie. Se non me lo davano, avrebbe pagato lui quella di Matilde e la mia.
— D'accordo — gli dissi. — Mangeremo splendidamente a spese tue.
Una parte del segreto di Jorge Edwards e della sua avventata scommessa, cominciò a chiarirsi il giorno dopo. Seppi che un'amica lo aveva chiamato per telefono da Stoccolma. Era scrittrice e giornalista. Gli aveva detto che tutte le possibilità si erano riunite questa volta perche Pablo Neruda vincesse il Premio Nobel.
I giornalisti cominciarono a chiamare da lontano. Da Buenos Aires, da Città del Messico e soprattutto dalla Spagna. In quest'ultimo paese lo consideravano un fatto. Naturalmente rifiutai di rilasciare dichiarazioni, però i miei dubbi cominciarono ad emergere di nuovo.
Quella sera venne a trovarmi Artur Lundkvist, (47) l'unico amico scrittore che io avevo in Svezia. Lundkvist era accademico da tre o quattro anni. Veniva dal suo paese, diretto nella Francia meridionale. Dopo cena gli parlai delle difficoltà che avevo a rispondere per telefono internazionale ai giornalisti che mi attribuivano il premio.
— Voglio chiederti una cosa' Artur — gli dissi- — Nel caso che sia vero, mi interessa molto saperlo prima che Io pubblichi la stampa. Voglio comunicarlo prima di tutti a Salvador Allende, con cui ho condiviso tante lotte. Sarà molto contento di essere il primo a ricevere la
notizia.
L'accademico e poeta Lundkvist mi guardò con occhi svedesi, estremamente serio:
— Non posso dirti nulla. Se c'è qualcosa, te Io comunicherà per telegramma il re di Svezia o l'ambasciatore di Svezia a Parigi.
Questo accadeva il 19 o il 20 di ottobre. La mattina del 21 cominciarono a riempirsi di giornalisti i saloni dell'ambasciata. Gli operatori della televisione svedese, tedesca, francese e di paesi latinoamericani, mostravano un'impazienza che minacciava di trasformarsi in ammutinamento di fronte al mio mutismo che non era altro che mancanza di informazioni. Alle undici e mezza mi chiamò l'ambasciatore svedese per chiedermi di riceverlo, senza anticiparmi di cosa si trattava, il che non contribuì a rappacificare gli animi perché l'incontro sarebbe avvenuto due ore dopo. I telefoni continuavano a squillare istericamente.
In quel momento una radio di Parigi lanciò un flash, una notizia dell'ultimo minuto, annunciando che il Premio Nobel 1971 era stato assegnato al « poéte chilien Pablo Neruda ». Immediatamente scesi ad affrontare la tumultuosa assemblea dei mezzi di comunicazione.
Fortunatamente comparvero in quell'istante i miei vecchi amici Jean Marsenac e Aragon. Marsenac, grande poeta e fratello mio in Francia, gridava dalla gioia. Aragon, da parte sua, sembrava più contento di me della notizia. Entrambi mi furono d'aiuto nel difficile compito di toreare i giornalisti.
Io ero stato operato da poco, anemico e esitante a camminare, con poca voglia di muovermi. Arrivarono gli amici a mangiare con me quella notte. Matta, dall'Italia; García Marquez, da Barcellona; Siqueiros dal Messico; Miguel Otero Silva, da Caracas; Arturo Camacho Ramirez, dalla stessa Parigi; Cortazar, dal suo nascondiglio. Carios Vasallo, cileno, venne da Roma per accompagnarmi a Stoccolma.
I telegrammi (che fin ora non ho potuto leggere né a cui ho potuto rispondere completamente) si ammucchiarono in piccole montagne. Fra le innumerevoli lettere ne arrivò una curiosa e un po' minacciosa. La scriveva un signore dall'Olanda, un uomo corpulento e di razza negra, come si poteva vedere dal ritaglio di giornale che accludeva. « Rappresento — diceva pressapoco la lettera — il movimento anticolonialista di Georgetown, Guayana Olandese. Ho chiesto un invito per assistere alla cerinioma che avrà luogo a Stoccolma per consegnarle il premio Nobel. All'ambasciata svedese mi hanno informato che è richiesto il frac, una tenuta di rigorosa etichetta per questa occasione. Io non ho soldi per comprarmi un frac e non me ne metterò mai uno affittato, perché sarebbe umiliante per un americano libero indossare un vestito usato. Per questo le annuncio che, coi pochi soldi che riuscirò a mettere insieme, mi recherò a Stoccolma per dare una conferenza stampa e denunciare in essa il carattere imperialista e antipopolare di quella cerimonia, che si svolge così per onorare il più antimperialista e il più popolare dei poeti universali ».
Nel mese di novembre Matilde ed io andammo a Stoccolma. Ci accompagnarono alcuni vecchi amici. Fummo alloggiati nello splendore del Grand Hotel. Da lì vedevamo la bella città fredda, e il Palazzo Reale di fronte alle nostre finestre. Nello stesso albergo erano
alloggiati gli altri laureati di quell'anno, in Fisica, in Chimica, in Medicina, ecc., personalità diverse, alcuni loquaci e formalisti, altri semplici e rustici come operai meccanici appena usciti per caso dalle loro officine. Il tedesco Willy Brandi non era nell'albergo; avrebbe ricevuto il suo Nobel, per la Pace, in Norvegia. Peccato perché fra tutti i premiati era quello che più mi
sarebbe piaciuto conoscere e mi avrebbe interessato parlargli. Lo vidi in seguito soltanto in mezzo ai ricevimenti, separati l'uno dall'altro da tre o quattro persone.
Per la grande cerimonia era necessario fare una prova, che il protocollo svedese ci fece rappresentare nello stesso posto in cui si sarebbe svolta quella vera. Era veramente comico vedere gente così seria alzarsi dal proprio letto e uscire dall'albergo ad un'ora precisa;
arrivare puntualmente in un edificio vuoto; salire le scale senza sbagliarsi; camminare a sinistra o a destra in stretta formazione; sedersi sulla predella, proprio nelle sedie che avremmo dovuto occupare il giorno del premio. Tutto questo di fronte alle telecamere, in un'immensa sala vuota, nella quale campeggiavano i sedili del re e della famiglia reale, anch'essi malinconicamente vuoti. Non ho potuto mai capire per quale capriccio la televisione svedese filmasse quel saggio teatrale interpretato da attori così pessimi.
Il giorno della consegna del premio cominciò con la festa di Santa Lucia. Mi svegliarono alcune voci che cantavano dolcemente nei corridoi dell'albergo. Poi le bionde donzelle scandinave, incoronate di fiori e illuminate da candele accese, fecero irruzione nella mia stanza. Mi portavano la colazione e mi portavano anche, in regalo, un lungo e bel quadro che raffigurava il mare.
Un po' più tardi accadde un incidente che mise in moto la polizia di Stoccolma. Nell'ufficio della reception dell'albergo mi consegnarono una lettera. Era firmata dallo stesso anticolonialista sfrenato di Georgetown, Guayana Olandese. « Sono appena arrivato a Stoccolma », diceva. Non era riuscito nel suo proposito di convocare una conferenza stampa però, come uomo d'azione rivoluzionario, aveva preso le sue misure. Non era possibile che Pablo Neruda, il poeta degli umiliati e degli oppressi, ricevesse il Premio Nobel in frac. Di conseguenza, aveva comperato un paio di forbici verdi con le quali mi avrebbe tagliato pubblicamente « le code del frac e qualsiasi altra coda ». « Per questo ho il dovere di avvertirla. Quando lei vedrà un uomo di colore alzarsi in fondo alla sala, provvisto di grandi forbici verdi, deve supporre esattamente quello che le accadrà ».
Passai la strana lettera al giovane diplomatico, rappresentante del protocollo svedese, che mi accompagnava in tutti i miei spostamenti. Gli dissi sorridendo che avevo già ricevuto a Parigi un'altra lettera dallo stesso matto, e che a mio avviso non bisognava prenderlo sul serio. Il giovane svedese non fu d'accordo.
— In questa epoca di contestatori possono accadere le cose più inattese. È mio dovere avvertire la polizia di Stoccolma — mi disse e partì velocemente a compiere quello che considerava il suo dovere.
Devo dire che fra i miei accompagnatori a Stoccolma c'era il venezuelano Miguel Otero Silva, grande scrittore e poeta scintillante, che per me è non solo una grande coscienza americana, ma anche un incomparabile compagno. Mancavano appena alcune ore alla cerimonia. A pranzo commentai la serietà con cui gli svedesi avevano accolto l'incidente della lettera di protesta. Otero Silva, che pranzava con noi, si diede una manata sulla fronte e esclamò:
— Ma se quella lettera te l'ho scritta io di mio pugno, per prenderti in giro, Pablo. Cosa faremo adesso con la polizia che cerca un autore che non esiste?
— Sarai portato in prigione. Per il tuo scherzo pesante di selvaggio del Mar dei Caraibi, riceverai la punizione destinata all'uomo di Georgetown — gli dissi.
In quel momento si sedette alla tavola il mio giovane aiutante di campo svedese che aveva avvertito le autorità. Gli dicemmo come stavano le cose:
— Si tratta di uno scherzo di cattivo gusto. L'autore sta pranzando attualmente con noi.
Uscì di nuovo in fretta. Però la polizia aveva già controllato gli alberghi di Stoccolma, cercando un negro di Georgetown, o di qualsiasi altro territorio simile.
E mantennero le loro precauzioni. Entrando alla cerimonia e uscendo dal ballo di celebrazione, Matilde ed io avvertimmo che, invece degli abituali uscieri, ci si precipitavano incontro quattro o cinque giovanotti, solidi guardaspalla biondi a prova di forbiciate.
La cerimonia rituale del Premio Nobel ebbe un pubblico immenso, tranquillo e disciplinato, che applaudì opportunamente e con cortesia. L'anziano monarca ci stringeva la mano ad ognuno; ci consegnava il diploma, la medaglia e l'assegno; e noi tornavamo al nostro posto sulla scena, non più squallidi come nella prova, ma coperti adesso di fiori e di sedie occupate. Si dice (o lo dissero a Matilde per impressionarla) che il re si trattenne con me più che con gli altri laureati, che mi strinse la mano più a lungo, che mi trattò con evidente simpatia. Forse sarà stata una reminiscenza dell'antica gentilezza di palazzo verso i giullari. Ad ogni modo, nessun altro re mi ha dato la mano, né per poco né per molto tempo.
Quella cerimonia, così rigorosamente protocollare, ebbe indubbiamente la dovuta solennità. La solennità applicata alle occasioni trascendentali sopravviverà forse per sempre nel mondo. Sembra che l'essere umano ne abbia bisogno. Tuttavia io trovai una amena somiglianzà fra quella sfilata di eminenti laureati e una distribuzione di premi scolastici in una piccola città di provincia.
CHILE CHICO
Venivo da Puerto Ibañez, impressionato dal grande lago General Carrera, impressionato da quelle acque metalliche che sono un parossismo della natura, paragonabili soltanto al mare color turchese di Varadero a Cuba, o al nostro Petrohué. E poi il salto selvaggio del fiume Ibañez, indivisibile nella sua terrificante grandezza. Venivo anche affranto dall'isolamento e dalla poverta della gente della regione; vicini all'energia colossale ma sprovvisti di luce elettrica; gente che vive fra le infinite pecore da lana, ma indossa roba povera e rattoppata. Finché giunsi a Chile Chico.
Lì, sul finir del giorno, il grande crepuscolo mi attendeva. Il vento perpetuo tagliava le nubi di quarzo. Fiumi di luce azzurra isolavano un grande blocco che il vento manteneva in sospensione fra cielo e terra.
Terre da allevamento, messi che lottavano sotto la pressione polare del vento. Tutt'intorno la terra si elevava con le torri dure della Rocca Castillo, punte taglienti, guglie gotiche, merli naturali di granito. Le montagne arbitrarie di Aysén, tonde come palle, elevate e lise come tavole, mettevano in mostra rettangoli e triangoli di neve.
E il cielo lavorava il suo crepuscolo con zendali e metalli: scintillava il giallo sulle alture, sostenuto come un uccello immenso dallo spazio puro. Tutto cambiava all'improvviso, si trasformava in bocca di balena, io leopardo fiammeggiante, in luminarie astratte.
Sentii l'immensità dispiegarsi sulla mia testa, e nominarmi testimone dell'abbagliante Aysén, con le sue giogaie, le sue cascate, i suoi milioni di alberi morti e bruciati che accusano i loro antichi omicidi, col silenzio di un mondo che nasce in cui tutto è preparato: le cerimonie del cielo e della terra. Ma mancano il riparo, l'ordine collettivo, l'edificazione, l'uomo. Quelli che vivono in così gravi solitudini hanno bisogno di una solidarietà vasta quanto i loro grandi spazi.
Mi allontanai quando si spegneva il crepuscolo e la notte cadeva, improvvisa e azzurra.
BANDIERE DI SETTEMBRE
II mese di settembre, nel sud del continente latino-americano, è un mese ampio e fiorito. Questo mese è anche pieno di bandiere.
Agli inizi del secolo scorso, nel 1810 e in questo mese di settembre, spuntarono e si consolidarono le insurrezioni contro il dominio spagnolo in numerosi territori dell'America del Sud.
In questo mese di settembre noi americani del sud ricordiamo l'emancipazione, commemoriamo gli eroi, e accogliamo la primavera così dilatata che supera lo stretto di Magellano e fiorisce fino nella Patagonia Australe, fino nel Capo Horn.
Fu molto importante per il mondo la catena ciclica di rivoluzioni che scoppiarono dal Messico fino all'Argentina e al Cile.
