- 1969 - Ancora - Pablo Neruda - Popol Vuh - Insetti

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- 1969 - Ancora

1969  -  ANCORA  

I

Oggi è il giorno più, quello che portava
una disperata chiarezza che morì.
Che non lo sappiano gli acquattati:
tutto deve restare tra di noi,
giorno, tra la tua campana
ed il mio segreto.

Oggi è l’ampio inverno della regione dimenticata
che con una croce sulla carta geografica e un vulcano nella neve
viene a vedermi, a cambiarmi, a restituirmi l’acqua
precipitata sul tetto della mia infanzia.
Oggi quando il sole cominciò con le sue spighe
a raccontare il racconto più chiaro e più antico
come una scimitarra cadde l’obliqua pioggia,
la pioggia che ringrazia il mio cuore amaro.

Tu, mia bella, addormentata ancora in agosto,
mia regina, mia donna, mia estensione, geografia,
bacio di creta, cetra che coprono i carboni,
tu, paramento liturgico del mio insistente canto,
oggi un’altra volta rinasci e con l’acqua nera
del cielo mi confondi e mi impegni:
devo riannodare le mie ossa sul tuo regno,
devo chiarire ancora i miei doveri terrestri.

II

Araucania, rosa bagnata, scorgo
dentro da me stesso e nelle province dell’acqua
le tue radici, le coppe dei dissotterrati,
coi larici rotti, le araucarie morte,
e il tuo nome riluce nei miei capitoli
come i pesci pescati nel canestro giallo!
Sei anche patria argentata e hai cattivo odore,
a rancore, a burrasca, a brivido.

Oggi che un giorno crebbe per essere ampio
come la terra e più esteso ancora,
quando si aprì la luce mostrando il territorio
arrivò la tua pioggia e portò sulle sue spade
il ritratto di ieri crivellato,
l’amore della terra insopportabile,
con quelle strade che mi portano
al Polo Sud, tra alberi bruciati.

III

Invierna, Araucanía, Lonquimaya!
Leviathana, Archipiélaga, Oceana!

Penso che lo spagnolo dalle scarpe violacee
montato nell’invasione come nella nausea,
sul suo cavallo come su un’onda,
lo scopritore, scese dal suo Guatemala,
dalle torte di mais con odore di tomba,
da quel calore di parto che inonda le Antille;
per arrivare qui, di danno in sconfitta,
per perdere la spada, la parete, la Santissima,
e dopo perdere i piedi e le gambe
e l’anima.
Adesso in questo 65 che compio
guardando all’indietro,
verso l’alto,
verso il basso,
mi pongo a scoprire gli scopritori.
Passa Colombo con il primo colibrì
(uccello da braccialetto), lampeggiato,
passa don Pedro de Valdivia senza cappello
e dopo, di ritorno, senza testa,
passa Pizarro tra altri uomini tristi.
E anche don Alonso, il chiaro Ercilla.

IV

Ercilla il ramificato, il polveroso,
il diamantino, il povero cavaliere,
per queste acque camminò, navigò queste strade,
e sebbene apparisse bellimbusto agli avvoltoi
e questi lo respingessero, come lettera eccedente,
alla Spagna pietrosa e polverosa,
egli solamente ci scoprì:
solamente questo abbondantissimo colombo
si aggrovigliò a noi fino ad ora
e ci lasciò nel suo testamento
un duraturo amore insanguinato.

V

Bene perché, arrivarono altri:
insigni, misuratori, cileni meditativi
che fecero case umide in cui io mi educai
e alzarono la bandiera cilena
in quel freddo perché si gelasse,
in quel vento perché vivesse,
in piena pioggia perché piangesse.
Si riempì il mondo di carabinieri,
apparvero i negozi di ferramenta,
gli ombrelli
furono i nuovi uccelli regionali:
mio padre mi regalò una cappa
dal suo poncho invincibile di Castiglia
e perfino arrivarono libri
alla Fontera come si chiamò
quel capitolo che io non scrissi
ma che mi scrissero.

