- 1973 - Il mare e le campane - Pablo Neruda - Popol Vuh - Insetti

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- 1973 - Il mare e le campane

IL MARE E LE CAMPANE                  (1973)

INIZIALE

Ora per ora non è il giorno,
è dolore per dolore:
il tempo non si raggrinza,
non si sciupa:
il mare dice mare,
senza tregua,
terra, dice la terra:
l'uomo attende.
E solamente
la sua campana
sta lì tra le altre
nel suo vuoto, conservando
un silenzio implacabile
che si diffonderà allorché onda per onda
solleverà la sua lingua di metallo.

Di tante cose che ebbi,
andando ginocchioni per il mondo,
qui, ignudo,
altro non ho che il duro mezzogiorno
del mare, e una campana.

La loro voce mi danno per soffrire
e il loro avvertimento per fermarmi.

Questo a tutti accade:

lo spazio continua.

E vive il mare.

Esistono le campane.


CERCARE

Dal ditirambo alla radice del mare
s'estende un nuovo tipo di vuoto:
non voglio più, dice l’onda,
non continuate a parlare,
non continui a crescere
la barba del cemento
nella città:
siamo soli,
vogliamo gridare finalmente,
orinare davanti al mare,
vedere sette uccelli dello stesso colore,
tremila gabbiani verdi,
cercare l'amore nella sabbia,
insudiciare le scarpe,
i libri, il cappello, il pensiero
fino a trovarti, nulla,
fino a baciarti, nulla,
nulla senza nulla, senza far
nulla, senza terminare
ciò che è vero.

RITORNANDO

Io ho tante morti di profilo
che per questo non muoio,
sono incapace di farlo,
mi cercano e non mi trovano
e la spunto sempre,
col mio povero destino
di cavallo perduto
nei recinti soli
del sud del Sud d'America;
soffia un vento di ferro,
gli alberi s'acquattano
fin dalla nascita;
devono baciar la terra,
la pianura:
arriva poi la neve
fatta di mille spade
che non finiscon mai.
Io son tornato
da dove starò,
da domani Venerdì,
sono tornato
con tutte le mie campane
e son rimasto inchiodato
cercando la prateria,
baciando terra amara
come l'arbusto acquattato.
Perché è obbligatorio
obbedire all'inverno,
lasciar crescere il vento
anche dentro di te,
finché cade la neve,
s'uniscono l'oggi e il giorno,
il vento e il passato,
cade il freddo,
alfine siamo soli,
finalmente taceremo.
Grazie.

---------

Grazie, violini, per questo giorno
Di quattro corde. Puro
È il suono del cielo,
la voce azzurra dell’aria.

---------

Sembra che una nave differente
passerà sul mare, a una cert'ora.
Non è di ferro né sono arancione
le sue bandiere:
nessuno sa da dove
né l'ora:
tutto è preparato
e non v'è miglior sala, tutto preparato
per l'avvenimento passeggero.
La schiuma è disposta
come un fine tappeto,
tessuto di stelle,
più lontano l'azzurro,
il verde, il movimento ultramarino,
tutto attende.
E aperte le scogliere,
lavate, limpide, eterne,
si dispone sulla sabbia
come un cordone di castelli,
come un cordone di torri.
Tutto
è preparato,
è invitato il silenzio,
e anche gli uomini, sempre distratti,
sperano di non perdere questa presenza:
si son vestiti come di Domenica,
si son lustrate le scarpe,
si sono pettinati.
Si stan facendo vecchi
e la nave non passa.

---------

Quando io decisi di rimaner chiaro
e di cercare mano a mano la sventura
per giocare a dadi,
trovai la donna che mi accompagna
senza pensarci troppo,
per notte, nube e silenzio.

Questa è Matilde,
essa così si chiama
da Chillán,
e piova
o tuoni o spunti
il giorno coi suoi capelli azzurri
o la notte sottile,
lei,
dagli e dagli,
pronta per la mia pelle,
per il mio spazio,
aprendo tutte le finestre del mare
perché voli la parola scritta,
perché i mobili s'empiano
di segni silenziosi,
di fuoco verde.

