- 1972 - Geografia infruttuosa - Pablo Neruda - Popol Vuh - Insetti

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- 1972 - Geografia infruttuosa

Geografia infruttuosa (1972)


IL SOLE

In piena luce di sole accade il giorno,
il giorno sole, il silenzioso marchio
che si stende sui campi del cammino.

Io sono un uomo luce, con tanta rosa,
con tanta chiarità sconsiderata
che di fulgore arriverò a morire.

E non divido il mondo in due metà,
in due sfere nere oppure gialle
io lo conservo invece in piena luce
come una sola uva di topazio.

Laggiù lontano molto tempo fa,
sono giunto in un paese così chiaro
che anche la notte era fosforescente:
sento ancora il fruscio di quella luce,
ambra rotonda è tutto il cielo:
lo zucchero azzurro sale dal mare.

Ancora, ormai si sa, e per sempre
raccolgo e aggiungo luce al patriottismo:
ho dei doveri duramente diurni:
devo dare e aprire nuove finestre
stabilire l'invitta chiarità,
continuare, seppure non comprendono,
la mia propaganda di cristalli.

Non so perché poi tocca ad uno in lutto
sempre, a un prodotto dell'inverno
a un provinciale con odor di pioggia
questa riverberante professione.

A volte penso d'imitare l'umiltà,
chiederei di lasciarmi l'allegria
ma non c'è tempo: è necessario
che io arrivi presto e corra altrove
solo perché sia la luce d'oggi,
la luce mia o quella della notte:
e quando ormai la luminosità si è estesa
in questo punto o in un altro qualunque
dicono che c'è buio nel Perù,
che non è nato il giorno in Patagonia.
Senza poter dormire devo partire:
perché mi sono fatto trasparente!

Oggi, questo aperto mezzogiorno vola
con tutte le api della luce:
è una sola coppa la distanza,
le terre chiare della mia vita.

E il sole brilla verso Valparaíso.


ESSERE

Appartengo
All’altro ieri come ogni ruminante
che mastica il passato tutto il giorno.
Quale passato? Nessuno
se non se stesso, niente
se non un gusto
d'arrosto e vino nero muto
per alcuni,
per altri di sangue
o gelsomini.

Io sei il riassunto
di quel che vivrò, sia gola o rosa,
corallo gregario o toro,
pulsante andare e venire fuori
e dentro:
un nessuno invariabile, eterno
solo perché la moltitudine dei morti,
di quelli che vivranno, di quelli che vivono
in te stesso hanno fondamento,
si continuano come un filo rotto
che seguita a spezzarsi e a durare
da una vita all'altra, senza che nessuno
si assuma tanto sperma versato:
polline ardente, sesso, bruciatura,
paternità di tutto ciò che canta.

Ahi, io non ho portato un segno
come corona sulla mia testa;
fui un povero essere: sono un orgoglio inutile,
un sarò vittorioso ed annientato.


SUCCESSIVO

E allora riveliamoci,
mostriamo ognuno il proprio lato in ombra,
il proprio cesto di pesci:
palpita ancora l'argento
che cogli dall'acqua,
vive ancora il fuoco
acceso negli altri (che è il tuo):
esaminiamo senza tristezza quel
che a poco a poco ci siamo rubati
e quel che tutti ci siamo donati.

Quel che la vita ha di successivo
è l'andare e venire degli uguali:
Morte all'identità, dice la vita:
ognuno è l'altro, e ci congediamo
da un corpo per invaderne un altro.
Uomini: ci abitiamo a vicenda,
ci consumiamo l'un l'altro,
sconosciuti e irriconciliabili
come colori che si contraddicono
e si riuniscono nell'oscurità.

Oh alimentatrice madre ombra,
argilla, patria nera
che riproduce l'infinito umano,
il cuore innumerabile ed il fiume
di individui col nome e la cravatta,
un numero e l'angoscia,
latitudini popolate di fianchi
compagni come il rame, donne verdi,
razze ostili, labbra migratrici:
esseri con sapore in tutto il globo.


TUTTI SEDUTI

L'uomo cammina verso la sedia:
da quell'orizzonte fino a questa notte,
da più lontano, da più vicino:
non rimane che un passo fino ad essa,
la sedia, per sedersi desolato
o felice, sedersi in piena luce
o mangiare fra gli altri già seduti.

Non c'è scelta pari a questa: l'aria vive
seduta su questa sedia della terra
e il mattino ci conduce tutti
alla postura che ti dà una sedia,
una semplice sedia di legno.

Di tanto andare e rompere, di tanta
e di quanti mattini si sono visti
o cacciatori quando spunta il giorno
in piena polvere e con selva oscura,
tutto finisce in sedia e cerimonia:

la parabola si apre per finire
finché si è chiusa su una sedia.

Nessuno più cammina in questo mondo.


CONTIAMOCI


Oggi è il ventisette, un ventisette.

Chi ha numerato i giorni?

Di che si tratta?

