- 1969 - Mangiando in Ungheria
Versione tradotta da OBRAS COMPLETAS – Edizione 1963
Differisce da quella contenuta nella NERUDIANA DISPERSA – Volume II che verrà nuovamente tradotta ed inserita nel Sito Internet.
1954 – MANGIANDO IN UNGHERIA
Mangiando in Ungheria è il titolo del libro scritto per Pablo Neruda e Miguel Asturias. In questa edizione delle Opere complete di Neruda, logicamente, trascriviamo solo la parte scritta per Neruda che raffigura nel libro originale alternando col testo delle Asturie.
Sei di moda mangiare!
Con pietra e palo, coltello e scimitarra, con fuoco e tamburo avanzano i paesi al tavolo. I grandi continenti denutriti esplodono in mille bandiere, in mille indipendenze. E tutto va al tavolo: il guerriero e la guerriera. Sul tavolo del mondo, con tutto il mondo al tavolo, voleranno le colombe.
Cerchiamo nel mondo il tavolo felice.
Cerchiamo il tavolo dove impari a mangiare il mondo. Dove imparare a mangiare, a bere, a cantare!
Il tavolo felice.
L'Ungheria ci piacque e la gustammo. Siamo golosi venuti da lontano, da terre calde che continuano ad ardere e terre fredde che vivono con la neve. Avevamo fame ancestrale, secoli di fame maya, età di guerra e fame di Arauco, fame nera di Castiglia che spinsero all'America a soldatesca imperiale.
Queste fami camminano nel nostro sangue e ci dotarono di una curiosità infinita per quanto si mangia. Queste fami riunite ci diedero un appetito divoratore.
Guardiamo con fame all'Ungheria. Terra, di carne arrosto all’imbrunire, con fumo delle mille cucine nella pianura, ed alcune campane di chiesa che richiamavano alla cena!
E dopo Budapest col suo colore di grappolo e la sua anima di pane, la sua luce di panetteria. Sul Danubio planano vapori di platinata casseruola. Per le coline l'aria intrisa
per i fiori si modifica beneficamente e ripartisce aromi di burro e paprika, di origano ed alloro.
Il pomeriggio di Budapest coi suoi ponti come griglie sacrosante e i fianchi neogotici del Parlamento, torta sublime che guardiamo come i bambini guardano le meraviglie. Budapest è meravigliosa e commestibile.
BRINDISI IN LA TAVERNA "IL PONTE"
N. non ti ricorda questo giardino,
questo tavolo sotto il noce,
e questo valzer sulle onde
che fa solletico nel ricordo,
quelli vecchie case di campagna tedesche,
con musica e birra, della
nostra gioventù?
N. La cosa bella sono queste strade vecchie di Obuda con tanti soffitti di tegole che non consumò l'inverno millenario e questo fiume in questa ora silenzioso come un gran bevitore che dorme il suo vino. La cosa bella sono questi depositi dell'allegria che aspettano in questa taverna ai commensali. La cosa bella è questo pubblico di famiglie, di quartiere popolare, di gente che intona le vecchie canzoni che sgrana il violino. La cosa bella è la vita comune che qui conosciamo, che qui viviamo, perché la portavamo nel ricordo, perché in qualche modo era la nostra propria vita.
N. Si. Fece bene Krudy Giula in lasciare non soltanto libri nelle librerie bensì questo piatto che esce ogni ora dalla griglia. Niente tanto immortale. Niente tanto vaporoso e niente tanto solito. Queste scaloppine che si sedevano, secche e tenere, su un divano capitonné di riso con funghi, i sapori sottili purificati dal fuoco di legna e questa fonte monumentale che rivive la saggezza di Krudy, sono parte delle sue migliori pagine. Ci siamo mangiati queste pagine con diletto e beviamo un bicchiere di vino rosso della steppa alla memoria del compagno immortale.
PRIMA DEL PRANZO
SCESERO DAL CIELO
20 AGOSTO
È festa. Ci sediamo all'ombra fiammeggiante del Parlamento. Non vidi mai tanta gente vicino ad un fiume. La luce di agosto, cade sui bordi fioriti per migliaia di cappelli, ombrellini, camicie, bluse, vestiti, verdi, gialli, azzurri, bianchi. Ogni colore è nuovo sotto il sole. Il vecchio Danubio è nuovo sotto il sole.
