- 1966 - Una casa nella sabbia
UNA CASA NELLA SABBIA (1966)
PREFAZIONE
La passione di Neruda per la casa si manifesta in gran parte della sua opera lirica, a partire soprattutto da Las uvas y el viento (1954), dal Memorial de Isla Negra (1964) e dalla Barcarola (1967), che lo segue a breve distanza di tempo; il che è spiegabile per un uomo che è stato sempre non un viaggiatore immobile, come ha intitolato un suo libro Emir Rodríguez Monegal (1), ma un effettivo viaggiatore per tutte le coste del mondo, come egli stesso ha consegnato in pagine efficaci dei Viajes (2), nelle memorie (3) e nella poesia, partendo, in sostanza, dalla prima Residencia en la tierra (1953).
La ‘Chascona' di Santiago e la 'Sebastiana' di Valparaíso sono, una la dimora iniziale del poeta, l'altra la casa costruita per Matilde Urrutia, la donna della quale Neruda s'innamorò perdutamente quando ancora era legato a Delia del Carril, e del cui amore dà ragione la sua poesia nei Versos del Capitán (1952), frutto della residenza della coppia a
Capri, ancora clandestina la relazione, e soprattutto nei Cien sonetos de amor (1960) e nella Barcarola.
Un forte sentimento lega da sempre Neruda alla sua terra e al suo mare. Infinite sarebbero le prove, ma basta affacciarsi a uno qualsiasi dei suoi libri. Il Cile è per lui la «dulce patria», la terra è «mi tierra, mi barro». All'inizio de La barcarola egli fa una grande dichiarazione d'amore, nella quale si condensa tutto il sapore della provincia d'origine, a cui, nonostante le numerose trasferte, si sentirà sempre vitalmente legato e da cui verranno infinite ispirazioni alla sua poesia:
La tierra, mi tierra, mi barro, la luz sanguinaria del orto volcánico
la paz claudicante del día y la noche de los terremotos,
el boldo, el laurel, la araucaria ocupando el perfil del pianeta,
el pastel de maiz, la corvina saliendo del homo silvestre,
el latitdo del cóndor subiendo en la ascética piel de la nieve,
el collar de los ríos que ostentan las uvas de logos sin nombre,
los patos salvajes que emigran al polo magnético
rayando el crepúsculo de los litorales,
el hombre y su esposa que leen después de comida novelas heroicas,
las calles de Rengo, Rancagua, Renaico, Loncoche,
el humo del campo en otoño cerca de Quirihue,
allí dinde mi alma parece una pobre guitarra que llora
cantando y cayendo la tarde en las aguas oscuras del río.
È questo il mondo nerudiano, sempre attivo nel poeta come nostalgia per un paradiso, non perduto, ma sempre raggiungibile: è sufficiente tornare in Cile, stabilirsi lì in una casa, ma una casa che sia regno fortificante dell'amore. Con Marilde ciò si realizza e mentre la ‘Chascona', e anche la 'Sebastiana', vedono ridotta, nel tempo, la loro importanza per la coppia innamorata, acquista sempre più significato la casa di Isla Negra, che da un piccolo nucleo viene ulteriormente arricchita da Neruda, il quale vi porta le cose a lui più care, non solo i libri, ma quelle suggestive polene che va raccogliendo o che improvvisamente gli si parano davanti, lungo il litorale oceanico dell'estremo Sud, oppure reperisce in magici luoghi dell'usato, come il mercato delle pulci parigino.
Di fronte alla casa sta l'Oceano Pacifico, costante attrattiva per Neruda, Risuona del rumore delle sue onde gran parte della poesia nerudiana e l'acqua oceanica introduce in essa freschezza, ma consegna anche la tragedia e il tormento dell'assenza. Con il poeta preferito, Quevedo, l'oceano forma le due «graves desmesuras» di cui tratta in «Leyendo a Quevedo junto al mar», di Incitación al nixoniddio y alabanza de la Revolución chilena (1973). In altro luogo - «Desconocidos en la orilla», di Estravagario -, aveva definito l'oceano una grande scuola e soprattutto misura con la quale l'uomo deve confrontarsi. Ma l'oceano deve prima accettare chi giunge alle sue rive, respirarlo; occorre pazienza, perciò, e imparare a vedete dentro i propri sogni, dopo di che la felicità potrà essere raggiunta; dichiara il poeta;
Yo seré otra vez feliz
en la soledad de Ia arena,
desarrollado por el viento
y estimado por la marina.
Tale è l'amore per l'oceano, che Neruda, nelle Piedras de Chile, immagina persino che uno dei suoi poeti preferiti, Victor Hugo, possa essere sepolto sotto una gran pietra, «entre todas. Iosa lisa», nel mare di Isla Negra, di fronte alla sua casa, così che, silenziose, «recen su padrenuestro las espumas» e l'alga distenda i suoi capelli sulla tomba, mentre il gabbiano trattiene il grido: coperto dalla «blancura / del incesante mar», il poeta amato potrà riposare; entrato ormai nella «turbolenta claridad», baciato dal sale e dalla tempesta, padre della propria eternità, dormirà alla fine, disteso, «recostado en el trueno intermitente, / en el final del mar y sus cascadas, / en la panoplia de su poderío».
Il progetto della casa di Isla Negra risale a epoca remota, al tempo in cui Neruda aveva dato inizio alla composizione del Canto general, il 1959, al ritorno dalla Spagna. Scrive nelle sue memorie che in quel tempo aveva sentito il bisogno di un luogo tranquillo per continuare il suo lavoro, e lo trovò a Isla Negra, un posto sconosciuto ai più, di fronte all'oceano: una piccola casa che comperò, con l'aiuto economico di alcuni editori, da un
socialista spagnolo, «capitán de naví», Gladio Sobrino (4).
La casa di Isla Negra finì per costituire, nella pienezza dell'amore, un luogo particolare, mitico. Neruda non farà che riferirsi a essa nel corso degli anni successivi alla resa pubblica del suo nuovo rapporto sentimentale. Ista Negra sarà il regno dell'amore, la fonte di ogni ispirazione e cancellerà quasi del tutto il significalo delle precedenti residenze.
La piccola «casa de piedra» delle origini accrescerà le sue dimensioni, avrà altri corpi, come piaceva al poeta, e in uno di essi quella luminosa camera con enormi vetrate come pareti volte al mare, da cui Neruda, al primo risveglio già poteva ammirarlo. Il corpo principale della casa si trasformerà poco a poco in una sorta di museo, un museo particolare, dove il poeta andava accumulando, con il suo gusto particolare, oggetti kitsch, la famosa «ola» che aveva comperato a Milano, in Galleria Vittorio Emanucle, in uno degli ultimi suoi viaggi, e soprattutto i «mascarones de prua», le famose polene delle quali fa descrizione commossa in La casa en la arena, libro di grande poesia, benché prevalentemente in prosa, ravvivato nell'edizione spagnola del 19665 da splendide fotografie di Sergio Larrain, che ritraggono la spiaggia, gli interni della costruzione, gli oggetti, la vegetazione. Circondava la casa, quando la visitai, dopo la fine della dittatura,
un'alta palizzata e ogni palo recava messaggi diretti al poeta, incisi da mani anonime durante il regime, documenti che varrebbe la pena di conservare in un museo.