Io
domando
in questo mondo, su questa terra, in questo
secolo, in questo tempo,
in questa vita numerale, perché,
perché ci hanno ordinati, sommersi in
quantità, perché ci hanno diviso
la luce d'ogni giorno,
la pioggia dell'inverno
il pane del sole d'ogni estate,
i semi, i treni,
il silenzio,
la morte con le sue case numerate
negli immensi cimiteri bianchì,
le strade alberate.
Ognuno al suo numero
gridano non solo quegli esseri d'inferno
d'accampamento e forno
ma anche le deliziose,
brune improrogabili
o bionde zuccherose:
ci ammucchiano in numeri che rapidi
da quei registri cadono nell'oblio.
Io mi chiamo trecento,
quarantasei o sette,
con umiltà regolo conti
per arrivare a zero e congedarmi.


AVERI

II luccichio
del frammento sorpreso di cristallo
è come un pesce che si muove in cielo
se non raggiunge la stabilità:
è buono il pane e il sole alla tua tavola:
bisogna avere il mare in una coppa:
è mia nemica la rosa in libertà.
Avere parole e libro, bocca e sguardo,
avere ragione e luna, trovare
fresca la sedia quando hai ombra
e l'acqua tua per la tua stessa sete.

Ho cercato per i monti e per le strade
le evidenze della mia proprietà
molte volte più chiare della rugiada
e altre amaramente ostili:
con ragni e spighe,
pietra, fulgore, fianchi,
prodigi forestali o industriali,
feste, colombe, biciclette:
ho riunito le vicende
della mia saggezza,
fui sempre fuggitivo e possessivo
ho amato e amato e amato quel che avevo
e così ho scoperto l'esistenza,
chicco a chicco mi sono impadronito
di tutte le finestre di questo mondo.


SONATA CON DOLORI

Ogni volta risorto
entro nell'agonia e nell'allegria,
muoio per sempre
senza morire,
così è, è così e di nuovo così.

Il colpo che ti diedero
l'hai ripartito intorno alla tua anima,
l'hai lasciato cadere di veste in veste
macchiando gli indumenti
con le impronte digitali
dei dolori che t'hanno destinato
e che a te solo toccavano.

Ahi, mentre tu cadevi
nella crepa tremenda,
la bocca che cercavi
per vivere e dividere i tuoi baci
cadde lì con te, unita alla tua ombra
nell'apertura destinata a te.

Perché, perché, perché ti sei assegnato
corona e compagnia nel tuo supplizio,
perché si è attribuito il fiore azzurro,
la partecipazione della tua disfatta?

E un giorno di dolori come spade
s'è diviso dalla tua stessa ferita?
Si, sopravvivi. Si sopravviviamo
nell'incancellabile, facciamo
di molte vite una cicatrice,
di tanta fiamma una cenere amara
e di tante campane
un battito, un suono sottomarino.


SOLILOQUIO INCOMPIUTO

Al rischio della luce
della distanza
proprio in questo mi avvolgo, nella mia ragione
nella sincerità del mio arbitrio
e quand'ormai riesco a dirmi addio
sempre con me mi trovo,
con questo sono che m'aspettava
e che non vuole congedarsi mai.

Addio, addio gli dico
e prende proprio il passo che io lascio
e ricomincia con le mani mie
a cercare nella sabbia o nell'ombra
i miei stessi materiali inconclusi.

M'inseguii per i tavoli e i mari
di giardino in giardino di vino in vino;
mai sorpreso della mia identità
invidiandomi a volte, disprezzandomi,
senza che fosse giusto né evidente:
avventurato nel più oscuro sale,
tinto da amare circostanze
e così pieno e sazio di me stesso
che entrai negli altri, provvisoriamente
come in una stazione piena di treni
che uno prende quello di ieri, che non esiste.

Non è strano che davanti all'uomo, l'uomo solo,
moltiplicato, longitudinale,
che accumula sole nel suo granaio,
immensa luna, spade torrenziali,
il viaggiatore verso dove e verso dentro
sempre dentro il suo essere, splendente e duro,
l'uomo che sarò, che fui, che sono,
davanti al perituro imperituro
si pianti l'ultimo venuto
con un osso rognoso fra i denti
e teleabbai qualche sciacallo precario
incatenato all'amarezza amara.

Tra il mare e il mezzogiorno la distanza
non perché è lampo sfugge
ma perché è fragranza:
odore del tempo, stella resa ardente
dalle ripetizioni della spuma
e in questo sonaglio impazzito
sono sempre il mio diretto testimone.

Non sono solo gli occhi
che completano
l'infinito nitore, il sano cielo,
le lande, la salute silvestre,
ma l'andare e il venire delle tue fatiche:
questo ricominciarti tutti i giorni,
raggiungerti stanco e rinascere,
viverti una volta ancora e continuarti
seminando ombra e sangue, terra e terra
in ciò che ti toccò da seminare,
da scavare e da raccogliere,
da partorire e da continuare
il tuo ieri e il tuo durare in questo mondo.