Tra le Ponte delle Catene ed il Ponte Margherita che custodiscono il fiume coi loro pilastri pesanti ed i loro archi aerei si sviluppa la festa popolare. Attraversano le lance di corsa come insetti elettrici. Due si incontrano a tutta velocità in mezzo al fiume e si trasformano in schegge. Si produce un gran silenzio di motori mentre la lancia Cruz Roja corre verso l'incidente.
Sopra il Palazzo Reale, tra le sue due ali ombrose la cupola come un seno monumentale e dopo il nastro cenerino della riva, coi suoi tetti arancioni. Il Bastione dei Pescatori, irreale nonostante il suo potere di convinzione, rimase immobile come un sentinella addormentata. Perché i paracadutisti acrobatici si lanciano da tranquilli aeroplani che lasciano nel cielo azzurro, come grandi galline, file di uova bianche. Dopo, questo uovo si trasforma in fiore di papavero, in ombrellone supremo, in fungo e più tardi in medusa celeste che ostenta un fantoccio, tra i suoi fili. L'uomo! L'uomo cade nell'acqua come pietra, poi rinasce e mentre il paracadute perde la sua sferica gloria, si chiude e muore. Un altro ed un altro, un altro, arriva nel cielo azurrissimo, giù, sul fiume dell'estate.
La chiesa di Sant’Anna, la chiesa del Portone di Vienna, più lontano l'antico Tempio Medievale, la torre della Piazza Szilagyi, la torre dorata dell'Orologio, tutto è fine e vibrante, tutto si alza con le cupole snelle e le guglie magre e dorate.
Il fiume tranquillo, abbondante, continuo, riceve sempre di più uomini che discendono dal cielo, ognuno sotto ad un fiore.
VERSO KECSKEMÉT
Per pranzare attraversiamo la pianura la “gran pianura” tra il Danubio ed il Tisza. Strade ombreggiate da pioppi e pini, villaggi che passano bianchi come nuvole, e l'Ungheria verde, mais, vigne, ortaggi, prugni si dispiega con i suoi paesani, i suoi operai di festa, le sue chiese che richiamano alla messa. È un'abbagliante chiarezza. La prateria lavora con terra, insabbia, acqua ed uomini. Le norie di bilancia, milenarie con enormi travi e pietra che alzano il cubo, i soffitti di foraggio impenetrabile, i nuovi edifici splendidi, tutto si vede impeccabile al rigore della luce estiva.
Géza Reilé, il sindaco di Kecskelmét, ci riceve nella Piazza Centrale. In un piccolo carnevale sfilano le maschere, le vecchie maschere del mondo, sultano con odalische, gruppi di ussari, donzelle adornate come rose, cannibali, marinai, streghe ed un Petofi, con stivali e baffi, vestito di nero, come l'anima della poesia nell'avventura più grande dell'amore.
Il sindaco ci invita a conoscere i vini regionali. Prodotti dorati della sabbia, i vini di Kécskemét hanno una storia stellata. I vigneti fermarono le onde di sabbia che venivano dalla puszta. La guerra e Ia pace con le sue cavalcate, diedero un'eredità errante alle sabbie. Bisognava immobilizzarle. Ed un vignaiolo di genio piantò lì le uve, proteggendole, esortandole, curandole, fino a che i grappoli di moscatello e di borgogna procrearono vigne giganti e brodi il cui fuoco di ambra continua incendiato nel cuore dell'Ungheria.
ALABARDIERE
Che bel nome per una costellazione, per un vascello, per un ristorante! Alabardiere! Nell'antico petto della città la cattedrale del Re Matías, eleva le sue frecce di gesso. È un vecchia preghiera di pizzo sacro; ogni parola fu ricamata nella soave cenere del tempo. E questo altro monumento, rimpicciolito per l’altezza delle torri, è la supplica davanti agli dei di fronte alla peste che saliva per i quattro lati di Budapest. Sembra un battistero per lavarsi e nascere di nuovo, immuni, un braccio barocco di Dio dove aggrapparsi affinché ti salvi dalla pustola.
Nella notte l'Alabardiere offre ai nuovi pellegrini una mangiare scintillante. In mezzo al salone, antico il Capo della Cucina mescola erbe ed oli, liquori e vini, condimenti acidi e fragranti. Il suo tavolo centrale si trasforma in cattedra di alchimista, e lui, accigliato ed astratto, riguardo una provetta, allontana un'oliera, combatte con mortaio, provetta e mestolo fino a che entra nella sala la carne della "brochette" suprema.