In Una casa en la arena una simbolica chiave introduce alla sostanza del testo, come ad aprire la comunicazione con il grande protagonista, l'oceano, che entra ed esce dalla casa, si porta via oggetti e altri ne restituisce. Neruda ha sempre dimostrato passione per i relitti marini. Una preziosa poesia di Estravagario, «No me hagan caso», rivela bene il suo amore per le minute storie che le onde marine gettano come relitti sulla spiaggia: «monedas del tiempo y del agua», detriti «celesti», e l'ebbrezza del poeta di prendere parte «en los trabajos / de la soledad y la arena».
Le polene recano messaggi profondi a Neruda, giustificando la sua ansiosa ricerca. Rivivono come creature le grandi maschere tornate dal tempo e dall'oceano, stanno come divinità sentenziose o creature tenere e indifese che vengono da lontane avventure: lì è la 'Medusa II', con ancora gli occhi rivolti verso il Nord, lì la 'Sirena', che condensa le esperienze marine, la 'Maria Celeste', improvvisamente piangente lacrime misteriose, la 'Novia' dal volto screpolato dalle intemperie, le mani consunte, la 'Bonita' umiliata dal mare e dagli uomini e riscat tata da Neruda. Immagini più liete forniscono la 'Cymbelina', spiritualizzata in fidanzala purissima - «Oh sueño de la nave turbulenta, rosa de sal, naranja clara, nenúfar» - e la 'Micaela', di proporzioni abbondanti, donna silvestre, situata nel giardino della casa.
Un itinerario, questo del libro e del sentimento, che conclude con una dichiarazione d'amore a Matilde:
Es tarde ya. Tal vez
sólo fue un largo día color de miel y azul,
tal vez sólo una noche, como el párpado
de una grave mirada que abarcó
la medida del mar que nos rodeaba,
y en este territorio fundamos sólo un beso,
sólo inasible amor que aquí se quedará
vagando entre la espuma del mar y las raíces.
E poi ancora il mare che «retumba como un combate antiguo», un mare inquietante, ora, che tutto circonda, sbatte sulle rocce e s’aprono i suoi occhi e si chiudono, per non morire, ma per continuare a nascere.
Libro di raccolta intimità La casa en la arena, felice e infelice al tempo stesso, come conferma l'episodio del Premio Nobel 1963, tolto a Neruda all'ultimo momento. Il fatto è noto; il poeta mi inviò il testo che aveva scritto dopo la delusa attesa e lo pubblicai. Ne La casa en la arena, come del resto nelle memorie nerudiane, tale testo appare in qualche punto modificato, ma è rimasta intatta la bellezza, la trasparenza con cui Neruda interpreta
la natura che fiorisce intorno e dentro la sua casa.
E v'è ancora da segnalare, nella lirica finale, la ricomparsa del tema del tempo, problema sempre tormentoso per il poeta, e più quando fiorisce l'amore. Il mondo continuerà, ma l'innamorato rimpiange la propria finitezza e con la sua quella della compagna:
Matilde, el tíempo pasará gastando y encendiendo
otra piel, otras uñas, otros ojos, y entonces
el alga que azotaba nuestras piedras bravías,
la ola que construye, sin cesar, sv blancura,
lodo tenderà firmeza sm nosotros,
todo estará dispuesto farà los nuevos días
que no conocerán nuestro destino.
E tuttavia l’avventura d’amore ha il pregio di aver colorato di sé tutta la vita, del poeta e della sua compagna.
Giuseppe Bellini
(1) Emir Rodríguez Monegal, El viayero inmóvil, Buenos Aires, Editorial Losada,1967.
(2) Pablo Neruda, Viayes, Santiago de Chile, Nascimento, 1935. Viaggio lungo le coste del mondo, a cura di Ilide Carmignani, è attualmente in preparazione per la presente casa editrice.
(3) Cfr. P. Neruda, Confieso que he vivido, Buenos Aires, Editorial Losada, 1974,
(4) P. Neruda, Confieso que he vivido , Buenos Aires, Editorial Losada, 1974, p. 191. Ma v. anche più avanti alle pp. 50-51 e seguenti.
(5) P. Neruda, Una casa en la arena, Barcelona, Editorial Lumen, 1966.
LA CHIAVE
Perdo la chiave, il cappello, la testa! La chiave è quella dello spaccio di Raúl, a Temuco. Era fuori, immensa, sperduta, a indicare agli indios lo spaccio 'La llave'. Quando mi trasferii al Nord la chiesi a Raúl, gliela strappai, gliela rubai in mezzo alla burrasca e alle raffiche di vento. La portai a cavallo a Lonconche. Da lì la chiave, come una sposa in bianco, mi fece compagnia sul treno notturno.
Mi sono accorto che le cose di cui sento la nostalgia in casa sono quelle che si è preso il mare. Il mare di notte passa attraverso i buchi delle serrature, le fessure di porte e finestre.
Siccome di notte, al buio, il mare è giallo, ho sospettato senza verificarla la sua segreta invasione. Trovavo nel portaombrelli, o nelle dolci orecchie di Maria Celeste, gocce di mare metallico, atomi della sua maschera d'oro. Perché il mare di notte è secco.
Ha mantenuto le sue dimensioni, il suo potere, la sua ondosità, ma si è trasformato in una grande coppa di aria sonora, in un volume imprendibile che si è spogliato delle sue acque. Per questo entra in casa mia, a scoprire cosa e quanto posseggo. Entra di notte, prima dell'alba: nella casa tutto resta silenzioso e salmastro, i piatti, i coltelli, le cose strofinate dal suo selvaggio contatto non hanno perso niente, ma si sono spaventate quando il mare è entrato con tutti I suoi occhi di gatto giallo.
È così che ho perso la chiave, il cappello, la testa.
Se li è portati via il mare nel suo andirivieni. Una di queste mattine li ritroverò. Perché me li restituisce un'onda messaggera che deposita oggetti smarriti davanti alla mia porta.
Così, per la magia del mare, la mattina mi ha riportato la chiave bianca di casa mia, il mio cappello insabbiato, la mia testa di naufrago.
IL MARE
L'Oceano Pacifico usciva dalla cartina. Non si sapeva dove metterlo. Era così grande, disordinato e azzurro che non stava da nessuna parte. Per queSto l'hanno lasciato davanti alla mia finestra.
Gli umanisti si preoccuparono dei piccoli uomiNI che divorò nel corso degli anni:
Non contano.
Neanche il galeone carico di cinnamomo e pepe che lo profumò nel naufragio.
No.
Neanche l'imbarcazione degli scopritori che rotolò con i suoi affamati, fragile come una culla smontata nell'abisso.
No.
L'uomo nell'oceano si dissolve come un ramo di sale. E l'acqua non lo sa.