---------

Dichiaro quattro cani:
uno è ormai sepolto nel giardino,
altri due mi sorprendono,
minuscoli selvaggi
distruttori,
dalle grosse zampe e dai canini duri
come punte di roccia.
E una cagna irsuta,
distante,
bionda nella sua cortesia.
I suoi passi d'oro soffice non si sentono,
né la sua presenza distante.
Latra solo assai tardi nella notte
per taluni fantasmi,
perché solo certi assenti scelti
l'odano per le strade
o in altri luoghi oscuri.

---------

Vennero degli argentini,
eran di Jujuy e di Mendoza,
un ingegnere, un medico,
tre figlie come tre uve.
Io non avevo nulla da dire.
Neppure i miei sconosciuti.
Allora non ci dicemmo nulla,
solo respirammo insieme
l'aria brusca del Pacifico sud,
l'aria verde
della pampa liquida.
Forse se la portarono di ritorno alle loro città
come chi si porta dietro un cane d'altro paese,
o delle ali strane,
un uccello palpitante.

---------

Io mi chiamavo Reyes, Catrileo,
Arellano, Rodríguez. ho dimenticato
i miei vari nomi.
Nacqui con cognome
di roveri vecchi, d'alberi recenti,
di legno sibilante.
Io fui depositato
nel fogliame:
affondò il neonato
nella sconfitta e nella nascita
di selve che cadevano
e di case povere che ora piangevano.
Io non nacqui, invece mi fondarono:
mi misero tutti i nomi insieme,
tutti i cognomi:
mi chiamai cespuglio, poi susino,
larice e poi frumento,
per questo sono tanto e così poco,
così moltitudine e tanto abbandonato,
perché vengo dal basso,
dalla terra.

---------

Salve, diciamo ogni giorno,
a ognuno,
è il biglietto da visita
della falsa bontà
e di quella vera.
È la campana per riconoscerci:
siam qui, Salve!
Si ode bene, esistiamo.
Salve, salve, salve,
a questo e a quell'altro,
e al coltello, al veleno
e al malvagio.
Salve, riconoscetemi,
siamo uguali e non ci amiamo,
ci amiamo e non siamo uguali,
ognuno con cucchiaio,
con un lamento speciale,
incantato d'essere o di non essere:
bisogna disporre di tante mani,
di tante labbra per sorridere,
salve!
che ormai non resta tempo.
Salve
per non accorgersi di nulla.
Salve
per dedicarci a noi stessi
se per caso ci resta qualcosa di noi,
di noi stessi.
Salve!

---------

Oggi quante ore vanno cadendo
nel pozzo, nella rete, nel tempo:
son lente, ma non si son date tregua,
continuano a cadere, unendosi
prima come pesci,
poi come colpi di pietre o di bottiglie.
Laggiù s'intendono
le ore con i giorni,
con i mesi,
con slavati ricordi,
notti disabitate,
vestiti, donne, treni e province,
il tempo si accumula
e ogni ora
si scioglie in silenzio,
si sbriciola e cade
all'acido di tutti i vestigi,
all'acqua nera
della notte inversa.

---------

Conobbi il messicano Tihuatín
sono ormai alcuni secoli, a Jalapa,
e dopo averlo trovato ogni volta
in Colombia, a Iquique, ad Arequipa,
cominciai a sospettare la sua esistenza.
Strano il suo cappello
m'era parso quando
quell'uomo, vasaio di mestiere,
viveva dell'argilla messicana
e poi fu architetto, amministratore
di una ferriera in Venezuela,
minatore e guardia in Guatemala.
Io ho pensato come mai, con la stessa età,
solo trecento anni,
io, con lo stesso mestiere, immerso
nella mia campaneria,
battendo sempre pietre o metalli
perché qualcuno udisse le mie campane
e conoscesse la mia voce, la mia unica voce,
quest'uomo, da anni morti,
da fiumi che non esistono,
cambiava esercizio?