CILIEGIE

È stato in quel mese, in quella patria.

C'è stata una vicenda inaspettata,
è accaduto così: da un giorno all'altro
quel paese s'è riempito di ciliegie.

Era recalcitrante
il tempo maschile scuoiato
dal bacio polare: non si può immaginare
che cosa raccoglievo nelle tenebre:
(metalli morti e ossa di vulcani)
(silenzi cosi cupi
che bendavano gli occhi delle isole)
e tra le rocce ormai
si dava per scontato il labirinto
senz'altra via d'uscita che la neve
quand'è arrivato senza alcun avviso
un dolce vento amico che portava
il colore che piaceva alle bandiere.

Di ciliegia in ciliegia cambia il mondo.

E se c'è qualche dubbio
chiedo a un'autorità di esaminare
la mia volontà, il mio petto trasparente,
perché seppure il vento ci rubò l'estate
io dispongo di ciliegie nascoste.


A JOSÉ CABALLERO DA ALLORA

Non ho più visto tanta gente,
perché?

Si sono dissolti nel tempo.
Si sono fatti invisibili.

Tante cose che non vedo più
e non mi vedono. Perché?

Quei quartieri con i barili
le corde e i formaggi galleggianti
nei sobborghi dell'olio.

Ho lasciato la via della Luna
e la taverna di Pascual.
Non ho più visto Federico.
Perché?

E Miguel Hernández cadde
come pietra dura nell'acqua,
nell'acqua dura.

Anche Miguel è invisibile.

Di tutto quel che ho amato, quanto poco
mi resta da vedere,
da toccare,
da vivere.

Perché non ho più visto il freddo
del mese di gennaio, come un lupo
che veniva dal Guadarrama
a leccarmi con la sua lingua
a, tagliarmi con il suo coltello?
Perché?

Perché non vedo Caballero,
pittore terrestre e celestiale.
con una mano nella tristezza
e l'altra nella luce?

Lui lo vedo.

Forse più dentro nella terra,
nel colore, nel silenzio,
innamorato, aranciato,
vive un sole sopravvissuto.

Attraverso di lui vedo la vita
che ho smesso di vedere mai.
E la gioia che non ho perduto
(perché ho appreso dopo le cose,
lottando).

Attraverso il suo inchiostro ardente
e la sua argilla delirante,
attraverso il fulgore puro
che lo rivela,

vedo quello che ho amato e non ho perso
e amo ancora:
strade, terra, dolcezza, freddo,
la sepolcrale Plaza Mayor,
il tempo con la sua lunga chioma.

E in terra una rosa bianca,
insanguinata.


TRONCHI TAGLIATI SU UN CAMION
IN UNA STRADA DEL CILE

Otto tronchi tagliati
su un camion, in viaggio:
vengono dalla montagna,
vengono dal verde duro
di Lonquimay, terre di cielo e neve,
miei recinti di luce, solitudini.

O boschi moribondi,
fogliami freddi, vertebre penultime
dell'iracondo ieri:
della guerra spagnola ed araucana:
spade e cavalli
sotto il rancore sordo della pioggia!

Otto tronchi distesi
a dorso di camion, in linea retta
lungo le strade da Santiago al Polo,
al Polo Sud, alla distanza bianca.

Orto compagni miei
con le radici tagliate
nel mio stesso lignaggio.

C'è sole, è una festa
fiorita, al sole, l'agricoltura
di un'estate violenta;
viola e gialla la strada,
azzurro l'obelisco
della digitale,
l'esplosione
del papavero, e da ogni parte
una persecuzione di rovi.

È l'estate delle cordigliere.
Il mezzogiorno è un orologio azzurro
estatico, rotondo, attraversato
dal lento
volo di un uccello nero che sembra
accompagnare i tronchi nel viaggio,
seguire gli alberi destituiti.


SEMPRE PER LE STRADE

Mi sono svegliato annuvolato
tra Metrenco e Villarrica, in cammino,
dentro campagna, roveri, animali
e il cuore annuvolato,
oppresso da vaste nubi verdi,
nubi piovose, nera geografia.

Bisogna mordere silenzio
le mattine, per queste strade
coi cavalli lanciati, trasparenti
sotto la luce obliqua
mentre il sole di ieri e quello di domani
vivono altrove,
in altre terre dove io non sono,
nell'altra metà di questo giorno.

E ho scelto questa cenere,
questa mattina dagli occhi d'argento
nel fondo di me stesso:
ho continuato i fiumi pietrosi
e il vacillare della luce:
all'apparire del giorno
tra il sole e gli occhi che s'aprivano
tra questo territorio e il mio destino
si è disposta la chiave della pioggia.

E l'inverno aprì le serrature.


CONTINUA

Questa sera ed è presto ad ogni ora:
ad ogni splendore, ad ogni ombra
ci risveglia ogni imbrunire:
il tempo immobile
maschera
il suo volto inevitabile
e muta ma non cambia la sua veste:
notte o sottile aurora,
silenzio lungo dei ghiacciai,
imporporata mela dell'estate:
è tutto passeggero come il vento:
il tempo aspetta, immobile,
non ha calore né colore,
non ha sole e non ha stella:
è questo l'assolutismo che ci regge:

addio! addio! E nulla si altera.


