- 1969 - Fine del mondo - Pablo Neruda - Popol Vuh - Insetti

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- 1969 - Fine del mondo

FINE DEL MONDO (1969)

PROLOGO

La porta

Che secolo permanente!
Domandiamo:
Quando cadrà? Quando cadrà bocconi
nel compatto, nel vuoto?
Nella rivoluzione idolatrata,
o nella definitiva menzogna patriarcale?
Ma è certo
che non lo vivemmo tanto volevamo viverlo.

Fu sempre un'agonia:
stava sempre morendo:
spuntava con la luce e alla sera era sangue:
pioveva al mattino, alla sera piangeva.

Gli sposi trovarono
che la torta nuziale aveva ferite
come un'operazione d'appendicite.

Uomini cosmici salivano
per una scala di fuoco
e quando ormai toccavamo
i piedi della verità
se n'era andata in un altro pianeta.

Ci guardavamo a vicenda con odio:
i capitalisti più severi non sapevano che fare:
s'erano stancati del denaro
perché il danaro era stanco
e partivano vuoti gli aerei.
Non giungono ancora i nuovi passeggeri.

Tutti stavamo attendendo,
come nelle stazioni le notti d'inverno:
attendevamo la pace
e arrivava la guerra.

Nessuno voleva dir nulla: tutti
temevano di compromettersi:
da un uomo all'altro s'accentuò la distanza
e si fecero così diverse le lingue
che tutti finirono per tacere
o per parlarsi tutti insieme.

Solo i cani continuarono a latrare
nella notte silvestre delle nazioni povere.
E una metà del secolo fu silenzio:
l'altra metà i cani che latravano
nella notte silvestre.

Non cadeva il dente amaro.

Continuò a crocifiggerci.

Ci apriva una porta, ci seguiva
con una coda di cometa d'oro,
ci chiudeva una porta, ci picchiava
sul ventre con una culatta,
ci liberava un prigioniero e quando
lo innalzavamo sulle spalle
ne inghiottiva un milione la cella,
un altro milione partiva in esilio,
poi un milione entrava in un forno
e si convettiva in cenere

Io sono sulla porta per partire
e ricevo quelli che giungono.

Quando cadde la Bomba
(uomini, insetti, pesci calcinati)
pensammo di andarcene con il fagottello,
di cambiar d'astro e di razza.
Avremmo voluto esser cavalli, innocenti cavalli.
Volevamo andarcene da qui,
Lontano da qui, più lontano.

Non solo per lo sterminio,
non solo si trattava di morire
(la paura fu il nostro pane d'ogni giorno),
ma con due piedi più non potevamo
camminare. Era grave
la vergogna
d'esser uomini
uguali
al disintegratore e al calcinato.

E di nuovo, di nuovo.
Fino a quando di nuovo?

Ormai sembrava limpida l'aurora,
con tanto oblio con cui la pulimmo,
quando uccidendo qui, uccidendo là,
continuarono assorte
le nazioni
fabbricando minacce e custodendole
nel magazzino della morte.

Sì, s'è risolto, grazie:
ci resta la speranza.

Per questo, sulla porta, attendo
quelli che giungono a questa fine di festa:
a questa fine del mondo.

Entro con loro, accada quel che accada.

Me ne vado con quelli che partono, e ritorno.

Il mio dovere è vivere, morire, vivere.

I
La Passione

Oggi sono stato impigliato
in una riunione di tenebre
e alla mia età devo dichiarare
altre strade incessanti:
la trasformazione delle onde,
la veracità del silenzio.

Son solo un numero caduto
da un albero che non ebbe oggetto,
perché giunse con le sue radici
all'altro lato della terra.

La mia quantità è il mio tormento.

Non ho ancora nome.

Ricordo che in una città
m'addormentai attendendo l'autunno:
mi trovarono sotto la neve
così congelato di bianchezza
che continuo a essere una statua
senza direzione né movimento.

La mia vocazione più vera
fu d'arrivare a essere un mulino:
studiai cantando nell'acqua
la ragione della trasparenza
e appresi dal grano abbondante
l'identità che si ripete.

Giunsi così a esser quel che sono:

il cuore più ripartito.

Si sa che non è solo tuo
il tuo cuore e il suo alimento:
riteniamo che la bontà
non si debba custodir nelle tasche:
i tuoi dolori causano dolori.

Il tuo tetto appartiene al vento.

C'è una catena che lega
con invisibili anelli
l'ombra di tutti i corpi:
per questo chi vende la sua ombra
vende il tuo e vende il suo.

Il ritardatario

Che si sappia per il corso
Del lento giorno della mia vita
che giunsi tardi in ogni parte:

solo le sedie mi aspettavano

(e le onde nere del mare).

Questo secolo era vuoto.

Stavano facendo le ruote
di un carro di velluto.
Per un naviglio che nasceva
occorrevano addii.

Le locomotive avevano
ancora sogni della selva,
si spargevano sulle rotaie
come cascate di caimani
e così la terra poco a poco
divenne una coppa di fumo.

Cavalli nell'albeggiare
con i musi vaporosi
e i finimenti bagnati.
Ah, galoppate come me,
chiedo ai chiari poeti,
su cinque leghe di fango.

Alzatevi in mezzo al freddo
(il mondo attonito dell'alba,
i meli coperti di pioggia)
e sellate in quel silenzio,
galoppate verso la luna!

Un ricordo

Ricordo in un campo di grano
un papavero bruno
più serico della seta,
con aroma di serpente.
Il resto era l'asprezza
del grano tagliato e dorato.

lo m'abbracciai più di una volta,
a lato d'una trebbiatrice,
con una mela campestre
dal sesso aperto e repentino:
nella paglia rimase tremando
un odore di seme e di luna.

Lo stesso

Mi costò molto invecchiare,
accarezzai la primavera
come mobile appena comprato,
in modo odoroso e liscio,
e nei suoi cassetti nascosti
accumulai il miele selvaggio.

Per questo suonò la campana
portandosi via tutti i morti,
senza che l'udisse la ragione:
ci si abitua alla sua pelle,
al suo naso, alla sua bellezza,
finché per tante estati
muore il sole sul suo braciere.

Guardando il saluto del mare,
la sua insistenza nel tormento
rimasi a volare sulla riva
o seduto sopra le onde:
di questo apprendistato conservo
un aroma verde e amaro
che accompagna i miei movimenti.

Mari

La ragione della sventura
appresi alla scuola dell'acqua.

Il mare è un pianeta ferito
e la ferita è la sua grandezza:
cadde la stella nelle nostre mani:
dalla torre del sale
si staccò il suo patrimonio
d'ombra attiva e luce furiosa.

Non s'è sposato con la terra.
Non lo comprendiamo ancora.

L'ozioso

Mi perdoni il mio nemico
se persi tanto tempo a parlare
con sabbie e con minerali:
non ebbi alcuna ragione,
ma appresi molto silenzio.
Mi piace toccare e consumare
le pietre di ogni giorno:
il granito color mosca,
che si sgrana e si diffonde
sui litorali del Cile.
Nessuno sa come giunsero
queste statue alla costa.

Benché adori lo splendore
dei fosforescenti bengala,
i castelli di fuoco fatuo,
amo nella pietra il cuore.
il fuoco che lì si trattenne:
l'intransigente permanenza.

1967
L'ora di Praga mi cadde
come una pietra sulla Testa,
era instabile il mio destino,
un momento d'oscurità
come una galleria in un viaggio
e ora a forza di intendere
non arrivare a capir nulla:
quando dovevamo cantare
bisogna battere su un sarcofago
ed il terribile è che t'odano
e che ti inviti la bara.

Perché, in mezzo a tante gioie
che si costruirono sanguinando
sopra la neve macchiata
dalle ferite dei morti,
quando il sole ha dimenticato
le cicatrici della neve,
giunge la paura e apre la porta
perché ritorni il silenzio?

Io ingiungo all'età che viene
di giudicare la mia sofferenza,
la compagnia che mantenni
nonostante tanti errori.
Soffrii, soffrimmo senza mostrarlo,
senza mostrare che la speranza.

Soffrimmo di non difendere
il fiore che ci si amputava
per salvare l'albero rosso
che ha bisogno di crescere.

Fu facile per l'avversario
gettare aceto nella fessura
e non fu facile definire,
fu più facile tacere.
Chiedo perdono per questo cieco
che vedeva e non vedeva.

Si chiudono le porte del secolo
sopra gli stessi insepolti;
di nuovo chiameranno invano
e ce n'andremo senza udire,
pensando all'albero più grande,
negli spazi della gioia.

Non ha rimedio chi soffre
per uccidere la sofferenza.

Il tempo nella vita

Non mi alimentano i ricordi
e salto alla vita evidente
scostando il gesso del secolo
e la scarpa di ogni giorno,
soffrendo senza croce il tormento
d'essere il più crocefisso,
stritolato sotto le ruote:
del falso secolo vittorioso.

Valeva la pena di cantare
allorché in Spagna i pugnali
lasciavano un milione di assenti,
quando morì la verità?
La precipitarono nell'ossario
e si tèssero le bandiere
con il silenzio dei morti.

Io torno al tema dissanguato
come un generale dell'oblio
che sempre vede la sua sconfitta:
non solo i morti morirono
nelle braccia della battaglia,
nella prigione, nel castigo,
nelle steppe dell'esilio,
ma anche noi, anche noialtri,
noi che ancora viviamo,
si sa bene che ci uccisero.

Di nuovo

Andavamo appena risorti
cercando di nuovo l'ambrosia,
cercando la vita retta,
la pulizia dei rettangoli,
la geometria senza gomiti:
di nuovo ebbero aroma
le donne e le antilopi,
le violacciocche, le campane,
le gocce del mare d'inverno,
e di nuovo la morte in Europa
ci naufragò sopra il sangue.

Arsero nelle loro tane
quei lupi circospetti
e la presenza dell'incendio
andò di nazione in nazione:
attraversava la notte il terrore
nato nelle birrerie
e con la croce della crudeltà
passò come un brivido
il baffetto del frenetico
sulle vertebre del mondo.
Nessuno poteva fermare
la sua locomotiva sanguinaria.

S'è stancata ormai la memoria
di contare tutti i morti:
morti dalle gengive straziate
perché avevano denti d'oro,
morti dai capelli tagliati
per denundarli di tutto,
morti che scavarono la fossa
in cui furono sepolti,
morti che cercano la loro testa
tra le mani dei carnefici,
morti d'un colpo d'aria rossa
nell'ombra del bombardamento.

Oh, quanto dispose la morte
nelle praterie di questo secolo:
si vede che la Cornuta
voleva giocare con noi
e ci lasciò un pianeta rotto
pieno colmo di scheletri,
con pianure sterminate
e con città contorte,
sdentate dall'incendio,
città nere e tutte vuote,
con strade che solo sostengono
il silenzio e le bruciature.

La cenere

Questa è l'età della cenere.
Cenere di bimbi bruciati,
di fredde prove dell'inferno,
cenere d'occhi che piansero
senza sapere di che si trattava
prima che li calcinassero,
cenere di vergini gotiche
e di finestrine col fil di ferro,
cenere di roche cantine,
di sgretolati magazzini,
cenere di mani insigni.
E per contare e chiudere
il capitolo cinereo
con la vittoria di Berlino,
le ceneri dell'assassino
sul suo stesso portacenere.

Il culto (I)

Ahi, che passione cantava
tra il sangue e la speranza:
il mondo voleva nascere
dopo esser morto tante volte:
gli occhi non avevano lacrime
dopo aver pianto tanto.

Non c'era nulla nelle arterie,
tutto s'era dissanguato,
e tuttavia si ricompose
di nuovo il petto dell'uomo.
Si sollevarono le città,
andarono ai mare i marinai,
ebbero bimbi le scuole,
e gli uccelli, nel bosco,
deposero uova fragranti
sopra gli alberi bruciati.

Ma fu duro rinnovare
il sorriso della speranza:
si piantava su alcuni volti
e gli cadeva nella strada.
In verità sembrò impossibile
empire di nuovo la terra,
con tanti buchi che lasciò
la dentata del disastro.

E quando crebbero i fiori,
le cinerarie dell'oblio.
un uomo tornò dalla Siberia,
ricominciò la sventura.

Se le mani della guerra,
le terribili mani dell'odio,
ci affondarono perché non credevamo,
non comprendevamo la ragione,
non conoscevamo la pazzia,
sempre fu d'altri la colpa.
Ora, senza comprendere nulla,
senza conoscere la verità,
sbattiamo contro le pareti
degli errori e dei dolori
che partivano da noi.
Questi tormenti di nuovo
s'accumulano nella mia anima.

II
Mareggiata nel 1968. Oceano Pacifico

La mareggiata si portò via
Tutti i recinti della riva:
forse era il segno del mare,
la dinamite dell'abisso:
la verità è che non vi son parole
dure come l'ondata,
né tanti denti nel mondo
come nella collera marina.

Quando si arrotola il diadema
del mare, incalzano i suoi scudi
e le torri si innalzano,
quando galoppa con i piedi
di mille milioni di cavalli
e la sua testa infuriata
batte sulla pietra del lampo,
dice il pescatore piccolino,
battendosi il petto bagnato
per morire senza agonia:

Mare increspato, tartaruga amara,
panoplia dell'assassinio,
diapason della guerra a morte,
piano dai denti carnivori,
oggi hai abbattuto le mie difese
con un petalo della tua furia
e come un uccello crepitante
cantavi sugli scogli.

Qui è il mare, dicono gli occhi,
ma occorre attendere una vita
per viverlo fino alla morte
e una tempesta ti premia
con quattro gocce di granito.

Sulla Punta del Tuono andai
raccogliendo sale nel volto
e dell'oceano, nella bocca,
il cuore dell'uragano:
lo vidi allo zenit scoppiare,
mordere il cielo e sputarlo.

In ogni raffica recava
gli armamenti di una guerra,
tutte le lacrime del mondo
e un gran treno di leoni,
ma non era sufficiente
e abbatteva quanto faceva,
precipitando sulla pietra
una pioggia di statue fredde.

Oh, firmamento alla rovescia,
oh stelle ribollenti nell'acqua,
oh mareggiata del rancore
dissi, guardando la bellezza
del mare disordinato,
in una battaglia campale
contro la mia patria scossa
da un tremito inesorabile
e i disegni della schiuma.

Epoca

Qui non riposa un passato
che chiamai con una campana
perché si sveglino le cose
e mi circondino gli anelli
che lasciarono le dita
ubbidendo alla morie:

non voglio ricostruire
le mani né i dolori:

poi tutto morirà
una volta per tutte, forse,
questo secolo dell'agonia
che c'insegnò ad assassinare
e a morire da superstiti.

Il pericolo

Sì, ci dissero: Non scivolate
nei saloni con la cera,
nel fango, nella neve, nella pioggia.
Benissimo, dicemmo, continuiamo
a non scivolare nell'inverno.
Ma che accadde? Sentimmo
sotto i piedi qualche cosa
che fuggiva e ci faceva cadere.

Era il sangue di questo secolo.

Scese dalle segreterie,
dai ghiacciai saccheggiati,
dal marmo delle scale
e attraversò campagne, città,
le redazioni, i teatri,
i magazzini di cenere,
le inferriate dei colonnelli:
il sangue copriva le fosse
e saltava di guerra in guerra
sopra milioni d'occhi morti
che solo guardavano il sangue.

Questo accadde, Io lo attesto.

Voi vivrete forse solo
scivolando sulla neve,

A me toccò questo dolore
di scivolare sopra il sangue.

Sappiate, seppiatelo sappiatelo

Ahi, la menzogna che vivemmo
fu il nostro pane quotidiano.
Signori deI secolo ventuno
è necessario che si sappia
quello che noi non sapemmo,
che si veda il contro e il pro,
perché non lo vedemmo noi,
e che nessuno mangi più
l'alimento menzognero
che ci nutriva nel nostro tempo.