Allora compresi che egli era me,
che eravamo un superstite in più
tra altri di qua o di qui,
altri d'uguali lignaggi sotterrati
con le mani sudice di sabbia,
che nascono sempre e in qualsiasi parte
disposti a un lavoro interminabile.

---------

Vediamo, chiamai la mia tribù e dissi: vediamo,
chi siamo, che facciamo, che pensiamo.
Il più pallido di essi, di noi,
mi rispose con altri occhi,
con altra prepotenza, con la sua bandiera.
Quella era la bandiera del nemico.
Quell'uomo, forse, aveva il diritto
d'uccidere la mia verità, così accadde.
Con me e con mio padre, così accade.
Ma ho sofferto come se m'avessero morso.

OGNI GIORNO MATILDE

Oggi a te: sei lunga
come il corpo del Cile, e delicata
come un fiore d'anice,
e in ogni ramo serbi testimonio
delle nostre indelebili primavere:
Che giorno è oggi? Il tuo giorno.
Domani è ieri, non è successo,
non se n'è andato dalle tue mani alcun giorno:
conservi il sole, la terra, le viole
nella tua piccola ombra, quando dormi.
Così ogni mattina
mi regali la vita.

---------

Vi conterò che nella città vissi
in una certa strada con nome di capitano,
e quella strada aveva moltitudine,
calzolerie, spacci di liquori,
botteghe piene di rubini.
Non si poteva andare o venire,
c'era tanta gente
che mangiava o sputava o respirava,
che comperava e vendeva vestiti.
Tutto mi sembrò brillante,
tutto era acceso
ed era tutto sonoro
come per accecare o assordare.
È di tanto tempo fa questa strada,
è tanto tempo che non sento nulla,
ho cambiato di stile, vivo come le pietre
e al movimento dell'acqua.
Forse quella strada è morta
di morti naturali.

---------

Torno da un viaggio allo stesso punto,
perché?
Perché non torno dove prima vissi,
strade, paesi, continenti, isole,
dove ebbi e fui?
Perché sarà questo luogo la frontiera
che mi scelse, cos'ha questo recinto
se non una sferza d'aria verticale
sopra il mio volto, e fiori neri
che il lungo inverno morde e distrugge?
Ahi, mi stanno segnalando: questo è
il pigro, il signore arrugginito,
non s'è mosso da qui,
da questo duro recinto:
è rimasto poco a poco immobile
finché i suoi occhi si sono induriti
e gli è cresciuta un'edera nello sguardo.

---------

Si torna a io come a una casa vecchia
con chiodi e scanalature, è così
che uno, stanco di sé stesso,
come d'un vestito pieno di buchi,
cerca d'andare nudo perché piove,
l'uomo vuol bagnarsi in acqua pura,
in vento elementare, e non ottiene
che di tornare al pozzo di sé stesso,
alla minuscola preoccupazione
del fatto se è esistito o ha saputo esprimere
o pagare o dovere o scoprire,
come se io fossi così importante
da dovere accettarmi o non accettarmi
la terra col suo nome vegetale,
nel suo teatro di pareti nere.

---------

Tempo fa, in un viaggio
scoprii un fiume:
era appena un bimbo, un cane, un uccello,
quel fiume che nasceva.
Sussurrava e gemeva
tra le pietre
della ferruginosa cordigliera:
implorava esistenza
tra la solitudine di cielo e neve,
lontano, in alto.
Io mi sentii stanco
come un cavallo vecchio
vicino alla creatura naturale
che incominciava a correre,
a saltare e a crescere,
a cantare con voce chiara,
a conoscere la terra,
le pietre, il corso,
a camminare giorno e notte,
a convenirsi in tuono,
fino a diventar vertiginoso,
fino a raggiungere le tranquillità,
fino ad esser ampio e regalare l'acqua,
fino a essere patriarcale e navigato,
questo piccolo fiume,
piccolo e maldestro come un pesce metallico
che passando lascia qui le squame,
gocce d'argento aggredito,
un fiume
che piangeva nascendo,
che andava crescendo
davanti ai miei occhi.
Là nelle cordigliere della mia patria
una volta, tempo fa,
vidi, toccai e udii
ciò che nasceva:
un palpito, un suono tra le pietre
era ciò che nasceva.