MA FORSE

È vero nulla si altera ma qualcosa forse sì
qualcosa, un brezza, l’aria, la vita, o infine, tutto
e quando già cambiò tutt’è cambiato
e ognuno se ne è andato col nome e con le ossa.

Bene bene, un giorno in più: che grande cosa
come saltare in un abisso nuovo
o ancora in altri, in un altro
regno di passeggeri: la faccenda
non finisce mai quand’è finita
e quand’è cominciata tu non c’eri.

E perché tanti fiori, tanto vasta
stirpe vegetale che innalza
stami, pollini, luci, insetti, luna
e i nostri piedi, le nostre bocche piene
di parole, di polvere
che svanisce,
qui imbarcati, qui maturati
in piena deliziosa luce di cielo?

E perche? A quale scopo? Ma perché?


VERSO COSÌ LONTANO

All'isola di Pasqua e alle sue presenze
scappo, sazio di porte e strade
in cerca di qualcosa che non ho perso lì.

Il mese di Gennaio, secco
assomiglia a una spiga;
pende dal Cile la sua luce gialla
finché il mare non lo cancella
e io parto di nuovo per tornare.

(Statue che la notte ha costruito
e sgranato in un circolo perfetto
perché non le vedesse altri che il mare).

Andai per riscattarle, per erigerle
nel mio domicilio scomparso, e qui
circondato da presenze grige
e bianchezza spaziale, da movimento
azzurro, acqua marina, nubi, pietra,
ricomincio le vite della mia vita.


DEI VIAGGI

II mare appariscente, il mare rotondo
della nave, senz'ali,
liscio, disteso quando il giorno cala
e io, io che sono te, io che non sono,
meditabondo passeggero, razza
dall'onore sciupato su pietre e arenili,
aspetto qui, sempre alla stessa ora
le tenebre d'ogni giorno.

Perché, dopotutto o prima di questo
che c'è tra luce e luce se non la durata?

Ogni giorno con la sua coppa aperta
ci regala e ci ruba la luce
fino a quando naufraghiamo nell'ombra
insieme alla nave e ai passeggeri,
con il piccolo mondo di quel giorno.

A domani, raggio.

Alla prossima luce, notte cupa.

Arrivederci di nuovo intorno a me
cielo del giorno, cintura del mare
per essere di nuovo e per trascorrere
ancora governati
dal volere del sole o dell'ombra.


SONATA DI MONTEVIDEO

Quando sgorgava sangue
dalla città, colava
dalle crepe, immobile
come un ramarro lento
e in ogni casa di Montevideo nasceva
qualche tipo di dolore, d'odio, d'errore, di dubbio
di sospetto, d'onore o di terrore
anche se nessuno sembrava
vicino alla fine, a una fine, e tutti
tacevano o si guardavano accecati,
accecati tacevano,
o ad occhi aperti non sapevano dove andavano,
i sequestrati, i sequestratori
con madri in pena da una parte e dall'altra,
con assassini e assassinati,
in case distrutte che si dissanguavano
per essere state ferite tante volte
o code di pesce e poltiglia
di carte e fango, sabbia, bucce
di cipolla, cappelli perduti, frutta morta
come se sull'orgogliosa città dai lunghi pesci
argentati come spade, fosse caduta una nube
che non s'apriva, che non dava pioggia
ma un'ombra secca, di cartone che scricchiola,
una nube opprimente che forse
non è scesa dall'alto ma è salita dal basso,
dall'amore polveroso, dalla terra inaridita
dalle stanze che non hanno avuto mai tempo
per la felicità; quella nube davvero
l'ho toccata venendo dal mio paese, di passaggio,
e ho pensato che il martirio dell'uomo è la transizione
la terra di nessuno dove avanzano quattro piedi,
due per ogni lato, due piedi, seguiti da due mani,
seguiti da due occhi ciechi che si vogliono uccidere.

O tempo che m'è toccato da spartire col mio nemico
e col mio amico, ora amara
fra tutte le ore destinate:
ti ripeti qui, in un viaggio, tra le cordigliere e il dolore
come se per giungere al mare, il mio destino
fosse assorbire il lutto
dei remoti e dei vicini,
nel pane bagnato dalle lacrime.
Per questo, atlantico mare, vicino a Santos,
sono grato al tuo giorno sereno;
Io spazio è un ampio uovo azzurro, una coppa
rovesciata, trasparente: il mare sembra duro
nella verità del suo volto infinito.

(Si, grazie, inquieto permanere,
natura infine, rosa ineludibile
di nuovo pura, imperitura forse,
immune dal conflitto terrestre
umana o inumana, senza macchie d'odio o d'amore
senza lotta giusta, senza speranza né sangue.)