I caudillos erano diversi. Bolívar, guerriero e cortigiano, dotato di uno splendore profetico; San Martín, organizzatore geniale di un esercito che attraversò le più alte e ostili cordigliere del pianeta per combattere in Cile le battaglie decisive della sua liberazione; José
Miguel Carrera e Bernardo O'Higgins, (48) creatori dei primi eserciti cileni, oltre che delle prime tipografie e dei primi decreti contro la schiavitù, che fu abolita in Cile molti anni prima che negli Stati Uniti.
José Miguel Carrera, come Bolivar e alcuni altri dei liberatori, provenivano dalla classe aristocratica creola. Gli interessi di questa classe erano in netto contrasto con gli interessi spagnoli in America. Il popolo come organizzazione non esisteva, era formato da una vasta massa di servi agli ordini del dominio spagnolo. Gli uomini come Bolívar e Carrera, lettori degli enciclopedisti, studenti nelle accademie militari di Spagna dovevano attraversare i muri dell'isolamento e dell’ignoranza per arrivare a commuovere lo spirito nazionale.
La vita di Carrera fu breve e folgorante come un lampo. El hùsar desdichado intitolai un vecchio libro di ricordi che io stesso pubblicai qualche anno fa. La sua affascinante personalità attirò i conflitti sulla sua testa come un parafulmine attira le scintille delle tempeste. Alla fine venne fucilato a Mendoza dai governanti della appena dichiarata Repubblica Argentina. I suoi disperati desideri di rovesciare il dominio spagnolo lo avevano messo alla testa degli indios selvatici delle pampas argentine. Assediò Buenos Aires e fu sul punto di prenderla d'assalto. Ma il suo desiderio era liberare il Cile e in questo impegno precipitò guerre e guerriglie civili che lo condussero al patibolo. La rivoluzione in quegli anni turbolenti divorò uno dei suoi figli più brillanti e più valenti. La storia incolpa di questo atto sanguinoso O'Higgins e San Martín. Ma la storia di questo mese di settembre, mese di primavera e di bandiere, copre con le sue ali il ricordo dei tre protagonisti di questi combattimenti svoltisi nel vasto scenario delle immense pampas e delle nevi eterne.
O'Higgins, un altro dei liberatori del Cile, fu un uomo modesto. La sua vita sarebbe stata oscura e tranquilla se non si fosse incontrato a Londra, quando aveva appena diciassette anni di età, con un vecchio rivoluzionario che girava per tutte le corti d'Europa cercando aiuti alla causa dell'emancipazione americana. Si chiamava don Francisco de Miranda, (49) e fra gli altri amici potè contare sul potente affetto della imperatrice Caterina di Russia. Con passaporto russo giunse a Parigi e entrava ed usciva dai ministeri degli esteri di tutta l'Europa.
È una storia romantica con una tale aria d'« epoca » che sembra un'opera. O'Higgins era figlio naturale di un viceré spagnolo, soldato di ventura, di ascendenza irlandese, che fu governatore del Cile. Miranda si arrangiò per controllare l'origine di O'Higgins, quando capì
l’utilità che quel giovane poteva avere nell'insurrezione nelle colonie americane della Spagna. È stato narrato il momento preciso in cui rivelò al giovane O'Higgins iI segreto della sua origine e lo spinse all'azione insurrezionale. Il giovane rivoluzionario cadde in ginocchio e abbracciando Miranda fra i singhiozzi si impegnò a partire immediatamente per la sua patria, il Cile, per capeggiare qui gli insorti contro il potere spagnolo. O'Higgins fu colui che ottenne le vittorie finali contro il sistema coloniale e viene considerato come il fondatore della nostra repubblica.
Miranda, prigioniero degli spagnoli, morì nel terribile presidio de La Carraca, a Cadice. Il corpo di questo generale della Rivoluzione francese e professore di rivoluzionari, fu avvolto in un sacco e gettato in mare dall'alto del presidio.
San Martín, esiliato dai suoi compatrioti, morì a Boulogne, in Francia, vecchio e solo.
O'Higgins, liberatore del Cile, morì in Perù, lontano da tutto quello che amava, proscritto dalla classe latifondista, che si impadronì prontamente della rivoluzione.
Poco tempo fa, di passaggio per Lima, ho visto nel Museo Storico del Perù alcuni quadri dipinti dal generale O'Higgins negli ultimi anni della sua vita. Tutti quei quadri hanno per tema il Cile. Dipingeva la primavera del Cile, le foglie e i fiori del mese di settembre.
In questo mese di settembre mi son messo a ricordare i nomi, i fatti, gli amori e i dolori di quell'epoca di insurrezioni. Un secolo dopo i popoli si agitano di nuovo, e una corrente tumultuosa di vento e di furia muove le bandiere. Tutto è cambiato da quegli anni lontani, ma la storia continua il suo corso e una nuova primavera popola gli interminabili spazi della nostra America.
PRESTES
Nessun dirigente comunista d'America ha avuto una vita così rischiosa e portentosa come Luis Carlos Prestes. Eroe militare e politico del Brasile, la sua verità e la sua leggenda hanno superato da tempo le restrizioni ideologiche, ed egli si è trasformato in un'incarnazione vivente degli eroi antichi.
Per questo, quando ricevetti a Isla Negra un invito a visitare il Brasile e a conoscere Prestes, l'accettai senza esitazione. Seppi, poi, che non c'erano altri invitati stranieri e questo mi lusingò. Sentii che in un certo modo partecipavo ad una resurrezione.
Prestes era stato appena rimesso in libertà dopo oltre dieci anni di prigione. Il mio compagno, il poeta Nazim Hikmet, trascorse tredici o quattordici anni in una prigione della Turchia. Anche adesso, quando scrivo questi ricordi, sono già dodici anni che sei o sette
comunisti del Paraguay sono sepolti vivi, senza alcun contatto con il mondo. La moglie di Prestes, tedesca di origine, fu consegnata dalla dittatura brasiliana alla Gestapo. I nazisti la incatenarono sulla nave che la portava al martirio. Dette alla luce una bambina che oggi vive con suo padre, strappata dai denti della Gestapo da quell'instancabile donna che era la madre del dirigente, dona Leocadia Prestes. Quindi, dopo aver partorito nel cortile di una prigione, la moglie di Luis Carlos Prestes fu decapitata dai nazisti. Tutte queste vite martirizzate han fatto sì che Prestes non fosse mai dimenticato durante i suoi lunghi anni di prigione.
Mi trovavo in Messico quando morì sua madre, dona Leocadia Prestes. Aveva percorso mezzo mondo per chiedere la liberazione di suo figlio. Il generale Labaro Cardenas, ex presidente della Repubblica Messicana, telegrafò al dittatore brasiliano chiedendo per Prestes qualche giorno di libertà per poter assistere al funerale di sua madre. Il presidente Cardenas, nel suo messaggio, garantiva con la sua persona il ritorno di Prestes in galera. Getulio Vargas (50) rispose di no.
Condivisi l'indignazione di tutti e scrissi una poesia in onore di dona Leocadia, in ricordo del suo figlio assente e in esecrazione del tiranno.
La lessi vicino alla tomba della nobile signora che invano aveva bussato alle porte del mondo per liberare suo figlio. La mia poesia iniziava sobriamente:
Signora, hai fatto grande, più grande la nostra America.
Le hai dato un fiume puro di colossali acque:
le hai dato un albero grande di infinite radici:
un figlio tuo degno della sua patria profonda.
Però, man mano che la poesia continuava diventava più violenta contro il despota brasiliano. (51)
Continuai a leggerla dappertutto e fu riprodotta in volantini e in cartoline postali che fecero il giro del continente.
Una volta, di passaggio per Panama, la inclusi in uno dei miei recital, dopo aver letto le mie poesie d'amore. La Sala era strapiena e il calore dell'istmo mi faceva traspirare. Cominciavo a leggere le mie imprecazioni contro il presidente Vargas quando mi si seccò la gola. Mi fermai e allungai la mano verso un bicchiere che era lì a portata. In quel momento vidi una persona vestita di bianco che si avvicinava in fretta verso la tribuna. Io, credendo che si trattasse di un impiegato subalterno della sala, gli tesi il bicchiere perché me lo riempisse di acqua. Ma l'uomo vestito di bianco lo respinse indignato e rivolto ai presenti gridò nervosamente: « Sono l'ambasciatore del Brasile. Protesto perché Prestes è soltanto un delinquente comune... »
A queste parole, il pubblico lo interruppe con fischi fragorosi. Un giovane studente di colore, grosso come un armadio, sorse dal mezzo della sala e, con le mani dirette pericolosamente alla gola dell'ambasciatore, si fece largo verso la tribuna. Io accorsi per proteggere il diplomatico e per fortuna riuscii a farlo uscire dalla sala senza ulteriore detrimento per la sua investitura.
Con questi precedenti, il mio viaggo da Isla Negra al Brasile per prender parte alla gioia popolare, sembrò naturale ai brasiliani. Rimasi sorpreso quando vidi la folla che gremiva lo stadio di Pacaembù, a San Paolo. Dicono che c'erano più di centotrentamila persone. Le
teste apparivano piccolissime dentro il vasto cerchio. Accanto a me Prestes, piccolo di statura, mi sembrò un Lazzaro appena uscito dalla tomba, pulito e agghindato per l'occasione. Era asciutto e bianco fin alla trasparenza, con quella bianchezza strana dei carcerati. Il suo sguardo intenso, le sue grandi occhiaie violetto, i suoi delicatissimi tratti, la sua grave dignità tutto ricordava il lungo sacrificio della sua vita. Eppure parlò con la serenità di un generale vittorioso.
Io lessi una poesia in suo onore che avevo scritto poche ore prima. Jorge Amado le cambiò soltanto la parola muratori con quella portoghese « pedreiros ». Malgrado i miei timori, la mia poesia letta in spagnolo fu capita dalla folla. Ad ogni riga della mia lenta lettura esplose l'applauso dei brasiliani. Quegli applausi ebbero una profonda risonanza nella mia poesia. Un poeta che legge i suoi versi davanti a centotrentamila persone non è più lo stesso, non può scrivere allo stesso modo dopo quella esperienza. (52)
Alla fine mi trovo faccia a faccia con il leggendario Luis Carlos Prestes. Mi sta aspettando nella casa di alcuni amici suoi. Tutti i tratti di Prestes — la sua piccola statura, la sua magrezza, la sua bianchezza di carta trasparente — acquistano una precisione da miniatura. Anche le sue parole, e forse il suo pensiero, sembrano adattarsi a questa rappresentazione esteriore.
Per quanto riservato come al solito, è molto cordiale con me. Credo che mi dispensi quell'atteggiamento affettuoso che spesso riceviamo noi poeti, una condiscendenza fra il tenero e l'evasivo, molto simile a quella che adottano gli adulti quando parlano con i bambini.
Prestes mi invitò a pranzo per un giorno della settimana seguente. Allora mi capitò una di quelle catastrofi attribuibili solo al destino o alla mia irresponsabilità. Si da il caso che la lingua portoghese, pur avendo il suo sabato e la sua domenica, non indica gli altri giorni della settimana come lunedì, martedì, mercoledì, ecc., ma con le diaboliche denominazioni di segonda feira, tersa feira, quarta feira, saltando la prima feira per completare la serie. Io mi confondo completamente in queste feiras, e non so mai di che giorno si tratta.
Me ne andai a trascorrere alcune ore sulla spiaggia con una bella amica brasiliana, ricordando a me stesso ogni momento che il giorno dopo Prestes mi aveva dato appuntamento per il pranzo. La quarta feira scoprii che Prestes mi aveva aspettato la tersa feira inutilmente con la tavola imbandita mentre trascorrevo le ore sulla spiaggia di Ipanema. Mi cercò dappertutto senza che nessuno sapesse dove fossi. L'ascetico capitano aveva fatto venire, in omaggio alle mie predilezioni, vini eccellenti che era molto difficile trovare in Brasile. Avremmo pranzato noi due soli.
Ogni volta che mi ricordo di questa storia, vorrei morire di vergogna. Tutto ho potuto imparare nella mia vita, meno i nomi dei giorni della settimana in portoghese.
CODOVILA
Partendo da Santiago seppi che Vittorio Codovila (59) voleva parlarmi. Andai a trovarlo. Ho sempre avuto rapporti di buona amicizia con lui. Fino alla sua morte.
Codovila era stato un rappresentante della III Internazionale e aveva tutti i difetti dell'epoca. Era personalista, autoritario, e credeva di avere sempre ragione. Imponeva facilmente il suo punto di vista e entrava nella volontà degli altri come un coltello nel
burro. Arrivava all'ultimo momento alle riunioni e dava la sensazione di avere già pensato e risolto tutto. Sembrava che ascoltasse per cortesia e con una certa impazienza le opinioni altrui; quindi dava le sue istruzioni perentorie. La sua capacità era immensa, il suo potere di sintesi impressionante. Lavorava in modo assolutamente instancabile e imponeva il suo ritmo ai compagni. Mi ha sempre dato l'idea di essere una grande macchina del pensiero politico di quei tempi.
Nei miei confronti ebbe sempre un sentimento molto speciale di comprensione e deferenza. Questo italiano, emigrato e utilitario nella vita civile, era straordinariamente umano, con un profondo senso artistico che gli permetteva di capire gli errori, le debolezze negli uopini di cultura. Questo non gli impediva di essere implacabile — e a volte funesto — nella vita politica.
Era preoccupato, mi disse, della incomprensione di Prestes rispetto alla dittatura peronista. Codovila pensava che Perón e il suo movimento erano un prolungamento del fascismo europeo. Nessun antifascista poteva accettare passivamente la crescita di Perón né le sue ripetute azioni repressive. Codovila e il partito comunista argentino pensavano in quel momento che l'unica risposta a Perón fosse l'insurrezione.