Gli araucani diventarono radice!
Lo furono rubando foglie
fino a che solo furono scheletro
di razza umana, o albero già rimosso,
e non fu tanto la sofferenza antica
visto che essi combatterono come vertiginosi,
come pietre, come sacchi, come angeli,
finché adesso essi, gli onorari,
sentirono che il terreno gli mancava,
la terra se ne andava dai loro piedi:
già aveva regnato in Arauco il sangue:
arrivò il regno del furto:
e i ladroni eravamo noi.

 VI

Perdono se quando voglio
raccontare la mia vita
è la terra ciò che canto.
Questa è la terra.
Cresce nel tuo sangue
e cresci.
Se si estingue nel tuo sangue
tu ti estingui.

VII

Yumbel!
Yumbel! Yumbel!
Da dove
uscì il tuo nome al sole?
Perché la luce
tintinna sul tuo nome?
Perché, dalla mattina
il tuo nome come un cerchio
esce suonando dalle fucine?

VIII

Angol subentra secco
come un urto di uccello
nella selva,
come un canto
di ascia nuda
che attacca un rovere.
Angol, Angol, Angol,
ascia profonda,
canto
di pietra dura
nella montagna,
chiave delle eredità,
parola come il volo
del falco a lutto,
centrifugo, fuggente
sui merli
della notte nevosa!

IX

Temuco, cuore di acqua,
patrimonio
del digitale: anticamente
la tua casa arborea
furono culla e campana
del mio canto
e fortezza
della mia solitudine.

X

Boroa chiara,
mela cristallina
e elemento
della fecondità, io seguo
le tue reclinate sillabe
scomparire nel fiume,
scomparire
nel corso
dell’argento ombroso
che corre nella freschezza.

XI

Arpa di Osorno sotto i vulcani!
Suonano le corde oscure
strappate al bosco.
Guardati nello specchio di legno!
Consumati
nella più poderosa
fragranza dell’autunno
quando i rami lasciano
cadere foglia per foglia
un pianeta giallo
e aumenta il sangue perché i vulcani
preparano fuoco ogni giorno

XII

Torre fredda del mondo,
vulcano, dito di neve
che mi seguì per tutta l’esistenza:
sopra la mia nave l’albero di penna
e ancora oh primavera frastornata,
viaggiatore intermittente,
nella ragnatela
di Buenos Aires, lontano
da dove fui io,
da dove fui me stesso,
in Katiabar, in Sandokán, in Praga,
in Mollendo, in Toledo, in Guayaquil
con i miei vulcani sulle spalle,
con la mia neve,
con fuoco australe e notte bruciata,
con lingue di vulcano, con lava lenta
divorando la stella.
Igneo debitore, compagno di neve,
dove fui con me
fui con te,
torre delle segrete fabbriche di giaccio,
fabbrica delle fiamme patriarcali.

XIII

Cresce l’uomo con tutto quello che cresce
e si accresce Pedro con il suo fiume,
con l’albero che cresce senza parlare,
per questo la mia parola cresce
e cresce:
arriva da quel silenzio con radici,
dai giorni del frumento,
da quei germi intrasferibili
dell’acqua estesa,
dal sole chiuso senza il suo consenso,
dai cavalli sudati nella pioggia.

XIV

Tutti mi reclamavano,
mi dicevano: “Idiota,
rimani qui. È tiepido
il letto nel giardino
e al tuo balcone si affacciano
i gelsomini, onore
dell’Europa, il vino
soave toro
sale fino al Partenone, Racine dirige
gli alberi che fanno rima e Petrarca
continua ad essere di marmo e d’oro”.

Non potei andare senza ritornare a qualche parte:
la terra si metteva a disposizione, mi smarrivo
e presto, tardi sì, colpiva il muro
e da un uccello mi reclamava.
Mi sentii vagamente tricolore
e il penetrante segno del peperone,
certi cibi, i pomodori freschi,
le chitarre di ottobre, le città
incompiute, le pagine del bosco
non lette ancora nei loro totali:
quella cascata
che nel selvaggio Aysén cade dividendo
una roccia in due seni spruzzati
dalla bianchezza torrenziale, la luna
nelle tavole marce di Loncoche,
l’odore di mercato povero, una cozza secca,
una chiesa, un larice, là nell’arcipelago,
la mia casa, il mio Partito, nel fuoco di ogni giorno,
e tu stessa meridionale, compagna della mia anima,
padrona dei miei occhi, sentinella,
tutto quello che si chiama pioggia e si chiama patria,
quello che ti ognora e ti ferisce e ti accarezza talvolta,
tutto questo, una diceria ogni settimana più aperta,
ogni notte più stellato, ogni volta più preciso,
mi fece ritornare e fermarmi e non tornare a partire:
che sappia tutto il mondo che almeno in me
la terra mi propone, mi prepara e mi sequestra.