PAESAGGIO SUL MARE

Il re azzurro è un giorno che si eleva
alto sul mare, su tutte le navi,
sovrano inaccessibile
duro nella sua forma,
remoto, impersonale
come una nuvola, come uno sguardo
e tutto il resto è corpo e occhi
corpo celeste, palpebra del cielo,
coppa perfetta del suo vino azzurro.


A PIENA ONDA

È molto serio il vento di Marzo sull'oceano:
non c'è paura: il giorno è chiaro, il sole illustre
io con mille altri sono sopra il mare
sulla nave italiana che ritorna a Napoli.

Forse hanno portato tutti le loro infedeltà,
malattie, carte tristi, debiti, lacrime,
denaro e sconfitte nei numeri:
ma è difficile quassù giocare con la ragione
o compiacersi delle disdette altrui
o mantenersi feriti ad ogni modo:
c'è un vento che non si può sopportare
e siccome non eravamo pronti
neppure per essere felici, neppure e tuttavia
per ponti e scale siamo saliti a meditare,
il vento ci ha cancellato la testa, che strano:
subito abbiamo sentito di star meglio:
senza testa si può discutere col vento.
A tutti noi, malinconici della mia specie,
noi che inutilmente ci addossiamo tristezze nostre
e d'altri, noi che pensiamo tanto alle sciocchezze
finché crescono, più grandi di noi,
a tutti raccomando il mio chiaro trattamento:
l'igiene azzurra del vento in un giorno di sole,
un colpo d'aria furioso e ripetuto
nello spazio atlantico su una nave in mare,
dichiaro tuttavia che la salute fisica
non è il mio tema: è l’anima che ho a cuore:
voglio che le piccole cose che ci straziano
siano sempre piccole, impari e risolvibili
così che quando ci abbandona il vento
vedremo faccia a faccia l’invisibile.


INVERNO IN EUROPA

Verso il mese di Novembre mi incamminai, cappello
e guanti.
Era inverno, in terra di Francia.

Non andai a cercare ragioni, né la verità né l’ombre.

Trovai per prima una signora fragile
che tornava dal Cile, affaticata:
(in una strada vicino ad Isla Negra
un tal Montiel [che muoia fulminato]
quasi l'aveva uccisa con la sua automobile).

Ora col suo bel viso levantino, affilato
dal dolore, i suoi occhi
viaggiavano ancora con me come due lampade nere:
rimasero accese attraverso l'inverno.

Nessuno ha viaggiato con me nella bruma
tra le ultime toglie dorate
verso il cielo freddo e bianco, guidato
da due occhi di dama moribonda.

Solo l'edera caparbia
conservava il suo triste grido verde
salendo dalla terra lungo gli alberi:
i boschi erano solo linee secche
che andavano svanendo nella bruma.

Io cercavo le lettere del nome di Novembre.


NASCE UN GIORNO

Era da finestra chiusa quel giorno,
era ancora di notte, era di pietra,
quando mi risvegliai,
quando si risvegliò
il suono di quello, dell'ogni giorno
il suono del sole,
e mi accorsi, quasi dormendo ancora,
che io ero la campana colorata,
quel risvegliarsi giallo.


IL CAMPANILE DI AUTHENAY


Contro la luminosità dei prati
un campanile nero.

Salta dalla chiesa triangolare:
lavagna e simmetria.

Minima chiesa nella dolce vastità
fatta per le preghiere di una colomba.

La pura volontà di un campanile
contro il cielo d'inverno.

Dirittura divina della freccia
dura come una spada

col metallo di un gallo tempestoso
che vola sulla banderuola.

(È l'orgoglio, non è la nostalgia
il nostro vestito passeggero

ed il fogliame che ci copriva
cade ai piedi del campanile.

Quest'ordine puro che s'innalza
sostiene il suo sistema grigio

nel nudo dominio
della stagione color di pioggia.

Qui l'uomo è stato e se ne è andato:
ha lasciato il suo dovere lassù in alto

per tornare agli elementi
all'acqua della geografia.

Così potevo essere e non potei,
così non ho imparato i miei doveri:

sono rimasto là dove tutti
potessero guardare le mie mani vuote:

quel che non ho costruito:
il mio cuore disabitato:

mentre oscuri utensili
braccia grige, mani oscure

innalzavano la purezza
di un campanile e di una freccia.

Ahi, quel che ho portato io alla terra
l'ho sperperato senza fondamento,

non ho innalzato altro che nubi
e ho camminato solo con il fumo

non sapevo che con la pietra oscura
si innalzava la purezza

in territori anteriori,
nell'inverno indifferente.)

Oh stupore verticale nei prati
umidi e immensi:

un'esile linea d'ago
esatta, sopra il cielo.

Quante volte di tutto quel paesaggio,
alberi e zolle

nell'infinita stella orizzontale
della terrestre Normandia,

per la neve o la pioggia o il cuore stanco
di tanto andare e venire per il mondo,

i miei occhi rimasero ancorati
al campanile di Authenay,

alla struttura della volontà
sopra i domini dispersi

della terra che non ha parole
e della mia stessa vita.