Codovila voleva che io parlassi di questo con Prestes. Non si tratta di una missione, mi disse; ma lo sentii preoccupato pur in quella sicurezza in se stesso che lo caratterizzava.
Dopo la manifestazione di Pacaembù parlai a lungo con Prestes. Non si potevano trovare due uomini più diversi, più agli antipodi. L'italoargentino, voluminoso e traboccante, dette sempre la sensazione di occupare tutta la stanza, tutta la tavola, tutto l'ambiente. Prestes, allampanato e ascetico, sembrava così fragile che un soffio di vento avrebbe potuto portarselo per la finestra.
Tuttavia, mi resi conto che dietro le apparenze i due uomini erano altrettanto duri, l'uno come l'altro.
« Non c'è fascismo in Argentina; Perón è un caudillo, ma non un capo fascista », mi disse Prestes rispondendo alle mie domande. « Dove sono le camicie brune? Le camicie nere? Le milizie fasciste? »
« Inoltre, Codovila si sbaglia. Lenin dice che non si gioca all'insurrezione. E non si può annunciare una guerra senza soldati, se si conta soltanto sugli spontanei. »
Questi due uomini così diversi erano, in fondo, irriducili. Uno di loro, probabilmente Prestes, aveva ragione in queste cose, ma il dogmatismo di entrambi, di questi due rivoluzionari ammirevoli, produceva spesso attorno ad essi un'atmosfera che a me sembrava irrespirabile.
Devo aggiungere che Codovila era un uomo vitale. A me piaceva molto la sua lotta contro la bigotteria e il puritanesimo di un'epoca comunista. Il nostro grande uomo cileno dei vecchi tempi del partito, Lafferte, era contro l'alcoolismo fino all'ossessione. Il vecchio Lafferte grugniva anche spessissimo con gli amori e amorazzi che nascevano fuori dal Registro Civile, fra compagni e compagne del partito. Codovila sconfìggeva il nostro limitato maestro con la sua ampia vitalità.
STALIN
Molta gente ha creduto che io sia o sia stato un uomo politico importante. Non so da dove abbiano tirato fuori una così illustre leggenda. Una volta vidi, con candida sorpresa, una foto mia, piccola come un francobollo, compresa nelle due pagine della rivista « Life » che mostravano ai lettori i capi del comunismo mondiale. La mia effigie, messa fra Prestes e Mao
Tse Tung, mi sembrò uno scherzo divertente, ma non chiarii niente perché ho sempre detestato le lettere di smentita. Del resto, era abbastanza divertente che la CIA si sbagliasse, nonostante i suoi cinque milioni di agenti che mantiene nel mondo.
Il più lungo contatto che ho avuto con un dirigente importante del mondo socialista è stato durante la nostra visita a Pechino. Consistette in un brindisi che scambiai con Mao Tse Tung, nel corso di una cerimonia. Quando i nostri bicchieri si toccarono mi guardò con occhi sorridenti, e un largo sorriso fra il simpatico e l'ironico. Trattenne la mia mano nella sua, stringendomela per alcuni secondi più del solito. Quindi tornai al tavolo da dove ero partito.
Nelle mie numerose visite in URSS non ho mai visto Molotov, né Vishinski, né Beria; e neppure Mikoian, né Litvinov, personaggi questi ultimi più socievoli e meno misteriosi degli altri.
Stalin l'ho visto più di una volta, sempre nello stesso punto: la tribuna che sulla Piazza Rossa si eleva piena di dirigenti ad alto livello, il primo maggio e il sette novembre di ogni anno. Ho trascorso lunghe ore al Cremlino, come membro del comitato dei premi che portavano il nome di Stalin, senza che ci incontrassimo mai in un corridoio; senza che lui venisse mai a trovarci nelle nostre delibere o ai nostri pranzi, senza che ci chiamasse per salutarci. I premi furono sempre concessi all'unanimità, ma ci fu più di una serrata discussione prima della scelta del candidato. Io ho avuto sempre l'impressione che qualcuno della segreteria della giuria, prima che si prendessero le decisioni finali, coresse con gli accordi a vedere se il grande uomo li fatificava. Ma in verità non ricordo che si sia mai ricevuta un'obiezione da parte sua; tantomeno ricordo che, nonostante la sua percettibile prossimità, desse a vedere di essere al corrente della nostra presenza. Decisamente, Stalin coltivava il mistero come sistema o era un gran timido, un uomo prigioniero di se stesso. È probabile che questa caratteristica abbia contribuito all'influenza preponderante che Beria ebbe su di lui. Beria era l'unico che entrava e usciva senza farsi annunciare dagli appartamenti di Stalin.
Eppure, in un'occasione ho avuto una relazione inattesa, che ancora oggi mi sembra insolita, con l'uomo misterioso del Cremlino. Ero diretto a Mosca con gli Aragon — Louis e Elsa — per partecipare alla riunione che avrebbe assegnato quell'anno i premi Stalin. Una grossa nevicata ci bloccò a Varsavia. Ormai non saremmo giunti in tempo all'appuntamento. Uno dei nostri accompagnatori sovietici si occupò di trasmettere in russo, a Mosca, le candidature proposte da Aragon e da me e che, naturalmente, furono approvate nella riunione. Ma la cosa curiosa è che il sovietico che ricevette la risposta telefonica, mi prese da parte e mi disse sorpreso:
— Congratulazioni, compagno Neruda. Il compagno Stalin, quando gli hanno sottoposto la lista dei probabili premiati, ha esclamato: « E perché non c'è il nome di Neruda fra questi qui? »
L'anno seguente ricevevo il Premio Stalin per la Pace e l'Amicizia fra i Popoli. È probabile che io lo meritassi, però mi domando come quell'uomo remoto sia venuto a sapere della mia esistenza.
Seppi a quell'epoca di altri interventi analoghi di Stalin. Quando infuriava la campagna contro il cosmopolitismo, quando i settari del « collo duro » chiedevano la testa di Ehrenburg, squillò il telefono una mattina nella casa dell'autore di Julio Jurenito. Rispose Luba. Una voce vagamente sconosciuta chiese:
— C'è IIya Grigorievich?
— Dipende — rispose Luba. — Chi è lei?
— Parla StaHn — disse la voce.
— Ilya, c'è uno spiritoso per te — disse Luba a Ehrenburg.
Ma una volta al telefono, lo scrittore riconobbe la voce di Stalin, tanto udita da tutti:
— Ho passato la notte a leggere il suo libro La caduta di Parigi. La chiamavo per dirle di continuare a scrivere molti libri così interessanti, caro Ilya Grigorievich.
Forse questa inattesa chiamata telefonica ha reso possibile la lunga vita del grande Ehrenburg.
Un altro caso. Majakovski era già morto, ma i suoi recalcitranti e reazionari nemici attaccavano con le unghie e con i denti la memoria del poeta, decisi a cancellarlo dalla mappa della letteratura sovietica. Allora accadde un fatto che mandò all'aria quei propositi. La sua amica Lily Brick scrisse una lettera a Stalin per denunciare quanto fossero svergognati questi attacchi e argomentando appassionatamente a difesa della poesia di Majakovski. Gli aggressori si credevano al riparo, protetti dalla loro mediocrità associativa. Rimasero con tanto di naso. Stalin scrisse a margine della lettera di Lily Brick: « Majakovski è il migliore
poeta dell'era sovietica ».
A partire da quel momento sorsero musei e monumenti in onore di Majakovski e proliferarono le edizioni della sua straordinaria poesia. Gli avversari rimasero fulminati e inerti di fronte a quello squillo di tromba di Jehova.
Seppi anche che alla morte di Stalin fu trovata fra le sue carte una lista che diceva: «Non toccare» scritta di SUQ pugno. Questa lista cominciava col musicista Shostakovich e seguivano altri nomi eminenti: Eisenstein, Pasternak, Ehrenburg, ecc.
Molti mi hanno creduto un convinto staliniano. Fascisti e reazionari mi hanno dipinto come un esegeta lirico di Stalin. Nulla di ciò mi irrita in particolare. Tutte le conclusioni sono possibili in un'epoca diabolicamente confusa.
L'intima tragedia per noi comunisti è stata di renderci conto che, su diversi aspetti del problema di Stalin, il nemico aveva ragione. A questa rivelazione che scosse l'anima, seguì un doloroso stato di coscienza. Alcuni si sentirono ingannati; accettarono violentemente la ragione del nemico; passarono nelle sue file. Altri pensarono che i fatti spaventosi, rivelati impiacabilmente dal XX Congresso, servivano per dimostrare la saldezza di un partito comunista che sopravviveva mostrando al mondo la verità storica e accettando le sue responsabilità.
Per quanto sia vero che quella responsabilità ci riguardasse tutti, il fatto di denunciare quei crimini ci rimandava all'autocritica e all'analisi — elementi essenziali della nostra dottrina — e ci dava le armi per impedire che cose tanto orribili potessero ripetersi.
Questa è stata la mia posizione: al di sopra delle tenebre, a me ignote, all'epoca staliniana, si ergeva davanti ai miei occhi il primo Stalin, un uomo di principi e bonaccione, sobrio come un anacoreta, titanico difensore della rivoluzione russa. Inoltre, questo piccolo uomo dai grandi baffi si ingigantì nella guerra; col suo nome sulle labbra, l'Esercito Rosso attaccò e polverizzò la fortezza dei demoni hitleriani.
Ad ogni modo, ho dedicato una sola delle mie poesie a quella poderosa personalità. È stato in occasione della sua morte. Chiunque la può trovare nelle edizioni delle mie opere complete. La morte del ciclope del Cremlino ebbe una risonanza cosmica. Trasalì la selva umana. La mia poesia captò la sensazione di quel panico terrestre. (54)
LEZIONE DI SEMPLICITÀ
Gabriel García Marquez mi riferì, molto offeso, che gli avevano soppresso a Mosca alcuni passaggi erotici del suo meraviglioso libro Cien anos de soledad.
— Non sta affatto bene — dissi io agli editori.
— Il libro non perde nulla — mi risposero, e mi resi conto che lo avevano potato senza cattiveria. Però lo avevano potato.
Come regolare queste cose? Sono sempre meno sociologo. A parte i principi generali del marxismo, a parte la mia antipatia per il capitalismo e la mia fiducia nel socialismo, capisco sempre di meno la tenace contraddizione dell'umanità.
Noi poeti di quest'epoca abbiamo dovuto fare delle scelte. La scelta non è stata un letto di rose. Le terribili guerre ingiuste, le conunue pressioni, l'aggressione del denaro, tutte le ingiustizie si sono fatte più evidenti. Gli ami del sistema invecchiato sono stati la «libertà» condizionata, la sessualità, la violenza e i piaceri pagati a rate mensili.
Il poeta del presente ha cercato una via d'uscita al suo naufragio. Alcuni se la sono svignata verso il misticismo, o verso il sogno della ragione. Altri si sentono affascinati dalla violenza spontanea e distruttrice della gioventù; sono diventati immediatisti, senza pensare che questa esperienza, nel belligerante mondo attuale, ha condotto sempre alla repressione e al supplizio sterile.
Ho trovato nel mio partito, il partito comunista cileno, un gruppo grande di gente semplice, che aveva lasciato molto lontano la vanità personale, il caudillismo, gli interessi materiali. Sono stato felice di conoscere gente onesta che lottava per il rispetto comune, vale a dire, per la giustizia.
Non ho mai avuto difficoltà col mio partito, che con la sua modestia ha conquistato straordinarie vittorie per il popolo del Cile, il mio popolo. Che altro posso dire? Non aspiro ad altro se non ad essere semplice come i miei compagni; così ostinato e invincibile come loro. Non si impara mai abbastanza dall'umiltà. Non mi ha mai insegnato nulla l'orgoglio individualista che si incastella nello scetticismo per non essere solidale con la sofferenza umana,
FIDEL CASTRO
Due settimane dopo il suo vittorioso ingresso all'Avana, Fidel Castro arrivò a Caracas per una breve visita. Veniva a ringraziare pubblicamente il governo e il Popolo venezuelani per l'aiuto che gli avevano dato. Questo aiuto era consistito in armi per le sue truppe, e non era stato naturalmente Betancourt (55) (appena eletto Presidente) a darlo, ma il suo predecessore, l'ammiraglio Wolfgang Larrazabal. Larrazabal era stato amico delle sinistre venezuelane, compresi i comunisti, aveva partecipato alla manifestazione di solidarietà
con Cuba che questi gli avevano chiesto.
Ho visto poche accoglienze politiche più calorose di quella che tributarono i venezuelani al giovane vincitore della rivoluzione cubana. Fidel parlò quattro ore di fila nella grande piazza di El Silencio, il cuore di Caracas. Io ero una delle duecentomila persone che
ascoltarono in piedi e senza fiatare quel lungo discorso. Per me, come per molti altri, i discorsi di Fidel sono stati una rivelazione. Sentendolo parlare davanti a quella folla, capii che un'epoca nuova era cominciata per l'America Latina. Mi piacque la novità del suo linguaggio. I migliori dirigenti operai e politici hanno l'abitudine di masticare formule il cui contenuto può
essere valido, ma son parole consumate e indebolite dalla ripetizione. Fidel sembrava che ignorasse quelle formule. Il suo linguaggio era naturale e didattico. Sembrava che lui stesso andasse imparando mentre parlava e insegnava.