Io, trasportato, per il caso della mia gioventù, alle città dell'India, nell'anno 1927, conobbi nei mercati ambulanti l'arte ed il sapore dei Kebab, infilzati e arrosti all'aperto sui focolari dell'Asia, tanto odorosi come rumorosi. Dopo, a Mosca, nell'Aragby provai il migliore chaslik della Georgia, condito con una salsa di prugne acide infinitamente preziosa. Questo chaslik è il prediletto, di poeti tanto terreni Kirsanoy e Símonoy, e la verità, è che essi in quanto a parola, a vino e manicaretto, sono, tra i miei amici, autorità che rispetto.
Ma voglio vederlo qui quando il Cap della Cucina infila in una lunga spada i pezzi di chaslik, quando li alza dirigendo l'offerta gotica verso il cielo, rovesciando nel coppa della spada le spezie e lo vino, e dopo tra i violini gitani che accompagnano il rito, accendere nel salone oscurato l'arma rutilante che arde in una lunga fiamma azzurra, in un scoppiettio di topazio fino a spegnersi quando i violini sussurrano soltanto ed arriva il chaslik al piatto, come deve arrivare l'arrosto sublime, con musica celestiale, come se scendesse dal cielo.
IL PESCE E LA DATA
Nel Tabernón del Re Matías ci infiliamo, rivestiti e protetti, disposti a quello vecchio piacere di una tavola raggiante.
C'avvolgevano le pitture murali del concavo soffitto con Ia bella Ilonka accecata dalla freccia del cacciatore, ed all'altezza delle nostre bocche centinaia di commensali. I violini ungheresi esercitano qui un dominio maggiore. Sandor Lakatos eleva una melodia come sulla punta di una spada, sale, sale, e dopo si sparge come un zampillo, come un fuoco di bengala nell'ombra del sonno. Questi musicisti vestiti ussari scarlatti sembra come che montassero guardia vicino ad ogni tavolo, affinché la gola si protegga con galloni dorati e strumenti che cantano.
Ci portarono il pesce alla maniera del mugnaio di Dorozsma, viene alla griglia, accuratamente spinato, provvisto e ricamato di una salsa in cui la paprika, lo champignon, la cipolla e la crema aspra sono la cupola monumentale del gusto.
Scriviamo con le nostre forchette la data: 17 agosto dell'anno 1965. Data in cui un'alleanza tra le spezie e la saggezza ci fece conoscere un sapore inedito fino ad allora. Data in cui la griglia tostò un pesce fino alla delizia, data in cui una salsa spessa, ricca e fragrante ci diede una ragione in più di assaggiare la vita.
Perché parlare del sorprendente filetto alla kiskoros, la cui struttura tenera si deve al fois gras che lo divide in due facendo l'insolito tramezzo. E non è necessario parlare bensì riempire delicatamente i bicchieri con vino di Badacsony.
Questo Tabernón del Re è un apogeo, un regno che cambia abitanti ogni notte, tra le fonti condite che si incrociano e le bottiglie che navigano sulle onde della musica.
Anni fa, nel 1938, il poeta spagnolo Alberti ed io vivevamo nel secondo piano di una libreria, a Parigi. Nella finestra si mostravano le abbondanti opere di Victor Hugo. Scendendo alla nostra passeggiata giornaliera per i quais dalla Senna avevamo per abitudine di misurare la nostra sagoma contro quegli illustri Oeuvres Complètes. Rafael, sconfortato, esclamava: - Sto passando già al quinto tomo di I miserabili -, Ed io, a mia volta, dopo essermi controllato, gli rispondevo: - Non sono aumentato: Raggiungo solo Notre Dame de Paris.
Secondo Rafael questa è l'epoca dei poeti grossi come lui, come Nerval, come Guillevic, vati di buon appetito come Eluard, e sempre capitani o coriferi del vino. Il tempo dei pallidi e magri portalire fu il secolo XIX con la lira denutrita che sospirava in forma sublime.