Nell'interrogare di quei prati
e dei miei attoniti dolori

una presenza immobile racchiusa
dai prati e dal silenzio:

la freccia di una torre nuda e scura
che sostiene un gallo nel cielo.


PAESE:

Io adesso vivo in un paese dolce
come la buccia dell'uva in autunno:
verde bianco e violetto è questo tempo:
il sole è andato via da un po' e non ritorna:
gli alberi nudi si disegnano
innalzando il fulgore penultimo nelle loro chiome:
la voce dei poeti corre sui tappeti:
niente s'inchioda ai tuoi occhi per ferirti:
non si disobbedisce alla dolcezza.

Io abito adesso la delicatezza
di grandi fiumi immobili, di rive
dipinte dagli anni più chiari e tenaci:
tutti i drammi sono finiti prima:
le guerre seppellite da un patto
tra l'onore e l'oblio:
nessuno ha diritto al martirio né alla fame
bisogna entrare nella casa dorata dell’autunno.


LA DIMORA SEGUENTE

Tornando al legno, nel mese del freddo
in Dicembre, in Europa, col sole
nascosto, sprofondato nella veste
di nube e neve, mi aspettava
la dimora seguente:
grandi finestre sull'acqua immobile
e grandi travi amiche del fumo.

Forse mi destinò o mi destinarono
fra tanti chissà
a questa penultima volta, a quest'intreccio
di alberi millenari che son morti
e di nuovo in piedi
hanno innalzato con pietra e uccelli
e alberi spogliati dal freddo
questa casa, questo spazio
perché dormisse il vecchio errante
sapendo che il primo mattino
bianco di neve è vero,
senza città, in un povero casale:
il mattino nudo si dischiude
come un frutto freddo e vero.

La verità ha volto:
d’acqua e legno sono i suoi occhi,
di neve i suoi denti:
sorride al sole celeste ed alla pioggia:
bisogna cercarla:
il corpo della vita scivola
tra un'alba d'infanzia, lontano,
letti e cinema, treni,
aule, fabbriche, alberghi,
uffici, caserme,
e tra partenze e ritorni se ne va la vita
nascondendo i piedi e lo sguardo.

Perciò bisogna fermarsi, all'improvviso,
annusare la pietra, toccare il legno
attraversare la brina:
stabilire infine la nostra evidenza:
esistere senza ragione né senso
in questa nudità della mattina
che poi la sera vestirà di nero.

(Qui tra il legno e il legno
circondato di purezza silenziosa
sento lo spazio seguirmi un'altra volta
e starmi intorno, aperto
fino al mare forse o forse al cielo,
nel centro di un circolo abitato
da tronchi senza foglie, dalle linee
che l'inverno disegna, dal volo
rapido e secco di uccelli grigi,
io torno ad essere, a riconoscermi,
estatico forse, non senza fatica
ma fresco e metallico,
sicuro d'esser albero e campana.)



FUGA DI SOLE

Verso paesi dove cresce la senape,
regioni bionde, vegetali, acide,
dobbiamo andare noi, gli addormentati,
a contagiarci: è ora, Antonieto
di cambiare il ruolo ferrugginoso
che ci ha imposto il giorno in cui nascemmo,
quel giorno di ferro,
quella stella di carbone bruciato
che ci ha dato nascita e dolori:
ahi, portiamo i nostri cuori neri
verso il sole sferzante e la gioia:
è già tempo di andare a calpestare
scalzi le cipolle,
i nasturzi, le ninfee:
prima o poi bisogna smettere di vedere
il mondo con sguardo minerale
ed inchinarsi alla semplicità
della vita più verde possibile.


PRIMO INVERNO

Osservo il giorno come se l’allevassi,
come se io l’avessi dato alla luce
da quando arriva, scuro, alla finestra
come un uccello nero
fino a che divenuto neve e luce
respira appena: vive.

Vive indeciso il sole: è il suo destino
rischiarare questi alberi spogli,
toccare l’acqua immobile,
gravitare senza misura, senza linguaggio,
senza peso, finché la bocca
del cielo lo ingoia
e non brillano alla luce del freddo
le piume che volarono via ieri
per tornare domani alla finestra.


LO STESSO SEMPRE

Delle malinconie che ho consumato prima di farmi giovane
ho lasciato per me, come un collezionista, le migliori
tristezze,
quelle senza motivo, che mai si separano dall'anima
che assomigliano al vapore del mattino di Aprile tra
gli alberi.

Non sono esattamente residui dell'età
quelle nuvole laceranti, quei papaveri
amari
sono piuttosto il complemento terreno della vita:
il cuore disabitato che sente un rumore oscuro
come se dopo la pioggia il vecchio vento entrasse
da una finestra che non si sa perché è rimasta
aperta.