Il presidente Betancourt non era presente. Lo spaventava l'idea di affrontare la città di Caracas, dove non fu mai popolare. Ogni volta che Fidel Castro lo nominò nel suo discorso si udirono immediatamente fischi e proteste che le mani di Fidel cercavano di far tacere. Credo che quel giorno si sigillò un'inimicizia definitiva fra Betancourt e il rivoluzionario cubano. Fidel non era marxista né comunista a quell'epoca; le sue stesse parole erano molto distanti da quella posizione politica. La mia idea personale è che quel discorso, la personalità focosa e brillante di Fidel, l'entusiasmo che suscitava nella folla, la passione con cui il popolo di Caracas lo ascoltava, rattristarono Betancourt, uomo politico vecchio stile, di retorica, comitati
e conciliaboli. Da allora Betancourt ha perseguitato con implacabile ostinazione tutto quanto da vicino o da lontano sappia di Fidel Castro o della rivoluzione cubana.
Il giorno dopo la manifestazione, mentre mi trovavo in campagna per il picnic domenicale, arrivarono fino a noi alcune motociclette che mi portavano un invito per l'ambasciata cubana. Mi avevano cercato tutto il giorno e alla fine avevano scoperto dove stavo. Il ricevimento era per lo stesso pomeriggio. Matilde ed io partimmo direttamente alla volta della sede dell'ambasciata. Gli invitati erano tanti che non ci stavano nei saloni e nei giardini. Fuori si accalcava il popolo ed era difficile attraversare le strade che conducevano all'edifìcio.
Attraversammo saloni affollati di gente, una trincea di braccia con bicchieri di cocktail in alto. Qualcuno ci condusse per dei corridoi e per delle scale a un altro piano. In un posto inatteso ci stava aspettando Celia, l'amica e segretaria più vicina di Fidel. Matilde rimase con lei. A me mi fecero entrare nella stanza vicina. Mi trovai in una stanza da letto subalterna, come di giardiniere o di autista. C'era soltanto un letto dal quale qualcuno si era alzato precipitosamente, lasciando le lenzuola in disordine e un cuscino in terra. Un tavolino in un angolo e nient'altro. Pensai che da lì mi avrebbero fatto passare in qualche salottino decente per incontrarmi con il comandante. Ma non fu così. D'un tratto si aprì la porta e Fidel Castro riempì il buco con la sua statura.
Mi superava di una testa. Si diresse con passi rapidi verso di me.
— Salve, Pablo! — mi disse e mi sommerse in un abbraccio forte e prolungato.
Mi sorprese la sua voce sottile, quasi infantile. C'era anche qualcosa nel suo aspetto che concordava col tono della sua voce. Fidel non dava l'impressione di un uomo adulto, ma quella di un bambino adulto al quale si fossero allungate all'improvviso le gambe senza perdere la sua faccia di piccino e la sua scarsa barba da adolescente.
D'un tratto interruppe l'abbraccio bruscamente. Era come galvanizzato. Si girò su se stesso e si diresse verso un angolo della stanza. Senza che io me ne fossi reso conto era entrato silenziosamente un fotografo della stampa e da quell'angolo rivolgeva la sua macchina fotografica verso di noi. Fidel gli fu addosso con un balzo. Vidi che lo aveva afferrato per la gola e lo scuoteva. La macchina fotografica cadde a terra. Mi avvicinai a Fidel e lo presi per un braccio, spaventato alla vista del minuscolo fotografo che si dibatteva inutilmente. Ma Fidel gli dette una spinta fino alla porta e lo costrinse a scomparire. Quindi si rivolse verso di me sorridendo, raccolse la macchina da terra e la gettò sul letto.
Non parlammo dell'incidente, ma delle possibilità di un'agenzia stampa per l'intera America. Credo che in quella conversazione nacque « Prensa Latina ». Quindi ognuno per la sua porta, tornammo al ricevimento.
Un'ora dopo, di ritorno dall'ambasciata in compagnia di Matilde, mi vennero in mente la faccia terrorizzata del fotografo e la rapidità istintiva del capo guerrigliero che aveva avvertito di spalle il silenzioso arrivo dell'intruso.
Questo fu il mio primo incontro con Fidel Castro. Perché respinse in modo così deciso quella fotografia? Racchiudeva il suo rifiuto un piccolo mistero politico? Fino ad ora non sono riuscito a capire perché il nostro incontro doveva avere un carattere così segreto.
Molto diverso fu il mio primo incontro con il Che Guevara. Avvenne all'Avana. Verso l'una di notte andai a trovarlo, invitato da lui nel suo ufficio del Ministero delle Finanze o dell'Economia, non ricordo esattamente. Mi aveva dato appuntamento per mezzanotte, ma io
arrivai in ritardo. Avevo partecipato ad una manifestazione ufficiale interminabile e mi avevano fatto sedere alla presidenza.
Il Che portava stivali, uniforme da campagna e pistola alla cintura. Il suo abbigliamento non era intonato all'ambiente bancario dell'ufficio.
Il Che era bruno, lento nel parlare, con indubbio accento argentino. Era un uomo con cui conversare piano, nella pampa, fra mate e mate. Le sue frasi erano brevi e terminavano in un sorriso, come se lasciassero il commento per aria.
Mi lusingò quanto mi disse del mio libro Canto general. Era solito leggerlo la notte ai suoi guerriglieri, sulla Sierra Maestra. Adesso, dopo tanti anni, rabbrividisco al pensiero che i miei versi lo accompagnarono anche alla morte. Da Régis Debray ho saputo che sulle montagne di Bolivia conservò fino all'ultimo momento nel suo zaino solo due libri: un testo di aritmetica e il mio Canto general.
Quella notte il Che mi disse qualcosa che mi disorientò abbastanza ma che forse spiega in parte il suo destino. Il suo sguardo andava dai miei occhi alla finestra oscura del recinto bancario. Parlavamo di un'eventuale invasione nordamericana a Cuba. Io avevo visto
Per le strade dell'Avana sacchi di sabbia disseminati nei punti strategici. Lui disse all'improvviso:
— La guerra... La guerra... Siamo sempre contro la guerra, però quando l'abbiamo fatta non possiamo vivere senza la guerra. Ad ogni momento vogliamo tornare ad essa.
Rifletteva ad alta voce e per me. Io lo ascoltai con sincero stupore. Per me la guerra è una minaccia e non un destino.
Ci salutammo e non l'ho più rivisto. Quindi ebbero luogo la sua lotta nella selva boliviana e la sua tragica morte. Ma io continuo a vedere nel Che Guevara quell'uomo meditativo che nelle sue eroiche battaglie destinò sempre, accanto alle sue armi, un posto per la poesia.
All'America Latina piace molto la parola « speranza ». Ci piace che ci chiamino «continente della speranza». I candidati a deputati, a senatori, a presidenti, si autodefiniscono «candidati della speranza».
In realtà questa speranza è qualcosa come il cielo promesso, una promessa di pagamento la cui esecuzione viene sempre rinviata. Viene rinviata per il prossimo anno o per il prossimo secolo.
Quando si produsse la rivoluzione cubana, milioni di sudamericani ebbero un brusco risveglio. Non credevano alle proprie orecchie. Questo non c'era nei libri di un continente che è vissuto disperatamente pensando alla speranza.
Ed ecco che ad un tratto Fidel Castro, un cubano che prima nessuno conosceva, afferra la speranza per i capelli o per i piedi, e le impedisce di volar via, anzi te mette seduta sulla sua tavola, cioè, sulla tavola e nella casa dei popoli d'America.
Da allora siamo andati molto avanti per questa strada della speranza divenuta realtà. Ma viviamo con l'anima appesa ad un filo. Un paese vicino, molto potente e molto imperialista, vuole schiacciare Cuba con la speranza e tutto il resto. Le masse d'America leggono tutti i giorni il giornale, ascoltano la radio tutte le sere. E sospirano di soddisfazione. Cuba esiste. Un altro giorno. Un altro anno. Un altro lustro. La nostra speranza non è stata decapitata. Non sarà decapitata.
LA LETTERA DEI CUBANI
Da tempo gli scrittori peruviani, fra i quali ho sempre contato molti amici, facevano pressioni perché mi fosse assegnata nel loro paese una decorazione ufficiale. Confesso che le decorazioni mi son sempre sembrate un po' ridicole. Le poche che avevo me le attaccarono al petto senza alcun amore, per funzioni svolte, per permanenze consolari, vale a dire, per obbligo o routine. Passai una volta per Lima, e Ciro Alegria, (56) il grande romanziere de Los perros lambrientos, che era allora presidente degli scrittori peruviani, insistette perché io fossi decorato nella sua patria. La mia poesia «Alture di Macchu Picchu » era diventata parte della vita peruviana; forse sono riuscito ad esprimere in quei versi alcuni sentimenti che giacevano addormentati come le pietre della grande costruzione. Inoltre, il presidente peruviano di quel momento, l'architetto Belaunde, (57) era mio amico e mio lettore. Anche se la rivoluzione che in seguito lo espulse dal paese con la violenza diede al Perù un governo inaspettatamente aperto alle nuove vie della storia, continuo a credere che l'architetto Belaunde fu un uomo di immacolata onestà, impegnato in compiti un pò chimerici che alla fine lo separarono dalla terribile realtà, lo isolarono dal suo popolo che così profondamente amava.
Accettai di essere decorato, questa volta non per i miei servigi consolari, ma per una delle mie poesie. Inoltre, e questa non fu l'ultima ragione, fra i popoli del Cile e del Perù ci sono ancora delle ferite aperte. Non solo gli sportivi e i diplomatici e gli statisti debbono impegnarsi ad asciugare questo sangue del passato, ma anche e a maggior ragione i poeti, le cui anime hanno meno frontiere di quelle degli altri. (58)
In quello stesso periodo feci un viaggio negli Stati Uniti. Si trattava di un congresso del Pen Club mondiale. Fra gli invitati c'erano i miei amici Arthur Miller, gli argentini Ernesto Sábato e Victoria Ocampo, il critico uruguayano Emir Rodríguez Monegal, il romanziere messicano Carlos Fuentes. Vi parteciparono anche scrittori di quasi tutti i paesi socialisti d'Europa.
Mi informarono al mio arrivo che gli scrittori cubani erano stati ugualmente invitati. Al Pen Club erano sorpresi perché non era arrivato Carpentier e mi pregarono di cercare di chiarire la cosa. Mi rivolsi al rappresentante di « Prensa Latina » a New York, che si offrì
di trasmettere un messaggio per Carpentier.
La risposta, attraverso « Prensa Latina », fu che Carpentier non poteva venire perché l'invito era arrivato troppo tardi e i visti nordamericani non erano ancora pronti. Qualcuno mentiva in quella occasione: i visti erano stati concessi da tre mesi, come pure erano tre mesi che i cubani erano al corrente dell'invito e l'avevano accettato. Si capisce che ci fu una decisione superiore per non partecipare, all'ultimo momento.
Io svolsi il mio lavoro di sempre. Diedi il mio primo recital di poesia a New York, con un tale pienone che dovettero mettere degli apparecchi televisivi fuori del teatro affinchè vedessero e sentissero alcune migliaia di persone che non avevano potuto entrare. Mi commosse l'eco che le mie poesie, violentemente antimperialiste, suscitavano in quella folla nordamericana. Capii molte cose lì, e a Washington, e in California, quando gli studenti e la gente comune manifestava la sua approvazione alle mie parole di condanna dell'imperialismo. Ebbi la conferma a bruciapelo che i nemici nordamericani dei nostri popoli erano altrettanto nemici del popolo nordamericano.
Mi fecero alcune interviste. La rivista « Life » in spagnolo, diretta da latinoamericani avventizi, deformò e mutilò le mie opinioni. Non rettificarono quando glielo chiesi. Ma non era niente di grave. Avevano soppresso un paragrafo dove io condannavo quanto accadeva in
Vietnam e un altro su un dirigente nero assassinato in quei giorni.
Solo anni dopo la giornalista che redasse l'intervista confermò che era stata censurata.
Seppi, durante la mia visita — e questo fa onore ai miei compagni scrittori nordamericani — che essi avevano esercitato una pressione irriducibile perché mi fosse concesso il visto d'ingresso negli Stati Uniti. Mi pare che arrivarono a minacciare il Dipartimento di Stato di emettere un comunicato di critica del Pen Club, se avesse continuato a rifiutare il mio permesso di entrata. In una riunione pubblica, nella quale veniva premiata la personalità più rispettata della poesia nord-americana, l'anziana poetessa Marianne Moore (59) che morì molti mesi dopo, lei prese la parola per rallegrarsi del fatto che si fosse riusciti ad ottenere il mio ingresso legale nel paese grazie all'unità dei poeti. Mi han detto che le sue parole, vibranti e commoventi, furono oggetto di una grande ovazione.
È vero ed è inaudito che dopo quel giro, caratterizzato dalla mia attività politica e poetica più combattiva, gran parte della quale fu dedicata alla difesa e all'appoggio della rivoluzione cubana, ricevetti, appena rientrato in Cile, la celebre e maligna lettera degli scrittori cubani tendente ad assicurarmi poco meno che di sottomissione e di tradimento. Non mi ricordo più i termini adoperati dai miei accusatori. Ma posso dire che si atteggiavano a professori delle rivoluzioni, a depositar! delle norme che debbono reggere gli scrittori di sinistra. Con arroganza, insolenzà e sussiego, avevano la pretesa di emendare la mia attività poetica, sociale e rivoluzionaria. La mia decorazione per « Macchu Picchu » e la mia presenza al congresso del Pen Club; le mie dichiarazioni e i miei recital; le mie parole e i miei atti contrari al sistema nordamericano, espressi nella bocca del lupo; tutto era messo in dubbio, falsificato e calunniato dai suddetti scrittori, molti dei quali appena arrivati nel campo rivoluzionario, e molti di loro remunerati a torto o a ragione dal nuovo stato cubano.