Fu il secolo comunicativo
delle incomunicazioni:
i cablogrammi sotto il mare
a volte furono veri
quando la menzogna giunse
ad avere maggior latitudine
e longitudine dell'oceano:
i linguaggi si abituarono
a preparare la finzione,
a suggerire le minacce;
le lunghe lingue del cablogramma
arrotolarono come serpenti
l'impostura colossale,
finché tutti condividemmo
la battaglia della menzogna
e dopo aver mentito correndo
andammo mentendo a uccidere,
giungemmo mentendo a morire.

Mentivamo con gli amici
nella tristezza o nel silenzio,
e il nemico ci mentì
con la bocca piena d'odio.

Fu l'età fredda della guerra.

L'età tranquilla dell'odio.

Una bomba di quando in quando
bruciava l'anima del Vietnam.

E Dio entro il suo nascondiglio
spiava come un ragno
i remoti provinciali
che con sonnolenta passione
cadevano nell'adulterio.

Le guerre

Vieni qui cappello caduto,
scarpa bruciata, giocattolo,
mucchio postumo di occhiali,
uomo, donna, città,
sollevatevi dalla cenere
fino a questa pagina stanca,
indebolita dal pianto.

Vieni neve nera, solitudine
dell'ingiustizia siberiana,
resti rosi dal dolore,
quando si persero i vincoli
e s'incupì sopra i giusti
la notte senza spiegazioni.

Bambola dell'Asia bruciata
dagli aerei assassini,
presenta i tuoi occhi vuoti
senza la cintola della bimba
che ti abbandonò quando ardeva
sotto i muri incendiati
o nella morte della risaia,

Oggetti che rimasero soli
vicino agli assassinati
del tempo in cui io vissi
vergognoso per la morte
degli altri che non vissero.

Vedendo la biancheria distesa
ad asciugare al sole brillante
ricordo le gambe che mancano,
le braccia che non la riempirono,
parti sessuali umiliate
e cuori demoliti.

Un secolo di scarperíe
empì di scarpe il mondo,
mentre tagliavano i piedi
con la neve o con il fuoco,
con il gas o con l'ascia!

A volte resto accovacciato
tanto pesa sulla mia schiena
la ripetizione del castigo:
Mi costò apprendere a morire
con ogni morte incomprensibile
e portare addosso i rimorsi
del criminale innecessario:
perché dopo la crudeltà,
e anche dopo la vendetta,
forse non fummo innocenti,
se continuammo a vivere
quando uccidevano gli altri.

Forse rubammo la vita
ai nostri fratelli migliori.

Gli scomparsi

Lumumba va con la sua ragione;
domando, dov'è Ben Bella?
Ben Barka è scomparso
Così questo secolo è gremito
di destri e di sinistri
ladri d'uomini, usurpatori,
sequestratoli e assassini.

Lumumba va con la sua ragione,
la sua abbacinante geometria,
per le nubi della tortura,
affidato ai sanguinari.

Africa amara, dove sono
le sue sottili mani oscure?
Come affidasti ai carnefici
il fiore nero del tuo diritto?
Ben Barka in mezzo a Parigi
condannato a morire oscuramente
da monarchie e da bordelli,
crocifisso nel silenzio
di quest'epoca d'agonia!

Ben Bella che l'ira portò
su un'oscura onda silenziosa
verso il segreto, e non tornò
dall'eternità della sabbia.

Preferisco il rumore scarlatto
delle mitragliatrici degli uomini
senza Dio e senza legge
nell'inferno di Chicago,
a questi guanti che si mossero
senza mani, per strangolare,
a queste teste senza sguardo,
che cercan nella notte crudele
cuori di eroi perduti.

Oh silenzio, terrore! Addio!

Nulla resta, hanno lavalo ormai
i gradini del delitto. Sono andati.

Furono segrete le condanne
e i carnefici invisibili.

A noi toccò di vedere,
invece della luna nella notte,
passeggiare in cielo come un astro
la dentiera della morte.

Vediamo

Non torniamo a misurarci
con l'atmosfera delicata,
essa dipende da una goccia,
da una nube, da una violacciocca:
tu sbatti le palpebre e subito
il cielo cambia camicia.

Entriamo in noi stessi,
nel tuo androne, nel tuo almanacco,
e soprattutto nella cantina,
dove conservi i mobili rotti
e le lampade ormai spente,
più ancora, le tristi rotture
che si nascosero nel silenzio,
i segreti che marcirono,
le chiavi gettate in mare.

Scendiamo al piano di sotto
e stappiamo l'inferno:
li ti stan sempre chiamando
in lingue che nessuno intende,
salvo tu stesso solo,
a volte, perché mai tu vuoi udire
quando ti chiamano da dentro,
dal ricordo inossidabile.

Nascere sempre

II sole nasce dal suo seme
allo splendore obbligatorio,
lava con luce l'universo,
si corica ogni giorno a morire
sotto le lenzuola oscure
della notte germinatrice
e per nascere di nuovo
lascia il suo uovo nella rugiada,
Chiedo che la mia resurrezione
sia anch'essa produttiva,
sia solare e delicata;
ma ho bisogno di dormire
nelle lenzuola della luna,
procreando modestamente
le mie sostanze terrestri.

Voglio distendermi nel vuoto
disinteressato del vento
e propagarmi senza sosta
nei quaranta continenti,
nascere in forme anteriori,
esser cammello, essere quaglia,
campanile in movimento,
foglia dell'acqua, goccia d'albero,
ragno, balena del cielo
o romanziere tempestoso.

So che la mia immobilità
è garanzia invisibile
di tutto lo stabilimento:
se cambiamo zoologia
non ci ammettono nel cielo.

Perciò seduto sulla pietra
vedo girare sui miei sogni
gli elicotteri che tornano
dalle loro stelle minuscole
e non ho bisogno di contarli,
ce n'è sempre qualcuno di troppo,
soprattutto in primavera.

Se me ne vado per le strade
ricorro all'aroma obliato
di una rosa disabitata,
di una fragranza che persi
come si smarrisce l'ombra:
son rimasto senza quell'amore
nudo in mezzo alla strada.

III
È anche oggi

Fiorisce questo giorno d'inverno
con una sola rosa morta.
la notte prepara la sua nave,
cadono i petali dal cielo
e torna senza rotta la vita
a raccogliersi in una coppa.

lo non so dire in altro modo:
la notte nera, il giorno rosso,
e ricevo le stagioni
con cortesia di poeta:
attendo puntuale l'arrivo
delle verbali rondinelle
e monto una guardia d'acciaio
alle porte dell'autunno.

Per questo l'inverno imprevisto
mi sorprende nel suo accidente,
come il fumo scoraggiato
del ricordo d'una battaglia;
non è la parola soffrire,
non è castigo, né sventura,
è come un suono nella selva,
come un tamburo sotto la pioggia.
Cambia il mio tema, è certo,
con il colore del mattino.

Cadendo

Io ti chiamo, rosa di latte,
duplicata colomba d'acqua,
vieni da quella primavera
a risuscitare nelle lenzuola,
ad accendere dietro l'inverno
il sole erotico del giorno.

Oggi nella mia circostanza
sono un nudo pellegrino
che va alla chiesa de! mare:
ho attraversato pietre salate,
ho seguito il discorso dei fiumi,
mi son seduto presso il fuoco
senza sapere ch'era il mio destino.

Sopravvissuto dal sale,
dalle pietre e dalle fiamme,
continuo a passare regioni
sostenendomi nei miei dolori,
innamorato della mia ombra.
Per questo non con molta strada
mi allontano da me stesso.

È questo il giorno menzognero
di falsa luce incappucciata,
quello che mi fece macilento:
cado nel tempo del pozzo
e dopo aver nuotato sotto
l'inesatta primavera
esco a luce in qualsiasi parte,
con lo stesso cappello grigio,
suonando la stessa chitarra.

Forse

È saggio l'uomo che volteggia
e ammiccando sul fll di ferro
cambia di pelle e di palato
cercando il sole o l'equilibrio.
(L'astuzia cambia colore
e il conservatore non conserva
che le maschere che ha usato,
ormai convenite in cenere).

Diavoletti

Ho visto come preparava
la sua condizione l'opportuno,
il suo inganno l'arrivista,
le sue reti la ricca facile,
le sue inconclusioni il poeta.
Io ho giocato carta pulita
alla luce tutti i giorni.

Sono operaio pescatore
di versi vivi e bagnati
che saltan sempre nelle mie vene.
Mai ho saputo fare altro,
né seppi ordire gli affari
dell'intrinseco presuntuoso
o del perverso intrigante,
non è propaganda del bene
ciò che dico col mio canto:
è che non lo seppi fare,
e chiedo scusa a tutti:
lasciatemi solo col mare:
son nato per pochi pesci.

Si, signore

Son nato per pochi pesci,
per l'infinita freschezza
di ogni goccia del lavoro,
per il rosario che s'andò filando,
la squama chiara e ripetuta.
Mi dichiararono trasparente,
così senza rendermi conto
giunsi a parlare come tutti.

Strade

Trovai un uomo su un camion
che m'intrattenne conversando,
sul camion che conduceva,
tra Osorno e Antofagasta.
La notte del Cile è più lunga,
la notte del Cile è eterna,
la notte della strada
dipanata, svolta, dai fari,
non termina in alcuna parte.
Non si sa dove incominci
la cintura notturna del Cile,
di stelle secche nel Nord,
nel Sud di stelle bagnate.
Nella stretta ombra cilena
va il camion intermittente,
col camionista che fuma
presso i sacchi taciturni,
lasciando indietro la notte
angusta, tonda come una biscia.
Si chiamava Jesús González
il mio amico del camion.

Paesaggio

Sono andato dicendo addio
a molti distanti, e ora
mi piacerebbe raccogliere
il filo di quegli addii,
rivedere occhi perduti.

Non so se a tutti conviene
la mia malinconia d'oggi:
son disposto a distribuirla
in piccoli grani rotondi
intorno all'accampamento,
sulle ginocchia della strada.
Voglio vedere se crescono,
la pena, i fiori dell'incertezza,
l'indecisione dolente;
voglio sapere di che colore
sono le api dell'abbandono.

Quando un giorno il sole ti guarda
come una tigre dal suo trono
e vuole obbligarti a vivere
la sua condizione ostinata,
ricevo una raffica lunatica,
mi dispero tanto son cupo,
e quando meno me l'aspetto
mi metto a distribuire tristezza.

Il fuoco

Che momento musicale,
mi dice un fiume intelligente
muovendo presso me le sue acque:
egli si diverte con le pietre,
prosegue cantando la sua strada;
mentre io deciso a tutto,
lo guardo con occhi di furia.

Dedichiamo alla sventura
un pensiero vaporoso,
come la terra mattutina,
sporca di lacrime celesti,
innalza un albero di vapore
che rende sfuocato il mattino:
soffre la luce che va nascendo,
si ammutina la solitudine,
più non si conta su nulla,
non si vede cielo né terra
sotto la nebbia salubre.

Esagerammo questo tema,
dissi tornando al falò
che si spegneva nel folto,
e con due rami d'alloro
si levò una fiamma rossa
con una castagna nel centro,
poi si aprì la castagna
insegnandomi la lezione
della dolcezza imprigionata,
e fui di nuovo un cittadino
che vuol leggere i giornali.

Il secolo

Trentadue anni entreranno
Muore portando il secolo venturo,
trenta due trombe eroiche,
trentadue fuochi sconfitti,
e il mondo continuerà a tossire
avvolto nel sonno e nel delitto.

Mancano sì poche foglie
all'albero delle amarezze
per i cent'anni d'autunno
che distrussero il fogliame:
l’irrigarono di sangue bianco,
di sangue nero, di sangue giallo,
e ora vuole una medaglia
sul suo sparato di sergente,
il secolo che compie cent'anni
di sbeccuzzare occhi feriti
coi suoi arnesi di ferro
e gli artigli decorati.

Mi parla il cemento nella strada,
mi canta l'uccello sui rami,
m'avverte il carcere nominando
i giusti lì giustiziati,
me lo dichiarano i parenti,
i mici irrequieti compagni,
segretari della povertà;
son sempre marci questi anni
fermi nel mezzo del tempo,
come le ossa d'una bestia
che divorano i roditori,
ed escono dalla pestilenza
libri scritti dalle mosche.

Perché signore?

Quando il secolo aveva cinque anni
gli Stati Uniti cantavano
come una macchina d'argento,
sussurravano con il suono
di un granaio che si sgrana,
avevano le mani di Lincoln
e l'abbondanza di Walt Whitman,
scendevano lungo il Mississipi
le barcarole dei negri
e Nuova York era una pentola
con un cavolo gigantesco.

Dove sarà ora quella gente?
Che ne fu di quella nazione?
Lincoln e Whitman dove sono?
Dove sono le nevi d'un tempo?
Ora con tante stelle
che gli decorano il gilè,
con tanti edifici d'oro
e tante bombe in pugno,
con il sangue che versano,
nessuno li vuole sulla terra:
non sono gli Stati Uniti,
sono gli Stati Sputacchiati,

Senza motivo alcuno
si disonorarono in Vietnam.
Perché dovevano uccidere
quegli innocenti lontani,
quando abbondano i delitti
nelle tasche di Chicago?
Perché così lontano a uccidere?
Perché così lontano a morire?

Cugini primi per la terra,
per lo spazio e le praterie,
perché i nostri cugini presero
gli stendardi dell'assalto
e in campo aperto a mezzanotte
entrarono in casa d'altri
a rompere tutti i vetri,
a bruciar bimbi col napalm,
e poi senza gloria né pena,
la coda tra le gambe, partirono,
con i guanti insanguinali?

A Cuba

Corse in quest'ore la luce
alla nostra terra addormentata,
e in un lampo terrestre
s'accese la stella di Cuba.

Onore, onore a quel pugno
d'irsuti eroi nell'aurora,
onore alla luce prima
del sole latino-americano:
onore e tamburo e lode
agli uccelli dello sparo,
al profilo degli insorgenti.

Io vidi e cantai quelli che giunsero,
celebrai gli edifici innalzati
dall'amore e dal combattimento,
il nuovo bestiame che nacque
e il tumultuoso movimento
che corre tagliando e cantando
zucchero dei campi di canne.

Sappiate, voi che ora esistete,
che conobbi l'ieri cubano,
l'avantieri dell'Avana:
tutto era gioco e Daiquiri,
bianche e negre si vendevano
mentre saliva ai balconi
un clamore di bocche amare
con la serenata della fame:
io attesto che era così:
torta marcia, letamaio,
imbrunire postribolario.

Io ancor prima di tutti
cantai l'impresa cubana,
dichiarai le gesta nel mio libro,
propagai la rosa di fuoco
e la mia poesia compagna
pose Cuba alla finestra.
Non pretesi lode né onore,
ma il dovere del combattente.

Quando tutto era ormai vinto,
si unirono gli scriventi
e accumularono firmatori:
si fecero tutti in circolo
sparando contro la mia voce,
contro il mio canto cristallino
e il mio cuore comunista.

In questo secolo l'amarezza
si nascose prima e dopo
ogni splendida vittoria:
fu come un gatto che spiava
il volo più vertiginoso
e restituiva alla gabbia
un colpo d'ala moribondo.
Nonostante questo l'alba
si sostenne e brillò nel cielo.

Tristezza per la morte di un eroe

Noi che vivemmo questa storia
questa morte e resurrezione
della nostra speranza a lutto,
noi che scegliemmo il combattimento
e vedemmo crescere le bandiere,
sapevamo che i più silenziosi
erano i nostri unici eroi
e che dopo le vittorie
giungevano i vociferanti,
piena la bocca di iattanza
e di prodezze salivarie.