Perché, se abbiamo allontanato i veri malefici, i
colpi
che hanno distrutto viscere o vertebre e se abbiamo potuto
scacciare l'infelicità, l'afflizione, il tormento
così come l'invidia, la gelosia, le aggressioni
conserviamo le radici del pianto passeggero
e questa nebbia bagnata di malinconia
come una duratura sostanza inseparabile,
rifiuto, condizione dell'energia.

Così allora mi avvolgo nel mio destino
senza smarrire quel manto recalcitrante,
onore della nuda primavera,
e certo di essere, fermo nel mio durare,
inestinguibile, vivo i miei baci più antichi,
ho ancora sulle labbra un sapore
di luna piena errante, la più lontana, quella
che viaggiava nel cielo come una sposa morta
nella notte selvaggia di Temuco.


NON SO COME MI CHIAMO

Fino a quando questo io, chiedevo a tutti,
che stanchezza
essere lo stesso essere, col nome e il numero,
con un silenzio nuovo
da orologio dimenticalo o da attrezzo
con l'impugnatura usata dalla mano.

La morte cade
sull'identità, riposano infine
non solo le vene e le ginocchia
ma anche questo nome nostro
maltrattato e sputato
come un povero soldato
mezzo morto tra il fango e la battaglia.
Ricordo quel giorno
in cui ho perso i miei tre primi nomi
e le parole che appartenevano
a chi? a me? o agli antenati?
È certo che non volli il conto d'altri
e pensai di inaugurarmi:
darmi il cognome, nominare me stesso
e crescere nel mio lievito soltanto.

Ma così tra la dolcezza e l'affanno
il corpo lungo, il raggio intermittente
della vita
è scivolato consumandomi i fianchi
e ho scoperto che ormai tutti mi chiamavano,
tutti assalivano il mio nome:
alcuni lo graffiavano
nel Senato con gli stuzzicadenti,
altri bucherellavano la mia figura
come se fossi fatto di formaggio:
non mi è servita la mia maschera notturna,
la vocazione silvestre.
E mi sono sentito nudo
dopo tante decorazioni,
pronto a tornare da dove sono venuto,
all'umidità del sottosuolo.

Non c'è pietà per l'uomo tra gli uomini,
seppure nascondi gli occhi sarai visto,
udito anche se non parli,
non sarai invisibile,
non resterai intatto:
i tuoi nomi ti denunciano
e ti mordono i denti del cammino.


FELICITÀ

Sicuro, sì, rispondo
senza che nessuno chieda e mi chieda:
il bene è ormai rispondere
senz’obbligo e domande
all’ombra nostra lenta e successiva.

Sì, in questo tempo mio, in questa storia
di porta personale, ho accumulato
non il delirio, ma la nostalgia
e l’ho sepolta nella casa di cemento:
lutti o dolori di ieri non m’accompagnano
perché non muoiono solo le ossa,
la pelle, gli occhi, la parola, il fumo
ma anche il pianto divorato
dalle sessanta bocche della vita.

Così di quello che da un luogo all’altro
ha conservato – tristezza o improvvisa amarezza –
come pesca tremante l’ho ridato
al mare, al mare e nudo mi sono disteso.

È questo il segno della mia ventura:
possiedo il sonno duro della pietra.


IL CODARDO

E adesso mi duole l'anima e tutto il corpo
e grido e mi nascondo nel pozzo
dell'infanzia, con paura e vento forte:
oggi che il sole giovane dell'inverno
ci ha portato una goccia di sangue, un segno amaro,
tutto è finito ormai: non c'è scampo,
non c'è mondo né bandiera promessa:
basta una ferita per abbatterti:
con una sola lettera
ti uccide l'alfabeto della morte
un solo petalo del gran dolore umano
cade nella tua orina e credi
che il mondo intero si dissangui.

Cosi, al freddo sole della Francia, in Marzo
sul finire dell'inverno disegnato
dai neri alberi della Normandia
con il cielo già schiuso allo splendore
di dolci giorni e fiori a venire
io avvilito, senza strade né vetrine,
muta la mia campana di cristallo,
con la mia piccola spina dolorosa
privo di vita, già fatto minerale,
immobile aspetto l'agonia,
mentre fiorisce il territorio azzurro
predestinato della primavera.

La mia verità o la mia favola rivelano
che è più tenace dell'uomo
l'esercizio della codardia.


AL FREDDO

Freddo sul viso tra gli alberi spogli
lungo le strade brillanti
d'ora bianca e brina mattutina.

Freddo dalle mani pure, cuore selvaggio
che grida nei miei occhi
un grido che non opprime
l'immobile equazione
che hanno stabilito i prati e il cielo:
la dottrina infinita dell'inverno:
luce repressa nello spazio del giorno
bianco come un pesce morto:
solo il freddo è azione: il freddo vive.

Oh, accarezza ancora la terra
prima che l'arrivo dell'estate
imponga il suo letargico papavero!
Tira fuori il coltello e che risuoni
il tuo brivido elettrico
sopra corpi codardi
e anime raggomitolate nel sonno!