IL MARE
II Mare del Sud! Avanti, scopritori! Balboa e Laperouse, Magellano e Cooke, per di qui, signori, senza sbattere su questo scoglio, senza invischiarvi nel sargasso, o giocare con la schiuma! Venite giù! Verso la pienezza del silenzio! Conquistatori, da questa parte! E adesso basta!
Bisogna morire!
IL MARE
E continuano a muoversi l'onda, il canto e il racconto, e la morte!
Il vecchio oceano scoprì sghignazzando i propri scopritori. Sorresse nel suo moto maori volubili, fijani cannibali, samoani mangiatori di nenufari, pazzi di Rapa Nui che erigevano statue, innocenti di Tahiti, astuti delle isole, e poi biscaglini, portoghesi, uomini che venivano dall'Estremadura armati di spade, dalla Castiglia con le croci, inglesi con le
bisacce, andalusi con la chitarra, olandesi erranti. E allora?
IL MARE
II mare li scoprì senza neppure guardarli, con il suo contatto freddo li travolse e li iscrisse passando sul suo libro d'acqua.
Perseverò l'oceano con il suo sballottamento e con il suo sale, con l'abisso. Mai si riempì di morti. Procreò nella grande abbondanza del silenzio. Lì la semenza non si sotterra né si rompe il guscio: l'acqua è sperma e ovaia, rivoluzione cristallina.
LA SABBIA
Queste sabbie di granito giallo sono esclusive, impareggiabili. (La sabbia bianca, la sabbia nera aderiscono alla pelle, al vestito, sono impalpabili e intruse). I granelli della sabbia dorata di Isla Negra sono fatti come piccolissime rupi, quasi provenissero da un pianeta distrutto, arso lontano, lassù in alto, remoto e giallo.
Tutti, mentre solcano la riva sabbiosa, si chinano, e cercano e frugano, tanto che qualcuno ha ribattezzato questa costa 'Isola degli Oggetti Smarriti’.
L'oceano è un incessante fornitore di assi tarlate, palline di vetro verde e galleggianti di sughero, frammenti di bottiglia impreziositi dalle onde, resti di granchi, conchiglie, patelle, oggetti smangiucchiati, invecchiati dalla pressione e dall'insistenza.
Esiste tra fragili aculei o ricci minuscoli o zampe di granchio viola, il serpentino cochayuyo, alimento dei poveri, alga interminabile e rotonda come un'anguilla, scivolosa e luccicante, agitata fin sulla riva dall'onda reticente, dall'oceano che la perseguita. Come si sa, questa pianta marina è la più lunga del mondo, arriva ai quattrocento metri di lunghezza, aggrappata con una titanica ventosa agli scogli, sorreggendosi con una divisione di galleggianti che reg-gono la chioma dell'alga macrocristi con migliala di tettine d'ambra. E poiché nella regione andina vola il condor e sul mare cileno si riuniscono planando tutte le famiglie dell'albatro e poiché il capodoglio o balena dentata che s'immerse nelle nostre acque qui sopravvive, siamo una piccola patria di ali gigantesche, di lunghissime chiome scosse dal grande oceano, di presenza cupe nelle stive del mare.
LE AGATE
Ma da dove arrivano alle mie mani queste agate? Ogni mattina appaiono davanti alla mia porta, ed è la ruffa aurorale, perché qualche smarrito pastore dell'entroterra, o González Vera, o Lina, o María possono contendere le pietruzze trasparenti agli Yankas, professionisti della raccolta di frutti di mare, che tra i sedimenti spiano la mercanzia del
fondale e credono di poter mettere le mani su tutto quel che l'onda scarta.
Di certo mi hanno sempre svegliato all'alba ed ecco ancora una volta il tesoro che mi manda il mare, solo nelle loro mani, un tanto la pietra o le cento pietre o il chilo o la tonnellata.
E nella mano le misteriose gocce di luce rotonda, colore del miele o dell'ostrica, simili all'uva che si pietrificò per entrare nei versi del Genil de Espinosa, dolcemente spolverate da qualche divinità cinerina, a volte perforate al centro da qualche aculeo d'oro, come scavate dalla più piccola delle onde: agate di Isla Negra, nebbiose o celesti, con
sfumature di carminio o verdeggianti, o violacee, o rossicce, o screziate all'interno come grappoli di moscatello: e spesso estatiche di trasparenza, aperte alla luce, affidate dal favo dell'oceano all'arbitrio del cristallo: alla pura purezza.
LE PIANTE
Nessuno conosce bene, o tutti ignorano completamente, le irsute piante della riva. Ho chiesto spesso, a questo e a quello, ma ho sempre avuto risposte evasive di pescatori, contadini o bambini. In effetti, nessuno sa che nome dare alla propria peluria, alla propria pelle dell'orecchio così come non esiste una definizione per la pelle che circonda l'ombelico: e questa vegetazione castigata dal vento salmastro è la pelle e il vello della regione marina.
PREMIO NOBEL A ISLA NEGRA (1963)
Quando alla radio hanno annunciato, ripetendolo parecchie volte, che il mio nome figurava tra i candidati al Premio Nobel per la Letteratura, Matilde e io abbiamo attuato il piano n° 3 di Difesa Domestica. Abbiamo messo un grosso lucchetto al vecchio portone di Isla Negra e ci siamo riforniti di generi alimentari e vino rosso. Inclusi alcuni romanzi gialli, vista la prospettiva di isolamento.
I giornalisti sono arrivati presto. Li abbiamo tenuti a bada. Non sono riusciti a superare il portone. Il grosso lucchetto di bronzo non è solo bello, ma anche possente. Fuori, quelli andavano avanti e indietro come tigri. Cosa volevano? Cosa potevo dire io di una discussione cui prendevano parte solo accademici svedesi all'altro capo del mondo? Tuttavia i giornalisti erano lì a mostrarmi con i loro sguardi la loro intenzione di cavare sangue dalle rape. Se ne sono andati presto.
La costa era sgombra di pericolo. Ciò nonostante, noi siamo rimasti invisibili.
La primavera è stata tardiva in questo 1963, sulla costa meridionale dell'Oceano Pacifico. Le giornate solitarie mi sono servite per prendere confidenza con la primavera marina. Seppur tardi, si era messa in ghingheri per la sua festa solitaria. Per tutta l'estate non cade una goccia di pioggia. La terra è cretosa, irsuta, sassosa. Non si vede un filo d'erba verde. D'inverno il vento del mare scatena furia, sale, schiuma delle grandi onde, e
la natura sembra angustiata, vittima di una forza terribile.
In primavera comincia un grande lavorio giallo. Tutto si ricopre d'innumerevoli, minuscoli fiori dorati. Questi germogli piccoli e potenti coprono pendii, circondano gli scogli, si protendono verso il mare e appaiono in mezzo alla strada, lì dove li si calpesta ogni giorno, come se volessero sfidarci, dimostrarci la loro esistenza. Per così tanto tempo
hanno condotto una vita invisibile, la desolata negazione della terra sterile, che adesso tutto sembra poco alla loro fecondità gialla.