---------

Pedro è il quando e il come,
Clara è forse il senza dubbio,
Roberto, il tuttavia:
tutti camminano con preposizioni,
avverbi, sostantivi
che si anticipano nei magazzini,
nelle corporazioni, nella strada,
e mi pesa ogni uomo col suo peso,
con la parola che lo distingue
come un cappello vecchio:
dove vanno?, mi chiedo.
Dove andiamo
con la mercanzia
preventrice,
avvolgendoci in parolette,
vestendoci di reti?

Attraverso noi cade come la pioggia
la verità, l'attesa soluzione:
vengono e vanno le strade
colme di dettagli:
ormai possiamo appendere come arazzi
al salone, al balcone, alle pareti,
i discorsi caduti
nella strada
senza che alcuno resti con qualcosa,
d'oro, di zucchero, d'esseri veri,
di gioia,
non si parla di tutto questo,
non si tocca,
non esiste, sembra, nulla di chiaro,
pietra, legno duro,
base o elevazione della materia,della materia felice,
nulla, non vi sono che esseri senza oggetto,
parole senza destino
che non vanno più in là di te e di me,
né più in qua del mio ufficio:
siamo troppo occupati:
ci chiamiamo al telefono
con urgenza
per notificarci che è proibito
essere felici.

---------

Un piccolo animale,
maiale, uccello o cane
abbandonato,
irsuto tra penne o pelo,
ho udito tutta la notte,
febbricitante, gemente.

Era una notte lunga
e a Isla Negra, il mare
scuoteva tutti i suoi tuoni, la ferramenta,
le tonnellate di sale, i suoi vetri rotti
contro la roccia immobile.

Il silenzio era aperto e aggressivo
dopo ogni colpo o cataratta:

II mio sonno si cuciva
come filando la notte interrotta
e allora il piccolo essere peloso,
orso piccino o bimbo infermo,
soffocava o aveva febbre,
piccolo fuoco di dolore, gemito
contro la notte immensa dell'oceano,
contro la torre nera del silenzio,
un animale ferito,
piccolino,
appena sussurrante
sotto il vuoto della notte,
solo.

---------

Non c'è molto da raccontare
per domattina
quando ormai scenderò
al Buongiorno,
è necessario per me
questo pane
dei racconti,
dei canti.
Prima dell'alba, dopo la cortina,
aperta al sole del freddo,
l'efficacia di un giorno turbolento.
Devo dire: son qui,
questo non m'accadde e questo accade:
frattanto le alghe dell'oceano
si dondolano predisposte

all'onda,
e ogni cosa ha la sua ragione:
sopra ogni ragione un movimento
come d'uccello marino che s'innalza
da pietra o acqua o alga che galleggia.

Io devo chiamare con le mie mani:
Venga uno qualsiasi.

Qui è quello che ho, quello che devo,
udite il conto, il racconto e il suono.

Così ogni mattina della mia vita
porto dal sonno un altro sogno.

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Piove
sopra la sabbia, sul tetto
il tema
della pioggia:
le lunghe elle della pioggia lenta
cadono sulle pagine
del mio amore sempiterno,
il sale di ogni giorno:
torna pioggia al tuo nido precedente,
torna con i tuoi aghi al passato:
oggi voglio lo spazio bianco,
il tempo di carta per un ramo
di verde rosaio e di rose dorate:
qualcosa dell'infinita primavera
che attendevo oggi, col cielo aperto
e la carta, attendevo,
quando tornò la pioggia
a bussare tristemente
alla finestra,
poi a ballare con furia smisurata
sopra il mio cuore e sul tetto,
reclamando
il suo posto,
chiedendomi una coppa
per empirla una volta ancora d'aghi,
di tempo trasparente,
di lacrime.