Il popolo scosse la testa:
tornò l'eroe al suo silenzio.
Ma il silenzio si incupì
fino a soffocarci nel lutto
quando morì sulle montagne
il fuoco illustre di Guevara.

Il comandante terminò
assassinato in un burrone.

Nessuno disse una parola.
Nessuno pianse nei villaggi indio.
Nessuno salì sui campanili.
Nessuno sollevò i fucili,
e riscossero la ricompensa
quelli che venne a salvare
il comandante assassinato.

Che accadde, medita il contrito,
con questi avvenimenti?

Non si dice la verità,
ma la si copre con carta
questa sventura di metallo.
Si apriva appena la strada
e quando giunse la sconfitta
fu come un'ascia che cadde
nella cisterna del silenzio.

Bolivia tornò al suo rancore,
agli ossidati gorilla,
alla miseria intransigente,
e come stregoni spaventati
i sergenti del disonore,
i generaletti del crimine,
nascosero con efficienza
il cadavere del guerrigliero
come se il morto li bruciasse.

La selva amara inghiottì
i movimenti, le strade;
dove passarono i piedi
della milizia sterminata,
oggi le liane consigliano
una voce verde di radici
e il cervo selvaggio è tornato
al fogliame senza spari.

IV
Oliverio Girondo

Ma sotto il tappeto
e oltre il pavimento,
tra due immobili onde,
un uomo è stato isolato:
devo scendere e guardare
per sapere di chi si tratta.
Nessuno ancora lo tocchi:
è una lamina, una linea:
un fiore custodito in un libro:
un ossame trasparente.

Allora intatto l'Oliverio
si ricostruisce ai miei occhi
con la certezza del cristallo,
ma quanto pronunci o taccia,
quanto raccolga dal silenzio,
ciò che mi venga alla memoria,
ciò che mi regali la morte,
sarà solo povero vestigio,
una figura di carta.

Perché chi canto e ricordo
brillava di vita ribelle:
io condivisi la sua fiamma,
l'andare, venire, tornare,
la burla e la sapienza;
gomito a gomito albeggiammo
rompendo i vetri del cielo,
salendo le scalinate
di palazzi sgretolati,
prendendo treni che non esistono,
riverberando di salute
nell'alba dei lattai.

Ero il navigante silvestre
(mi si vedeva nel vestito
l'ascurità dell'arcipelago)
quando Oliverio passò
e superò le moltitudini,
eccellendo nelle dogane,
sollecito nelle traversate
(con lo sparato disordinato
nell'autunnale vestitura},
bevendo birra nel fumo
o spettro di Valparaiso.

Nella mia ragnatela infantile
interviene Oliverio Girondo.

Io ero un mobile delle montagne.

Lui, un cavaliere evidente.
Disinvolto, gagliardo, fratello chiaro,
fratello oscuro, fratello freddo,
lampeggiando nello ieri
preparavi la luce intrepida,
l'invenzione delle violacciocche,
le sillabe favolose
del tuo elegante labirinto:
così la tua pazzia di santo
è ornamento del rigore,
come se avessi disegnato,
con una forbice celeste,
alla finestra il tuo ritratto
perché lo vedano poi
i gabbiani con esattezza.

Io sono il cronista oppresso
da ciò che può accadere,
da ciò che debbo predire
(senza contare ciò che mi accade,
né ciò che mi fecero passare),
in questo canto passeggero
canto Oliverio Girondo,
la sua insolenza mattutina.

Dell'indimenticabile si tratta.

Della sua mira indelebile:
quando cancellò la cattedrale
e col suo riso di corsiero
chiuse il turismo d'Europa,
rivelò il panico del formaggio
davanti alla francese golosa
e diresse al Guadalquivir
lo sparo che meritava.

Oh primordiale impudente!
C'era tanto bisogno qui
della tua iconoclasta sfrenatezza!

Regnava ancora Sully Prud'homme
con la sua redingote di lillà,
la sua bonomia spaventosa.
Occorreva un argentino
che con gli sproni del tango
rompesse tutti gli specchi
includendo quel ventaglio
che fu sbriciolato da un vaso.

Perché io parente futuro
dell'italica pietra chiara
o di Quevedo permanente,
del nazionale Aragon,
non voglio che nessuno attenda
la moneta falsa d'Europa;
noi poveri americani
dilatati nelvento,
noi dai metalli più profondi,
milionari di chitarre,
non dobbiamo tendere il piatto,
non mendichiamo l'esistenza.

Mi piace per questo Oliverio:
non andò a vivere in altro luogo
e morì presso il suo cavallo.

Mi piacque la ragione intrinseca
del suo delirio necessario
e il nutrimento dell'amicizia
che ancora non ha fine:
amico, c'incontreremo,
forse sotto il tappeto,
sulle lettere del Fiume
nel termometro obelisco
{o nella direzione delicata
del sussurro e del sussulto)
nelle radici riunite
sotto la luna di Figari.

Oh energumeno del miele,
patriota dello spaventapasseri,
celebrerò, celebrai, celebro
ciò che tu sarai ogni giorno
e l'Oliverio che saresti
compartendo con me la tua anima
se la morte avesse dimenticato
di salire una notte, perché?
cercando un numero, perché?
perché per la strada Suipacha?

Di tutti i morti che ho amato
sei l'unico che ancora viva.

Non mi dedico alle ceneri,
continuo a nominarti e a credere
nella tua ragione stravagante,
vicino, lontano da qui,
tra un angolo di strada
e un'onda dentro un giorno rotondo,
in un pianeta dissanguato
o nell'origine d'una lacrima.

Percorrendo strade

Di notte, per le strade
della siccità, pietra e polvere,
tartaglia il grosso carro.

Nessuno passa di qui.

Il suolo non ha abitanti
se non l'asperità accesa
dai fari vertiginosi:
è la notte delle spine,
dei vegetali armati
come caimani, con coltelli:
si vedono i denti del fildiferro
tutto intorno ai pascoli,
i cactus d'ostile statura,
come obelischi spinosi,
la notte secca, e nell'ombra
piena di stelle polverose,
il nido nero dell'aurora
che prepara senza sosta
i suoi orizzonti gialli.

La solitudine

Quando giunge la solitudine
e tu non sei abituato,
si stappano cose rinchiuse,
bauli che credevi morti,
fiaschi che assumono il senso
di un'invariabile teschio,
s'aprono alcune serrature,
si stappano le olle dell'anima.

Ma non ci piace sapere,
non amiamo le scoperte
della nostra vecchia identità,
trovare l'irriducibile
che stava dentro, acquattato,
attendendo con uno specchio.
È molto meglio andare al cine
o conversare con le donne,
o leggere la storia d'Egitto,
o stimolare la compiacenza,
la numismatica o la chiesa.

Quelli che si dedicano a Dio
di tanto in tanto, son salvi.
Pieni d'unguento medievale
ritornano ai loro uffici
o si danno un soffio d'inferno
o usano dentifricio divino.

Noi che non amiamo Dio,
dacché Dio non ama nessuno,
giungiamo al campo, presto,
a Rumay, presso Melipilla,
e ci pensiamo lentamente,
ci ricacciamo con fervore,
con pazienza ci disuniamo
e ci riuniamo di nuovo
per esser sempre gli stessi.

Il vento

Ma non c'è nulla come il vento
dei duri monti, l'acqua fredda
d'irrigazione nei canali,
lo spazio immobile, la luce
che colma la coppa del mondo
e l'odore verde della terra.

Per questo devo tornare
a tanti luoghi futuri
per incontrarmi con me stesso
ed esaminarmi senza sosta,
senz'altro testimone che la luna
e poi fischiare di gioia
calpestando pietre e zolle,
senz'altro compito che esistere,
senz'altra famiglia che la strada.

La musica

Se non m'insegnarono la terra,
altro che per percorrerla,
se mai entrai con l'aratro,
se non vissi con le zolle
né dormii sopra la biada,
non posso parlare coi violini,
perché la musica è terrestre.

Ma è terrestre la cintura
della mia migliore innamorata
ed ha terra l'avvenire,
tutte le cose son di terra.
È di terra il pane, il silenzio,
il fuoco è la polvere che arde,
l'acqua è le terra che corre
e tutti i sogni notturni
vengon dal fondo della terra.

Metamorfosi

Ho ricevuto una pedata
dal tempo e s'è scompigliato
il triste cassetto della vita.
Si è sconvolto l'orario
come dodici pernici bige
in una strada polverosa
e ciò che prima fu l'una
divenne le otto e quaranta,
il mese d'Aprile retrocesse
fino a trasformarsi in Novembre.

Le carte mi si persero,
le ricevute non si trovavano,
si empirono gl'immondezzai
di nomi di contribuenti,
di indirizzi d'avvocati
e di numeri di deliziose.
Fu una catastrofe silenziosa.

Cominciò tutto una Domenica
che invece di sentirsi dorata
si pentì dell'allegria
e procedette lentamente
come tartaruga sulla spiaggia:
non giunse mai il Lunedì.

Nello svegliarmi mi trovai
più scapigliato che mai,
senza precedenti, dimenticato
in una settimana qualsiasi,
come una valigia in un treno
che rotolasse verso nessun luogo
senza conduttore né passeggeri.

Non era un sogno perché s'udì
un muggito denso di vacca
e poi portarono il latte
ancora caldo di mammelle;
oltre a ciò mi circondava
uno spettacolo celeste:
la monelleria degli uccelli
tra le foglie e la nebbia.

Ma il grave di questo fatto
era che il tempo non passava.
Continuava sempre a esser Sabato
finché il Venerdì s'affacciava.
Dove vado? Dove andiamo?
Chi avrei potuto consultare?

I monumenti camminavano
all'indietro spingendo il giorno,
come guardie inesorabili.
E s'abbatteva verso l'ieri
l'orario dell'orologio.

Non posso mostrare alla gente
la mia collezione di brividi:
mi sentii solo in una casa
perforata dalle gocce
di un acquazzone inappellabile,
e per non perdere tempo,
che era l'unico perduto,
ruppi gli ultimi ricordi,
salutai la mia farmacia,
gettai sul fuoco i registri,
le lettere d'amore, i cappelli,
e come chi si getta in mare
mi lanciai contro lo specchio.

Ma più non potei vedermi.
Sentivo che mi si perdeva
il cuore precipitante;
le mie braccia diminuirono,
si sgretolò la mia statura;
a tutta velocità
mi si cancellavano gli anni,
mi tornarono i capelli,
i denti mi ricomparvero.

In un attimo passai l'infanzia,
continuai nell'alveo contro il tempo,
finché non vidi di me stesso,
del mio ritratto nello specchio,
che una testa di mosca,
un ovulo microscopico
che ritornava all'ovario.

Il fabbricante di stelle

Mi metto a stellare ciò che manca
ne' firmamento notturno,
con sì costante condizione
che volando tutti i giorni
ho visto gli astri campestri
scatenare la bellezza,
e stelle che io fabbricai
non sembravano fabbricate:
tutto sembrava migliore
sul pavimento celeste.

Fu da piccolo che appresi
a guardare le bottiglie vuote,
a nascondere nell'oscurità
del sotterraneo del Liceo
quei frammenti di vetro
in cui io precipitavo
le vocazioni spaziali.

Accumulai chiodi contorti,
ferri disabitati,
tutto vi disposi,
classificando con pazienza,
stimolando con astuzia,
educando con energia,
finché potei risvegliare
la fosforescenza del vetro,
la frenesia dei metalli.

Equiparato dall'età
ai saggi più eminenti
e stregone come nessuno
riuscii ad avere il possesso
del tesoro del mio sottosuolo,
e premunito di ferri
ereditari, insondabili,
costruii prima una raffica,
poi un volo di lucciole.

La cometa mi costò di più.
Una stella dalla coda ardente,
una grande sposa del cielo,
una naufraga dello spazio,
un elemento naturale
pieno di veli e di luce,
come un pesce argenteo della Cina
convocato nel colosseo
di Aldebaràn e di Saturno,
sembrò difficile da fare,
finché di neve e di bottiglie,
spinto dal suo fulgore,
uscì dalle mie mani un astro
pieno, nuziale, vaporoso.

Dopo illustri tentativi
scatenai una meteora
elaborata con i resti
del mio sotterraneo natale.
Di tonfo in tonfo rotolò
nello spazio la meteora,
con tutti i chiodi segreti
della mia totale ferriera.
Suonarono gli astri spezzati
dal manrovescio delle mie dita,
dal mio scoppio celeste,
e la notte rabbrividì
ricevendo la cateratta.

Così mi divertii, signori,
nel collegio della mia infanzia.

Il XIX

Lo strano è che in questo secolo
Mozart, il dolce impalamidato,
continuò col suo palamidone,
col suo vestito di musica:
in questi cent'anni appena
s'udirono altri rumori,
e Fiodor Dostoyevski ancora
svolge il suo libro,
il suo dettame di tenebre,
la lunga cintura di spine.

Beh, e Rimbaud?
Grazie, benissimo risponde
il vago vagabondo
che ancor passeggia solitario
senz'altra ombra in questo secolo.

A me che giunsi da Parral
a conoscere questo secolo,
perché danno lo stesso freddo,
lo stesso piatto, lo stesso fuoco
dei nostri gentili nonnini
o quello dei nonni più amari?

Fin quando su noi pioverà
Verlaine? Fin quando
l'ombrello di Baudelaire
ci accompagnerà in pieno sole?
Vogliamo sapere dove stanno
le araucarie che nacquero,
le querce del Secolo Ventesimo,
dove sono le mani, le dita,
i guanti del nostro secolo.
Walt Whitman non ci appartiene,
si chiama Secolo Diciannovesimo,
ma continua ad accompagnarci
perché nessuno ci accompagna.
In questo deserto ha lanciato
lo sputnik il suo polline rosso
in mezzo alle stelle azzurre.

Il secolo ventesimo si consuma
col secolo passato addosso
e noi pallidi scrittori
sotto i giganti defunti
abbiamo salito la scala
con un sacco sulle spalle,
con la pesante precedenza
delle ossa più eminenti.

Pesa Balzac un elefante,
Victor Hugo come un camion,
Tolstoy come una cordigliera,
come una vacca Émile Zola,
Emilia Bronte come un nardo,
Mallarmé come un pasticciere,
e tutti insieme schiacciandoci
non ci lasciavano scrivere,
non ci volevano lasciare,
finché Io zio Ubú Dada
li mandò tutti all'inferno.

V
Arti Poetiche (I)

Come poeta carpentiere
io cerco prima il legno
ruvido o liscio, predisposto:
con le mani tocco l'odore,
annuso il colore, passo le dita
sull'integrità odorosa,
sul silenzio del sistema,
finché m'addormento o emigro,
o mi denudo e mi sommergo
nella salute del legno:
nelle sue circonvallazioni.

La seconda cosa che faccio
è tagliare con sega crepitante
la tavola appena scelta:
dalla tavola escono i versi
come schegge emancipate,
fragranti, forti, distanti,
perché ora il mio poema
abbia suolo, guscio, carena,
s'innalzi vicino alla strada,
sia abitato dal mare.

Come poeta panettiere
preparo il fuoco, la farina,
il lievito, il cuore,
e fino ai gomiti m'impiastro
impastando la luce del forno,
l'acqua verde dell'idioma,
perché il pane che mi segue
si venda nella panetteria.

Io sono, non so se lo sapete,
forse fabbro per destino,
o perlomeno propiziai
per tutti e per me stesso
metallurgica poesia.

In tale aperto patrocinio
non ebbi adesioni ardenti;
fui fabbro solitario.

Rimuovendo ferrature rotte
mi trasferii coi miei rottami
in altra regione senz'abitanti,
illustrata dal vento.
Lì trovai nuovi metalli
che trasformai in parole.