Nelle strade dell'Ungheria fioriscono le locande, con biancheria da tavola primaverile. Le locande, taverne, osterie, caffè, hanno norme antiche e felici. L'aroma del gulash, aroma nomade, esce dalle steppe e gira al mondo. Il vino colore del miele è l'anello dorato nella mano dell'Ungheria. L'Ungheria lavora, vive, lotta, fiorisce e corre. L'Ungheria è nervosa e robusta, cangiante e sonora. I volti ungheresi si differenziano vivamente tra loro ed in una moltitudine si vedono grandi contrasti di capelli e bocche, di occhi e guance. L'Ungheria ha mille volti differenti ed un solo cuore che canta come un tamburo.
Per questo motivo questo libraccio, libruccio, librettino, distrazione di poeti, suono reale di una notte di estate, fu premeditato e consumato tra le case ungheresi, tra le sue ballate gitane ed i focolari di irresistibile magnetismo. Le spezie di tutta la terra entrano in queste pentole generose e gli ungheresi sanno che convivere è mangiare insieme.
Se ci sono libri felici - o libracci, librucci, librettini -, questo è uno di essi. Non solo perché lo scriviamo mangiando bensì perché vogliamo onorare con parole l'amicizia
generosa e deliziosa.
TIHANY
Sulla collina c'è un chiosco aperto d'estate e la domenica, scelto dalla gente semplice che fa la coda lì, tra la chiarezza del lago e quella del cielo. Tutto è azzurro, tutti abbiamo sete. Tutti stiamo seduti in acqua e nell'aria, elevati nell'altezza di Tihany, sommersi nel fulgore del lago Balaton. Il viaggiatore assetato chiederà lì la fragile fetta di formaggio, il sajtasrud salato e saporito, che si consumerà nella sua bocca mentre la scoppiettante birra di Pilsen rinfrescherà il suo cuore assetato. Si sa che i paesi dal supremo vino come l'Ungheria producono una birra incipiente, poche volte consigliabile. Per quel motivo lì nel semplice chiosco, bisogna bere il Riesling bianco, secco ed ardente delle vigne del Balaton oppure la birra ceca di Pilsen o semplicemente l'aria pura che lì circola abbondante, allegra ed azzurra.
FOIE CRAS
Fegato di angelo; sei!
Soave sostanza,
peso puro
del piacere,
sacrosanto
splendore della cucina,
compatto è il tuo regalo,
è intensa tu estatica ricchezza,
la tua forma
un continente minuto,
il tuo sapore tocca l'arpa
del palato, estende
il suo suono nei timpani del gusto,
e dalla testa fino ai piedi
ci percorre un'onda di delizia.
I GITANI
In Ungheria, si mangia, con violini, fisarmoniche, cembali, violoncelli, chitarre. È il mondo della melodia dolce, zuccherata ed ondeggiante. Bisogna mangiare, parlare e sentire, di quando in quando, questi edifici musicali fugaci, che si alzano e crollano, per il puro piacere di un minuto.
Sono le musiche gitane, compagnia di ogni tavolo, compagni dell'allegro, triste vino, usignoli di ogni notte ungherese.
Li ereditò l'Ungheria Popolare dei signori feudali ed appartengono già alla vita: non si può viversi senza essi. Ogni ristorante sembra triste senza questa musica facile: non può sognare senza lei. Essi sono acrobatici e malinconici, vecchi veterani di czardas e virtuosi di Liszt, giovani pieni di denti ed altri con carie di briganti: tutti sono musicisti innati che non leggono le note ma le rovesciano in cascate sui cuori notturni.
IL BICCHIERE GRANDE
Io alzo il bicchiere grande, il bicchiere dei secoli, lo riempio col sole dell'Ungheria e bevo il vino risplendente. Lo riempio con Bikavér robusto ed oscuro, con Riesling.di Csengöd, con Kadarka di Kiskorós. Il bicchiere brillò alzandolo, trattenne il sapore soleggiato, la luce del giorno trattenne il vino oscuro e poderoso, il segreto dalla notte stellata. Beviamo il giorno col suo fuoco e la notte col suo sangue. Beviamo i vini della pianura, ardenti, ed intensi, il Moscatello della Sabbia d’Oro, il Gallo Azzurro della Sabbia d’Oro, la Foglia di Tiglio della Pianura, il Veltelini di KiskunhaIas.