Poi se ne vanno i piccoli fiori pallidi e tutto si copre di un'intensa fioritura viola. Il cuore della primavera passa dal giallo all'azzurro, e infine al rosso. Come si sono alternate le une alle altre le piccole, sconosciute, infinite corolle? Sappiamo solo che un giorno il vento scuoteva un colore e poi un altro, come se lì, tra quelle colline, cambiasse il vessillo
della primavera, e le sue diverse repubbliche mostrassero gli stendardi dell'invasione.
In questo periodo fioriscono i cactus della costa. Lontano da qui, sui contrafforti della cordigliera andina, i cactus s'innalzano giganteschi, striati e spinosi, come colonne ostili. I cactus della costa sono piccoli e rotondi. Adesso li ho visti coronarsi ciascuno di venti bottoni scarlatti, come se una mano vi avesse lasciato il suo tributo di sangue. Ma si
sono aperti e davanti alle grandi schiume si vedono migliaia di cactus accesi dai loro fiori plenari.
La vecchia agave di casa mia ha cavato dal fondo delle sue viscere la sua fioritura suicida. Questa pianta, azzurra e gialla, gigantesca e carnosa, ha resistito più di dieci anni alla mia porta, ed è cresciuta fino a superarmi in altezza. E adesso fiorisce per morire. Ha scelto una potente lancia verde che è salita fino a raggiungere i sette metri, interrotta da una secca infiorescenza, appena coperta di pulviscolo dorato. Poi le foglie colossali dell'agave americana cadono e muoiono.
Accanto al grande fiore che muore ce n'è un altro titanico che nasce. Nessuno lo conosce fuori dalla mia patria. Vive solo su queste sponde antartiche. Si chiama chahual (puya chilensis). Questa pianta ancestrale era adorata dagli araucani. L'antico Arauco* non esiste più. Il sangue, la morte, il tempo e poi l'arpa epica di Ercilla ne racchiusero l'antica storia: la tribù d'argilla che si svegliò bruscamente dalla geologia e corse a difendere la terra patria dagli invasori. Vedendo rispuntare ancora una volta i suoi fiori, su secoli di oscuri morti, su strati e strati di oblio sanguinoso, penso che il passato della terra
fiorisca contro quello che siamo, contro quello che siamo diventati. Solo la terra continua a essere, a difendere l'essenza.
Ma ho dimenticato di descriverla.
È una bromeliacea dalle foglie sottili e seghettate. Sboccia sui sentieri come un fuoco verde, accumulando in una panoplia le sue spade misteriose. Poi, all'improvviso, un solo fiore colossale, un grappolo, le nasce dalla cintura, come un'immensa rosa verde dell'altezza di un uomo. Quest'unico fiore, composto, come un polipo marino, di un'infinità di fiorellini che si raggruppano in una sola cattedrale verde, coronata dal polline d'oro, brilla alla luce del mare. E l'unico immenso fiore verde. Il verde monumento dell'onda.
I contadini e i pescatori del mio paese hanno dimenticato da tempo il nome delle pianticelle, dei fiorellini che non hanno nome. Con il passare del tempo li hanno dimenticati, e contemporaneamente i fiori hanno perso il loro orgoglio. Sono rimasti
mescolati e oscuri, come i sassi che i fiumi trascinala dalla neve delle Ande fino a sconosciuti litorali.
Contadini e pescatori, minatori e contrabbandieri, si sono dedicati alla loro asprezza, alla continua morte e risurrezione dei loro doveri e delle loro sconfitte. È difficile essere eroi di territori non ancora scoperti: la verità è che in loro, nella loro povertà, splende solo il sangue anonimo e sbocciano i fiori il cui nome nessuno conosce.
Tra questi fiori ce n'è uno che ha invaso la mia casa. È un fiore blu dallo stelo lungo e orgoglioso. Il gambo è florido e resistente. Alla sua estremità oscillano i multipli fiorellini infracelesti. Non so se a tutti sia concesso di contemplare il blu più eccelso. Che sia rivelato solo a pochi e resti precluso, invisibile, a certi altri umani cui un qualche dio blu
ne proibirà la vista? O sarà la mia gioia, nutrita di solitudine e trasformata in orgoglio nel trovare questo blu, questa spiga azzurra, questo fuoco azzurro, nella primavera abbandonata?
Parlerò infine delle docas. Non so se esistono altrove queste piante, moltiplicate per mille, che trascinano sulla sabbia le loro dita triangolari. La primavera ha riempito queste mani cadute di insoliti anelli color amaranto. Le docas hanno un nome greco: aizoaceae. Lo splendore di Isla Negra in questi giorni tardivi di primavera sono le aizoaceae che tracimano un'invasione marina, come l'emanazione della grotta del mare, dei grappoli accumulati nella sua stiva da Nettuno Marinaio.
E proprio in questo istante, la radio ci annuncia che un bravo poeta greco ha ottenuto il famoso Premio. Adesso Matilde e io siamo in silenzio. Togliamo con solennità il grande lucchetto dal vecchio portone perché tutti continuino a entrare senza bussare alla porta di casa mia, senza annunciarsi. Come la primavera.
* L Arauco è il nome con cui si designava il territorio degli araucani, indios cileni di lingua mapuche la cui civiltà venne travolta dalle armi dei conquistadores spagnoli, come si legge nel celebre poema epico La Araucana di Alonso de Ercilla, (1553-1594), poeta spagnolo che partecipò alla conquista del Cile. (N.d.T.)
GLI SCOGLI
Scogli, massi, rupi... Forse sono frammenti dell'esplosione. O stalagmiti sprofondate o frammenti ostili della luna piena o quarzo che cambiò d'uso o statue che il tempo e il vento frantumarono e impastarono o polene di navi immobili o giganti morti che si trasformarono o tartarughe d'oro o stelle prigioniere o mareggiate dense come lava che all'improvviso si arrestarono o sogni della terra di prima o verruche di un altro pianeta o scintillii di granito che si fissarono o pane per antenati furiosi o ossa ossidate di un'altra terra o nemici del mare nei suoi bastioni o semplicemente pietra rugosa, scintillante, grigia, pura e pesante, per costruirci, con il ferro e il legno, una casa nella sabbia.
LA CASA
La casa... Non so quando nacque... Era metà pomeriggio, e arrivammo a cavallo in quelle lande deserte... Don Eladio era davanti, guadando l'estuario del Córdoba che era cresciuto... Per la prima volta sentii come una fitta l'odore d'inverno marino, miscuglio di boldo e sabbia salata, alghe e cardi.
DON ELADIO
Qui, disse don Eladio Sobrino (navigatore) e lì scendemmo. Poi la casa cominciò a crescere, come le persone, come gli alberi. Don Eladio più tardi morì. Aveva parecchi anni ed era infaticabile e allegro. Era andaluso, il capitano Sobrino. L'ultima volta che venne a trovarci cantò per tutta la sera antiche canzoni di montagna e di mare. Lo stesso giorno che smise di cantare e di navigare per sempre io salii sulla scala e nella grande goletta appesa sul camino scrissi il suo nome in maiuscolo. Così adesso si chiama 'Don Eladio' l'imbarcazione che fecero per me a Veracruz i marinai emigrati del 'Manuel Arnús'.