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In pieno mese di Giugno
mi capitò una donna
o piuttosto un'arancia.
È confuso il panorama:
bussarono alla porta:
era una raffica,
una frustata di luce,
una tartaruga ultravioletta;
la guardai
con lentezza di telescopio,
come se fosse lontana o abitasse
questo involucro di stella,
e per errore dell'astronomo
fosse entrata nella mia casa.

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Questa campana rotta
vuol tuttavia cantare:
il metallo ora è verde,
color di selva ha la campana,
color d'acqua di stagni nel bosco,
colore del giorno nelle foglie.

Il bronzo rotto e verde,
la campana, bocconi
e addormentata,
fu avvolta dai rampicanti
e dal colore oro duro del bronzo
passò a color di rana:
furon le mani dell'acqua,
l'umidità della costa,
a dare il verde al metallo,
tenerezza alla campana.

Questa campana rotta
trascinata nel brusco sterpeto
del mio giardino selvaggio,
campana verde, ferita,
affonda le sue cicatrici nell'erba:
non chiama più nessuno, non si raccoglie
presso la sua coppa verde
più che una farfalla che palpita
sopra il metallo caduto e vola via
con ali gialle.

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Voglio sapere se lei viene con me
a non camminare, a non parlare, voglio
sapere se alfine raggiungeremo
l'incomunicazione: finalmente
andare con qualcuno a vedere l'aria pura,
la luce a strisce del mare d'ogni giorno
o un oggetto terrestre
e non avere nulla da scambiare,
finalmente, non introdurre merci
come facevano i colonizzatori
scambiando cianfrusaglie per silenzio.
Io pago qui per il tuo silenzio.
D'accordo: ti do il mio,
a una condizione: non comprenderci.

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Mi accadde con quel tizio
raccomandato, appena conosciuto,
passeggero sulla nave, la stessa nave
in cui viaggiavo stanco di volti.
Volevo non vederlo; fu impossibile.
M'imposi un altro dovere contro la mia vita:
essere amichevole, non indifferente,
per la sua rapida donna,
alta e bella, con frutti e con occhi,
Ora vedo il mio errore
nel suo triste racconto di viaggiatore.

Fui generoso provincialmente.

Non crebbe la sua meschina condizione
con la mia mano amica, su quella nave,
la sua sfiducia in sé continuò più forte,
come se qualcuno potesse convincere
quelli che non han creduto in sé stessi
a non danneggiarsi nella loro guerra
contro la loro ombra. Perché così son nati.

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Non un caso malaticcio, né l'assenza
della grandezza, no,
nulla può uccidere il nostro meglio,
la bontà, sissignore, che soffriamo:
bello è il fiore dell'uomo, la condotta,
e ogni porta è la bella verità,
non la sussurrante slealtà.

Dall'esser stato migliore, migliore di me,
migliore di quel che fui, ho sempre tratto
la decorazione più taciturna:
ricuperare quel petalo perduto
della mia malinconia ereditaria:
cercare di nuovo la luce che canta
dentro di me, la luce inappellabile.

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Sì, compagno, è ora di giardino
ed è ora di battaglia, ogni giorno
è successione di fiori o di sangue:
il nostro tempo ci destinò legati
a innaffiare i gelsomini
o a dissanguarci in una strada oscura:
la virtù o il dolore si distribuirono
in zone fredde, in mordenti brage,
non c'era altro da scegliere:
le strade del cielo,
prima così percorse dai santi,
son popolate di specialisti.

Sono ormai scomparsi i cavalli.

Gli eroi vanno vestiti da batraci,
gli specchi vivono vuoti
perché la festa è sempre in altro luogo,
dove non siamo più invitati,
e si lotta alle porte.

Perciò questo è il cosiddetto penultimo,
il decimo sincero
tocco della mia campana:
al giardino, compagno, al giglio,
al melo, al garofano intransigente,
alla fragranza delle zagare,
e poi ai doveri della guerra.

Sottile è la nostra patria
e sul suo nudo filo di coltello
arde la nostra bandiera delicata.