Questo sacco di ingiurie fu ingrossato da quante più firme si poterono richiedere con sospetta spontaneità dalle tribune delle società di scrittori e artisti. Degli incaricati correvano di qui e di là per l'Avana, in cerca di firme di intere associazioni di musicisti, ballerini e di scultori. Venivano invitati a firmare i numerosi artisti e scrittori di passaggio che erano stati generosamente invitati a Cuba e che affollavano gli alberghi di maggior grido. Alcuni degli scrittori i cui nomi comparvero stampati a pie' dell'ingiusto documento, mi hanno fatto pervenire in seguito notizie surrettizie: « Non l'ho mai firmato; sono venuto a sapere del contenuto dopo aver visto la mia firma che non ho mai apposto ». Un amico di Juan Marinello mi ha suggerito che così è stato con lui, anche se non l'ho mai potuto provare. Con altri ho potuto provarlo.
La faccenda era un gomitolo, una palla di neve o di malversazioni ideologiche che era necessario far crescere a tutti i costi. Vennero create agenzie speciali a Madrid, a Parigi e in altre capitali, al solo scopo di spedire in massa copie della lettera menzognera. A migliaia partirono quelle lettere, specialmente da Madrid, in blocchi di venti o trenta copie per ogni destinatario. Era sinistramente divertente ricevere quelle buste tappezzate dai ritratti di Franco come timbri postali, al cui interno si accusava Pablo Neruda di essere un controrivoluzionario.
Non tocca a me indagare sui motivi di tutto quel furore: la falsità politica, le debolezze ideologiche, i risentimenti e le invidie letterarie, che ne so, quante cose determinarono questa battaglia di tanti contro uno. Mi hanno raccontato poi che gli entusiasti redattori, promotori e cacciatori di firme per la famosa lettera, furono gli scittori Roberto Fernández Retamar, Edmundo Desnoes e Lisandro Otero. Desnoes e Otero non ricordo di averli mai letti né conosciuti personalmente. Retamar sì. All'Avana e a Parigi mi perseguitò assiduamente con la sua adulazione. Mi diceva che aveva pubblicato infiniti prologhi e articoli elogiativi della mia opera. La verità è che non l'ho mai considerato un valore, ma uno dei tanti arrivisti politici e letterari della nostra epoca.
Forse pensarono che potevano danneggiarmi o distruggermi in quanto militante rivoluzionario. Ma quando arrivai alla Calle Teatinos di Santiago del Cile, a trattare per la prima volta la questione davanti al comitato centrale del partito, avevano già la loro opinione, almeno sull'aspetto politico.
— Si tratta del primo attacco contro il nostro partito cileno — mi dissero.
Si vivevano seri conflitti a quel tempo. I comunisti venezuelani, i messicani e altri, disputavano ideologifinente con i cubani. In seguito, in tragiche circostanze ma silenziosamente, si differenziarono anche i boliviani.
Il partito comunista del Cile decise di concedermi in una pubblica manifestazione la medaglia Recabárren allora appena creata e destinata ai suoi migliori militanti. Era una sobria risposta. Il partito comunista cileno superò intelligentemente quel periodo di divergenze, persistette nel suo proposito di analizzare internamente i nostri disaccordi. Col tempo ogni ombra di lotta è stata eliminata e fra i due partiti comunisti più importanti dell'America Latina esiste un'intesa chiara e un rapporto fraterno.
Quanto a me non ho cessato di essere quello che scrisse Canción de gesta. È un libro che continua a piacermi. Attraverso di esso non posso dimenticare di essere stato io il primo poeta che ha dedicato un libro intero a esaltare la rivoluzione cubana.
Capisco, naturalmente, che le rivoluzioni e specialmente i suoi uomini cadano di tanto in tanto nell'errore e nell'ingiustizia. Le leggi mai scritte dell'umanità riguardano allo stesso modo i rivoluzionari e i controrivoluzionari. Nessuno può sfuggire agli equivoci. Un punto oscuro, un piccolo punto oscuro all'interno di un processo, non ha molta importanza nel contesto di una causa grande. Ho continuato a cantare, ad amare e a rispettare la rivoluzione cubana, il suo popolo, i suoi nobili protagonisti.
Ma ognuno ha il suo lato debole. Io ne ho molti. Per esempio, non mi piace staccarmi dall'orgoglio che sento per il mio inflessibile atteggiamento rivoluzionario. Sarà forse per questo, o per un'altra crepa della mia piccolezza, che ho rifiutato fin ora, e continuerò a rifiutare, di dare la mano a qualcuno di quelli che coscientemente firmarono quella lettera che continuo a ritenere un'infamia. (60)
Quaderno 12
PATRIA DOLCE D DURA
ESTREMISMO E SPIE
Molto spesso i vecchi anarchici — e succederà lo stesso domani con gli anarcoidi di oggi — sono andati alla deriva verso una posizione molto comoda, l'anarcocapitalismo, covo nel quale si raccolgono anche i franchi tiratori politici, i sinistrorsi e i falsi indipendenti. Il capitalismo repressivo ha come nemico fondamentale i comunisti, e in genere quando prende
la mira non si sbaglia. Tutti quei ribelli individualisti sono lusingati in un modo o nell'altro dalla saccenteria o dalla strafottenza reazionaria che li considera eroici difensori dei sacri principi. I reazionari sanno che il pericolo di cambiamenti in una società non risiede nelle ribellioni individualiste, ma nell'organizzazione delle masse e in un'estesa coscienza di classe.
Tutto questo l'ho visto chiaramente in Spagna durante la guerra. Certi gruppi antifascisti stavano giocando al carnevale mascherato di fronte alle forze di Hitler e di Franco che avanzavano verso Madrid. Non parlo, naturalmente, degli indomiti anarchici, come Durruti (1) e i suoi catalani, che a Barcellona combatterono come leoni.
Qualcosa di mille volte peggio degli estremisti sono le spie. Fra i militanti dei partiti rivoluzionari si infiltrano di tanto in tanto gli agenti avversi, pagati dalla Polizia, dai partiti reazionari o dai governi stranieri. Alcuni di loro compiono missioni speciali di provocazione; altri di osservazione paziente. È classica la storia di Azeff. Prima della caduta dello zarismo prese parte a numerosi attentati terroristici e fu incarcerato molti volte. Le memorie del capo della polizia segreta delle zar, pubblicate dopo la rivoluzione, raccontano come Azeff era stato costantemente un agente dell'Ochrana. Nella testa di questo strano personaggio, uno dei cui attentati provocò la morte di un granduca, il terrorista e il delatore coincidevano.
Un'altra esperienza curiosa fu quella che accadde a Los Angeles, a San Francisco o in un'altra città della California. Durante la folle ondata di maccartismo furono arrestati tutti i militanti del partito comunista della località. Erano settantacinque persone, numerate, schedate e conosciute nei più piccoli particolari della vita. Ebbene, le settantacinque persone risultarono agenti di polizia. L'FBI si era pagato il lusso di costituire il proprio piccolo « partito comunista », con individui che non si conoscevano fra di loro, per poi perseguitarli e vantare successi sensazionali su nemici inesistenti. L'FBI giunse per questa via a episodi così grotteschi come quello del cavolfiore in cui conservava i segreti internazionali un certo Chalmers, ex comunista comperato a suon di dollari dalla polizia. L'FBI giunse anche a storie orrende, fra cui suscitò particolare sdegno nell'umanità l'esecuzione o meglio l'assassinio
dei coniugi Rosemberg. (2)
Nel partito comunista cileno, organizzazioni con una lunga storia di origine strettamente proletaria, è stato sempre difficile a questi agenti infiltrarsi. Le teorie guerriglieriste in America Latina, invece, hanno spalancato le porte a ogni tipo di spie. Lo spontaneismo e la giovinezza di queste organizzazioni ha reso più difficile scoprire e smascherare le spie. Per questo i dubbi hanno sempre accompagnato i capi guerriglieri che
dovettero diffidare perfino della propria ombra. Il culto del rischio ebbe in un certo modo il suo terreno propizio nella focosità romantica e nella scapigliata teorizzazione guerriglierista che inondò l'America Latina. Quest'epofca si è forse conclusa con l'assassinio e la morte eroica di Ernesto Guevara. Ma per molto tempo i fautori teorici di una tattica saturarono il continente di tesi e documenti che praticamente assegnavano il governo rivoluzionario popolare del futuro, non alle classi sfruttate dal capitalismo, ma ai gruppi armati dei guerriglieri. Il vizio di questo ragionamento è la sua debolezza politica: può darsi che in qualche occasìone il grande guerrigliero coesista con una grossa personalità politica, come nel caso del Che Guevara, ma questa è una possibilità minima e dovuta al caso. I sopravvissuti di una guerriglia non possono dirigere uno stato proletario per il solo fatto di essere più coraggiosi, di aver avuto più fortuna di fronte alla morte e migliore mira di fronte ai vivi.
Adesso racconterò un'esperienza personale. Mi trovavo in Cile, appena tornato dal Messico. In una delle riunioni politiche alle quali partecipavo, mi si avvicinò un uomo per salutarmi. Era un signore di mezz'età, immagine del cavaliere moderno, correttissimamente vestito e provvisto di quegli occhiali che danno tanta rispettabilità alla gente, un paio di lenti senza montatura che si pinzano sul naso. Si rivelò un personaggio molto affabile.
— Don Pablo, non ho mai osato avvicinarmi a lei, anche se le debbo la vita. Sono uno dei rifugiati, che lei ha salvato dai campi di concentramento e dai forni a gas quando ci ha fatti imbarcare sul « Winnipeg » diretto in Cile. Sono catalano e massone. Qui mi sono fatto una posizione. Lavoro come esperto venditore di articoli sanitari, per la società tal dei tali che è la più importante del Cile.
Mi raccontò che abitava in un buon appartamento nel centro di Santiago. Suo vicino di casa era un famoso campione di tennis che si chiamava Iglesias, che era stato mio compagno di scuola. Parlavano spesso di me e alla fine, avevano deciso di invitarmi e di farmi testa. Per questo era venuto a trovarmi.
L'appartamento del catalano era la prova del benessere della nostra piccola borghesia. Mobilio impeccabile; una paella dorata e abbondante. Iglesias rimase con noi per tutto il pranzo. Ci facemmo quattro risate ricordando il vecchio liceo di Temuco nei cui sotterranei ci sfioravano la faccia le ali dei pipistrelli. Alla fine del pranzo, l'ospitale catalano pronunciò brevi parole e mi regalò due splendide copie fotografiche: una di Baudelaire e l'altra di Edgar Poe. Splendide teste di poeti che, naturalmente, ancora conservo nella mia biblioteca.
Un giorno qualsiasi il nostro catalano cadde fulminato da una paralisi, immobilizzato nel suo letto, senza l'uso della parola né dei gesti. Soltanto i suoi occhi si muovevano angosciosamente, come se volessero dire qualcosa alla sua consorte, un'esimia repubblicana spagnola dalla storia immacolata; o al suo vicino Iglesias mio amico e campione di tennis. Ma alla fine morì senza parola e senza moto.
Quando la casa si riempì di lacrime, di amici e di corone, il vicino tennista ricevette una misteriosa telefonata: « Conosciamo l'intima amicizia che lei ha avuto col defunto cavaliere catalano. Lui non si stancava di fare i suoi elogi. Se vuole rendere un servizio trascendentale alla memoria del suo amico, apra la sua cassaforte e prenda una cassetta di ferro che lui vi ha depositato. La richiamo fra tre giorni ».
La vedova non volle sentir parlare di una cosa del genere; il suo dolore era giunto al parossismo; non voleva saperne affatto della questione; lasciò l'appartamento; andò ad abitare in una pensione di via Santo Domingo. Il padrone della pensione era uno jugoslavo
della resistenza, un uomo ferrato in politica. La vedova gli chiese di esaminare le carte di suo marito. Lo iugoslavo trovò la cassetta metallica e l'aprì con molta difficoltà. Allora venne fuori la più inattesa delle lepri. I documenti conservati rivelavano che il defunto era sempre stato un agente fascista. Le copie delle sue lettere rivelavano i nomi di decine di emigrati che, tornando in Spagna clandestinamente, furono incarcerati o fatti fuori. C'era perfino una lettera autografa di Francisco Franco che lo ringraziava per i servigi resi. Altre indicazioni del catalano servirono alla marina nazista per affondare navi da carico che partivano dalle coste cilene cariche di armi. Una di queste vittime fu la nostra bella fregata, orgoglio della marina cilena, la veterana « Lautaro ». Fu affondata durante la guerra, col suo carico al salnitro, mentre usciva dal nostro porto di Tocopilla. Il naufragio costò la vita a diciassette cadetti navali. Morirono affogati o carbonizzati.
Ecco le imprese criminali di un sorridente catalano che un bei giorno mi aveva invitato a pranzo.
I COMUNISTI
... Sono passati diversi anni da quando sono entrato nel partito... Sono contento... I comunisti fanno una buona famiglia... Hanno la pelle dura e il cuore temprato... Dappertutto prendono bastonate... Bastonate esclusive per loro... Viva gli spiritisti, i monarchici, gli
aberranti, i criminali di vario grado... Viva la filosofia con fumo ma senza scheletro... Viva il cane che abbaia e morde, viva gli astrologhi libidinosi, viva la pornografia, viva il cinismo, viva il gambero, viva tutti, meno che i comunisti... Viva le cinture di castità, viva i conservatori che non si lavano i piedi ideologici da cinquecento anni a questa parte... Viva i pidocchi delle poblaciones miserabili, viva la fossa comune gratuita, viva l'anarcocapitalismo, viva Rilke, viva Andre Gide col suo Corydon, (3) viva qualsiasi misticismo... Va tutto bene... Tutti sono eroici... Tutti i giornali devono uscire… Tutti possono essere pubblicati..., meno quelli cornisti... Tutti i politici devono entrare a Santo Domingo senza catene... Tutti devono celebrare la morte del sanguinario, di Trujillo (4) meno quelli che più duramente lo combatterono... Viva il carnevale, gli ultimi giorni di carnevale... Ci sono maschere per tutti... Maschere di idealista cristiano, maschere di estremista di sinistra, maschere di dame benefiche e di matrone caritative... Però, attenzione, non fate entrare i comunisti... Chiudete bene la porta... Non vi sbagliate... Non hanno diritto a nulla... Preoccupiamoci del soggettivo
dell'essenza dell'uomo, dell'essenza dell'essenza... Così saremo tutti contenti... Abbiamo la libertà... Com'è grande la libertà!... Loro non la rispettano, non la conoscono... La libertà di preoccuparsi dell'essenza... dell'essenziale dell'essenza...