(La grande imbarcazione era ormeggiata alla riva, e ondeggiava delle loro magliette, delle lenzuola e dei mutandoni.
L'equipaggio mi riconobbe. M'invitò a partecipare delle sue poche cose. E poiché cantammo e bevemmo insieme, gli andalusi mi costruirono pazientemente questo modellino. «Uguale alle navi che escono dal porto di Santa Maria», mi spiegarono).
Sul camino di pietra di Isla Negra naviga la 'Don Eladio'. Come l'ho battezzata bene!
LA GENTE
Quando anni dopo è intervenuto German, l'architetto, ha dovuto mettersi d'accordo con il capomastro don AIejandro. Bisogna vederle, le sue mani. Non c'è pietra che gli resista. Né chiodo, vite, graffa, sega, martello, perno o bottiglia. Non c'è scalpellino, muratore, falegname, o meraviglioso bevitore di vino rosso che regga il confronto con
lui, il capomastro. Su queste sponde, mare infinito (che lui non guarda), lavoro e vino.
German ha visto come don Alejandro alzava una di queste pietre pesanti e squadrate, la guardava in controluce e in un attimo le tagliava uno spigolo. La pietra scintillava. E poi veniva murata insieme al cemento. La casa così è stata come un grappolo d'uva di granito, che graniva nelle mani terribili di mastro García.
German e io lo cercavamo in alto, tra i travi, per cambiarlo e per imparare meglio,
Non c'era nessuno.
È sparito con i suoi apprendisti. Non poteva essere, era solo giovedì. Ma forse il vento dell'Oceania che arriva ogni tanto sulla costa verso sera, aveva trovato i muratori e il giovedì, lassù, sull'architrave. Allora erano scesi o avevano portato su il vino che era più a portata di mano, quello di Fiorencio, e per tre giorni i martelli e i magli sono rimasti sulla sabbia. Ma, attenzione! Eccoli di nuovo lassù, a lavorare come tremendi, precisi titani. Ci sono ancora.
E don Alejandro García soppesa il sampietrino, taglia l'uva di granito, e fa crescere la mia casa quasi fosse un alberello di pietra, piantato e innalzato dalle sue due grandi mani scure.
LA GENTE
Così come io mi sono sempre ritenuto un poeta falegname, penso che Rafita sia un poeta della falegnameria. Porta i suoi attrezzi avvolti in un giornale, sotto il braccio, srotola quello che mi sembrava un capitolo e prende i manici consumati di martelli e scuffine, perdendosi poi nel legno. Le sue opere sono perfette. Il ragazzine e il cane lo accompagnano e guardano le sue mani che si muovono prolisse. Lui ha gli occhi di un San Giovanni della Croce e mani che sanno alzare tronchi colossali con la stessa dose di fragilità e saggezza.
Ho scritto con il gesso i nomi dei miei amici morti sui travi di raulí * e lui ha inciso la mia calligrafia nel legno con rapidità, come se mi stesse svolazzando dietro e riscrivesse i nomi con la punta di un'ala.
* Nothofagus procera, albero delle Ande del Sud appartenente alla famiglia delle fagacee il cui legno si utilizza nell'edilizia e nella falegnameria. (N.d.T.)
I NOMI
Non li ho scritti sul soffitto perché grandi ma perché amici.
Rojas Giménez, il transumante, il notturno, trafitto dagli addii, morto di felicità, allevatore di colombi, amante dell'ombra.
Joaquin Cifuentes, le cui terzine rotolavano come ciottoli di fiume.
Federico, che mi faceva ridere come nessun altro e per cui tutti noi dovremo portare il lutto per un secolo.
Paul Éluard, i cui occhi del color del nontiscordardimé ho come la sensazione che siano rimasti azzurri, con tutta la loro forza azzurra intatta, anche sottoterra.
Miguel Hernández, che fa il verso dell'usignolo dagli alberi di calle Princesa prima che le galere imprigionassero il mio usignolo.
Nazim, aedo rumoroso, gentiluomo coraggioso, compagno.
Perché se ne sono andati così presto? I loro nomi non scivoleranno via dai travi. Ciascuno di loro è stato una vittoria. Insieme sono stati per me tutta la luce. Adesso, una piccola antologia delle mie pene.
DENTE DI CAPODOGLIO
Dal mare giunse un giorno
stillando
esistenza,
sangue, sale, ombra verde,
onda che insanguinò la battuta di pesca,
spuma accoltellata
dalla forma erotica
del suo possessore:
ballo
degli oscuri,
tesi,
monasteriali
capodogli
nel Sud dell'oceano
del Cile.
Alto
mare
e marea,
latitudini
del più lontano
freddo:
l'aria
è una
coppa
di
chiarore gelato
in cui
corrono
le ali
dell'albatro
come sci del cielo.
Sotto,
il mare
è una
torre
franata e ricostruita,
un catino in cui bollono
grandi onde di piombo,
alghe che sopra
il dorso delle acque
scivolano
come brividi.
All'improvviso sopraggiungono
la bocca
della vita
e della morte:
la volta
del semisommerso
capodoglio,
il cranio
delle profondità,
la cupola
che
sopra
l'onda eleva
il suo morso,
tutta
la sua
segheria sottomarina.
S'incendiano, scintillano
le braci di avorio,
l'acqua
inonda
quel sorriso atroce,
mare e morte navigano
accanto
al vascello nero che socchiude
come una cattedrale i suoi denti.
E quando ormai la coda
infuriata
cadde come una palma
sull'acqua,
l'animale
uscito dall'abisso
ricevette
la scintilla
dell'uomo piccolino
(l'arpione
diretto
dalla mano bagnata
del cileno).
Quando
ritornò
dai
mari,
dalla sua giornata sanguinaria,
il marinaio
in uno
dei denti
della bestia
incise con il suo coltello
due ritratti; una
donna e un uomo
che si congedavano,
un navigante
dall'amore
ferito,
una fidanzata sulla prua
dell'assenza.
Quante
volte toccò il mio cuore, la mia mano,
quella
luna
di miele
marina
disegnata
nel dente.
Come amai
la corolla
del
doloroso
amore
scritta
in avorio
di balena
carnivora,
di capodoglio folle.
Soave
linea
del
bacio
fuggitivo,
pennello
di fiore marino
tatuato
nel muso
dell'onda,
nella fauce terribile
dell'oceano,
nella scimitarra
scatenata
dalle tenebre:
lì
stampato
il canto
di
amore errante,
il congedo
delle
zagare,
la nebbia,
la luce
di quella
alba
bagnata
dalle lacrime burrascose
dell’aurora baleniera.