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Dacché albeggiò con quanti oggi
s'è alimentato questo giorno?
Luci letali, movimenti d'oro,
lucciole centrifughe,
gocce di luna, pustole, assiomi,
tutti i materiali sovrapposti
del trascorso: dolori, esistenze,
diritti e doveri:
nulla è uguale quando sciupa il giorno
la sua chiarezza e cresce,
poi debilita il suo potere.

Ora per ora con un cucchiaio
cade dal cielo l'acido:
così è l'oggi del giorno,
il giorno d'oggi.

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II porto porto di Valparaíso
mal vestito di terra
m'ha raccontato; non sa navigare:
sopporta l'assalto;
libecciata, terremoto,
onda marina,
tutte le forze lo colpiscono
sul suo naso rotto.
Valparaíso, cane povero
che latra per i monti,
lo picchiano i piedi
della terra
e le mani del mare.
Porto porto che non può partire
per il suo destino aperto nella distanza
e ulula
solo
come un treno d'inverno
verso la solitudine,
verso il mare implacabile.

---------

Tutti mi chiedevano quando parto,
quando me ne vado. È come
se uno avesse firmato in silenzio
un contratto terribile:
andarsene in qualunque modo da qualche parte,
anche se non voglio andare da nessuna parte.

Signori, non me ne vado,
io sono d'Iquique,
sono delle vigne nere di Parral,
dell'acqua di Termico,
della terra sottile,
sono e rimango.

LENTO

Don Rápido Rodríguez
non mi conviene:
donna Lucciola Acuta
non è il mio amore;
per camminare coi miei passi gialli
bisogna vivere dentro
le cose dense:
fango, legno, quarzo,
metalli,
costruzioni di mattone:
bisogna saper chiudere gli occhi
nella luce,
aprirli nell'ombra,
attendere.

ACCADE

Bussarono alla mia porta il 6 d'Agosto:
non c'era nessuno
e nessuno entrò, si sedette su una sedia
e trascorse con me, nessuno.

Mai mi dimenticherò di quell'assenza
che entrava come Pedro nella sua casa
e mi soddisfaceva col non essere:
con un vuoto aperto a tutto.

Nessuno m'interrogò senza dir nulla
e risposi senza vedere e senza parlare.

Che intervista ampia e speciale!

RAMO

Un ramo di gaggia, di mimosa,
fragrante sole dell'intorpidito inverno,
ho comperato alla fiera di Valparaiso
e ho proseguito con gaggia e aroma
verso Isla Negra.

Attraversavamo la nebbia,
campi brulli, sterpeti duri,
terre fredde del Cile:
(sotto il cielo violetto
la strada morta).

Sarebbe stato amaro il mondo
nel viaggio invernale, nell'infinito,
nel crepuscolo disabitato,
se non m'avesse accompagnato ogni volta,
ogni sempre,
la semplicità centrale
di un ramo giallo.

L'AMBASCIATORE

Vissi in una stradetta dove venivano
a orinare ogni gatto e ogni cane
di Santiago del Cile.
Era nel 1925.
Io mi chiudevo nella poesia,
trasportato al Giardino di Albert Samain,
al sontuoso Henri de Regnier,
al ventaglio azzurro di Mallarmé.
Nulla di meglio contro l'orina
di migliaia di cani dei sobborghi
d'un cristallo fino
con purezza essenziale, luce e cielo:
la finestra di Francia, parchi freddi
dove le statue impeccabili
- era nel 1925 -
si scambiavano camicie di marmo,
levigate, dolcissime al tatto
di numerosi secoli eleganti.

In quella stradetta fui felice.

Più tardi, anni dopo,
giunsi da Ambasciatore ai Giardini.

I poeti ormai se n'erano andati.

E le statue non mi conoscevano.

QUI

Sono venuto qui a contare le campane
che vivono nel mare,
che suonano nel mare,
dentro il mare.

Per questo vivo qui.

---------

Se ogni giorno cade
dentro ogni notte
c'è un pozzo
dove la chiarità è rinchiusa.

Bisogna sedersi sulla riva
del pozzo dell'ombra
a pescare luce caduta,
con pazienza.