Comprendo che le mie esperienze
di metafisico manuale
non servano alla poesia,
ma io ci lasciai le unghie
dando sotto ai miei lavori
e queste sono le povere ricette
che appresi con le mie mani:
se provate che sono inutili
per esercitare la poesia
sono subito d'accordo:
sorrido per il futuro
e mi ritiro in anticipo.

Arti Poetiche (II)

Io non ho scoperto nulla,
tutto era già scoperto
quando passai per questo mondo.
Se torno da queste parti
chiedo agli scopritori
che mi serbino qualcosa,
un vulcano senza nome
un madrigale sconosciuto,
la radice d'un fiume segreto.

Son sempre stato così avventuroso
che mai ho avuto un'avventura
e le cose che scopersi
erano dentro me stesso,
per tal modo che defraudai
Giovanni, Pietro e Maria,
perché per quanto mi sforzassi
non potei uscire dalla mia casa.

Contemplai con invidia intensa
la seminagione incessante,
il ciclo dei satelloidi,
l'aggiunta degli scheletri;
nella pittura vidi passare
tante maniere affascinanti
che appena mi misi alla moda
già la moda era passata.

Api (I)

Che devo fare, io nacqui
quando eran morti gli dèi;
la mia insopportabile giovinezza
continuò a cercare tra le crepe;
fu il mio mestiere e per questo
mi sentii così abbandonato.

Un'ape più un'ape non fanno
due api chiare e neppure
due api oscure:
fanno un sistema di sole,
una stanza di topazio,
una carezza pericolosa.

La prima inquietudine dell'ambra
sono due api gialle
e legato alle stesse api
lavora il sole d'ogni giorno:
mi fa rabbia mostrarvi tanto
dei miei ridicoli segreti.

Continuerete a domandarmi
delle mie relazioni coi gatti,
come scoprii l'arcobaleno,
perché si vestirono di ricci
le benemerite castagne,
e soprattutto che vi dica
cosa pensano di me i rospi,
gli animali nascosti
sotto la fragranza del bosco
o nelle pustole del cemento.

La verità è che tra i saggi
son stato l'unico ignorante
e tra quelli che meno sapevano
io sempre seppi un po' meno
e fu sì poco il mio sapere
che imparai la sapienza.

Api (II)

C'è un cimitero d'api laggiù
nella mia terra, in Patagonia,
e tornano col loro miele
a morire di tanta dolcezza.

È una regione tempestosa
curva come una balestra,
con un permanente arcobaleno
come una coda di fagiano:
ruggon le cascale dei fiumi,
salta la schiuma come lepre,
schiocca il vento e si dilata
per la prateria circostante:
è un cerchio la prateria,
con la bocca piena di neve
e la pancia colorata.

Lì giungono una a una,
un milione e un altro milione,
a morire tutte le api,
finché la terra si empie
di enormi monti gialli.

Non posso dimenticarne la fragranza.

La Rosa dell'Erborista

Lascio nella nave della rosa
la decisione dell'erborista:
se la stima per la sua virtù
o per la ferita dell'aroma:
se è intatta come la vuole
o rigida come una morta.

La breve nave non dirà
quale morte preferisce:
se con la prua inalberata
davanti al fuoco vittorioso,
ardendo con tutte le vele
della bellezza bruciante,
o seccarsi in un sistema
di bellezza medicinale.

Sono l'erborista, signori,
e mi turbano tali proteste,
perché in me non sono d'accordo
nel decidere la mia idolatria:
la vestitura del roseto
brucia l'amore nella sua bandiera
e il tempo sferza lo scheletro
abbattendo l'aroma rosso
e la turgenza profumata:
poi con una scossa
e una lunga coppa di pioggia
non resta nulla del fiore.

Per questo agonizzo e soffro
preservando l'amore furioso
anche nelle ultime ceneri.

Acqua

Lo svantaggio della rugiada
quando la sua luce si moltiplica
è che al fiore nascono occhi
e questi occhi guardano il mondo.

Han già cessato d'essere rugiada.

Sono le circostanze del giorno:
riflessioni della corolla:
eternità dell'acqua eterna.

Autunno

Per la patria del topazio
disegnai una spiga infinita
e le aggiunsi il frascame
della stirpe più gialla:
Sono i miei doveri d'autunno.

Alleanza

Quando la foglia non converserà
con altra foglia e preserverà
infinite labbra l'albero
per sussurrarci sussurri,
quando la patria vegetale
con le sue bandiere abbattute
si rassegnerà al precario idioma
dell'uomo o al suo silenzio,
e da parte mia quando assumerò
come acqua o linfa i doveri
della radice verso la corolla,
ahi, quel mondo sarà la vittoria,
sarà il paradiso perduto,
l'unità verde, la bellezza
dell'uva e delle mani,
il segno rotondo che corre
annunciando la mia nascita.

Ragione

L'oblunga ragione del ramo
sembra immobile, ma ascolta
come suona la luce del cielo
nella cetra delle sue foglie,
e se ti chini per sapere
come sale l'acqua al fiore
udrai la luna cantare
nella notte delle radici.

Albero

lersera spegnendo la luce
mi s'addormentarono le radici
e gli occhi mi rimasero
impigliati tra le foglie
finché, tardi, con l'ombra
mi cadde un ramo nel sonno
e per il tronco mi salì
la fredda notte di cristallo
come un'iguana trasparente.

Allora mi addormentai.

Chiusi gli occhi e le foglie.

Silenzio

Io che crebbi dentro un albero
avrei molte cose da dire,
ma appresi tanto silenzio
che ho molto da tacere:
questo si conosce crescendo
senz'altro godimento che crescere,
senz'altra passione che la sostanza,
senz'altra azione che l'innocenza,
e dentro il tempo dorato,
finché I'altezza lo chiama
per convertirlo in arancia.

Unità

Questa foglia sono tutte le foglie,
questo fiore sono tutti i petali
e una menzogna è l'abbondanza.
Perché ogni frutto è lo stesso,
gli alberi sono uno solo
ed è un solo fiore la terra.

La rosa

Da una rosa a un'altra c'erano
tanti rosai di distanza
che me n'andai da una vita all'altra
senza che mi decidesse lo slancio,
e quando era lardi senza dubbio
morto d'amore m'accommiatai
dalla mia triste integrità.
Tornai a cercare quell'aroma,
la rosa rossa del dolore
o quella gialla dell'oblio,
le rosa bianca della tristezza
o l'insolita rosa azzurra;
è certo che è vano tornare
al paese della primavera:
era così tardi che le stelle
cadevano sulla strada

e mi trattenni a raccogliere
il fulgore del grano notturno.

Il ferito

Lasciai cadere le spine
per non ferire nessuno,
per questo arrivo a questa pagina
tra nudo e gravemente ferito.
Lasciai cadere le amarezze
perché nessuno soffrisse,
e tanto mi fecero soffrire
che morirò da indifeso.

Cade il fiore

I sette petali del mare
s'uniscono in questa corolla
con il diadema dell'amore:
Accadde tutto nel vaevieni
d'una rosa che cadde nell'acqua
quando il fiume giungeva al mare.
Così un gorgoglio scarlatto
saltò dal giorno innamorato
alle mille labbra dell'onda
e una rosa scivolò via
verso il sole e sopra il sale.

Bestiario (I)

L'antilope clandestina
si svolge nel falò:
il suo muso si nutre di fuoco
e la sua coda sembra fumo.
Vanno e vengono le fiamme
per la corona di corna
e l'animale, fedele al destino,
risolve lo strano sistema
degli alimenti ardenti
lasciando come macchie
dietro la sua coda bruciata
una collana tacita d'ambra.

Bestiario (II)

Inventando l'ornitorinco
passai i mesi dorati
di quel regno senza speranza:
tutti i giorni eran Giovedì
e s'univa il mare con l'aria
in una sola monarchia.

Ripetei in quell'animale
gli accaniti piumaggi
del còndor amaro e patriota.
Mi costò stabilire il becco
del selvatico personaggio,
e per le zampe, che fare?
Come dotarlo di naufragi,
di parossismi, di segnali?

Aprii il mio cassetto d'esperpento
che trascinavo per quei mari
e traendone un uovo squisito,
rettangolare e tricolore,
soffiai con pazza frenesia,
con invenzione disperata,
finché nacque la bizzarria
che passeggia per la selva.

Animale

Quel sicuro scarabeo
volò con elitre aperte
alla ciliegia infrarossa.

La divorò senza comprendere
la chimica del potere,
poi ritornò al fogliame
convertito in un incendiario.

II suo cuore andò alla deriva
come una cometa saturata
dalla radiazione deliziosa
e arse nella sostanza
di così brucianti elettroni:

dissolvendosi riuscì a essere
un sintomo dell'arcobaleno.

Cane

I cani disinteressati
per le strade, senza ritorno,
nella polvere errante,
alla luce dell'intemperie indifferente.

Oh, Dio dei cani perduti,
piccolo dio dalle zampe tristi,
avvicinali al nostro emisfero
di lunghe code umiliate,
d'occhi affamati che inseguono
la luna colore d'osso!

Oh Dio noncurante, io sono
il poeta delle strade
e vago invano senza trovare
un idioma di cagneria
che li accompagni cantando
nella pioggia e nella polvere.

Cavallo

Mi sono chiesto più volte
all'albeggiare, quando salgo
su uno scheletro di cavallo,
perché il corsiero non si sfascia
tra le rocce che attraverso,
gli albereti che passo,
le onde che lascio indietro,
la polvere che segue
l'insobornabile cavalcata.

Oh cavallo disegnato in bianco
sul lavagnone steppario
della notte patagonica,
quando ritorno galoppando
sulla mia cavalcatura di cenere
come ispettore di turbini
o come colonnello glaciale
di venti gelidi che rotolano
il mare con i suoi cavalli!

Poi raccolgo le distanze,
torno al mio sogno quotidiano,
calmo i miei fondamenti,
finchè nell'alba del freddo
sento galoppare i ferri,
e mi risveglio a percorrere
l'inverno appena giunto
col mio cavallo trasparente.

Un altro cane

Ho inseguito per quelle strade
un cane errante, innecessario,
per sapere dove vanno
trottando i cani di notte.

Solo mille volte sì fermò
a orinare in luoghi remoti
e continuò come se dovesse
ricevere un telegramma.

Passò case, doppiò cantonate,
attraversò parchi, villaggi, paesi,
e io dietro il camminante
per sapere dove andava.

Proseguì senza fine superando
i quartieri pieni d'immondizie,
i ponti deserti e inutili
quando dormivano i carri.

I reggimenti, le scuole,
le statue di bronzo morto,
la tristezza dei postriboli
e i cabarets affaticati,
attraversammo, davanti il cane,
e io, stanco come un cane.

Pesce

Quel pesce nero di Acapulco
mi guardò con occhi rotondi
e ritornò alla trasparenza
del suo oceano d'anilina:
vidi cadere dai suoi baffi
alcune gocce di mare
che splendettero, celesti.

Quando cadde dal mio amo
tornando al sussurro socchiuso
della pietra e dell'acqua azzurra,
non c'era nei suoi occhi estatici
alcuna riconoscenza
per l'uomo, né per la terra.

Io mi riscossi dal riso
per il mio fallimento e la sua faccia
e lui scivolò via a rivivere,
senza emozioni, nell'acqua.

La terra

La lucertola iridescente,
la conchiglia d'ali di madreperla,
le foglie di sangue eccessive
come le mani di Golia,
e questi insetti che mi seguono,
mi cantano e mi continuano.

Oh quanti orologi perversi
ha inventato la natura
perché solidarizzasse
ogni minuto della mia vita,
e io passassi firmando
adesione alle sue invenzioni:
ai cigni, ai ragni,
agli uccelli e alle farfalle.

Di tanto fulgore rifulsi
come i colori dell'acqua
ed ebbi odor di fango nero
dove marciscon le radici:
ebbi voce di rana cupa,
dita di puma adolescente,
sguardo triste di calabrone,
piedi di pessimo pachiderma,
testicoli di callampa,
ombelico serio come l'occhio
d'un antico cavallo guercio,
gambe di cane inseguito
e cuore di scarabeo.

Nozze

A che serve un cervo senza cerva,
a che serve un cane senza cagna,
un'ape senza il suo maschio,
una tigre senza il compagno,
o una cammella senza il cammello,
una balena senza l'amico,
un rinoceronte celibe?

A che serve un gatto senza gatta,
un usignolo senza la femmina,
una colomba senza il colombo,
un cavallino senza cavalla,
un granchio senza granchia,
un buco senza radici?

Sposatevi, pesci del mare,
puma della pumeria,
volpi dalla coda ingannevole,
pulci affamate di provincia.

Procreate! dice la terra,
con voce così invisibile
che tutti la vedono e toccano
e tutti l'odono, e attendono.

VI
Ieri

Tutti i poeti eccelsi
ridevano della mia scrittura
a causa della punteggiatura,
mentr'io mi battevo il petto
confessando punti e virgole,
esclamazioni e due punti,
vale a dire, incesti e crimini
che seppellivan le mie parole
in un Medio Evo speciale
di cattedrali provinciali.

Tutti quelli che nerudeggiarono
incominicarono a vallejarsi
e prima del gallo che cantò
se n'andarono con Perse ed Eliot,
morirono nella loro piscina.

Frattanto io m'imbrogliavo
nel mio calendario ancestrale,
più antiquato ogni giorno,
senza scoprire che un fiore
scoperto da tutto il mondo,
senza inventare che una stella
sicuramenle già spenta,
mentre pieno della sua luce,
ubriaco d'ombra e di fosforo,
seguivo il cielo stupefatto.

La prossima volta che tornerò
col mio cavallo attraverso il tempo,
mi disporrò a cacciare,
debitamente acquattato,
quanto correrà o volerà:
a ispezionare previamente
se è inventato oppure no,
scoperto o non scoperto;
non scapperà alla mia rete
ogni pianeta futuro.

S'è empito il mondo

Belli furono gli oggetti
che accumulò l'uomo tardivo,
il vorace manufatturante:
conobbi un pianeta nudo
che poco a poco si riempì
di lingotti triturati,
di limoni d'alluminio,
di intestini elettrici
che scuotevano le macchine,
mentre il Niagara sintetico
cadeva sulle cucine.

Nel mille novecento settanta
non si poteva più passare
per le strade e per i campi:
le locomotive logore,
le penose motociclette,
le automobili fallite,
le pance degli aerei
invasero la fine del mondo:
non ci lasciavano passare,
non ci lasciavano fiorire,
empivano arene e valli,
soffocavano i campanili:

non si poteva veder la luna.

Venezia scomparve
sotto la benzina.
Mosca crebbe in tal modo
che morirono le betulle,
dal Kremlino agli Urali,
e Chicago giunse sì alta
che s'abbattè d'improvviso
come un bussolotto di dadi.

Vidi volare l'ultimo uccello
vicino a Mendoza, sulle Ande.
E ricordandolo io verso
lacrime di penicillina.

Bomba (I)

Ma in questi anni nacque
la fucina totale della morie,
il nucleo scatenato;
non ci bastò assassinare
centomila giapponesi dormienti,
ma si perfezionò
la ferramenta della sega
fino a alimentarla e levigarla,
a fortificarla e fecondarla,
lasciandola in alto pendente
sopra la testa del mondo.
Stanno attendendo i neutroni
le onde d'attacco, le lunghe
dita della missilistica.
l'assassinio orbitale,
e come la terra pura
ci prepara la primavera,
con una cura squisita
tra guanti e gabinetti,
c'è un'altra festa preparata:
il suicidio dell'universo.
Io conosco il fumo del bosco
e toccai la cenere verde
delle montagne odorose,
poi vissi sotto il fumo
della città recalcitrante
e delle sue panetterie.