XV

Noi, i perituri, tocchiamo i metalli,
il vento, le rive dell’oceano, le pietre,
sapendo che continueranno, immobili o ardenti,
e io stavo scoprendo, nominando tutte le cose:
fu il mio destino amare e congedarmi

XVI

Ciascuno nel sacco più nascosto ripose
i gioielli perduti del ricordo,
intenso amore, notti segrete o baci permanenti,
il frammento di felicità pubblica o privata.
Alcuni, giocherelloni, collezionarono fianchi,
altri uomini amarono l’alba esaminando
cordigliere o lastre di ghiaccio, locomotori, numeri.
Per me la felicità fu condividere cantando,
lodando, imprecando, piangendo con mille occhi.
Chiedo perdono per il mio cattivo comportamento:
non ha utilità la mia direzione sulla terra.

XVII

Fu una tremante notte di settembre.
Io portavo sul mio vestito
la tristezza del treno che mi portava
attraversando una per una tutte le province:
io ero questo essere remoto
turbato per il fumo del carbone
della locomotiva.
Io non ero.
Ebbi a che fare allora con la vita.
La mia poesia mi isolava
e mi aggregava a tutti.
Quella notte mi
toccò fare la dichiarazione alla Primavera.
A me, povero ombroso,
fecero slegare i paramenti sacri
della notte nuda.
Tremai leggendo davanti a due mila orecchie diverse
il mio canto.
La notte arse
con tutto il fuoco oscuro
che si moltiplicava nella città,
nell’urgenza imperiosa del contatto.

Morì la solitudine quella notte?
O nacqui allora, dalla mia solitudine?

XVIII

I giorni non si eliminano né si sommano, sono api
che ardono di dolcezza o fanno infuriare
il pungiglione: la competizione continua,
vanno e vengono i viaggi dal miele al dolore.
No, non si sfila la rete degli anni: non c’è rete.
Non cadono goccia a goccia da un fiume: non c’è fiume.
Il sogno non divide la vita in due metà,
né l’azione, né il silenzio, né la virtù:
fu come una pietra di vita, un solo movimento,
un solo falò che riverberò nel fogliame,
una freccia, una sola, lenta o operosa, un metallo
che salì e discese bruciandosi nelle tue ossa.

 XIX

Mio nonno don José Ángel Reyer visse
centodue anni tra Parral e la morte.
Era un gran signore contadino
con poca terra e troppi figli.
A cento anni di età lo stavo guardando: come neve
era questo vecchio, azzurra era la sua vecchia barba
e ancora entrava nei treni per vedermi crescere,
sul carro di terza classe, da Cauquenes al Sud.
Arrivava il sempiterno don José Ángel, il vecchio,
a bere un bicchiere, l’ultimo, con me:
la sua mano di cento anni alzava
il vino che tremava come una farfalla.

 XX

Altre cose ho visto, talvolta niente, paesi
purpurei, estuari che portano l’utero
della terra, l’odore seminale delle origini,
paesi ferruginosi con grotte di diamanti
(città Bolivar, là nell’Orinoco)
e in un altro regno stetti, di colore amaranto
in cui tutti e tutte erano re e regine
di colore amaranto.

XXI

Io vissi nel mazzo di patrie non nate,
in colonie che ancora non sapevano nascere,
con bandiere inedite che si insanguinavano.
Io vissi nel falò dei popoli feriti gravemente
mangiando il pane strano con la mia sofferenza.