...Così son passati gli ultimi anni... È passato il jazz, è arrivato il soul, siamo naufragati nei postulati della pittura astratta, ci ha spaventati e ci ha uccisi la guerra... Da questa parte tutto restava come prima... o non era così?... Dopo tanti discorsi sullo spirito e tante bastonate in testa, qualcosa andava male... Molto male... I calcoli erano sbagliati... I popoli si organizzavano... Continuavano le guerriglie e gli scioperi... Cuba e il Cile diventavano indipendenti... Molti uomini e donne cantavano l'Internazionale... Che strano... Sconsolante...
Adesso la cantano in cinese, in bulgaro, in spagnolo d'America... Bisogna prendere misure urgenti... Bisogna proscriverlo... Bisogna parlare di più di spirito... Esaltare di più il mondo libero... Bisogna bastonare di più... Bisogna dare più dollari... Non può andare avanti così... Fra la libertà delle bastonate e la paura di Germán Arciniegas... (5) E adesso Cuba... Nel nostro stesso emisfero, nella metà della nostra mela, questi barbudos con la stessa canzone... E a cosa ci serve Cristo?... A cosa ci son serviti i preti?... Non ci si può più fidare
di nessuno... Neppure dei preti... Non vedono i nostri punti di vista... Non vedono come calano le nostre azioni in borsa.
... Intanto gli uomini si arrampicano per il sistema solare... Sulla luna rimangono impronte di scarpe... Tutto lotta per cambiare, meno i vecchi sistemi... La vita dei vecchi sistemi è nata da immense ragnatele medievali... Ragnatele più dure dei ferri delle macchine... Eppure c'è gente che crede in un cambiamento, che ha praticato il cambiamento, che ha fatto trionfare il cambiamento, che ha fiorito il cambiamento... Caramba!... La primavera è inesorabile!
POETICA E POLITICA
Trascorro quasi tutto il 1969 a Isla Negra. Fin dal mattino il mare acquista la sua fantastica forma di crescente. Sembra di vedere ammassato un pane infinito. È bianca come farina la schiuma sparsa, spinta dal freddo lievito della profondità.
L'inverno è statico e brumoso. Al suo incanto territoriale aggiungiamo ogni giorno il fuoco del caminetto. La bianchezza delle sabbie sulla spiaggia ci offre un mondo sempre solitario, come prima che esistessero gli abitanti o i villeggianti sulla terra. Ma non si creda che io detesti le moltitudini estive. Appena si avvicina l'estate le ragazze si avvicinano al mare, uomini e bambini entrano nelle onde con precauzione ed escono saltando dal pericolo. Così consumano la danza millenaria dell'uomo di fronte al mare, forse il primo ballo degli esseri umani.
D'inverno le case di Isla Negra vivono avvolte dalla oscurità della notte. Solo la mia si accende. A volte credo che ci sia qualcuno nella casa di fronte. Vedo una finestra illuminata. È solo un miraggio. Non c'è nessuno nella casa del Capitano. È la luce della mia finestra che si riflette sulla sua.
Tutti i giorni dell'anno me ne sono andato a scrivere nell'angolo dei miei lavori. Non è facile arrivarci, né rimanerci. Tutt'a un tratto c'è qualcosa che attrae i miei due cani. Panda e Chou Tu. È una pelle di tigre del Bengala che funge da tappeto nella piccola stanza. La portai dalla Cina moltissimo tempo fa. Le sono caduti artigli e pelo. Oltre a una certa minaccia di tarme che Matilde ed io temiamo.
Ai miei cani piace stendersi sul vecchio nemico. Come se fossero usciti vincitori da una lotta, si addormentano immediatamente, estenuati dal combattimento. Si mettono per traverso davanti alla porta come se volessero costringermi a non uscire, a proseguire il mio
lavoro.
Ogni tanto succede qualcosa in casa. Dal telefono distante mandano un messaggio. Che devono rispondere? Non ci sono. Poi un altro messaggio. Che devono rispondere? Ci sono.
Non ci sono. Ci sono. Ci sono. Non ci sono. Questa è la vita di un poeta per cui l'angoletto remoto di Isla Negra non è più remoto.
Mi chiedono sempre, specialmente i giornalisti, cosa sto scrivendo, cosa sto facendo. Questa domanda mi ha sempre sorpreso per la sua superficialità. Perché la verità è che sto facendo sempre la stessa cosa. Non ho mai smesso di fare la stessa cosa. Poesia?
Mi resi conto molto dopo che lo stavo facendo, che quello che io scrivevo era poesia. Non ho mai avuto il minimo interesse per le definizioni, per le etichette. Mi annoiano a morte le discussioni estetiche. Non voglio denigrare quelli che le sopportano, io però mi sento estraneo alla partecipazione di nascita come al post mortem della creazione letteraria. « Che nulla di'esterno giunga a comandare in me », disse Walt Whitman. E i parafernalia della letteratura, con tutti i loro meriti, non debbono sostituire la nuda creazione.
Ho cambiato quaderno diverse volte nel corso dell'anno. Lì ci sono quei quaderni legati col filo verde della mia calligrafia. Ne ho riempiti tanti che man a mano sono diventati libri come se passassero da una metamorfosi all'altra, dall'immobilità al movimento, da larve e lucciole.
La vita politica venne come un tuono a distogliermi dai miei lavori. Ritomai ancora una volta alla moltitudine.
La folla umana è stata per me la lezione della vita. Posso arrivarci con la tipica timidezza del poeta, con il timore del timido, però, una volta nel suo seno, mi sento trasfigurato. Faccio parte dell'essenziale maggioranza, sono una foglia in più del grande albero umano.
Solitudine e folla continueranno ad essere i doveri elementari del poeta del nostro tempo. Nella solitudine, la mia vita si è arricchita con la battaglia delle ondate sulla costa cilena. Mi incuriosivano e mi appassionavano le acque combattenti e le rocce combattute, la
moltiplicazione della vita oceanica, l'implacabile formazione dei « passeri erranti », lo splendore della schiuma del mare.
Ma ho imparato molto di più dalla grande marea delle vite, dalla tenerezza vista in migliala di occhi che mi guardavano contemporaneamente. Forse questo messaggio non tocca tutti i poeti, ma chi l'ha sentito lo conserverà nel suo cuore, lo svilupperà nella sua opera.
È indimenticabile e lacerante per il poeta aver incarnato per molti uomini, per un minuto, la speranza.
CANDIDATO ALLA PRESIDENZA
Una mattina del 1970 arrivarono nel mio nascondiglio marino, nella mia casa di Isla Negra, il segretario generale del mio partito e altri compagni. Venivano ad offrirmi la candidatura parziale alla presidenza della repubblica, candidatura che avrebbero proposto ai sei o sette partiti di Unità Popolare. Avevano tutto pronto: programma, carattere del governo, future misure di emergenza, ecc. Fino a quel momento tutti quei partiti avevano il loro candidato e ciascuno voleva mantenerlo. Solo noi comunisti non ne avevamo. La nostra
posizione era di appoggiare il candidato unico che fosse stato designato dai partiti di sinistra e che fosse quello di Unità Popolare. Ma non c'era decisione e le cose non potevano andare avanti così. I candidati della destra erano ormai lanciati e facevano propaganda. Se non ci fossimo uniti in un'aspirazione elettorale comune, saremmo stati schiacciati da una sconfitta spettacolare.
L'unico modo di far precipitare l'unità era che i comunisti designassero il loro candidato. Quando accettai la candidatura proposta dal mio partito, rendemmo pubblica la posizione comunista. Il nostro appoggio sarebbe andato al candidato che disponeva della volontà degli altri. Se questo consenso non fosse stato raggiunto, la mia candidatura sarebbe stata mantenuta fino alla fine.
Era un mezzo eroico di costringere gli altri a mettersi d'accordo. Quando dissi al compagno Corvalan che accettavo, lo feci nell'intesa che sarebbe stata accettata ugualmente la mia futura rinuncia, nella convinzione che la mia rinuncia sarebbe stata inevitabile. Era molto improbabile che si potesse raggiungere l'unità attorno a un comunista. In parole povere, tutti avevano bisogno di noi perché li appoggiassimo (compresi alcuni candidati della Democrazia Cristiana), ma nessuno aveva bisogno di noi per aiutarci.
Ma la mia candidatura, uscita da quella mattina marina di Isla Negra, prese fuoco. Non c'è posto dove non mi chiamassero. Arrivai ad intenerirmi di fronte a quelle centinaia o migliaia di uomini e donne del popolo che mi stringevano, mi baciavano e piangevano. Abitanti dei sobborghi di Santiago, minatori di Coquimbo, uomini del rame e del deserto, contadine che mi aspettavano per ore coi loro piccoli in braccio, gente che viveva il suo abbandono dal Rio Bío Bío fin oltre lo stretto di Magellano, a tutti parlavo o leggevo le mie poesie sotto la pioggia, nel fango di strade e sentieri, sotto il vento australe che fa tremare la gente.
Mi stavano entusiasmando. C'era sempre più gente ai miei comizi, sempre più donne. Affascinato e terrorizzato ad un tempo cominciai a pensare che cosa avrei fatto se fossi stato eletto io presidente della repubblica più matta, più drammaticamente insolvibile, più indebitata e, probabilmente, più ingrata. I presidenti erano acclamati durante il primo mese e martirizzati a torto o a ragione, i rimanenti cinque anni e undici mesi.
LA CAMPAGNA DI ALLENDE
In un momento fortunato giunse la notizia: Allende emergeva come probabile candidato dell'intera Unità Popolare. D'accordo col mio partito, presentai rapidamente la rinuncia alla mia candidatura. Davanti ad un'immensa e allegra folla parlai io per rinunciare alla mia candidatura e Allende per porre la sua. Il grande comizio si svolse in un parco. La gente riempiva tutto lo spazio visibile e anche gli alberi. Dai rami spuntavano gambe e teste. Non c'è niente come questi cileni agguerriti.
Conoscevo il candidato. Lo avevo accompagnato tre volte in precedenza, gettando versi e discorsi per tutto il brusco e interminabile territorio del Cile. Tre volte di seguito, ogni sei anni, era stato aspirante presidente il mio fidatissimo amico. Questa sarebbe stata la quarta e quella buona.
Racconta Arnold Bennet o Somerset Maugham (non ricordo chi dei due) che una volta gli toccò dormire (a quello che racconta il fatto) nella stessa stanza di Winston Churchill. La prima cosa che fece quel tremendo uomo politico, aprendo gli occhi, fu di allungare la mano, prendere un immenso sigaro avana dal comodino e, senza por tempo in mezzo, cominciare a
fumarselo. Questo lo può fare soltanto un sano uomo delle caverne, con quella salute minerale dell'età della pietra.
La resistenza di Allende superava di gran lunga quella di tutti quelli che lo accompagnavano. Aveva un'arte degna dello stesso Churchill: si addormentava quando ne aveva voglia. A volte andavamo per le infinite terre aride del Cile settentrionale. Allende dormiva saporitamente in un angolo della macchina. D'un tratto emergeva un punto rosso sulla strada: quando ci avvicinavamo diventava un gruppo di quindici o venti uomini con le loro donne, i loro bambini e le loro bandiere. La macchina si arrestava. Allende si fregava gli occhi per affrontare il sole verticale e il piccolo gruppo che cantava. Si univa ad essi e insieme intonavano l'inno nazionale. Poi parlava, vivo, rapido, eloquente. Ritornava alla macchina e continuavamo a percorrere le lunghissime strade del Cile. Allende si immergeva di nuovo nel sonno senza il minimo sforzo. Ogni venticinque minuti la scena si ripeteva: gruppo, bandiere, canto, discorso e ritorno al sonno.
Affrontando insieme manifestazioni di migliala e migliaia di cileni; passano dall'automobile al treno, dal treno all'aereo, dall'aereo alla nave, dalla nave al cavallo; Allende portò a termine incrollabile le giornate di quei mesi sfiancanti. Dietro rimanevano stanchi quasi tutti i membri della sua comitiva. Più tardi, ormai eletto presidente del Cile, la sua implacabile efficienza provocò fra i suoi collaboratori quattro o cinque infarti.
AMBASCIATA A PARIGI
Quando arrivai a prendere possesso della nostra ambasciata a Parigi, mi resi conto che dovevo pagare un pesante tributo alla mia vanità. Avevo accettato questo posto senza pensarci su tanto, lasciandomi andare ancora una volta al corso della vita. Mi piaceva l'idea
di rappresentare un vittorioso governo popolare, ottenuto dopo tanti anni di governi mediocri e menzogneri. Forse nel fondo quello che mi attraeva di più era la idea di entrare con una nuova dignità nella sede della ambasciata cilena, nella quale dovetti soffrire tante umiliazioni quando organizzai l'immigrazione dei repubblicani spagnoli nel mio paese. Ognuno degli ambasciatori precedenti aveva collaborato alla mia persecuzione; aveva contribuito a denigrarmi e a ferirmi. Il perseguitato si sarebbe seduto nella sedia del persecutore, avrebbe mangiato alla sua tavola, avrebbe dormito nel suo letto e avrebbe aperto le finestre affinchè l'aria nuova del mondo entrasse in una vecchia ambasciata.