Ma più tardi io conobbi,
nella Spagna dei miei dolori,
il fumo della distruzione;
odio ancor oggi quel ricordo
perché non c'è fumo più amaro
del fumo inutile della guerra.

Ora un pianeta di fumo
attende tutti gli uomini:
non ci potremo salutare
noi morti sotto le macerie,
avranno fine le parole,
gli idiomi saranno bruciati
e la primavera radioattiva
porrà veleno nei fiori
perché cadano in pezzi
il frutto morto, il pane marcio.

Siamo così

Se voi sapete come si fa
ditemelo e non ditemelo,
perché sia più tardi ho compreso
che non lo so, né lo saprò,
e per tanto non averlo saputo,
sopravvivendo alla mia ignoranza,
credettero che lo sapessi.

Io li credevo menzogneri:
ma dopo la sofferenza
la menzogna fu la verità.

(Come si fa per sapere?
Per non sapere come si fa?
E i saggi della menzogna
Continuano a dire la verità?)

Morte di un giornalista

Dicono ch'è morto Neponiavsky
nel carro armato, verso Praga,
con la sua macchina da scrivere,
nella maledetta congiuntura.
Non so se per malinconia,
mi lascia insensibile la notizia.
Conobbi i suoi occhi brillanti,
il suo giornalismo intransigente:
fummo amici, tuttavia,
non voleva che l'amassero:
era un eroe del nostro tempo:
fu divorato da un carro armato.

Prepariamoci a morire
in mandibole macchinane,
prepariamo gambe,
schiene, meditazioni e fianchi,
gomiti, ginocchia, entusiasmo,
palpebre e sapienza
saranno inghiottiti, triturati
e digeriti da un carro armato.
Devo compiere il mio dovere:
farmi oleoso e saporito
perché mi mangi una macchina
in una strada, in una piazza,
e getti poi all'immondizia
le parti dure del mio scheletro

Bisogna cercare carne tenera
di bimbi bene allattati,
perché quando il macchinario
si scatenerà vibrando
e apriranno bocca i cannoni
implorando gli alimenti,
comprendiamo il nostro dovere:
bisogna morire per saziarli.

Nella nostra epoca cupa,
l'età delle zampe di ferro,
il secolo sanguinario e rotondo,
bisogna che riconosciamo
le ruote dell'Apocalisse.

I motori mascherali
han svolto i loro tragitti
diretti dall'agonia
e han bisogno di divorare:
sembra inutile, perciò,
negarsi ai divoratori:
occorre proclamar con ardore
che vogliamo esser divorati.

Dopo tutto non servirono
le fragili torri umane,
lutto fu molle, fragile,
ogni pittura si perfora,
non ci difende una suonata,
i libri ardono e se ne vanno.

II secolo nero si prepara
a morire con eleganza
nell'autunno de! mondo:
non gli daremo questo piacere:
sputiamogli sulla faccia,
gettiamolo sotto un carro armato.

Resurrezioni

Se un giorno vivo di nuovo
sarà alla stessa maniera,
perché si può ripetere
la mia nascita sbagliata
e uscire con altra buccia
cantando la stessa canzone.

Per questo, se per caso succede,
se per un destino indostanico
mi vedo obbligato a nascere,
non voglio essere elefante,
né cammello sgangherato,
ma un gambero modesto,
una goccia rossa del mare.

Voglio fare nell'acqua amara
i medesimi errori:
essere scosso dall'onda
come già lo fui dal tempo,
essere infine divorato
dalle dentiere dell'abisso,
come feci l'esperienza
di neri denti letterari.

Passeggiar con antenne di rame
nelle antartiche arene
del litorale che amai e vissi,
fare scivolare un brivido
tra le alghe spaventate,
sopravvivere sotto i pesci
nascondendo loro il guscio
della mia struttura complicata.
È così che sopravvissi
alle tristezze della terra.

Secolo

Con appena ali e ruote
nacque l'anno numero uno
del millenovecento
e ora che si va seppellendo,
benché abbia gambe marce,
occhi sanguigni, unghie tristi,
ha più ruote che mai,
ali per tutto il ciclo.

Andiamo volando, ci invita
col cuore addosso trascinando
attraverso lutto lo spazio
un sacco osceno di delitti:
lo vediamo salire, salire,
bucherellando la stratosfera,
lasciandosi indietro il suono.
Non solo udiamo il coltello
che sta inchiodando il cielo
e che taglia tutti i pianeti:
nelle isole maledette
i poeti incatenali d'Atene
lo seguono, e nelle segrete
delle prigioni paraguaiane
celebrano il frutto spaziale
gli occhi dei torturati.

Forse pensammo che la gioia
ci offrirà i suoi pianeti,
e che dobbiamo allontanare
lo sguardo dell'agonia.
Non ci facciamo illusioni,
ci consiglia il calendario,
tutto continuerà com'è,
la terra non ha rimedio:
occorre trovare alloggio
in altre regioni celesti.

La guerrigliera

È un anno che in Astrolabia
Morì una bimba guerrigliera,
bella come una cineraria.
Fu assassinala dai cattivi.

Con dolore e con gioia
i buoni uccisero un giudice.
I cattivi uccisero allora
uno studente valoroso.
Iersera udimmo che i buoni,
facendo il loro dovere,
uccisero un veterinario.

Astrolabia è una strettura
d'acqua e di vulcano,
un recinto d'antichità e di frutta:
lì si condensò la bellezza
come un sacchetto di smeraldi.
Ma sta morendo Astrolabia
tra gli assassini buoni
e gli assassini cattivi,
finché la lasceranno morta
tra due mitragliatrici.

Che accadde?

L'aria s'è riempita di lettere:
è fiorito il suono segreto:
si sono avvicinali i continenti
e ormai possiamo acquistare
nel negozio del futuro
polmone appena ricostruito,
cuore di seconda mano.
Vi sono segni terrestri
sulle sabbie deIla luna:

Son vittorie, son minacce?

Sono amarezze o dolcezze?

Perché restiamo soddisfatti
le celebreremo piangendo,
o ancor meglio disponiamoci
a piangerle con allegria.

Il culto (II)

Un milione d'orribili ritratti
di Stalin coprirono la neve
con i suoi baffi di giaguaro.

Quando sapemmo e sanguinammo
scoprendo tristezza e morte
sotto la neve nella prateria,
riposammo del suo ritratto
e respirammo senza i suoi occhi
che allattarono tanta paura.

Cambiò il colore della bianchezza:
l'erba fiorì nuovamente.

Io fui ferreo in questo dolore
e registrando i tormenti
entro la mia anima straziata
dopo aver sopportato la morte
mi misi a sopportare il dubbio
e poi è meglio l'oblio
per sostenere la speranza.

Ignoravo ciò che ignoriamo.

Quella pazzia così, lunga,
fu cieca e sotterrata
nella sua grandezza demente,
avvolta a volte dalla guerra
o propalata nel rancore
dai nostri vecchi nemici.

Solo lo spavento era invisibile.

Fu la proliferazione
di quell'impassibile ritratto
che incubò lo smisurato.

Celebrammo la fronte dura
senza capire che ci misurava
sotto le ciglie georgiane
lo sguardo duro del monarca,
la geologia del terrore.

Ma la luce si scoprì
e ricuperammo la ragione:
per un uomo e il suo delitto
non avremmo gettato ilbene
nella bottega del malvagio:
ricuperammo l’amore
e continuammo di paese in paese
mostrando all’uomo la verità
e la bandiera futura.

Mai più

Non potevano più tornare
i ritratti né i monarchi,
più non sarebbe fiorita
la primavera autoritaria:
la lezione la diede la morte
e risollevammo la testa.

È tanto chiara la verità,
anche se viene nella notte oscura.

Il culto (III)

Ma, silenzio, che di nuovo,
di nuovo compare un volto
senza sorriso ormai per sempre
moltiplicato nei ritratti:
di nuovo Dio si nasconde
sotto degli occhi gialli
e Mao Tse Tung riveste
la tunica degli imperiali,
si colloca su un altare.

Invece dei fiori che mai
incominciarono a nascere
furon piantate nei giardini
le statue monumentali.
Le sue orazioni riunite
in un quadernetto scarlatto
divennero flacone infallibile
di pillole medicinali.
È certo che nessuno comandò,
se non quell'uomo mascherato.
Di nuovo egli pensò per tutti.

Le sue parole convertite
in incantesimi sacri
furon ripetute fino al mare
da tante bocche come sabbia,
da diecimila milioni di lingue.

La luce

Secolo elettronico, avesti
alla tua fronte incollato l'occhio
di un nuovo dio che ci uccideva
e che ci dettò la ricetta
per una salvezza dolorosa!

Questo accadde quando la pentola
dei continenti bruciava
e non servivano gli eserciti:
non avevano chi uccidere.

Una a una le regioni
estirpavano le ingiustizie,
i poveri giungevano al pane,
si diffondeva da Cuba
la luce dei sillabari
e malgrado tanti dolori
cresceva il sole nelle scuole.

La Russia innalzò la torre insigne
sugli invasori castigati
e l'acqua continuò a lavorare
lungo i suoi fiumi orizzontali,
con più spazio ogni giorno
nella sua stella lavoratrice.

Vietnam

Si chiamava Westmoreland
l'inaudito strangolatore
che da Washington giunse
a seminare la sofferenza
nelle viscere vietnamite,
ma fu strano il suo destino:
gli stessi suoi morti l'espulsero
e ora soffre per suo conto:
lasciò per sempre la sua patria
con le mani insanguinate.

Dal Vietnam salì un filo oscuro
che andò legando le nostre vite
alla lotta di quella distanza,
un filo d'ago così crudele
che ci doleva
e che ci univa girando
intorno all'orbe amaro.

Sarà forse l'ultima lotta
fatta dai pentagonali
contro gli uomini futuri?

Purché vissero nel fuoco
e morirono nella cenere
ieri i malvagi di sempre
e gli eroici di domani:
i colonialisti macchiati
dai loro soprusi perversi
e i difensori del regno
che piange nella culla di sangue
ma che ogni giorno rinasce.

VII

Colui che cercò

Uscii a trovare ciò che persi
nelle città nemiche:
mi chiudevano strade e porte,
mi attaccavano con fuoco e acqua,
mi tiravano escrementi.
Io solo volevo trovare
giocattoli rotti nel sonno,
un cavallino di cristallo
o il mio orologio dissepolto.

Nessuno voleva comprendere
il mio malinconico destino,
il mio interesse assoluto.

Invano spiegai alle donne
che non volevo rubar nulla,
né assassinare le nonne.
Gridavan di paura vedendo
che uscivo da un armadio
o entravo per il camino.

Tuttavia, per lunghi giorni
e notti di pioggia violetta
proseguii le mie spedizioni:
furtivamente io passai,
attraverso tegole e tetti,
quelle ostili dimore
e perfino sotto il tappeto
lottai, lottai contro l'oblio.

Mai trovai quel che cercavo.

Nessuno aveva il mio cavallo,
né i miei amori, né la rosa
che persi con tanti baci
nella cintura dell'amata.

Fui incarcerato e ferito,
incompreso e maltrattato
come un malfattore evidente
e ora non cerco la mia ombra.
Sono serio come gli altri,
ma mi manca quel che ho amato:
il fogliame della dolcezza,
che si stacca foglia a foglia,
fino a che rimani immobile,
del tutto ignudo veramente.

Morire

Come appartarsi da se stesso
(senza disconoscersi neppure):
aprire i cassetti vuoti,
depositare il movimento,
l'aria libera, il vento verde,
e non lasciare all'altra gente
che un'elezione nell'ombra,
uno sguardo in ascensore
o qualche ritratto d'occhi morti?

In qualche modo ufficiale
occorre stabilire un'assenza
senza che nulla sia stabilito,
perché la curiosità senta
una raffica in volto
quando stapperan l'oratoria
e troveranno sotto i piedi
la fiammata dell'assente.

Sempre io

Io che volevo parlare del secolo
dentro questo rampicante,
che è il mio libro sempre nascente,
in ogni parte mi sono trovato
e mi sfuggivano i fatti.
Con buona fede che riconosco
ho aperto cassetti al vento,
gli armadi, i cimiteri,
i calendari coi loro mesi:
per le fenditure che s'aprivano
mi compariva il mio volto.

Per quanto stanco io fossi
della mia persona inaccettabile
tornavo a parlare di essa
e ciò che mi sembra peggiore
dipingendo un avvenimento
io dipingevo me stesso.

Che idiota sono, dissi mille volle,
praticando con maestria
le descrizioni di me stesso
come se non fosse esistito
niente di meglio che la mia testa,
nulla di meglio dei miei errori.

Voglio sapere, fratelli miei,
dissi all'Unione dei pescatori,
se tutti amano come me.
La verità — mi risposero —
è che noi peschiamo pesci
e tu peschi te stesso,
poi torni a ripescarti
e a gettarti di nuovo in mare.

Condizioni

Con tante tristi negative
m'accommiatai dagli specchi,
abbandonai la mia professione:
volli esser cieco a una cantonata
e cantare per lutto il mondo,
senza veder nessuno perché tutti
mi assomigliavano un poco.

Ma frattanto io cercavo
come guardarmi all'indietro,
là dov'ero senza occhi,
ed era oscura la mia condizione.
Non raggiunsi nulla cantando
come un cieco del popolino:
quanto più amara la strada
io mi sentivo più dolce.

Condannato ad amarmi tanto
mi feci un ipocrita esteriore,
nascondendo l'amore profondo
che mi causavano i miei difetti.
Così continuo a esser felice
senza che nessuno mai s'accorga
della mia malattia insondabile:
di ciò che soffrii per amarmi
senz'essere, forse, corrisposto.

Camminai

Solo con alberi e odore
di salice bagnato, è ancora
tempo di pioggia nel corso,
nell'intemperie di Linares.

C'è un cielo centrale: più tardi
un orizzonte aperto e umido
che si dispiega e si straccia
ripulendo la natura:

più vicino vado, sventurato,
senza terra né cielo, remoto,
tra le labbra colossali
della solitudine del cielo
e l'indifferenza terrestre.

Oh antica pioggia, vieni e salvami
da questa angoscia inamovibile!

Lampo

Se fu una stella innecessaria,
se di quel fuoco tremante
non rimase un'orma accesa,
se s'addormentò il carbone oscuro
nella miniera oscura del cielo,
non so, non seppi, non saprò.

Vidi in alto il fulgore del pesce
aureo, nella rete che lasciava
cadere le sue gocce infinite,
poi persi nelle tenebre
quell'iniziale che tremava
nell'accampamento celeste.

Dov'è, dissi, crepitando
col suo fuoco comunicato,
dov'è la citara verde?

Dov'è finita la chiave ardente?

Mi sentii nero nella cintura
della notte, nero e vuoto
dopo esser stato stellato:
persi la luce che si perse
e per la notte intransigente
volò un aroma di fumo amaro,
come se il mondo si bruciasse
in qualche parte del cielo
e mi si spegnessero gli occhi
nell'iniquità del silenzio.

Tornare a tornare

Si scuote la strada tagliando
eroici fiori gialli
e continua ad appartare i monti
aprendo il cielo a borbottoni:
vado lontano di nuovo,
verso l'umidità intricata
delle vette di Nahuelbula:
nel titanico corso cresce
nelle mie vesti la distanza
e vado facendomi strada.

Attraverso cordigliere
senza sapere come s'è affilata
la mia fronte longitudinale
e ho levato i piedi dalla terra
perché non fossero radici.
ma festino del movimento.

Il giorno sinistro dimenticherà
la rosa rapida e perduta
prima d'essere inaugurata,
perché devo giungere presto
alle mie lontane circostanze,
per sapere cosa lascia il fiume
nell'insistenza della riva,
con tante parole di pietra
quanti peli ha un cavallo.