TUTTI

Io, forse, io non sarò, forse non ho potuto,
non sono stato, non ho visto, non sono:
cos'è questo? E in che Giugno, in che legno
finora son cresciuto, ho continuato a crescere?

Non sono cresciuto, non crebbi, ho continuato a morire?

Ho ripetuto alle porte
il suono del mare,
delle campane:
Ho domandato di me, con rapimento
(con ansietà più tardi),
con sonaglio, con acqua,
con dolcezza:
sempre arrivavo tardi.
Ormai era lontana la mia anteriorità,
ormai non rispondevo a me stesso,
me n'ero andato molte volte.

Mi diressi alla prossima casa,
alla prossima donna,
da ogni parte
a domandare di me, di te, di tutti:
e dove io non ero più non c'erano,
tutto era vuoto
perché semplicemente non era oggi,
era domani.

Perché cercare invano
ad ogni porta in cui non esisteremo
perché ancora non siamo giunti?

Così fu come seppi
che io ero esattamente come te
e come tutti.

PIGRIZIA

Non ho lavorato di Domenica,
benché mai sia stato Dio.
Né dal Lunedì al Sabato
perché son creatura pigra:
mi sono accontentato di guardare le strade
dove lavoravano piangendo
spaccapietre, magistrati, uomini,
con arnesi o con ministeri.

Ho chiuso tutti i miei occhi d'un tratto
per non compiere il mio dovere:
questa è la cosa,
mi sussurravo a me stesso
con tutte le mie gole,
e con tutte le mie mani
accarezzavo sognando
le gambe femminili che passavano volando.

Poi ho bevuto vino rosso del Cile
per venti giorni e dieci notti.
Ho bevuto quel vino color amaranto
che ci palpita dentro e scompare
nella tua gola come un pesce fluviale.

Devo aggiungere a questa testimonianza
che più tardi ho dormito, dormito, dormito,
senza rinnegare la mia cattiva condotta
e senza rimorsi:
ho dormito bene come se piovesse
interminabilmente
sopra tutte le isole
di questo mondo
bucherellando con acqua celeste
la scatola dei sogni.

NOMI

Ahi, Edvige, che bei nome
hai, donna dal cuore azzurro:
è un nome di regina
che a poco a poco giunse alle cucine
e non tornò nei palazzi.

Edvige
è fatto di sillabe intrecciate
come grappoli d'aglio
che pendono dalle travi.

Se guardiamo il tuo nome nella notte,
attenzione! risplende
come una tiara dalla cenere
come una bragia verde
nascosta nel tempo.

ASPETTIAMO

Vi sono altri giorni che ancora non son giunti
che si stanno facendo,
come il pane o le sedie o il prodotto
delle farmacie e delle officine:
vi sono fabbriche di giorni che verranno:
esistono artigiani dell'anima
che sollevano e pesano e preparano
certi giorni amari o preziosi
che d'improvviso giungono alla porta
per premiarci con un'arancia
o per assassinarci di colpo.

LE STELLE

Da lì, da lì, indicò il campanaro:
e da quel lato la moltitudine vide
quello di sempre, l'azzurro notturno del Cile,
un palpito di pallide stelle.

Vennero altri, quelli che mai avevano
visto, finora quello che sosteneva
ogni giorno e ogni notte il cielo,
e altri ancora, altri ancora, più sorpresi,
e tutti domandavano, dove, dove?

E il campanaro, con grave pazienza,
indicava la notte stellata,
la stessa notte di tutte le notti.

CITTÀ

Sobborghi di città con denti neri
e pareti affamate
saziate con stracci di carta:
l'immondizia sparsa,
un uomo morto
tra le mosche d'inverno
e l'immondizia:
Santiago,
testa della mia patria
incollata alla gran cordigliera,
alle navi di neve,
triste eredità
di un secolo di signore dall'esile collo
e di signori dalla barbetta bianca,
dolci bastoni, cappelli d'argento,
guanti che proteggevano unghie d'aquila.