Per il corridoio dell'Europa passarono guerre ed invasori ma anche condimenti e fragranze. Tutto rimase nella cucina ungherese mescolando nelle pentole e nelle caldaie nomadi lo zenzero e la paprika, l'aneto e l'aglio. Gloriose costellazioni che chiedevano fiumi di vino per consumarsi. E la terra ungherese, le mani ungheresi piantarono e stimolarono le viti fino a che consegnarono ai torchi il dolce e violento, cuore dell'uva della steppa, l'indomabile gioco del grappolo montagnoso. Kôvidinkas e Szlankamenkas, Pinots Neri, Kadarkas di Pusztamérges, Szürkebaráts, Monaci Grigi, Kéknjelu, Medocs di Villany, Tokays Furmit, Aszu, Szamorodni trasparenti e sorridenti, dolci o adirati, fiamme di onore che allungano la vita come il vino di Somló, o avvicinano la canzone e la fortuna come tutti questi, perché tutti questi, riempirono il mio bicchiere. Vini che piangono o ridono accompagnandoti alla tua anima, vini con insegne antiche, coperte di gloria o vini semplici della prateria, vini senza nome. Vini di mezzogiorno e di crepuscolo, vini che cantano solo di notte, vini che nacquero vicino alle spighe dei mietitori, vini nuovi, appena usciti dell'orgoglio della cooperativa, vini signorili, di eleganza secolare, vini giovani, impetuosi e pericolosi, vini per un minuto di tristezza, vini per tutti i sogni.
Alzo il bicchiere pieno col fulgore dell'Ungheria, e bevo in onore del sole e della neve, della tristezza e della fortuna. Bevo per l'amore e per il dolore. Bevo, per il fuoco e per il
pioggia.
Bevo per la vita e per la vita.
CITADELLE
Quando si incrocia il fiume c'è un minuto centrale immobile, terra di nessuno, in cui il tuo corpo non sta in Buda né in Pest, in cui la tua anima appartiene al Danubio, alla sua piena corrente che scivola per la storia.
Da una parte i soffitti di Pest e la superficie di vecchi edifici argentati del bordo e di fronte a lei le strutture e colline di Buda. Questo è più alto, roccioso e fogliaceo, con la pace verde delle foglie sopra e col nastro d’oro ed arancione delle edificazioni vicino all'acqua.
Andiamo verso Bud, verso le colline, passeggiamo.
Arriviamo alla Cittadella, a Citadelle Borozó. Per secoli fu guarnigione e prigione. Dietro le sue colossali muraglie di pietra due mila soldati nazisti resisterono qui, sostenendosi tra la paura e l'ultimo colera.
Muri di pietra che per secoli rinchiusero rumore di armi pesanti, rantoli di agonia, peso e passo di cavalcature. Oggi la Cittadella è la corona di Budapest e roccia delle sue allegrie.
Domandai un giorno all'amico ungherese quanti virtuosi, maestri di violino, esisterebbero in Ungheria. Sicuramente più di quattro mille, mi rispose.
Nella taverna Cittadella ce ne sono alcuni dei buoni. Tra i barili di vino perfetto, sotto gli innumerabili archi, nelle celle e sale di pietra medievale, tra i tavoli allegri con tovaglie a quadretti, mangiamo gulash mentre dozzine di musicisti gitani abbassano il sentimento fino alle lacrime, detonano lo Staccatto come maestri di armi portano allo zampillo dell'allegria. Che le allegre ragazze fresche e belle come Erika vadano e vengano cariche di bottiglioni di Tokay che ci guardino agli occhi in trance di amore o di pensiero che affermino l'amicizia con un bicchiere eccessivo che salgano ed abbassino gli inesauribili violini, avremo perso il tempo ma avremo guadagnato da vivere.
TOKAY
Do al Tokay traslucido.
il bicchiere del mio canto:
cade, fuoco dell'ambra,
luce del miele, strada
di topazio,
cade senza che finisca
la tua cascata,
cade nel mio cuore, nella mia parola,
e che la trasparenza
della tua verità di oro
insegni alle mie radici
ad elevare la dolcezza
dalla secca ombra sotterranea
fino alla rettitudine di mezzogiorno.
Oh vino, vino chiaro,
dono tranquillo
del tempo perturbato.
Ahi reconditi monti,
rovi insanguinati,
ahi steppe dell'Ungheria!
Non ha soltanto aroma
la primavera errante
degli ungheresi: .
la maltrattò il galoppo
di amari invasori,
la terra si screpolò coi tormenti
e sanguini e pianto entrarono per le crepe.