La cosa più difficile era fare entrare l'aria. L'asfissiante stile dei saloni mi entrò nelle narici e negli occhi quando, in quella notte di marzo del 1971, giunsi con Matilde nella nostra stanza da letto e ci mettemmo a dormire nelle egregie alcove dove morirono, placidi o tormentati, alcuni ambasciatori e ambasciatrici.
È una stanza da letto che può contenere un cavaliere e il suo cavallo; c'è spazio sufficiente perché si nutra il cavallo e dorma il cavaliere. I soffitti sono altissimi e deliziosamente decorati. I mobili sono cose vellutate, dal vago colore di foglia secca, adorni di spaventose frange; una parafernalia di stile che mostra ad un tempo segni di ricchezza e tracce di decadenza. I tappeti possono essere stati belli sessanta anni fa. Adesso hanno preso un invincibile color calpestio e un odore di tarme da conversazioni convenzionali e defunte.
Per completare il quadro, il personale nervoso che ci attendeva aveva pensato a tutto, meno che al riscaldamento del gigantesco dormitorio. Matilde ed io passammo intirizziti la nostra prima notte diplomatica a Parigi. La seconda notte il riscaldamento funzionò. Era vecchio di sessant'anni e i filtri erano completamente fuori uso. L'aria calda del vecchio sistema faceva passare soltanto l'anidride carbonica. Non avevamo diritto di lamentarci per il freddo, come la notte precedente, ma sentivamo le palpitazioni e l'angoscia dell'avvelenamento. Dovemmo aprire la finestra per far entrare il freddo invernale. Forse i vecchi ambasciatori si stavano vendicando di un arrivista che veniva a soppiantarli senza meriti burocratici né timbri genealogici.
Pensammo: dobbiamo cercarci una casa dove respirare con le foglie, con l'acqua, con gli uccelli, con l'aria. Questo pensiero sarebbe diventato col tempo una ossessione. Come prigionieri svegliati dalla libertà, cercavamo e cercavamo l'aria pura fuori di Parigi.
Questo di essere ambasciatore era una cosa nuova e scomoda per me. Ma comportava una sfida. In Cile era avvenuta una rivoluzione. Una rivoluzione alla cilena, molto analizzata e discussa. I nemici di dentro e di mori si affilavano i denti per distruggerla. Per cenrottant'anni si erano succeduti nel mio paese gli stessi governanti con etichette diverse. Tutti facevano lo stesso. Continuarono gli stracci, le case indegne, i bimbi senza scuola e senza scarpe, le prigioni e le percosse contro il mio povero popolo.
Adesso potevamo respirare e cantare. Questo mi piaceva della mia nuova posizione.
Le nomine diplomatiche richiedono in Cile l'approvazione del senato. La destra cilena mi aveva lusingato continuamente come poeta; fece addirittura dei discorsi in mio onore. È chiaro che tali discorsi li avrebbero pronunciati con maggiore piacere ai miei funerali. Nella
votazione del senato per la ratifica del mio incarico di ambasciatore, ebbi la meglio per tre voti. Quelli della destra e alcuni ipocriti-cristiani votarono contro di me, coperti dal segreto delle palline bianche e nere.
L'ambasciatore precedente aveva tappezzato i muri con le fotograne dei loro predecessori nell'incarico, senza eccezione, oltre a quella propria. Era un'impressionante collezione di personaggi vuoti, salvo due o tre, fra cui c'era l'illustre Blest Gana, (6) il nostro piccolo Balzac cileno. Ordinai di togliere gli spettrali ritratti e li sostituii con figure più solide: cinque effigi incise degli eroi che dettero bandiera, nazionalità e indipendenza al Cile; e tre fotografie contemporanee: quella di Aguirre Cerda, progressista presidente della repubblica; quella di Luis Emilio Recabárren, fondatore del partito comunista; e quella di Salvador Allende. I muri stavano infinitamente meglio.
Non so cosa avranno pensato i segretari dell'ambasciata, quasi tutti di destra. I partiti reazionari avevano occupato tutti i posti nell'amministrazione del paese per cento anni. Non si nominava neppure un usciere che non fosse conservatore o monarchico. I democristiani a loro volta, autodenominatisi « rivoluzione nella libertà », fecero prova di una voracità parallela a quella degli antichi reazionari. In seguito le parallele sarebbero state convergenti fino a diventare quasi una stessa linea.
La burocrazia, gli arcipelaghi degli edifici pubblici, tutto rimase pieno di impiegati, di ispettori e di consiglieri della destra, come se in Cile Allende e Unità Popolare non avessero mai vinto, come se i ministri di governo adesso non fossero socialisti e comunisti.
Per queste ragioni chiesi che il posto di consigliere presso l'ambasciata di Parigi fosse affidato ad uno dei miei amici, diplomatico di carriera e scrittore di rilievo. Si trattava di Jorge Edwards. Per quanto appartenesse alla famiglia più oligarchica e reazionaria del mio paese, (7) era un uomo di sinistra, non iscritto ad alcun partito. Io avevo bisogno soprattutto di un funzionario intelligente che sapesse il fatto suo e fosse degno della mia fiducia.
Edwards era stato fino ad allora incaricato d'affari all'Avana. Mi erano giunte vaghe voci su alcune difficoltà che aveva incontrato a Cuba. Dato che lo conoscevo da diversi anni come un uomo di sinistra, non detti molta importanza alla cosa.
Il mio nuovo consigliere giunse da Cuba molto nervoso e mi riferì la sua storia. Ebbi l'impressione che la ragione stava dalle due parti, e in nessuna di essi, come a volte capita nella vita. A poco a poco Jorge Edwards recuperò i suoi nervi, smise di mangiarsi le unghie e lavorò con me con evidente capacità, intelligenza e lealtà. In quei due anni di arduo lavoro alla ambasciata, il mio consigliere fu il mio compagno migliore e un funzionario, forse l'unico in quel grande ufficio, politicamente impeccabile.
Quando la compagnia nordamericana pretese l'embargo del rame cileno un'ondata di emozione percorse l'Europa intera. Non solo i giornali, le televisioni, le radio, si preoccuparono della questione, ma ancora una volta fummo difesi da una coscienza maggioritaria e popolare.
Gli scaricatori di Francia e d'Olanda rifiutarono di scaricare il rame nei loro porti per esprimere la loro ostilità all'aggressione. Questo gesto meraviglioso commosse il mondo. Tali episodi di solidarietà insegnano di più sulla storia del nostro tempo delle cattedre di un'università.
Ricordo anche episodi più simili, ma anche più commoventi. Il secondo giorno dell'embargo una modesta signora francese, di una piccola città di provincia, ci mandò cento franchi, frutto dei suoi risparmi, per aiutare la difesa del rame cileno. E anche una calorosa
lettera di adesione, firmata da tutti gli abitanti del paese, dal sindaco, dal parroco, dagli operai, dagli sportivi e dagli studenti.
Dal Cile mi arrivavano messaggi di centinaia di amici, conosciuti e sconosciuti, che si congratulavano con me per il modo in cui affrontavo i pirati internazionali a difesa del nostro rame. Una donna del popolo mi mandò un pacchetto che conteneva un mate di zucca quattro avocados e mezza dozzina di peperoni verdi.
Al tempo stesso il nome del Cile si era ingrandito enormemente. Eravamo diventati un paese che esisteva. Prima passavamo inosservati nella folla del sottosviluppo. Adesso per la prima volta avevamo una nostra fisionomia e nessuno al mondo osava disconoscere la grandezza della nostra lotta nella costruzione di un destino nazionale.
Tutto quanto accadeva nella nostra patria appassionava la Francia e l'Europa intera. Riunioni popolari, assemblee di studenti, libri che si pubblicavano in tutte le lingue, ci studiavano, ci esaminavano, ci ritraevano. Io dovevo arginare i giornalisti che ogni giorno volevano sapere tutto e più di tutto. Il presidente Allende era un uomo universale. La disciplina e la fermezza della nostra classe operaia era ammirata ed elogiata.
L'ardente simpatia verso il Cile aumentò a causa dei conflitti derivati dalla nazionalizzazione dei nostri giacimenti di rame. Tutti capirono che questo era un passo gigantesco sulla via della nuova indipendenza del Cile. Senza sotterfugi di nessun genere, il governo popolare rendeva definitiva la nostra sovranità riconquistando il rame alla nostra patria.
RITORNO IN CILE
Tornando in Cile fui accolto da un vegetazione nuova nelle strade e nei parchi. La nostra meravigliosa primavera si era messa a dipingere di verde il fogliarne dei boschi. La nostra vecchia capitale grigia ha tanto bisogno delle foglie verdi come il cuore umano dell'amore. Respirai la freschezza di questa giovane primavera. Quando siamo lontani dalla patria non ci ricordiamo mai dei suoi inverni. La distanza cancella le pene dell'inverno, la gente senza riparo, i bimbi scalzi nel freddo. L'arte del ricordo ci porta soltanto campi verdi, fiori gialli e rossi, il cielo azzurrino dell'inno nazionale. Questa volta trovai la bella stagione che era stata tante volte una visione lontana.
Un'altra vegetazione si arrampicava sui muri della città. Era il muschio dell'odio che li tappezzava. Manifesti anticomunisti che emanavano insolenzà e menzogne; manifesti contro Cuba; manifesti antisovietici; manifesti contro la pace e l'umanità; manifesti sanguinari che preannunciavano carneficine a Giacarta. Questa era la nuova vegetazione che avviliva i muri della città.
Io conoscevo per esperienza il tono e il senso di quella propaganda. Avevo vissuto in Europa prima della ascesa di Hitler. Era esattamente quello lo spirito della propaganda hitleriana; la profusione della menzogna a vele spiegate; la crociata della minaccia e della paura; lo spiegamento di tutte le armi dell'odio contro l'avvenire. Sentii che volevano cambiare l'essenza stessa della nostra, vita. Non riuscivo a capire come potessero esistere dei cileni che offendessero in quel modo il nostro spirito nazionale.
Quando la destra reazionaria ebbe bisogno del terrorismo, vi fece ricorso senza scrupoli. Il generale Schneider, capo supremo dell'esercito, uomo rispettato e rispettabile che si oppose ad un colpo di stato destinato ad impedire l'ascesa di Allende alla presidenza della repubblica, fu assassinato. Un'assortita accolita di malfattori gli sparò alla schiena vicino alla sua casa. L'operazione fu diretta da un ex generale espulso dalle file dell'esercito. La cricca era composta da giovani balordi e da delinquenti professionisti. (8)
Provato il crimine e arrestato l'autore intellettuale, questi fu condannato a trent'anni di prigione dalla giustizia militare. Ma la sentenza fu ridotta a due anni dalla Corte Suprema di Giustizia. Un povero diavolo che ruba una gallina per fame, si becca in Cile il doppio della pena che ricevette l'assassino del comandante in capo dell'esercito. È l'applicazione classista delle leggi elaborate dalla classe dominante.
Il successo di Allende rappresentò per questa classe dominante un sussuluto macabro. Per la prima volta pensarono che le leggi così accuratamente fabbricate potevano essere applicate contro di loro. Corsero con le loro azioni, i loro gioielli, i loro soldi, le loro monete d'oro, a rifugiarsi da qualche parte. Se ne andarono in Argentina, in Spagna, arrivarono perfino in Australia. Il terrore del popolo li avrebbe fatti arrivare facilmente al Polo Nord.
Poi sarebbero ritornati.
FREI
La via cilena, limitata dappertutto da ostacoli infernali e legali è stata in ogni istante strettamente costituzionale. Intanto, l'oligarchia ricompose il suo abito bucherellato e si trasformò in fazione fascista. Il blocco nord-americano divenne più implacabile a causa della nazionalizzazione del rame. la ITT, (9) d'accordo coll'ex presidente Frei, gettò la Democrazia Cristiana nelle braccia della nuova destra fascista.
Le personalità reciproche e antagonistiche di Allende e di Frei hanno preoccupato il Cile in modo permanente. Forse per la stessa ragione, perché sono uomini così diversi, caudillos a modo loro in un paese senza caudillismo, ciascuno coi suoi propositi e con la sua
strada ben delimitata.
Credo di aver conosciuto bene Allende; non aveva nulla di enigmatico. Quanto a Frei, sono stato suo collega nel senato della repubblica. È un uomo curioso, estremamente premeditato, molto lontano dalla spontaneità di Allende. Nonostante ciò, scoppia spesso a
ridere violentemente, in sghignazzate stridenti. A me piace la gente che ride a crepapelle (io non ho questo dono). Ma ci sono risate e risate. Quelle di Frei escono da una faccia preoccupata, seria, vigilante dall'ago con cui cuce il suo filo politico vitale. È un riso inatteso che spaventa un po', come il gracchiare di certi uccelli notturni. Per il resto, la sua condotta è solita essere parsimoniosa e freddamente cordiale.
Il suo zig-zag politico mi ha depresso molte volte prima di disilludermi del tutto. Ricordo che una volta venne a trovarmi nella mia casa di Santiago. Circolava in quel periodo l'idea di un'intesa fra comunisti e democristiani. Questi non si chiamavano ancora così, ma Falange Nazionale, un nome orrendo adottato sotto l'impressione provocata dal giovane fascista Primo de Rivera. Poi, passata la guerra spagnola, Maritain (10) li influenzò e divennero antifascisti e cambiarono di nome.