La strada corre giù in basso,
forse verso Coyhaique,
dove l'acqua si svolge
come il violino in un lamento.
Io ho una patria più in là,
dove corre lo struzzo verde
contro le raffiche navali
e inizia il regno senza dèi,
dove il gelo è la chiarezza.

Sesso

S'è aperto forse il gineceo
nell'anno dei nostri anni
e il sesso ha saltato le finestre,
i ministeri e le porte,
abbiamo visto i seni affacciarsi
nella celeste timidezza
delle cartoline postali,
finché sopra lo scenario
si son sfogliate le donne
e un'onda immensa di nudi
superò le cattedrali.

Poi il commercio stabilì
con libri, schermi, riviste,
l'impero immenso del culo,
fino a inondare i paesi
con sperma industrializzato.

Era difficile scappare
verso l'amore o ai tuoi lavori,
li inseguivano i latrati
del sesso ormai scatenato,
depositato nei magazzini,
grondando gocce messaggere.
raggiungendoti negli annunci,
seguendoti nella strada
o irrigando anche i villaggi
col suo acquedotto genitale.

La letteratura attraversò
questo secolo di fallo in fallo
facendo graziose piruette
o cadendo a terra d'agonia,
e i libri che si sporcarono
non caddero in altra pozzanghera,
ma nell'anima ferita.

Sappiate che senza giardiniere
fu più bello il giardino irsuto,
ma un nero rampicante avvolse
nei libri della sventura
la sua chioma di spavento.

Così la pagina bianca,
che assomigliava alla luna,
si trasformò in patrimonio
di tristissima impudicizia,
finché non avemmo libri
da leggere che la luce
e cinque sillabe di sole
sono una parola nuda
e la ragione della purezza.

Bomba (II)

lo non son sicuro del mare
in questo giorno presuntuoso:
forse i pesci si son vestiti
delle squame nucleari
e dentro l'acqua infinita
invece del freddo originale
crescono i fuochi della morte.

S'ostinano a empir di spavento
le brusche maree del mondo
e non v'è torre che ci protegga
da tante onde nemiche.

Non si accontentano della terra.

Assassinano l'oceano.

Con qualche goccia d'inferno
si mescola il sale dell'onde,
si scaricano nell'abisso
i minerali della collera,
fino a sbattere la tempesta
in una tazza di veleno
e servire all'uomo la minestra
di fuoco di mare e di morte.

VIII
Dentro
La certa luce di un giorno
ha ali sì dure e sicure
che si sperperano nella rosa:
sembra che stiano per morire:
sembra che tanti anelli
abbondino alle dita del giorno,
sembra che non torni ad ardere
altro orologio con questa sfera:
c'è troppa chiarità
per il mio piccolo pianeta.

Non è cosi, lo sa la terra
nella sua bagnata intimità.
I minerali han ricevuto
notizie che riverberavano
e l'atomo ha cristallizzato
un movimento di lampo.

Io assumo questo giorno sottile
come una cintura intorno
alla tristezza circostante
e mi faccio un cinturone, un bicchiere,
una nave per emigrare,
un oceano di rugiada.

Venite a vedere sull'ape,
una cetra di platino,
sopra la cetra il miele
e sopra il miele la cintura
della mia amata trasparente.

Ho trascorso la vita nella gioia
e nella sventura ho passato
tutta la vita ed altre vite,
perciò in questo giorno azzurro
ho invitato tutto il mondo.

Non mi salutate entrando,
ma non m'insultate neppure.

Sono un piccolo professore:
dò lezioni di luce alla terra.

Punta dell'Est 1968

Senza saperlo io giungo,
io giungo lo stesso giorno,
alla punta stessa del giorno,
e si ripete il mio ricordo
con il contenuto fragrante
che ebbe il tempo d'altro tempo.
È qui lo stesso sole caduto
sopra le dune e le onde
e l'aria che rompe le spine
delle ostili bromeliacee.
Infine dopo aver navigato
giungo dove m'aspettavo.

È Olga colei che s'è seduta
dieci anni fa sulla sua sedia
quando Alberto si tolse le scarpe
in onore delle rondini.
È chiaro che le dracaeme
han proclamato nuove spade
e il glicine ha sparso
il suo colore d'idillio perfetto.
(Mettiamo che sia passato il tempo
nel cuore del copihue
e nella patria di Lautréamont,
e che carri armati e scioperi
abbian convocato i nostri dolori
aggiungendo pentimenti
alla coppa di ogni giorno).

La verità è che quel passato
è identico a questo
a che la ragione riposa
quando il passato si ripete.

Non vogliamo farci male.

Ogni appuntamento nascose
pochi o molti lamenti:
è estatica la gioia:
è azzurro il fuoco del cielo:
malgrado tutti i suoi occhi
è cieca la notte stellata.

Rivivo quel che ho vissuto,
anche se è una goccia d'acqua
o la cintura della sabbia,
i pini di Punta dell'Est
o una maglietta grigia.
Io ti regalo due pistole
se sei più coraggioso di me
o almeno più difficile:
avanzare tornando a partire:
dormire sempre più sveglio.

Janeiro

Lasciatemi questo vago splendore
d'una città, una distanza
che brilli in me come il ricordo
di una lucciola nella mano:
forse Rio scintillante
come un'enorme farfalla
di precisione fosforescente,
o forse Sao Paulo stabilisce
il giglio rettangolare
della sua verticale struttura,
o Brasilia col suo fulgore
di diamante disabitato
ci han fatto vivere domani,
ci hanno insegnato il poi.

Ma sono i densi disegni
di vegetali sparsi,
le ampie acque che fluiscono
per lo spazio brasiliano,
l'odore di gomma selvatica
del fondo, le bestie addormentate
nella sonnolenza bagnata,
il linguaggio nero sulla riva
della danza, vicino alla schiuma,
o in alto a Bahia sonora,
col sortilegio macumbo,
o la sacrilega sonata
delle favelas sdentate,
il nero vapore del caffè
o l'insigne uccelleria,
le cascate che abbattono
la torre degli smeraldi,
la lingua dell'orso formichiere
con la moltitudine aderente
della crescita pullulante;
ma più del vestito verde
o della pazza voce del turpial
è il disteso silenzio,
il patrimonio imperturbato,
che mi fa visita nei sogni:
oh Brasile bracere brutale
che tace acceso nella sua brage,
nella placenta planetaria,
come se continuasse a nascere
senza voce e senza occhi,
correndo immobile senza giungere,
edificando senza nascere,
incominciando tutta la luce
senza staccarsi dall'ombra.

Venezuela

Per Caracas dura e nuda
e le sue alture boschive
camminai, pazzo di vita,
sazio di luce, investito
dalla salute del Venezuela.

Inalberata dalla luce
tra i verdi alberi di nave
percorre la statua giacente
una bolla di petrolio
che va attraverso le arterie
al suo cuore elettorale.

Io sono il bardo che ha cantato
la trinitaria affermazione
dei suoi uccelli infuocati;
non v'è canto che non cantino
i frenetici cantanti.
non v'è fulgore che non inaugurino
i volanti venezolani.

Ritratto di una donna

Si chiamava Caramelaira,
era rosea di costumi,
andava con baci deliziosi
che le cadevano dai capelli,
dai fianchi, dalla bocca,
era completamente azzurra
quella donna gialla.

Io la persi con avidità
nell'autunno cinereo,
quando a causa dei miei dolori
mi preparai a partire.
Piangendo con tutti gli occhi
montai sulla bicicletta.

Che tempo remoto e coperto
dal polline del suo contatto,
dai metalli della sua assenza!

Edificai la mia allegoria
pensando alle sue gambe pampinee,
al suo cuore di corallo,
alle sue unghie alimentari.

Io son colui che disertò
in pieno vigore del vento
abbandonando la mia tristezza
fino a che la solitudine
m'insegno a guardare le mele,
a dar la mano al colonnello,
a intendermi con le palme.

Cercherò ora di descrivere
quegli avvenimenti,
quel regno dove giunsi
senza un cane che m'abbaiasse:
quel castello infarinato,
divorato dalle api,
in cui vissi senza affacciarmi
a nessuna finestra, mai.

Nascite

Vi racconterò come nasce
un vulcano nella mia terra:
a Paricutín o a Chillán
è lo stesso, buona gente:
le tribù non sanno i confini
e non si divide l'estate.

Prima d'alzarsi c'è un vuoto
come di luce appena lavata
e poi giunge il velluto
a partecipare nei fiori
finché una cinta sottile
di vapore color di luna
comincia a sbocciar da una pietra:
s'apre la bocca della terra.

S'apre la bocca della terra
e si delinea un imbuto,
un seno di donna d'argilla
qualcosa che cresce e si muove
come puledro o locomotiva
esalando l'acre deliquio
della sulfurica cervogia
che vuoi ardere e traboccare
dalla sua coppa sotterranea.

Miracolo è ora il silenzio
mentre cresce il monte del fuoco,
finché scoppiano le spade
e tutta la ferramenta:
penzolano i favi caldi
e le api dell'inferno,
crepitano e cadono salendo
le ceneri della montagna.

I tuoni che vengono dal basso
non sono gli stessi del cielo:
sono risate di zolfo,
sono allegrie sotterrate,
e rugge salendo il vulcano
come se uscisse a giocare
con la gioia e la fiammata.

È nato, misura millimetri,
ha la sua nube sulla punta,
come un fazzoletto al naso.
Ha ormai diritto di crescere:
preoccupiamoci del mais
che qui non è successo nulla.

Canzone con paesaggio e fiume

Di Villarica le colline,
i rettangoli gialli,
la festa verde orizzontale,
le fucsie dalla bocca violetta,
oltre l'ultimo orgoglio
dei roveri sopravviventi
vado entrando nella mia età:
acque che mi fecero nascere.

Mi diede alla luce il battito
della pioggia tra le zolle
e mai potei aprire gli occhi,
spalancarli, com'è giusto:

rimasi semisepolto
come il seme dimenticalo
e giudicai nell'oscurità
senza dimenticare i giorni buoni.

Ora che si restituiscono
a queste solitudini le mie ossa,
varie volte torno a nascere
ad arte del sole tempestoso,
affondo nell'erba la testa,
toccano il cielo le mie radici.

A Villarica lungo il fiume
Toltén Toltén Toltén Toltén.

Porti
Alle bocche del porto c'è
odore rabbioso di pesce:
un odore sudicio e cupo
come un inverno avvelenato,
attaccato dalla cancrena.

Son le vestigia della vita.

Sono i raggi della povertà.

Ahi la povera patria corrugò
le vecchie palpebre di neve
e si sedette a piangere,
forse sotto le pensiline polverose,
sopra i moli del Sud,
vicino alle pescherie.

Seduta vede scorrere l'acqua
dei tenebrosi canali,
il detrito del sobborgo,
le branchie assassinate
e i rigidi gatti morti.

La patria aveva nei libri
un colore d'arancia e di neve
e dai capelli le cadeva
una cascata di ciliege.
Per questo fa pena vederla
seduta su una sedia rotta,
tra le pelli di patata
e i mobili sgangherati.

Alle bocche rotte del porto
s'ode il lamento opprimente
d'un rimorchiatore moribondo.
La notte cade bocconi
come un sacco nero di stracci
sulle ginocchia della patria.

IX
Ritornando

Dopo dieci lunghi giorni di viaggio
e sprovvisto di opinioni
torno al mio essere, a me stesso,
al societario solitario
che chiede sempre la parola
per avere poi il diritto
di rimanere in silenzio.

Risulta che giungo di nuovo
al centro immobile di me stesso,
da dove mai sono uscito
e come un orologio addormentato
vedo l'ora veritiera:
quella che si ferma una volta
non per indurre alla morte,
ma per aprirti la vita.

Accade che mi son mosso tanto
che le mie ossa si svegliavano
in pieno sonno, camminando
verso sobborghi che attraversai,
mercati che mi sostennero,
scuole che m'inseguivano,
aerei sotto la tormenta,
piazze di gente urgente,
e sull'anima che, senza dubbio,
si mise a dormire la sua fatica
il mio corpo continuò i viaggi
con la vibrazione trepidante
di un camion pieno di pietre.

Vediamo, anima, risuscitiamo
il punto in cui si salutarono
l'orario e la lancetta dei minuti:
questa è la fessura del tempo
per uscire dalla sventura
ed entrare nella freschezza.

(Lì c'è uno stagno infinito
fatto di lamine uguali
di trascorso e di trasparenza:
non ho bisogno di muovere
le cinque dita di una mano
per cogliere i miei dolori
o l'arancia promessa).

Per tanto tornare a quel punto
compresi che non ho bisogno
di molte strade da percorrere,
né di tante sillabe esterne,
di tanti uomini o donne,
di tanti occhi per vedere.

Non l'assicuro, ma sembra
sia sufficiente quel minuto
che si ferma e che precipita
ciò che avevi inconcluso:
non importa la tua perfezione,
né l'ansietà disseminata
in polverose direzioni:
Basta scendere a vedere
il silenzio che t'attendeva
e senti che ti arriveranno
le tentazioni dell'autunno,
tutti gli inviti del mare.

Stampa

Ho contemplato l'età di carta
vestita di foglie gialle,
che poco a poco sommersero
la superficie della terra:

un giornalismo sterpaia
accese incendi sleali,
uccise con una menzogna,
propagò deodoranti,
caramellò le tirannie,
diffuse l'oscurità.

Ogni giornale propose
le leggi del suo proprietario
e si vendettero notizie
spruzzate di sangue e veleno.

La guerra attendeva seduta
leggendo i giornali del mondo
con le orbite senz'occhi.
Io udii come rideva
con le mandibole amare
leggendo gli editoriali
che la trattavano con tenerezza.

L'uomo di pietra passò
a essere l'uomo di carta,
vestito di fuori e di dentro
di passioni prefabbricate,
o con arazzo intestinale.

Il sesso e il sangue empirono
tutte le pagine del mondo
ed era difficile incontrare
una giovanetta nuda
che si mangiava una mela
presso l'acqua d'un fiume azzurro,
perché i fiumi si empirono
d'inchiostro tetro di stampa
e il vento coprì di giornali
le città ed i vulcani.

Il nemico

Oggi venne un nemico a trovarmi.
Si tratta di uomo chiuso
nella sua verità, nel suo castello,
come in una cassa di ferro,
con la sua respirazione
e le spade singolari
che allattò per il castigo.

Guardai gli anni sul suo volto,
nei suoi occhi d'acqua stanca,
nelle linee della solitudine
che gli salivano alle tempie,
lentamente, dall'orgoglio.

Parlammo nella chiarezza
d'un meriggio pullulante,
col vento che spargeva sole
e sole che combatteva nel cielo.
Ma l'uomo mostrò solamente
le nuove chiavi, la strada
di tutte le porte. Io credo
che dentro di lui stava il silenzio
che non poteva condividersi.
Aveva una pietra nell'anima:
preservava la durezza.

Pensai alla sua verità meschina
sotterrata senza speranza
di ferire altri che lui
e guardai la mia povera verità
maltrattata dentro di me.

Ognuno eravamo lì
con la nostra certezza affilata
e indurita dal tempo,
come due ciechi che difendono
ognuno la propria oscurità.

Il pugno e le spine

Non si tratta di perdonare:
il perdonato non perdona.
Neppure si tratta di dare,
perché chi riceve ricorda
come ferita la tua bontà.

Allora, di che si nutrì,
ti domando, la tua gioia?
Da dove uscirono i tuoi occhi
senza che li crivellassero?
Quale ragione per sorridere
e qual vento per ballare,
quale contatto per sempre,
con che perdura il tuo canto?

Dentro il pugno la spina
ti ferisce per difenderti:
pesa la pietra nella tua mano
o il revolver nella tua veglia.