Oh, amore,
lì
alle labbra
del mare,
adattato
a
un
dente
dell’onda,
con il
rumore
di
un
petalo
generico
(sussurro di ala rotta
tra l'intenso
odore
dei gelsomini),
(amore
di hotel
socchiuso, oscuro,
con edere arrampicate
sul tramonto),
(e un bacio
duro come
pietra che colpisce)
poi
tra bocca e bocca
il mare
eterno,
l'arcipelago,
la collana delle
isole
e le navi
assediate
da! freddo,
in attesa
dell'animale azzurro
delle profondità
australiane
dell'oceano,
l'animale nato
dal diluvio
con la sua ferramenta
di zaffiri.
Ora riposa qui
sulla mia tavola e davanti
alle acque di marzo.
Ormai torna
al grembo sabbioso della costa,
il vapore dell'autunno, la lampada
perduta,
il cuore della nebbia.
E il dente della bestia,
tatuato dalle dita delicate
dell'amore,
è la minuscola nave
di avorio che ritorna.
Ormai le vite
dell'uomo e i suoi amori,
il suo arpione sanguinante, tutto
quel che fu carne e sale, aroma e oro,
per lo sconosciuto marinaio
nel mare della morte divenne polvere.
E della sua vita solo
il disegno rimase
fatto
per amore
nel dente terribile
e il mare, il mare
che pulsa,
uguale a ieri, aprendo
il suo ventaglio di ferro,
sciogliendo e legando
la rosa sommersa
della sua schiuma,
la sfida
del suo viavai eterno.
LA MEDUSA I
Mi nascosero a Valparaíso. Erano giorni turbolenti e la mia poesia camminava per strada. La qual cosa disturbò il Sinistro. Chiese la mia testa.
Ero sui pendii del Porto. I ragazzi venivano verso sera. Marinai senza nave. Cosa videro nella rada? Mi racconteranno tutto.
Perché io, dal mio nascondiglio, potevo guardare solo attraverso il mezzo vetro dell'altissima finestra. Dava su un vicolo, laggiù.
La notizia era che stavano demolendo una vecchia nave. Non avrà una polena?, chiesi con ansia.
Certo che ha una pupa, mi dissero i ragazzi. Pupa o pupo è per i cileni la denominazione generica per indicare una statua.
Da quel momento diressi i lavori nell'ombra. Siccome era molto faticoso schiodarla, l'avrebbero data a chiunque l'avesse presa.
Ma la Polena doveva seguire il mio destino. Era grandissima e bisognava nasconderla. Dove? Alla fine i ragazzi trovarono un capanno anonimo e grande. Lì venne sepolta in un angolo mentre io attraversavo a cavallo la cordigliera.
Quando tornai dall'esilio, anni dopo, avevano venduto il capanno (probabilmente con la mia amica), La cercammo. Si stagliava onestamente, in un giardino dell'entroterra. Ormai nessuno sapeva più di chi era né chi era.
Ci costò tanta fatica portarla via dal giardino come dal mare. Solimano me la portò una mattina con un camion immenso. La caricammo a fatica e la lasciammo inclinata davanti all'oceano sul bagnasciuga, su una panca di pietra.
Io non la conoscevo. Tutte le operazioni per recuperarla dalla nave le avevo guidate dall'oscurità. Poi ci aveva separato la violenza, e in seguito la terra.
Infine la vidi, coperta da tante mani di vernice che non le si vedevano più né le orecchie né il naso. Era, comunque, maestosa nella sua tunica svolazzante. Mi ricordò Gabriela Mistral, quando, da bambino, la conobbi a Temuco, che passeggiava, vestita, dallo chignon agli scarponi, in abiti francescani.
LA MEDUSA II
'La Medusa' rimase dunque con gli occhi rivolti al nordest e il grande corpo si sistemò come se fosse nella sua prua, proteso verso l'oceano. In questa bella posa la ritrassero i turisti estivi e in qualche modo riusciva spesso a far sì che un uccello le si posasse sulla testa, un piccolo gabbiano errante, una tortora di passaggio. Noi della casa ci abituammo tutti, anche Homero Arce, a cui dettai parecchie volte le mie righe sotto la fronte cinerea della statua.
Poi cominciarono le candele. Trovammo le beghine del borgo inginocchiate, a pregare alla polena avventurosa. E la sera le accendevano candele che il vento, vecchio conoscitore di santi, spegneva indifferente.
Era troppo: dalla baia di Valparaíso, sempre in compagnia di marinai e scaricatori, vivendo in clandestinità nel sotterraneo politico della patria era diventata Pomona di Giardino, sacerdotessa sonora e, adesso, santissima settaria. E visto che di tutto quello che succede in Cile vengo incolpato io, a questo punto mi avrebbero attribuito la nascita di una nuova eresia.
Dissuademmo, io e Matilde, le devote, raccontando loro la storia segreta della donna di legno, e le convincemmo a smettere di accenderle candele che oltretutto avrebbero potuto incendiare la peccatrice.
Ma alla fine contro i pericoli della pece che sporca, delle fiamme che inceneriscono e della pioggia che fa marcire, portammo dentro la Medusa. La sistemammo nel coro delle polene.
Ebbe nuova vita. Perché, nell'estrarla, con Io scalpello e la sgorbia rimuovemmo uno strato di pittura spessa e grossolana che la nascondeva e trnò a esibire il suo profilo deciso, le sue orecchie squisite, un medaglione che non le avevamo mai notato prima e una chioma selvaggia che le copre la testa chiara come le fronde di un albero pietrificato
che ancora ricorda gli uccelli che l'abitavano.
L ARMATORE
Non sapevano che era una polena, tanto si era allontanato dall'originario bompresso. Perché in Venezuela mi dissero che aveva l'unto da busto monumentale di Padre della Patria. Poi aveva girato per i cortili di una scuola, fulcro di marachelle e
bersaglio di schiamazzi.
Appena lo vidi, assorto e smarrito nell'iconografia, ne compresi immediatamente le origini marinaie. II fregio dell'onda non lasciava alcun dubbio, quella voluta dell'acqua che l'artigiano ha sempre lasciato sulla riva del conduttore della prua. Anche il mare e una sassata scolastica, con tanto di rottura di naso, aveva enfatizzato l'aria romantica di quella
faccia che ricordava tanto Puskin. A metà strada tra l'eroe e il poeta, non poteva che essere un armatore, il costruttore di navi scolpito Iì dalla sua stessa impresa e poi aureolato dal lampo.
I poeti riuniti a Caracas me lo consegnarono con una cerimonia che ricordo perché tintinnavano i bicchieri e la poesia venezuelana riempiva di stelle la notte del giardino.
CERIMONIA
Nel 1847 un'imbarcazione nordamericana, il clipper 'Cymbelina' dovette far scalo in una caletta senza nome del Nord del Cile. Una volta lì, gli uomini del mare procedettero alla rimozione della polena. La statua bianca e dorata sembrava una giovane sposa con indosso un vestito elisabettiano. Il volto della fanciulla di legno colpiva per la sua bellezza straziante. I marinai del 'Cymbelina' si erano ammutinati. Sostenevano che la statua di prua muoveva gli occhi durante il viaggio, facendo perdere la rotta e terrorizzando l'equipaggio.