Onore ai tuoi grappoli!
La scatenata cavalcata,
la scimitarra cieca, le punizioni,
il vento della furia
e le ceneri
della terra spianata,
la spiga crudele dell'odio,
il temporale
ripetuta nel tuo petto di colomba,
niente poté tagliare il filo di oro
della tua moltiplicata primavera
ed in questo bicchiere chiaro
la fortuna e la sfortuna
composero
il vino della patria! vincitrice,
il fuoco e la sua trionfante allegoria.
Nel mio disordinato cuore,
imponi, oh vino di Tókay, fragrante,
la ragione della luce:
ordina il mio delirio!
Vengo dai vulcani insorti,
degli aspri fiumi che tagliarono
le mani del mio paese,
questo è il mio bicchiere, riempilo;
con la tua focosa forza
delicata,
insegnami a tirare fuori dall'asprezza
la tua colonna di oro ed ad alzarla
intatta, contro il vento.
Figlio nudo della terra lascia
la tua radice nel mio canto e nella mia bocca
la tua esperienza celeste.
MEZZA DOMENICA A BUDAPEST
I. SPAGNOLI SULLA PARETE
Quelle soavi domeniche esistono, quando alle 11 della mattina, suona il vero cucú nel bosco budapestino, un sole di lusso corre col fiume come se la luce andasse via con le imbarcazioni, e rimanesse giusto il sole che dobbiamo condividere. Sono i giorni del Museo, le domeniche in che alcuni corrono all'acqua ed altri alla pittura. Questo Museo ha moltissime lettere nel suo nome e tutto per chiamarsi Nazionale. Perché Szepmuveszeti è quello, e così lo fanno sapere la scalinata colossale e le colonne cerimoniali.
Vediamo questa sala spagnola che mi ricorda domeniche di Madrid, con scalinata e colonne del Prado, e quasi lo stesso sole dell'Ungheria.
Gran bellezza, dolorosa bellezza!
Perché i Goya ci ricevono. Non sono molti ma ci parlano con quel linguaggio fine e tagliente, e quella tranquillità di coltello che mise Goya nella sua espressione d’acciaio. Passiamo per alto l'abbondante ritratto del marchese Cavaliere che continua a condannare infedeli al falò, con la croce di Santiago sul cuore vuoto. L'arrotino di coltelli ed la ragazza dell'anfora sono i nostri spagnoli, popolari ed oppressi. L'arrotino ci lancia uno sguardo carico con sette secoli di fame, uno sguardo tanto profondo e diretto, tanto accusatore che solo Goya potè dipingerlo con la mola ed il coltello, in atteggiamento di dolore e di minaccia e qui dipinse Don Francisco gli occhi neri della Spagna e quello che passò e passerà. La ragazza dell'altro quadro andava per acqua e si trattenne un istante con Ia brocca sulI’anca e non c'è viso di contadina come quello, contadina che aspetta che la ritraggano, ed essa porta al suo mietitore l'acqua ed il pane, ed acqua e pane e mietitori e contadina come mela, qui rimasero in questo quadro di Budapest.
Gli Zurbarán con le sue camicie rigide e i Ribera pieni di carne si avvicinano nella parete a sei o sette Greco che aprono la sala all'eternità.
I Greco di Budapest coi loro verdi appena inventati, i loro azzurri spettrali, i loro rosso di inchiostro ed acqua, hanno dietro il fumo sconosciuto, come se le figure di angeli e madonne si andassero cuocendo in un forno, fossero fatte di fiamme e ceneri, e coprissero finalmente il panorama della Castiglia col fumo dell'elaborazione. E questa santa con viso di matta che legge un libro col tatto della mano e assiste alla visita di un angelo che l'invita al cielo, è anche invitata all'incendio universale, e si mantiene neutrale e statica nella nuvola di fumo cosmica.
In questa domenica mi riconciliai con Murillo. Succede che lì trovai il ritratto di uno sconosciuto, dalle grandi orecchie e grosse labbra. C'è tanta profondità nell'espressione di questo cavaliere disilluso, è tanto dominante la realtà di questo uomo vivo, che Murillo mi fu rivelato come umano, come gran vero e non come quel celestiale pittore celeste e rosa che non mi piacque mai molto. Mi dissi per me stesso, mentre mi allontanavo dal museo: attenzione con questi pittori spagnoli! Il vento fa volare gli angeli azzurri e rimane di fronte a noi uno sguardo ombroso che ci fa tremare.