Così non uccidi nessuno,
quando tutti stanno uccidendoti,
come se avessi un ricambio
per la vita che ti uccidono,
perché le armi son pesanti
o le parole sono azzurre:
o perché non devi scendere
quando non hai voluto salire,
perché non esistono, ti dicono,
quelli che calpestano la tua testa
o perché i proliferanti
se n'andranno a proliferare,
perché nascondi l'orgoglio
come un drago dalle sette suole,
perché ti senti colpevole
d'essere nato, di crescere,
di comprar uva nel negozio,
di desistere e di giungere.

Per queste svariate ragioni
- o semplicemente per tristezza -
arrotoli il male che ti fecero,
raccogli le pietre del danno,
te ne vai fischiando, fischiando,
per la mattina e sulla sabbia.

Coloniando

Questo secolo ha restituito
le terre divorate
dai secoli precedenti;
fu uno spettacolo aperto
veder signorie imperiali
vomitare con parsimonia
indipendenze inghiottite,
oscure bandiere fagocitate,
nazioni nere o gialle,
razze di regni consumati.

Altre volte a colpi di schioppo,
negri carichi di mitraglia,
o vietnamiti ribelli
infransero il protocollo:
chi già sapeva morire
apprese presto a uccidere.

Giava dove andai a vivere
adolescente e sposabile
crivellò i suoi coloniali
e le tremila isole arsero:
s'incendiarono le risaie
e i templi di pietra dorata
si empirono di rubini
quando brillarono i lampi
dei kris ondulatori.

Ceylon che amai cambiò luce,
brillò come un favo marino
e le sue palme crepitarono.

Fu vaporoso il mezzo secolo
con le colonie che scoppiavano
come neri frutti imputriditi
nella schiavitù del sudore.

Le mani che furon tagliate
all'inìzio della nostra età
vennero restituite ai corpi
dei silenziosi insepolti
o di furiosi moribondi
e l'Africa si riscosse
come un elefante incendiato
in una stiva infernale.

Uscirono gli ultimi belgi,
scozzesi dell'ultima ora,
e dentro l'oscurità,
nel suo silenzio sanguinario,
Salazar continuò a incatenare
le braccia oscure d'Angola,
fino a che la morte giunse
a sedersi ai suo capezzale
tormentandolo finalmente:
restituendogli i suoi tormenti.

In queste ore in cui scrivo
Salazar agonizza ancora
e chiedo con tatto alla morte,
con umiltà, con cortesia,
che ancora non lo uccida.
In questo modo, a questo punto,
scrivo la supplica alla morte.

Uccidilo, Morte, lentamente:
prima egli perda un occhio,
e custodiscano quell'occhio marcio
in un orinale o un calamaio
e che Salazar lo inghiotta
con condimento di spilli.

Morte, ti prego, confondi
il suo freddo fegato di iena
con una palla da futbol
e senza che il tiranno lo sappia,
senza staccarsi dal suo corpo,
serva ai negri da giocattolo
nello stadio irsuto d'Angola.

Ti chiedo, Morte, che i suoi piedi
conservino frammenti sensibili
e siano bruciati con calma
nella salsa che le sue orecchie
lasceran cadere a goccioloni
sciogliendosi nell'inferno,
nell'inferno che il tiranno
ha costruito per i suplizi.

Morte, consegna senza esitazione
alle formiche africane
i testicoli del tiranno:
che i testicoli rinsecchiti
siano morsi e mangiati
da insetti divoratori.

Il troppo

Oggi mi par di sostenere
lutto il cielo coi miei occhiali
e che la terra non si muova
sotto i miei piedi pesanti:
accade all'uomo e alla sua stirpe
di sentirsi falsamente crescere
e falsamente destinarsi
una falsa sovranità!

Così innalzai a se stesso
una testa colossale
e si sente grande dentro,
alla sinistra e alla destra,
in distanza e di profilo,
visto davanti e di dietro.

Cerca, lo scrittore crescente,
un critico color di mosca
che gl'indori ogni domenica
la sua pillolina di moda.
Non meno di questo accade
al militare inopportuno
che comanda e comanda
numeri e reggimenti di carta:
cavalieri, cavalli, carri armati
grandi come vulcani,
proiettili ferrugginosi.

Qualcosa di simile accade
all'ipotetico politico
che conduce senza condurre
moltitudini invisibili.

Allora, quando mi sale
la testa al fumo, o meglio,
il fumo ai capelli, al fumo,
o mi sento maggiore di ieri,
l'esperienza, con la sua tristezza,
mi dà un colpo di sorpresa,
un brusco strappo alla giacca,
m'abbatto nella mia verità,
nella verità senza dismisura,
nella mia piccola e passeggera
verità d'ieri e d'ancora.

Certi cospiratori

Esce di sotto al giornale
un criticante e si dispone
a dettar misure di morte
contro il mio canto permanente.
Quell'uomo di carta non è solo:
nella sua nera figura
stanno altri disperati che,
con forbice e forchetta
con orazioni e amuleti,
vogliono che per compiacerli
si facciano i miei funerali.

Non dirò male dei molti:
ricorderò di tanto in tanto
i loro attributi animali:
non voglio trattarli con,
e neppure trattarli senza:
son meritevoli del sole
come le unghie dei miei piedi,
ma non posso esser d'accordo
con la squisita cerimonia
che destinarono a me
al dichiararmi defunto.

Perché morire, mi domando,
senz'altra ragione valida
che soddisfare i loro decreti,
le operazioni sacre,
cessar d'essere senza motivo
perché muoiano di piacere?

Come ripete le parole!
Com'è soddisfatta la sua statura!
Fino a quando canterà, quel diavolo,
un poco meglio di noialtri?
— dicono — mescolando con cura
la voce con gli occhi al cielo
e l'inchiostro con la stricnica.

lo penso di dargli speranza,
di lasciare che accostin la mano
alla bara, di fare il morto,
e quando le lacrime escono
dagli occhi di coccodrillo,
risuscitare cantando
lo stesso canto che ho cantato:
quello che continuerò a cantare
finché questi figli di puttana
decideranno di darsi vinti
e accetteranno quel che meritano:
un cimitero di carta.

X
Scrittori

Canta Cortázar la sua novena
d'imponente ombra argentina
nella sua chiesa di esiliato,
ed è difficile per i molti
lo specchio di questo linguaggio
che passeggia per i giorni
carico di baci veloci
che scivolano come pesci
per brillare in eterno senza uguali
in Cortázar, il pescatore,
che va a pesca di brividi.

Dal Perù il cui volto conserva
come cicatrici salubri
i versi di César Vallejo
sorse nella mia età uno scrittore
che fiorì contando racconti
del territorio tempestoso;
così ascoltai la voce nuova
di Vargas Llosa che narrò
piangendo racconti d'amore
e, sorridendo, i dolori
della patria disabitata.

(Io sono il cronista irritato
che non ascolta la serenata,
perché deve fare i conti
del secolo verde e della sua verzura,
del secolo notturno e dell'ombra,
del secolo color di sangue).

(Tutto io devo portare
al circolo dei miei sguardi,
vedere dove salta il coniglio,
dove ruggiscono i leoni).

Alcuni

A Cuba ruggiva Fidel
con indiscutibile grandezza,
ma sessuali scrittori
s'impadronirono della questione:
pubblicarono solo i baci
d'una condotta irregolare.

Ahi, che ragazzini bricconi!

Ma non sentirono crescere
che paradisi segreti:
dissero; Noi parliamo!
Poiché avevano solo un occhio
questi tali dimenticarono
la magia terrestre di Cuba
e l'insigne Rivoluzione.

Erano senza dubbio occupati.

Mentre lo zucchero cresceva
e il fumo di Cuba aromava
col suo tabacco il mondo intero,
crescevano industrie vaste
o piantagioni miracolose,
essi non videro che piedi,
ombelichi, falli appiccicosi,
e quando un ciclone sconfisse
per un minuto le Antille,
certi scrittori uniti
decisero di esaltare
le pulci più retroattive
del pube surrealista.

Oh tu Juan Rulfo di Anahuac,
o Carlos Fuentes di Morelia,
o Miguel Otero Orinoco,
o Revueltas dal petto schietto,
o Siqueiros che ancora canti
con tutto il mare dei colori
e la violenza celestiale,
dove restammo, per favore?

Sàbato, chiaro e sotterraneo,
Onetti, coperto di luna,
Rosa Baslos, del Paraguay,
mi parve che voi foste
i trasgressori del pianeta,
gli scopritori del mare;
il dovere che compartiamo
è di empire le panetterie
destinate alla povertà.
Ora risulta che è meglio
il pornosofico monologo!

Garcia Márquez

In questo tempo ebbe anche modo
di nascere un vulcano
che gettava fuoco a borbottoni
o, meglio detto, quel vulcano
gettava sogni a cadere
sui pendii della Colombia,
e furono le mille e una notte
che uscivano dalla magica bocca,
la grande eruzione del mio tempo:
nelle sue invenzioni d'argilla,
sudici di fango e di lava,
molli uomini di carne e d'ossa
nacquero per non più morire.

Scrittori

Andaron così i miei compagni
innalzando in questi anni
un racconto crespo e notturno,
dilatato come il pianeta,
pieno di avvenimenti,
popoli, strade, geografia,
e un idioma di terra pura
con solitudini e radici.

Questi io canto e ricordo,
non posso contarli tutti.

Noi sudamericani,
noi subamericani,
per nostra colpa e maleficio
vedemmo i nostri nomi alfine,
le sillabe della nostra neve
o il fumo delle nostre cucine,
studiati da altri uomini
in treni che scendono da Amburgo
o che salgono da Taranto.

Vengono da lungi

Oh quanto s'è dissepolto
otto te nostre campane,
quanto si seppe di noi
perché i compagni parlarono
nei loro libri d'oscura scrittura
come se andassero camminando
per il nostro pianeta rotto.

Voi dalla triste voce,
predecessori della pioggia,
con tormenti incatenati,
dal Paraguay miserevole
dove piange l’urutaú.

Ahi, assenti, ahi, sommerse
tribù azzurre del Mayab,
indios del Cile
sconfitti da una spada sifilitica.

Ahi, re morti, distesi
nei solchi e sulle terrazze,
accumulati dalla morte
fino a tacere nell'oblio,
attendendo il germe del fuoco
della vera guerrigliera,
forse vivete di nuovo
nella scrittura che pubblica
il mio compagno sorgente.

Per questo e per ciò che cantai
e mi mantenne risorto,
celebro il cronista d'adesso
e lo dichiaro venerabile:
suonano ora le campane
sopra tantissimo silenzio
che si stava marcendo.
Vennero gli scrittori
A vendicarsi dei colpevoli,
cioè, del tempo silenzioso
e dei suoi complici amari.

Cantando si fonda la patria
e se non si continua a cantare
muore la terra nelle tue braccia:
questo lo vengo a proclamare,
perché l'amore è la mia vendetta.


XI
Contro azzurro

Come togliere l'azzurro,
la parola azzurra, e che faremo
senza avere più azzurro?

A volte penso che ha occupato
troppo posto nella mia casa,
nel mio cielo, nella mia poesia:
ormai posseggo tasche azzurre
e ho chiamato tanti azzurri
a popolare il povero infinito
che poco a poco e senza saperlo
sono diventato azzurro
come se m'avessero dipinto
il cuore e la camicia.

Indietro, animali azzurri,
fuori di me, notte celeste;
voglio un'aria color di terra,
bestie di corna iraconde
che rompano il cielo e che cada
sangue dal cielo a borbottoni:
voglio una Venere gialla
che esca dalla schiuma nera
e che i laghi si disperdano
e si sprechi la loro dolcezza,
fino a vedere il fondo arso
come un cratere di cicatrici.

Fisica

L'amore come la resina
d'un albero pieno di sangue
appende l'odor strano di germe
dell'incanto naturale:
entra il mare nell'estremismo
o nella notte divoratrice
s'abbatte l'anima in te stesso,
suonano due campane d'osso
e non accade che il peso
del tuo corpo vuoto di nuovo.

Proverbi

Lo stimolo dell'ombra
fece brillare tracce oscure,
ossa che l'aria abbattè
dietro le ferrovie,
o semplicemente stelle nere
che nessuno vuole né conosce.
Fu la mia prima stagione.

Dovetti fare e indovinare
per vivere e per sussistere,
dovetti intrecciare il dolore
fino a trarre forza da dove
nessuno poteva trarre nulla,
specializzai la mia tristezza
e lavorando all'intemperie
indurii il mio vecchio vestito.
Fu la seconda stagione.

La terza è questa che vivo cantando
e raccontando la mia anima,
sicuro di tanti errori,
soddisfatto dei miei smarrimenti.

Se serve o non serve il mio cuore,
altri traggano le conseguenze.

Il viandante

Sussultando va il viandante
con tanti debiti verso la vita,
sostenuto dalla sua scarsezza,
percorso e ripercorso dalle ruote
che costituiscono il suo tesoro,
il suo panico e il suo movimento.

Sono ormai le otto d'estate.
Attraversa un satellite la luce
con l'argentea tristezza
di un'ape di precisione.

Il mio protagonista non ha
nessun interesse nel cielo:
lascerà la sua mercanzia
nel mercato di Talcachifa
e mentre somma le sue miserie
in un cocchio sconquassato
entra la notte nei suoi occhi,
nelle tasche, nelle sue mani,
d'improvviso si sente nero:
l'ha divorato gradualmente
la solitudine della regione.

Cosi è ogni uomo nella strada:
Esce dalla sua casa blindato
dal suo destino patriarcale
e in mezzo ai numeri urgenti
scivolano lenzuola, ricordi,
un transitorio scetticismo,
e quel viandante crepitante
senza accorgersene cancella
la sua identità, i suoi affari,
finché finisce il suo viaggio.

Quello ch'è giunto non è più nessuno.

Fondazioni

Venni così presto in questo mondo
che scelsi un paese inconcluso,
dove ancora non si conoscevano
i norvegesi né i pomodori:
le strade erano vuote
come se già se ne fossero andati
quelli che ancora non eran giunti;
imparai a leggere nei libri
che nessuno aveva ancor scritto:
non avevano fondato la terra
dove io mi misi a nascere.

Quando mio padre costruì la casa
compresi che lui non capiva
e aveva costruito un albero:
era la sua idea del confort.

Dapprima vissi nella radice,
poi nel fogliame imparai
a volar poco a poco più alto
in cerca d'uccelli e di mele.
Non so come non abbia gabbia,
né vada vestito di piume
se ho trascorso la mia infanzia
passeggiando di ramo in ramo.

Poi fondammo la città
con eccesso di stradicciole,
ma senza alcun abitante:
invitavamo le volpi,
i cavalli ed i fiori,
i ricordi ancestrali.

Invano invano tutto questo:

mai abbiam trovato nessuno
per giocare all'angolo della strada.

Fu così felice la mia infanzia
che non si abitua ancora.

Il cavaliere naturale

Io fui così mal conformato
che mai potei apprendere nulla
e se non latrai è perché allora
non m'insegnarono a latrare.
Così ho passato la vita
tra bellezze naturali,
tra le isole e l'odore
delle giovinette selvagge:
malgrado tutto quel che feci
sono uno schiavo della terra.

Per questo passo senza guardare
a fianco dei macchinari:
non so l'idioma del motore,
mi spaventano i televisori,
gli aeroporti, le centrali
dalle dentiere idroelettriche
e a malapena se, d'inverno, amo
i vecchi treni stanchi
che vanno dal Sud verso il Nord
mescolando il fumo alla pioggia.

Qui pongo fine al fior fiore
della mia plurale scrittura:
lascio la carta sulla sabbia
e me ne vado dietro un lampo
che si ficcò sotto una pietra
camuffato da coleottero:
se non dò fastidio a nessuno
resterò a vivere qui,
a fianco d'una lucertola.