Santiago, l'ereditata,
sudicia, insanguinata, sputacchiata,
triste e assassinata:
l'abbiamo ereditata
dai signori e dal loro potere.

Come lavare il tuo volto,
città, cuore nostro,
figlia maledetta,
come
renderti la pelle, la primavera,
la fragranza,
vivere con te viva,
accenderti accesa,
chiudere gli occhi e spazzar via la tua morte
fino a risuscitarti e a farti fiorire,
a darti nuove mani e occhi nuovi,
case umane, fiori nella luce!

---------

Si bussa a una porta di pietra
sulla costa, nella sabbia,
con molte mani d'acqua.
La roccia non risponde.

Nessuno aprirà. Bussare è perder acqua,
perdere tempo.
E tuttavia, si bussa,
si batte
tutto il giorno e tutto l'anno,
tutti I secoli, i secoli.
Finalmente qualcosa è accaduto.
La pietra è un'altra.

C'è una curva dolce come un seno,
c'è un canale per dove passa l'acqua,
la roccia non è la stessa ed è la stessa.
Lì dove era dura la scogliera
dolce sale l'onda per la porta
terrestre.

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Perdono se attraverso i miei occhi non giunse
altra chiarezza che la schiuma marina,
perdono perché il mio spazio
si estende senza protezione
e non termina:
monotono è il mio canto,
la mia parola è un uccello cupo,
fauna di pietra e di mare, lo sconforto
di un pianeta invernale, incorruttibile.
Perdono per questa successione dell'acqua,
della roccia, della schiuma, il vaneggiare
della marea: è così la mia solitudine:
bruschi salti di sale contro i muri
del mio segreto essere, in tal modo
che io sono una parte
dell'inverno,
della stessa estensione che si ripete
di campana in campana in tante onde
e di un silenzio come chioma,
silenzio d'alga, canto sommerso.

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Insanguinata fu ogni terra dell'uomo.
Tempo, edificazioni, strade, pioggia,
cancellano le costellazioni del crimine;
è certo che un pianeta così piccolo
fu mille volte coperto dal sangue,
da guerra o da vendetta, da imboscata o battaglia,
caddero uomini, furono divorati,
poi l'oblio andò riprendendo
ogni metro quadrato: a volte
un vago monumento menzognero,
a volte una frase di bronzo,
poi conversazioni, nascite,
municipalità e l'oblio.
Che arti abbiamo per lo sterminio
e che scienza per estirpare ricordi!
È fiorito ciò che fu insanguinato.
Prepariamoci, ragazzi,
a uccidere di nuovo, a morire nuovamente,
e a coprire di fiori il sangue.

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Gorgheggiò il zorzal, uccello puro
dei campi del Cile:
chiamava, celebrava,
scriveva nel vento.
Era presto,
qui, d'inverno, sulla costa.
Restava una macchia celeste
come un sottile pezzo di bandiera
che galleggia sul mare.
Poi il colore azzurro invase il cielo
fino a che tutto si riempi d'azzurro,
perché questo è il dovere di ogni giorno,
il pane azzurro di ogni giorno.

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Il mare è lì? Benissimo, passi.
Datemi
la gran campana, quella di stirpe verde.
No non è quella, l'altra, quella che
sulla bocca di bronzo ha una rottura,
e ora, nient'altro, voglio restar solo
col mare immenso e la campana.
Voglio per una lunga volta non parlare;
silenzio, voglio imparare ancora,
voglio saper se esisto.


FINALE

Matilde, anni o giorni
addormentati, febbricitanti,
qua o là
inchiodando,
rompendo la spina dorsale,
sanguinando sangue vero,
risvegliandomi a volte
perduto, addormentato:
letti clinici, finestre straniere,
vestiti bianchi delle silenziose,
il torpore nei piedi.

Poi questi viaggi
e il mio mare di nuovo:
la tua testa al capezzale,

le tue mani volanti
nella luce, nella mia luce,
sopra la mia terra.

Fu così bello vivere
quando vivevi!

il mondo è più azzurro e più terrestre
di notte, quando dormo,
enorme, tra le tue piccole mani.


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