Oh, freddo, ala di pietra,
ritemprami,
ridammi
il tuo calice di energia e minaccia,
quel che rubano piacere o tenerezza:
stammi di fronte e guardami negli occhi
vitale, mortale, indomito nemico.


DOVE SI SCEGLIE IL PASSATO

Guarda indietro quest'oggi, verso il ricordo,
verso un forse che forse non è stato
con tutto quel che nel passato si perde:
quell'anello, quell'aroma, quella
dolcezza muta che abbiamo perduto.

Perché se mi metto a ricordare
giro a tentoni in una casa buia
come un cieco mi perdo in anticamere,
corridoi, pareti, stanze
e non c'è più nessuno, tutto rimane buio,
qualcuno sparì dai miei ricordi
ed io non esco da quell'oscurità:
nessun’arte
mi può restituire esatto
un cuore, un corpo che mi ha amato.

Perciò, di quello che così raccolgo,
se si tratta di ieri,
le mie mani cercano boschi o chitarre
o tamburi di tristi feste dimenticate
o serenate lunghe della pioggia,
in un porto, sull'imbarcadero
senza che ci sia nessuno da aspettare;
e nessun luogo verso cui imbarcarmi.

Mi succede o succede che questo ieri
o l'altroieri per il quale parto
come entrando in un mercato che non c'è
e non ha personaggi, non ha mele,
scomparse tutte, e quelli che v'entravano:
dove chi usciva non tornava più
quasi ci fosse un buco, un pozzo
in cui passando dall'altroieri a oggi
caddero tutti uno dopo l'altro.

Così dunque, ora non uso più
entrare nelle strade ormai scomparse
alcova per alcova a cercar morti
o donne cancellate dalla pioggia:
non c'è passato per quegli edifici:
le reti tornano dal mare vuoto:
le città triturano i ricordi
dentro l'immondezzaio dell'oblio,
nessuno lascia un bacio su in soffitta:
gli ascensori hanno macinato tutto
frantumando a colpi di mulino
il tempo tristemente versato.

Io invece in quel luogo
deserto, di sabbia e oceano
perso, col mio vestito
di solitudine, guardo
senza vedere, dov'è più lontano
nella distanza che cancella i fiori,
e sono lì, continuo,
come se il tempo avesse fermato
nel passato la mia fotografia
appassionata nella sua immobilità.


IL SOPRAVVISSUTO SALUTA GU UCCELLI

Con uccelli e grida di sole ho fondato la dimora:
presto, all'ora della sorgente, sono uscito al freddo
a vedere i materiali della crescita: odori
di fango e ombra, medaglie che la notte ha lasciato
sulle foglie tremolanti e sull'erba.

Vestito d'acqua mi sono allungato come un fiume
verso l'orizzonte che i più antichi geografi
presero a termine del calcolo terrestre:
sono andato fra le radici, bagnando di parole
le pietre, risuonando come un metallo marino.

Ho parlato con lo scarabeo e ne ho imparato
l'idioma tricolore, della tartaruga
ho studiato la pazienza convessa e l'arbitrio, ho trovato
un animale da poco invitato al silenzio:
era un vertebrato che veniva da allora,
dalla profondità, dal tempo sommerso.

Ho dovuto riunire gli uccelli, recintare
territori a forza di piumaggi, di voci
finché potei stabilirmi sulla terra.

Sebbene la mia professione di campana
s'è formata alle intemperie, dalla mia nascita
quest'esperienza è stata decisiva nella mia vita:
ho lasciato la terra immobile: mi sono sparso in frammenti
che entravano e uscivano da altre vite,
sono stato parte del pane e del legno,
dell'acqua sotterranea, del fuoco minerale:
tanto ho imparato che la mia dimora è stata
a disposizione di tutto quel che cresce:
non c'è costruzione come la mia nella selva
né territorio con tante finestre,
né torre come quella che ho avuto sottoterra.

Perciò, se mi trovi ignominiosamente
vestito come tutti gli altri, per strada,
se mi chiami da un tavolino in un caffè
e noti che sono goffo, che non ti riconosco,
non pensare, no, che sono il tuo mortale nemico:
rispetta la mia remota sovranità, lasciami
titubante, insicuro, uscire dalle regioni
perdute, dalla terra che m'ha insegnato a piovere,
lascia che mi scrolli il carbone, i ragni,
il silenzio: vedrai che sono tuo fratello.



DICHIARAZIONE

Il 1971 è stato un anno molto vario per le mie abitudini. Per questa ragione e per non apparire enigmatico senza un motivo speciale do testimonianza di spostamenti, malattie, allegrie e malinconie, dei climi e delle regioni diverse che si avvicendano in questo libro. Qualcosa fu scritto fra Isla Negra e Valparaíso e lungo altre strade del Cile, quasi sempre in automobile, già cogliendo il paesaggio successivo.
In automobile sono state scritte anche molte altre poesie durante l’autunno e l’inverno lungo le strade della Normandia francese.

Pablo Neruda

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