XXII

Qualche volta, vicino Antofagasta,
tra le sprecate vite dell’uomo
e il circolo sabbioso
della pampa,
senza vedere né sentire mi fermai nel nulla:
l’aria era verticale nel deserto:
non ci sono animali (néppure mosche)
soltanto la terra, come la luna, senza strade,
soltanto la pienezza inferiore del pianeta
i chilometri densi di notte e di materia.
Io lì solo, cercando la ragione della terra
senza uomini e senza ali, poderosa,
sola nella sua grandezza, come se avesse
distrutto una per una le vite
per stabilire il suo silenzio.

 XXIII

Sabbie di Isla Negra, cintura,
stella demolita, nastro della certezza:
il pericolo del mare frusta con la sua rosa
la pietra distesa della costa.
Scoscesa stirpe, litorale combattente!
Fino a Quebrada Verde, per il freddo,
come un diamante si fermò il giorno
poderoso, come un aeroplano azzurro.

Il sole nuovo ammucchia le sue spade
dal basso e incendia l’orizzonte
spezzando onda dopo onda il suo dominio.
Pieghe del conflitto! Quebrada
di Mirasol, dove
corse il carro glaciale del ghiacciaio
lasciando questa tagliente cicatrice:
il mare sotto muore e agonizza
e nasce e muore e muore
e nasce e muore e nasce.
 
 XXIV

La Baleniera di Quintay, vuota
con le sue stive, i suoi rottami morti,
il sangue ancora sopra gli scogli, le
ossa dei monarchici cetacei.
ferro eroso, vento e mare, il gracchio
dell’albatros che aspetta.

Se ne andarono le balene: a un altro mare?
Fuggirono dalla costa violenta?
O sommerse nel soave fango
della profondità chiedono una punizione
per gli oceani cileni?

E nessuno difese le gigantesche!

Oggi, nel mese di luglio
scivolò ancora nell’olio gelato:
se ne vanno le scarpe verso il Polo
come se le presenze invisibili
mi spingessero al mare,
e una melanconia grave come l’inverno
sta portando i miei pedi
versi la disabitata baleniera.

 XXV

Va via l’oggi. Fu una capsula
di fredda luce che ritornò al suo recinto,
alla sua madre ombrosa, a rinascere.
Lo lascio adesso avvolto nel suo lignaggio.
È vero, giorno, che partecipai alla luce?
Tempo, sono parte della tua cascata?
Sabbie mie, solitudini!

Si è vero che noi andiamo,
noi ci stiamo distruggendo
a pieno sale marino
e a colpi di lampo.
La mia ragione ha vissuto alle intemperie,
si arrese al mare il mio cuore calcareo.

 XXVI

Si ho una pietra divorata
in essa ho parte:
ero io nel bagliore,
nell’onda,
nell’incendio terrestre.

Rispetta questa pietra perduta.

Se trovi in una strada
un bambino
che ruba mele
e un vecchio sordo
con una fisarmonica,
ricorda che sono io
il bambino, le mele e l’anziano.
Non mi fare male perseguendo il bambino,
non picchiare il vecchio vagabondo,
non lanciare al fiume le mele.

XXVII

Perfino qui sto.
Stiamo.
I lineari, i feroci,
i cappellai che passarono la vita
misurando la mia testa e la tua testa,
i cinturatori
che si attaccavano a ciascuna cintura,
a ogni mammella del mondo.
Qui andiamo a proseguire gomito a gomito
con gli anacoreti,
con il giovane con la sua tenera indigestione di guerriglie,
con i tradizionali che si offuscavano
perché nessuno amava mangiare merda.
Ma inoltre,
in omaggio al giorno fresco,
alla gioventù della rugiada,
alla mattina del mondo,
a quello che aumenta nonostante
il tempo amaro:
l’ordine puro
di cui abbiamo bisogno.

 XXVIII

Arrivederci, invitato.
Buon giorno.
Accadde al mio poema
per te, per nessuno,
per tutti.

Vado a supplicarti: lasciami irrequieto.
Vivo con l’oceano intrattabile
e mi costa molto il silenzio.

Muoio con ogni onda ogni giorno.
Muoio con ogni giorno in ciascuna onda.
Ma il giorno non muore
mai.
Non muore.
e l’onda?
Non muore.

Grazie.

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