La mia conversazione fu vaga ma cordiale. A noi comunisti ci interessava intenderci con tutti gli uomini e i settori di buona volontà; isolati non saremmo andati da nessuna parte. Con la sua evasività naturale, Frei mi confermò le sue pretese posizioni di sinistra del momento. Si congedò da me regalandomi una di quelle sghignazzate che gli cadono come sassi dalla bocca. Ne riparliamo, disse. Ma due giorni dopo capii che la nostra conversazione era finita per sempre.
Dopo il trionfo di Allende, Frei, uomo politico ambizioso e freddo, ritenne indispensabile allearsi con la reazione per tornare al potere. Era una mera illusione, il sogno congelato di un ragno politico. La sua tela non sarebbe sopravvissuta; a nulla gli sarebbe valso il colpo di stato da lui auspicato. Il fascismo non tollera accordi ma solo sottomissione. La figura di Frei si farà ogni anno più scura. E la sua memoria dovrà affrontare un giorno o l'altro la responsabilità del crimine. (11)
TOMIC
La Democrazia Cristiana mi ha interessato molto fin dalla sua nascita, da quando abbandonò il nome inammissibile di Falange. Sorse quando un ristretto gruppo di intellettuali cattolici costituì un'elite maritainista e tomista. Questo pensiero filosofico non mi preoccupò;
nutro una naturale indifferenza nei confronti dei teorizzatori della poesia, della politica, del sesso. Le conseguenze pratiche di quel piccolo movimento si fecero notare in modo singolare, inatteso. Ottenni che alcuni giovani dirigenti parlassero a favore della Repubblica
spagnola, nelle grandi manifestazioni che organizzai al mio ritorno da Madrid combattente. Questa partecipazione era insolita; la vecchia gerarchla ecclesiastica spinta dal Partito Conservatore, fu sul punto di sciogliere il nuovo partito. Solo l'intervento di un vescovo precursore li salvò dal suicidio politico. La dichiarazione del prelato di Talea permise la sopravvivenza del gruppo che col tempo sarebbe divenuto il partito politico più numeroso del Cile. La sua ideologia cambiò completamente con gli anni.
Dopo Frei, l'uomo più importante fra i democristiani è stato Radomiro Tomic. Lo conobbi quando ero parlamentare, in mezzo agli scioperi e ai giri elettorali nel Cile settentrionale. I democristiani di allora ci seguivano dappertutto (a noi comunisti) per prender parte alle nostre manifestazioni. Noi eravamo (e continuiamo ad essere) la gente più popolare nel deserto del salnitro e del rame, vale a dire, fra i più sfruttati lavoratori del continente americano. Da lì era uscito Recabárren, lì era nata la stampa di sinistra e i primi sindacati. Niente di tutto ciò sarebbe esistito senza i comunisti.
Tomic era in quel periodo non solo la migliore speranza dei democristiani, ma anche la loro personalità più attraente e il loro verbo più eloquente.
Le cose erano molto cambiate nel 1964, quando la democrazia cristiana vinse le elezioni che portarono Frei alla presidenza della Repubblica. La campagna del candidato che trionfò su Allende si svolse sulla base di una inaudita violenza anticomunista, orchestrata con annunci sulla stampa e alla radio che cercavano di terrorizzare la popolazione. Faceva rizzare i capelli: le suore sarebbero state fucilate; i bambini sarebbero stati uccisi infilzati sulle baionette da barbudos che somigliavano a Fidel; le bambine sarebbero state strappate ai loro genitori e spedite in Siberia. In seguito si è saputo, da dichiarazioni fatte davanti alla commissione speciale del senato nordamericano, che la CIA spese venti milioni di dollari in quella truculenta campagna di terrore.
Una volta eletto presidente, Frei fece un regalo greco al suo unico e grande rivale nel partito: designò Radomiro Tomic ambasciatore del Cile negli Stati Uniti. Frei sapeva che il suo governo doveva rinegoziare con Ie imprese nordamericane del rame. In quel momento tutto il paese chiedeva la nazionalizzazione. Come un esperto prestigiatore, Frei cambiò il termine con quello di « cilenizzazione » e ribadì con nuovi accordi la consegna della nostra principale ricchezza nazionale ai potenti gruppi Kennecot e Anaconda Copper Company. Il risultato economico per il Cile fu mostruoso. Il risultato politico per Tomic fu molto triste: Frei lo aveva cancellato dalla carta geografica. Un ambasciatore cileno negli Stati Uniti, che avesse collaborato alla svendita del rame, non sarebbe stato appoggiato dal popolo cileno.
Nelle successive elezioni presidenziali, Tomic occupò penosamente il terzo posto fra i tre contendenti.
Poco tempo dopo essersi dimesso dall'incarico di ambasciatore negli Stati Uniti, agli inizi del 1971, Tomic venne a trovarmi a Isla Negra. Era appena tornato dal Nord e non era ancora ufficialmente candidato alla presidenza. La nostra amicizia era rimasta intatta in mezzo alle mareggiate politiche, come è al presente. Ma quella volta ci intendemmo con molte difficoltà. Lui voleva un'alleanza più ampia delle forze progressiste, in luogo del nostro movimento di Unità Popolare, sotto il titolo di Unione del Popolo. La cosa era irrealizzabile; la sua partecipazione ai negoziati del rame rendeva la sua candidatura impresentabile di fronte alla sinistra politica. Inoltre, i due grandi partiti fondamentali del movimento popolare, quello comunista e quello socialista, erano ormai maggiorenni, in grado di portare alla presidenza un uomo proveniente dalle loro file.
Prima di andarsene da casa mia, abbastanza deluso certamente, Tomic mi fece una rivelazione. Il ministro dell'economia democristiano, Andrés Zaldivar, gli aveva documentato dettagliatamente la bancarotta della situazione economica del paese in quel momento.
— Andremo a finire in un abisso — mi disse Tomic.
— La situazione è tale che potremo resistere appena quattro mesi. È una catastrofe. Zaldivar mi ha dato tutti i particolari del nostro inevitabile fallimento.
Un mese dopo l'elezione di Allende, e prima che questi assumesse la presidenza della repubblica, lo stesso ministro Zaldivar annunciò pubblicamente l'imminenfe disastro economico del paese; ma questa volta lo attribuì alle ripercussioni internazionali provocate dall'elezione di Allende. Così si scrive la storia. Per lo meno così la scrivono i politici contorti e opportunisti come Zaldivar.
ALLENDE
II mio popolo è stato il più tradito di quest'epoca. Dai deserti del salnitro, dalle miniere sottomarine di carbone, dalle alture terribili dove sta il rame estratto con lavoro inumano dalle mani del mio popolo, sorse un movimento liberatore di grandiosa ampiezza. Quel movimento portò alla presidenza del Cile un uomo chiamato Salvador Allende affinchè realizzasse riforme e misure di giustizia non più rinviabili, affinchè riscattasse le nostre ricchezze nazionali dalle grinfie straniere.
Dovunque è stato, nei paesi più lontani, i popoli hanno ammirato il presidente Allende e hanno elogiato lo straordinario pluralismo del nostro governo. Mai nella storia della sede delle Nazioni Unite a New York si è udita un'ovazione come quella tributata al presidente del Cile dai delegati di tutto il mondo. Qui, in Cile, si stava costruendo, fra immense difficoltà, una società veramente giusta, elevata sulla base della nostra sovranità, del nostro orgoglio nazionale, dell'eroismo dei migliori abitanti del Cile. Dal nostro lato, dal lato della rivoluzione cilena, stavano la costituzione e la legge, la democrazia e la speranza.
Dall'altro lato non mancava nulla. C'erano arlecchini e pulcinella, pagliacci a mucchi, terroristi con pistola e con catene, frati falsi e militari degradati. Gli uni e gli altri giravano nel carosello della disperazione. Andavano tenendosi per mano il fascista Jarpa e i suoi cugini di « Patria e Libertà », (12) disposti a rompere la testa e l'anima a quanto esiste, allo scopo di recuperare la grande azienda che per loro era il Cile. Insieme a loro, per rendere più amena la farandola, danzava un grande banchiere e ballerino, un po' macchiato di sangue; era il campione di rumba Gonzalez Videla, che ballando la rumba consegnò tempo fa il suo partito ai nemici del popolo. Adesso era Frei che offriva il suo partito democristiano agli stessi nemici del popolo, e ballava alla musica che questi gli suonavano, e con lui ballava l'ex colonnello Viaux, delle cui malefatte fu complice. Questi erano i principali artisti della commedia. Avevano preparato i viveri dell'accaparramento, i « miguelitos », (13) le garrote e gli stessi proiettili che ieri ferirono a morte il nostro popolo a Iquique, a Ranquin, a Salvador, a Puerto Montt, a José Maria Caro, a Frutillar, a Puente Alto e in tanti altri posti. Gli assassini di Hernan Mery ballavano con chi avrebbe dovuto difenderne la memoria. Ballavano con naturalezza, da bacchettoni. Si sentivano offesi se gli venivano rimproverati questi « piccoli particolari ».
Il Cile ha una lunga storia civile con poche rivoluzioni e molti governi stabili, conservatori e mediocri. Molti presidenti piccoli e solo due presidenti grandi: Balmaceda (14) e Allende. È curioso che entrambi provenissero dallo stesso cèto, dalla borghesia ricca, che qui si fa chiamare aristocrazia. Come uomini di principi, impegnati ad ingrandire un paese rimpicciolito dalla mediocre oligarchia, i due furono portati a morte allo stesso modo. Balmaceda fu costretto al suicidio per essersi opposto alla svendita della ricchezza del salnitro alle compagnie straniere.
Allende fu assassinato per aver nazionalizzato l'altra ricchezza del sottosuolo cileno, il rame. In entrambi i casi l'oligarchia cilena ha organizzato delle rivoluzioni sanguinose. In entrambi i casi i militari hanno svolto la funzione della muta dei cani. Le compagnie inglesi nel caso di Balmaceda, quelle nordamericane nel caso di Allende, fomentarono e finanziarono questi movimenti militari.
In entrambi i casi le case dei presidenti furono svaligiate per ordine dei nostri distinti «aristocratici». I saloni di Balmaceda furono distrutti a colpi d'ascia. La casa di Allende, grazie al progresso del mondo, è stata bombardata dall'aria dai nostri eroici aviatori.
Eppure, questi due uomini sono stati molto diversi. Balmaceda fu un'oratore seducente. Aveva un aspetto imperioso che lo avvicinava sempre di più al comando
unipersonale. Era sicuro dell'elevatezza dei suoi propositi. In ogni momento si vide circondato da nemici. La sua superiorità sull'ambiente in cui viveva era così grande, e così grande la sua solitudine, che finì per chiudersi in se stesso. Il popolo che doveva aiutarlo non esisteva come forza, vale a dire, non era organizzato. Quel presidente era condannato a comportarsi come un illuminato, come un sognatore: il suo sogno di grandezza rimase un sogno. Dopo il suo assassinio, i rapaci mercanti stranieri e i parlamentari creoli entrarono in possesso del salnitro: per gli stranieri la proprietà e le concessioni; per i creoli le percentuali. Avuti i trenta denari tutto tornò alla normalità. Il sangue di alcune migliala di uomini del popolo si asciugò subito sui campi di battaglia. Gli operai più sfruttati del mondo, quelli delle regioni settentrionali del Cile, continuarono a produrre immense quantità di sterline per la City di Londra.
Allende non è mai stato un grande oratore. E come statista era un governante che chiedeva consiglio per tutte le misure che prendeva. Fu un antidittatore, il democratico per principio fin nei minimi particolari. Gli toccò un paese che non era più il popolo principiante di Balmaceda; trovò una classe operaia potente che sapeva di cosa si trattava. Allende era un dirigente collettivo; un uomo che, senza provenire dalle classi popolari, era un prodotto della lotta di quelle classi contro la stagnazione e la corruzione dei loro sfruttatori. Per queste cause e ragioni, l'opera realizzata da Allende in così breve tempo è superiore a quella di Balmaceda; non solo, è la più importante nella storia del Cile. Solo la nazionalizzazione del rame è stata un'impresa titanica. E la distruzione dei monopoli, e la profonda riforma agraria, e molti altri obiettivi che vennero realizzati sotto il suo governo essenzialmente collettivo.
Le opere e i fatti di Allende, di incancellabile valore nazionale, resero furiosi i nemici della nostra liberazione. Il simbolismo tragico di questa crisi si rivela nel bombardamento del palazzo del governo; uno evoca la guerra lampo dell'aviazione nazista contro indifese città straniere, spagnole, inglesi, russe; adesso succedeva lo stesso crimine in Cile; piloti cileni attaccavano in picchiata il palazzo che per due secoli è stato il centro della vita civile del paese.
Scrivo queste rapide righe a soli tre giorni dai fatti inqualificabili che hanno portato alla morte il mio grande compagno, il presidente Allende. Sul suo assassinio si è voluto fare silenzio; è stato sepolto segretamente; soltanto alla sua vedova fu concesso di accompagnare quell'immortale cadavere. La versione degli aggressori è che trovarono il suo corpo inerte, con visibili segni di suicidio. La versione che è stata resa pubblica all'estero è diversa. Immediatamente dopo il bombardamento aereo entrarono in azione i carri armati, molti carri armati, a lottare intrepidamente contro un sol uomo: il presidente della repubblica del Cile, Salvador Allende, che li aspettava nel suo ufficio, senz'altra compagnia che il suo grande cuore, avvolto dal fumo e dalle fiamme.
Dovevano approfittare di un'occasione così bella. Bisognava mitragliarlo perché non si sarebbe mai dimesso dalla sua carica. Quel corpo è stato sepolto segretamente in un posto qualsiasi. Quel cadavere che andò verso la sepoltura accompagnato da una sola donna che portava in sé tutto il dolore del mondo, quella gloriosa figura morta era crivellata e frantumata dai colpi delle mitragliatrici dei soldati del Cile, che ancora una volta avevano tradito il Cile. (15)