II. TERRAZZA CON ISOLA
11 A. M.
I ponti di Budapest sono musicali, e nella tranquilla mattina della domenica si riempiono di note che li percorrono, di suoni che vivono nei suoi archi.
Ma noi, provinciali della domenica, proseguiamo all'Isola Margarita, isola posizionata come una rosa verde nella vita del Danubio. Lì ci sediamo al sole, vicino alle piscine coi loro grappoli di giovani quasi tutti nudi come le uve. Noi ci sprofondiamo sorbendo l'aperitivo al sole, in due mila danubiensi che ebbero la stessa idea. Poche terrazze nel mondo con tante disposizioni per l'allegria:
1 Insularità
(con comunicazioni)
2 Fogliame forestale
(grandiosi castagni d’India)
3 Giardino fiorito
Salvie che gridano
(tulipas, gerani)
4 Musica gitana
(uno dei suoi violinisti, mi disse che poteva toccare due mille canzoni, tra esse il valzer "Sulle onde").
5 Gli amari
Due buoni bitters:
Unicum, secco e fulminante.
Humbertus, estratto, di 99 erbe pacifiche.
6 La gente
La gente di mezza domenica a Budapest è tranquilla.
I motorizzati partirono verso monti e spiagge. Ci circonda una moltitudine seduta che beve, pensa, mangia, ride ed ascolta con un'isola nella mano.
III. IL CERVO SORRIDE
12:45 A. M.
Piccola ballata prima di entrare a mangiare nel ristorante
"Il Cervo di Oro."
Qui stanno le colline con tanto fogliame
che il falso castello dal capo calvo
non ha perdono: non gli cresce una foglia
nel tetto. Ma
la Chiesa di Tabán è un frutto giallo,
è una dolce pera d’oro,
è un piccolo e lungo pane offerto agli dei.
Più in là stanno i ponti sul punto di volare
ed il fiume il cui nastro corre senza consumarsi
IL PRANZO
1 P. M.
Queste crocchette di cerbiatto con salsa cumberland potrebbero essere portate a Marte da Valentina Astronauta.
Tra crocchette e Valentine raggireremmo agli abitanti galattici e improvvisamente, in una domenica chiunque, vedremmo assaltato "Il Cervo di Oro" da golosi extraplanetari. Stupisciti! Non tutto nella terra sono crocchette di cervo e Valentine. Ci sono anche alimenti intrattabili ed uomini con viso di Johnson!
Girando le salate crocchette, dirò che sono tenere e croccanti, avvolte per la loro indifferente crosta fritta come se volessero passare inavvertite e musicali all'interno, celestiali all'interno, indescrivibili all'interno! Silvestre alimento, crema delle delizie! AI rompere i denti l'incarto dorato non sanno i denti che aprono piccole porte a cento sapori non concordi, ad erba e rugiada, a coscia selvatica, a capezzolo di dea! Perché la carne di caccia ci riporta all'essenziale primavera, e recuperiamo nel tavolo sapori ancestrali che erano già segreto sigillato e moratoria. Vengano cervi, e gazzelle dal "Cervo d’Oro", cinghiali e cinghialini, piccioni del bosco, bestie belle che caddero all'abile fucile dal cacciatore! Vengano e mescoli qui in filetti e gulash o in fette al forno risaltando su un letto di mortella selvaggia! Venga il fagiano che qui mangiammo a mezzogiorno; lascia l'uccello multicolore il suo vestito di festa e ci porta il regalo del suo stretto corpo ed il suo aroma ribelle! E quando tutto, tutti questi doni si muovono nel mondo terrestre ed aereo del tavolo, le bottiglie di "Egri Medoc" e di "Sangue di Toro" sono come piccole torri piene di rubini!
Inoltre, si signore.
Cervo alla cacciatora.
Filetto di cervo alla casseruola.
Salsa di funghi callampas e crema acida.
Coscia di cervo alla bourguignonne.
Risotto di cervo.
Cervo alla paprika rossa.
Coscia di lepre alla cacciatora.
Cinghiale in vino rosso con bacche di rose.
Coscia di cinghiale alla Tabán.
Gulasch di cinghiale.