Tristissimo secolo

II secolo degli esiliati,
iI libro degli esiliati,
il secolo grigio, il libro nero;
è ciò che devo lasciare
scritto e aperto nel libro,
dissotterrandolo dal secolo
e dissanguandolo nel libro.

Perché io vissi la fretta
dei perduti nella selva:
nella selva dei castighi.
Ho contato le mani tagliate
e le montagne di cenere,
i singhiozzi separati,
gli occhiali senza occhi
e i capelli senza testa.

Poi ho cercato per il mondo
quelli che han perso la patria,
portando dove le portai
le loro bandierine sconfitte,
le loro stelle di Giacobbe,
le povere fotografie.

Ho conosciuto anch'io l'esilio.

Ma, essendo nato camminante,
sono tornato a mani vuote
a questo mare che mi riconosce;
sono altri, però, gli ancora.
gli ancora tormentati,
quelli che ancora lasciano indietro
i loro amori e i loro errori,
pensando che forse, forse,
e sapendo che mai, mai:
così mi toccò singhiozzare
questo singhiozzo polveroso,
di quelli che persero la terra,
e celebrare coi miei fratelli
(quelli che rimasero là)
le costruzioni vittoriose,
i raccolti di pani nuovi.

Esili

Alcuni per aver rifiutato
ciò che non amavano del loro amore,
per non aver accettato di cambiare
di tempo, cambiarono terra:

le loro ragioni erano le lacrime.

Altri cambiarono e vinsero,
avanzando con la storia.

Eppure avevano ragione.

La verità è che non esiste verità.

Ma nel mio canto vado cantando
e mi raccontano le strade
quanti hanno visto passare
in questo secolo di apàtridi.
Il poeta continua a cantare
tante vittorie e tanti dolori,
come se questo pane turbolento
che mangiamo noi di quest'epoca
fosse stato impastato con terra
sotto i piedi insanguinati,
fosse stato impastato col sangue
il triste pane della vittoria.

Libro

II mio quaderno di anno in anno
s'è empito di vento e di foglie,
di calligrafia, calce, cipolle,
di radici e di donne morte.

Perché sono accadute tante cose
e perché non ne accaddero altre?

Strano incidente d'amore,
del cuore rapito che non venne
a iscrivere il suo bacio,
o il treno che si mosse
verso un pianeta disabitato,
con tre fumatori dentro,
capaci d'andare e di tornare,
senza vantaggio per nessuno,
senza svantaggio per nessuno.

E se si prova che poi
apprenderemo a tornare
in forma disinteressata,
senza far nulla qui né lì,
poiché risulta assai caro,
alla fine di questo secolo,
risiedere in qualsiasi pianeta,
in tale modo e maniera che
non c'è posto qui per i poveri,
e meno ancora nel cielo.

Così le nozze spaziali
dei nostri insetti terrestri
han rotto la ragione al tempo
in cui rompevano la prepotenza:
come un guscio d'uovo
si ruppe la buccia del mondo
e di nuovo fummo provinciali:
tra di noi si sapeva
come far strade sulla terra,
come amare e perseguitare
come crocifiggere il fratello.
Ora l'interrogatorio
della luce con l'oscurità
prende una nuova proporzione:
quella della paura con speranza
e quella della sapienza
che deve cambiare di vaso.

Io mi perdono di sapere
il poco che seppi nella vita,
ma non me l'hanno perdonalo
gli struzzi della mia età.
Loro sapevan sempre di più,
perché cacciavano la testa
nei giornali della Domenica.

Ma il mio errore più deciso
fu ch'entrasse l'acqua nel volto
delle mie intense litanie:
dalle finestre si può vedere
il mio cuore pieno di pioggia.

Perché nascere è una cosa
e altra cosa è la fine del inondo,
con i suoi vulcani accesi
che si propongono di partorirti:
così accadde col mio destino
dalle uve di Parrai
(dove nacqui senza andar oltre),
fino alle montagne bagnate,
con indios carichi di fumo
e fuoco verde nella cintura.

Vivere cent'anni

Questi centanni li ho vissuti
emigrando di guerra in guerra,
bevendo il sangue nei libri,
nei giornali, nella
televisione, nella casa,
nel treno, nella primavera,
nella Spagna dei miei dolori.

L'Europa si dimenticò di tutto,
della pittura e dei formaggi,
di Rotterdam e di Rimbaud
per spargere i suoi grappoli
e spruzzare tutti noi,
americani innocenti,
col sangue di tutto il mondo.

Oh Europa nera, avida
come i serpenti affamati,
ti si vedono fin le costole
nella tua moderna geografia
e dai la tua luce insensata
ad altri soldati sempiterni
che si ostinano a insegnare
senza avere imparato mai:
sanno solo insanguinare
la storia nordamericana.

Ma non si tratta di tanto,
bensì di molto più ancora,
non solo di quel che vivemmo
o di quello che vivremo,
ma di qual'è la ragione
per distruggere quel che avemmo,
per rompere ciò che sosteneva
la coppa del cristallino
e affondare il muso nel sangue
insultandoci mutuamente.

Io mi feci tante domande
che andai a vivere sulla riva
del mare eroico e simultaneo
e gettai in acqua le risposte
per non litigare con nessuno,
finché più non domandai
e di tutto un secolo di morte
mi metto a udire ciò che dice
Il mare, che nulla mi dice.

Il mare

Perché in tal modo il mare
mi abituò al suo potere
che le parole gli mancarono:
non fece altro che esistere.

(Fu la sua condotta travolgente
che condusse la mia energia).

Io vidi sostenere il volume
della sua insistenza decisa,
senz'altro interesse che l'onde
sperperatoci di bianchezza
e il convulso stagno istigato
dal sale e dalle stelle.

È la verità: non compresi
alcun messaggio, tuttavia
la sua attività s'abbatteva,
le torri di sale si rompevano
battendo la stessa frontiera
con così amara identità
che rimasi sulla sabbia
a salutarlo ogni notte
e ad attenderlo ogni giorno.

Solo l'oceano è esistito.

Solo il suo sangue e il suo tormento
fuori del bosco della mia vita.
Mi espulsero dalle città.

(Constato, perché me lo esige
il mio obbligo più trasparente,
la resurrezione dell'invidia).

Se n'andarono tutte le donne
e gli invidiosi mi trovarono
indifeso, in un punto morto.

Canto

Per i popoli fu scritto il mio canto
nella regione del mare
e ho vissuto tra mare e popoli
come sentinella segreta
che difendeva le loro battaglie,
colmo d’amore e di rumore
perché sono l’uomo sonoro
testimone della speranza
in questo secolo assassinato.
Complice dell’umanità
coi miei fratelli assassini.

Tutti volevamo vincere.

Fu il secolo del partecipante,
di partiti e di participi.

Il mondo ci si finiva
e continuavamo a perdere,
vincendo di più ogni giorno.

Accompagnammo la terra
in ogni marea d'amore
e la riempimmo di uomini,
finché non ci stavano più
e vennero quelli da lungi
a impadronirsi di ciò ch'esiste.

È storia triste questa tristezza.

Per questo la devo cantare.

È presto.
1970.
Questi trent'anni di crepuscolo
che vengono, che s'aggiungon soli
al lungo giorno, scoppieranno
come capsule nel silenzio,
come fiori o fuoco, non so.
Ma qualcosa deve germinare,
crescere, palpitare tra noi:
bisogna lasciare stabilita
la nuova tenerezza nei mondo.

Canto

Sono morto con tutti i morti,
per questo ho potuto rivivere
impegnato nella mia testimonianza
e nella speranza irriducibile.

Canto

Uno di più, tra i mortali,
profetizzo senza vacillare
che malgrado questa fine del mondo
sopravvive l'uomo infinito.

Canto

Rompendo gli astri recenti,
colpendo metalli furiosi
in mezzo alle stelle future,
induriti di sofferenza,
stanchi d'andare e di tornare,
noi troveremo la gioia
nel pianeta più amaro.

Addio

Terra, ti bacio, e m'accommiato.



Riferimenti e note

La porta
la bomba: Neruda allude all'atomica sganciata sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, che pose termine alla guerra in Asia, durante la seconda guerra mondiale.
Il tempo nella vita
un milione di morti: tanti sono i morti della guerra civile spagnola del 1936-39.
Di nuovo
la morte in Europa: si riferisce alla seconda guerra mondiale.
il terrore nato nelle birrerie: l'allusione è a Hitler e alla nascita del nazismo, nella famosa birreria di Monaco.
la croce della crudeltà: la svastica, simbolo del nazismo.
il buffetto del frenetico: l'allusione è ancora a Hitler
La cenere
la vittoria di Berlino: quella che durante il secondo conflitto mondiale pose fine alla guerra in Germania.
le ceneri dell'assassino: vale a dire di Hitler, morto nel suo bunker segreto.
Il culto (I)
un uomo tornò dalla Siberia: Stalin, che tornò dalla Siberia dopo la cacciata dei tedeschi dalle terre europee, sempre durante il secondo conflitto mondiale.
Mareggiata nel 1968
si fa riferimento allo sconvolgimento avvenuto in Cile nell'anno indicato, che fece numerosi morti e sconvolse l'aspetto di intere regioni.
Gli scomparsi
Lumumba: Patrice Lumumba, leader del Congo ex-belga indipendente, si oppose al secessionista Chombe; fatto prigioniero nel Katanga, rocca-forte di quest'ultimo, venne ucciso barbaramente.
Ben Bella: Mohamed Ben Bella, leader algerino, capo di stato maggiore dell'esercito di liberazione durante la guerra contro i francesi occupanti; fu deposto da Boumedienne, suo ministro della difesa, con un golpe, nel 1965.
Ben Barka: leader dell'indipendenza marocchina, ucciso a tradimento a Parigi, per conto del regime monarchico.
Perché signore?
Lincoln: Abraham Lincoln (1809-65), combattè contro gli stati sudisti per l'abolizione della schiavitù; fu il sedicesimo presidente degli Stati Uniti; venne ucciso da un fanatico schiavista.
Walt Whitman: (1819-92), poeta nardamericano, autore della raccolta poetica Foglie d'erba (1855); cantò la democrazia, la fratellanza e la natura; la sua poesia ebbe notevole risonanza su quella di tutta l'America e anche dell'Europa. Neruda ne fu influenzato per qualche tempo, alle origini della sua attività poetica.
A Cuba
Neruda si riferisce alla rivoluzione condotta da Fidel Castro, che abbattè la dittatura di Batista e pose fine all'ingerenza statunitense nell'isola.
Tristezza per la mone di un eroe
Guevara: II «Che» famoso della rivoluzione cubana di Castro, ucciso in Bolivia l’8 ottobre 1967, in un'imboscata tesagli dalle forze di repressione della guerriglia.
Oliverio Girondo
scrittore e poeta argentino (1891-1967); appartenne alla corrente ultraista; famosi sono i suoi Veinte poemas para ser leidos en el tramvia, Calcomanias, le prose di Espantapájaros e En la masmédula.
Il XIX
non riteniamo necessarie spiegazioni intorno ai nomi notissimi dei musicisti, poeti e romanzieri menzionati; in Ubú Dada si allude, evidentemente, al movimento dadaista, iniziato da Tristan Tzara nel 1916, a Zurigo.
Arti poetiche
Giovanni, Pietro, Maria: vale a dire l'uomo comune in genere.
Bestiario (II)
cassetto d'esperpento: l'«esperpento« è una forma particolare, ironico-deformante, di osservazione della realtà, posta in voga dallo scrittore spagnolo Ramón María del Valle-Inclán (1870-1935), autore di noti romanzi, come Tirano Banderas e le Sonatas, di poesia, e di teatro, appunto, «esperpentico».
La terra
le foglie di «pangue»: cioè di una pianta erbacea dai piccìoli commestibili.
Ieri
vallejarsi: i poeti incominciarono, cioè, dopo aver imitato Neruda, a seguire il poeta peruviano Cesar Vallejo (1892-1938), uno dei massimi valori della letteratura ispano-americana del Novecento, autore de Los heraldos negros, Trilce, Poemas humanos, e del celebre poema dedicato alla guerra civile spagnola del 1936, jEspana, aparta de mi este caliz!
Perse: Saint-John Perse, uomo politico e poeta francese, autore dell’Anabase; fu, premio Nobel per la letteratura nel 1960.
Eliot: Thomas Stearns Eliot (1888-1965), poeta inglese, premio Nobel per la letteratura nel 1948.
Resurrezioni
destino indostanico: Neruda allude all'Asia e alla credenza nella reincarnazione dei morti in animali.
neri denti letterali: i nemici che con acrimonia criticarono la poesia nerudiana.
Vietnam
Westmoreland: fu per vario tempo il comandante delle truppe statunitensi di stanza nel Vietnam del Sud, durante la guerra tra le due parti del paese.
copibue: pianta rampicante dal bellissimo fiore.
Janeiro
sortilegio macumbo: sortilegio dei negri brasiliani.
favelas: le miserabili abitazioni dei diseredati brasiliani alla periferia delle grandi città.
turpial: ittero (ornitologia).
Colori landò
kris: pugnale malese.
Salazar, il presidente dello stato portoghese, Antonio de Oliveira, nato nel 1889 e morto nel 1970.
Angola; regione dell'Africa sotto il dominio portoghese.
Scrittori
Cortázar. Julio Cortazar, narratore argentino, autore di numerosi romanzi e libri di racconti. Tra i primi ricorderemo Rayuela e Los premios; tra i secondi Las armas secretas e Todos los fuegos el fuego.
César Vallejo: il già citato poeta peruviano.
Vargas Llosa: Mario Vargas Llosa, narratore peruviano, autore dei romanzi La ciudad y los perros, La casa verde e Conversación en la Catedral
Alcuni
Fidel: Fidel Castro, anima della rivoluzione cubana.
certi scrittori uniti: allusione alla Unione degli scrittori cubani; essi si levarono contro Neruda rimproverandogli di aver tradito gli ideali della rivoluzione, per la diversità di opinioni intorno al modo di raggiungere il potere in altri paesi dell'America Latina.
secretos paradisos: Neruda si riferisce negativamente a José Lezama Lima, poeta e scrittore cubano, autore del noto romanzo Paradiso.
Juan Rulfo: scrittore messicano, autore del libro di racconti El llano en llamas e del romanzo Pedro Páramo.
Carlos Fuentes: narratore messicano, autore di vari romanzi, tra i quali ricorderemo La región mas transparente, La muerte de Artemio Cruz e Cambio de piel.
Miguel Olero Orinoco; Miguel Otero Sìlva, del Venezuela, il cui fiume più importante è l'Orinoco. È autore di alcuni romanzi, come Casas muertas, Oficina n. 1 e La muerte de Honorio.
Revueltas: José Revueltas, narratore messicano di denuncia, in romanzi come El luto humano, En algún valle de lágrimas.
Siqueiros: David Alfaro Siqueiros, pittore messicano, una delle maggiori espressioni della pittura affreschista moderna. Illustrò con una tavola il Canto General di Neruda.
Sábato: Emesto Sábato, narratore argentino, autore di romanzi famosi, come El túnel e Sobre béroes y tumbas.
Onetti: Juan Carlos Onetti, narratore uruguaiano, autore dei romanzi La vida breve, El astillero e Juntacadáveres.
Roa Bastos: Augusto Roa Bastos, narratore paraguaiano, autore del romanzo Hijo de hombre e di racconti riuniti in varie raccolte da El trueno entre las hojas a El baldío e Moriencia.
García Màrquez: Gabriel García Marquez, narratore colombiano, autore del famoso romanzo Cien años de soledad.
Vengono da lungi
urutaú: sorta di civetta dal lugubre verso.


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