Non è facile detronizzare la rettrice di una vecchia nave di ferro. Tuttavia, in preda a quel terrore sacro, i marinai segarono il potente perno che la fissava al bompresso, tagliarono i chiodi e le viti finché riuscirono, non senza un certo timore o rispetto, a smontarla e a metterla su una lancia a bordo della quale raggiunsero la spiaggia.
Il mare era mosso, in quel giorno di luglio. Era pieno inverno e una pioggia grave e lentissima, strana per quella regione desertica, cadeva sul mondo.
I sette uomini a bordo si caricarono sulle spalle la fanciulla di legno insolitamente separata dalla sua nave. Poi scavarono una fossa nella sabbia. I cormorani, uccelli stercorari della costa, volarono in cerchio, gracchiarono e strillarono per tutta la durata dell'inquietante funzione. La distesero per terra, la coprirono con la sabbia salnitrosa del deserto. Non si sa se qualcuno dei seppellitori volle pregare o sentì una repentina punta di rimorso e tristezza. La garuga, lenta pioggia del nord che oscilla tra la nebbia e la fantasmagoria, coprì di colpo la riva del mare, gli scogli gialli e la scialuppa che nel grande silenzio riportò gli uomini di mare al veliero 'Cymbelina' in quella mattina del luglio del 1847.
IL GRANDE CAPO COMANCHE
Non so come abbiano fatto a entrare la sua statura colossale e la faretra minacciosa. È arrivato qui e troneggia per le sue piume, per l'indomabile profilo, per la durezza di sequoia rossa resistita al ferreo moto ondoso.
II pellerossa di una baleniera, del Massachusetts, come quello che probabilmente guidava la nave del giovane Meiville per i porti peruviani e cileni. Perché si sa che questa era la figura preferita dai cacciatori di balene. E gli artigiani di Nantucket la scolpirono più d'una volta. Quando con l'avvento del vapore furono dimenticati i velieri, i vecchi artigiani continuarono a scolpire questo pellerossa, adattandolo alle insegne di farmacie e tabaccherie. (Quelle 'Farmacie dell'Indiano' che profumavano di centinaia di radici quando lo speziale preparava unguenti e cachet con mortai e scrupolo!).
Di sicuro non ha mai rinunciato al suo cipiglio: e con il suo arco, la sua ascia, il suo coltello e la sua posa è l'eroe coraggioso tra le mie disarmate fanciulle del mare. Né Buffalo Bill con le sue bordare di polvere né l'oceano pieno di mostri recalcitranti sono riusciti a scalfirne l'autorità. È qui, ancora intatto e duro.
LA SIRENA
Fu nell'estremo Sud, dove il Cile si sgrana e si sfilaccia. Gli arcipelaghi, i canali, il territorio frammentato, i cicloni della Patagonia, e poi il Mare Antartico.
È lì che la trovai; appesa a una chiatta putrida, sporca, coperta di fuliggine. Ed era patetica quella divinità sotto la pioggia fredda, laggiù alla fine del mondo.
Sotto la pioggia la liberammo dal territorio australe. Appena in tempo, perché un anno dopo la chiatta, a seguito di un maremoto, andò a picco o all'inferno stesso. Quella, quando era nave, si chiamava Sirena. Per questo lei conserva il suo nome di Sirena. Sirena di Glasgow. Non è troppo vecchia. Uscì dal cantiere navale nel 1886. E finì a trasportare carbone tra le navi dei Sud.
E tuttavia, quanta vita e quanto oceano, quanto tempo e quanta fatica, quante onde e quanti morti per arrivare all'abbandonato porto del maremoto! E, allo stesso tempo, alla mia vita.
LA MARÍA CELESTE
AIain e io la riscattammo dal mercato delle Pulci dove giaceva sotto sette strati di oblio. In realtà non fu Facile notarla tra letti smontati, ferri piegati. La portammo via sulla macchina di AIain, sul portapacchi, legata, e poi in una cassa, con grande ritardo, arrivò a Puerto San Antonio. Solimano la recuperò alla dogana, invitta, e me la portò fino a lsla Negra.
Io però l'avevo dimenticata. O forse avevo conservato il ricordo di quell'apparizione polverosa tra la ferraille. Solo quando aprirono la piccola cassa avvertimmo lo stupore della sua imponderabile presenza.
Era fatta di legno scuro e così perfettamente dolce! Se la porta il vento che le solleva la tunica! E tra la gioventù del suo seno una spilla le chiude la scollatura. Ha due occhi ansiosi e la testa che si staglia contro il vento. Durante il lungo inverno di Isla Negra alcune lacrime misteriose scendono dai suoi occhi di cristallo e si fermano sulle sue guance, senza cadere. L'umidità condensata, dicono gli scettici. Un miracolo, dico io, con rispetto. Non le asciugo le lacrime, che non sono molte, ma che brillano come topazi sul suo viso. Non gliele asciugo perché mi sono ormai abituato al suo pianto, così discreto e casto, quasi volesse passare inosservato. E poi passano i mesi freddi, torna il sole, e il viso dolce di María Celeste sorride dolce come la primavera.
Ma, perché piange?
LA SPOSA
È la più amata perché più affranta,
L'intemperie le ha crEpato la pelle in frammenti o croste o petali. Le ha riempito di rughe il volto. Le ha rotto mani. Le ha frantumato le spalle rotonde e carezzate. Accarezzate dalla burrasca e dal viaggio.
Sembra quasi spruzzata da mille schiume. Il suo viso nobile e rugoso è diventato una maschera d'argento osteggiala e bruciata dalla tempesta glaciale. Il raccoglimento l'ha avvolta in una rete di cenere, in uno sciame di nebbie.
LA CYMBELINA
O promessa Cymbelina, pura tra le pure, dolce tra le dolci! Oh tu, fanciulla con la mantiglia e con il naso rotto! Oh sogno della nave turbolenta, rosa di sale, arancia chiara, ninfea!
Quando mi portarono in quella casa dove nessuno mi aspettava, qualcosa mi fece girare per guardare nell'abitazione deserta dalla serratura. E lì, attraverso il buco, incrociai per la prima volta il tuo profilo errante. Giurai che saresti tornata al mare, al mare di Isla Negra.
Girai attorno alla casa, espulso dal proprietario feudale come se fossi stato un malfattore. Lui fece ricorso all'astuzia e alla forza. Le mie lettere d'amore vennero respinte al mittente, i regali con cui cercai di corrompere l'egoista vennero rifiutati.
I miei amati seguaci Pedregala e Matazán lo assediarono, entrarono a saccheggiare la casa, fecero a pezzi sentinelle, polverizzarono vetrine e a suon di artiglieria e bestemmie liberarono la candida Cymbelina. Quelle imprese si narrano ancora nelle cantine di Valparaíso,
Guardala, prima che la luce o la notte se la prenDano. Marinaia del cielo, non si è ancora abituata alla terra. In secoli di viaggi ha perso frammenti, ricevuto colpi, accumulato crepe, ed è sopravvissuta fragrante. L'età marina, i trascorsi, la solitudine
stellala, le onde brusche, i combattimenti acerrimi, le hanno dato uno sguardo smarrito, un cuore senza ricordi. È pura notte, pura distanza, pura rosa e chiarore sereno, virtù celeste.