Vassoio con marmellata acida e cervo arrosto.
Medaglione di lepre farcita con riso.
Costina di cervo alla Villafranca.
Filetto di cervo farcito con riso.
PICCOLA BALLATA
USCENDO DAL "CERVO D’ORO" NEL 1965
Perché la chiesa di Tabán è tanto verde?
Perché le colline hanno colore di rame?
Che risata! Il castello ha lunghi capelli
che corrono verso il fiume!
Che bello è il Danubio col suo nastro
che qualche volta si arrotolerà fino ad essere
un gomitolo di acqua, come sono i pianeti!
Quando arrivo a Valparaíso voglio dormire un mese
perché voglio arrotolare i miei sonni una volta per tutte
fino a che si trasformino in una palla azzurra,
in un pallone affinché giochino i bambini.
Che bello è camminare a capofitto all'altro lato del mondo
pensando a Budapest giustamente collocata
dove l'estate antipode infiamma un papavero.
Cantiamo, compagni e brindiamo
perché tutti i fiumi arrivino allo stesso mare.
ZUPPA DI PESCE
I pesci trovarono distinzione nella bouillabaisse, nei brodetti di congro del Cile, in succulente zuppe mediterranee e pacifiche. Qui in Ungheria, da laghi e fiumi arrivarono alla zuppa nazionale, impaprikata ed encipollata, aromatica come un armadio di erbe, soavemente pungente e piccante. Zuppa di inverno, zuppa provocatoria che richiede i bei vini dorati del Balatón, zuppa popolare che sostiene la sua categoria tra le zuppe marine del mondo.
LE ARTI DEL CAVOLFIORE
Come la carpa, l'umile carpa, pesce non considerato tra i monsignori dell'acqua, si alza a categoria nella cucina ungherese, le arti ancestrali fanno del cavolfiore trasformazioni sovrane. Qui è ripieno e tra fette come torta imperiale al dragocello, alla haidouk, alla transilvana e fino alle crépes di gran dolcezza. Il cavolfiore comanda sul tavolo campagnolo e si condisce a Budapest fino alla perfezione del decoro, fino al lusso.
LEGUMI
Indimenticabili melanzane, lattughe saltate, papriche fresche nell'insalata vestita come una sposa ungherese, zucche fini fino a dimenticare la loro origine, convertite, in formaggio, in torta, in sapore d’oro, cetrioli di acqua pura, appena portati dei loro letti di terra o fermentati ed agrodolci, champignon moltiplicati dalla pioggia nel bosco aromatico, legumi puri che al contatto dell'olio, del burro, dell'aceto, del sale e del fuoco rappresentano con meravigliosa abbondanza la terra fecondissima.
SANGUE DI TORO
Robusto vino, la tua famiglia ardente
non portava diademi né diamanti:
sanguini e sudore misero sulla sua fronte
una rosa di porpora fragrante.
Si trasformò la rosa in toro imponente:
il sangue si fece vino navigatore
ed il vino si fece sangue differente.
Beviamo questa rosa, viandante.
Vino di agricoltura con nonni,
di mani maltrattate e care,
toro con cuore di velluto.
La tua cornata mortale ci dà la vita
e ci lascia distesi al suolo
respirando e cantando per la ferita.
PILVAX E MALINCONIA
Bisogna arrivare al Pilvax in un giorno gocciolante, quando cade la nostalgia sull'ombrello ed il cielo grigio di autunno si accomuna con le foglie secche della tua anima. Il vecchio caffè coi suoi divani di felpa antica, i suoi autunnali specchi, la sua stufa di maiolica, come una gran dama di avorio, ed il silenzio che si fece quando Petoti cadde ferito dal suo cavallo, silenzio, che dura ancora. "Ed un'intima tristezza reazionaria", dice il geniale López Velarde.
Attraversiamo l'elegante sala da pranzo con i suoi tre anacronistici ragni di luce, i suoi ritratti, menù, opuscoli antichi, grosse pistole, ricordi.
La "Zuppa dello sposo" ci resuscita con la sua afrodisiaca delizia. L'arrosto Pilvax che qui si fa nello stesso modo dal 1848 ci toglie quasi tutta la malinconia accumulata. Una bottiglia di "Ragazza di Egri" termina di portare la "tristezza reazionaria". E rimaniamo allegri per molto tempo bevendo e cantando con Petofi.