Non si può mai sapere se spiccherà il volo o si metterà a navigare, senza preavviso, circolando nella sua notte o sulla sua nave, stampata come una colomba ne! vento.
(Nota: Ho scoperto nel frattempo che era lei, Cymbelina, quella che faceva cambiare la rotta alle navi. Era lei quella sepolta nella sabbia),
LA BELLA
Non soltanto si chiamò 'La Bella' la barcaccia ma, ormai smantellata, sbattuta dalie raffiche di vento dello Stretto, venne lasciata, sempre bella, in balia delle burrasche e delle disgrazie. Le costole dello scafo ressero per anni dopo il naufragio, ma la Statua di Prua cadde a pezzi. Le grandi onde la aggredirono e le vesti si persero, le braccia e le dita vennero strappate finché, per miracolo, non restò che la testa solitaria, come impalata, nell'ultimo orgoglio della prua.
Lì, in un mezzogiorno pacifico, la trovarono mani rapaci. E così passò di mano in mano.
Ma su quel viso non era passato niente. Né la guerra del mare, né il naufragio, né la solitudine tempestosa dello stretto di Magellano, né la burrasca che morde con denti di neve. No.
Rimase con la faccia imperterrita, con i lineamenti di bambola, senza cuore.
Ne fecero una lampada da ingresso, e la trovai la prima volta sotto un orribile paralume di rayon, con lo stesso sorriso di chi non capisce la disgrazia. Aveva persino un orecchio, sopravvissuto alla tempesta, bruciacchiato sul lobo dalla corrente elettrica. Pieno d'ira, le feci volare via il cappello economico che sembrava piacerle, la liberai dalla sua vergognosa elettrificazione perché continuasse a guardarmi come se non fosse mai successo niente, bella come prima di naufragare nel mare e negli ingressi.
LA MICAELA
L'ultima ad arrivare a casa mia (1964) fu la Micaela.
È corpulenta, sicura di sé, con braccia colossali. Dopo le traversate, faceva bella mostra di sé in un giardino, tra le fattorie. Lì perse la sua natura navigante, si spogliò del mistero che doveva avere di sicuro (per averlo preso dai moli) e diventò puramente terrestre, polena agricola. Sembra portare tra le braccia alzate, non il regalo del crepuscolo marino, ma una bracciata di mele e cavoli. È silvestre.
LA BANDIERA
La mia bandiera è blu e ha un pesce orizzontale chiuso o schiuso ira due cerchi armillari. D'inverno, quando c'è molto vento e non si vede nessuno in questi luoghi impervi, mi piace sentire la bandiera che schiocca e vedere il pesce che naviga nel cielo quasi fosse vivo.
E perché proprio il pesce, mi chiedono. È mistico? Sì, gli rispondo, è il simbolo ittico, il precristiano, il cisternario, il lucicratico, la frittura, il vero, il fritto, il pesce fritto.
«Tutto qui?».
«Tutto qui».
Ma nell'alto inverno, lassù, sventola la bandiera con il pesce nell'aria che trema di freddo, di vento, di cielo.
L'ANCORA
L'ancora giunse da Antofagasta. Doveva appartenere a una nave molto grande, di quelle che caricavano il salnitro destinato a tutti i mari. Era lì che dormiva negli aridi arenili del grande Nord. Un giorno qualcuno pensò di mandarmela. Data la grandezza e il peso, il suo fu un viaggio difficile, da camion a gru, da nave a treno, porto, ennesima nave. quando giunse davanti alla mia porta non volle più muoversi di lì. Portarono un trattore. L'ancora non si arrese. Portarono quattro buoi. Questi la trascinarono in una breve corsa frenetica, e allora sì che si mosse, per poi incagliarsi piegata tra le piante della sabbia.
«La dipingerai? Si sta ossidando».
Non importa. È possente e silenziosa come se fosse ancora sulla sua nave e non l'arrochisse il vento corrosivo. Mi piace la scoria che la sta ricoprendo di infinite squame di ferro arancione.
Ognuno invecchia a modo suo e l'ancora si aggrappa alla solitudine come alla sua nave, con dignità. Le si nota appena nei bracci il ferro sfogliato.
IL LOCOMOTORE
Così potente, e granario e procreatore e fischiatore e mugghiante e rimbombante! Trebbiò cereali, sollevò segatura, abbatté boschi, segò traversine, tagliò assi, sbuffò fumo, grasso, fiamme, fuoco, emettendo fischi che facevano rabbrividire le praterie.
L'amo perché assomiglia a Walt Whitman.
AMORE PER QUESTO LIBRO
In queste terre deserte sono stato potente
proprio come un attrezzo allegro
o come l'erba impune che mette le spighe
o come un cane che si rotola nella rugiada.
Matilde, il tempo passerà consumando e bruciando
altra pelle, altre unghie, altri occhi, e allora
l'alga che sferzava le nostre pietre indomite,
l'onda che costruisce, senza tregua, la sua bianchezza,
tutto sarà concreto senza di noi,
tutto sarà pronto per i nuovi giorni
che non conosceranno il nostro destino.
Cosa lasciamo qui se non il grido smarrito
del queltehue *, nella sabbia dell'inverno, nella raffica
che ci sferzò la faccia e ci mantenne
eretti nella luce della purezza
come nel cuore di una stella preclara?
Cosa lasciamo vivendo come un nido
di uccelli stridenti, vivi, tra i cespugli
o estatici, su rupi fredde?
Così, dunque, se vivere è stato solo arrivare prima
alla terra, a questo suolo e alla sua asprezza,
liberami tu, amore mio, dalla mia inadempienza, e aiutami
a tornare al mio posto sotto la terra affamata.
Abbiamo chiesto all'oceano il suo rosa,
la sua stella aperta, il suo contatto amaro,
e allo stanco, all'essere umano, al ferito
abbiamo dato la libertà raccolta nel vento.
Adesso è tardi. Forse
è stato solo un lungo giorno del colore del miele e blu,
forse solo una notte, come la palpebra
di un grande occhio che ha abbracciato
la misura del mare che ci circondava,
e in questa terra abbiamo fondato solo un bacio,
solo amore inafferrabile che resterà qui
a vagare tra la schiuma del mare e le radici.
* Pavoncelle, vanellus chilensis. (N.d.T.)
IL MARE
II mare riecheggia come un'antica battaglia. Cosa trasporta li sotto? Pomodori, barili, tonnellate di tuoni, torri e tamburi. Quando scuote le sue ferramenta, la mia casa trema. La notte si agita, il suono raggiunge un oscuro parossismo in cui non capiamo più niente, nel dormiveglia, nelle brume dell'apogeo tempestoso, svegliandoci nel momento
sbagliato quando ormai la sferzata di quell'onda gigante si è dispersa sulla sabbia ed è diventata silenzio.
IL MARE
La cosa inquietante è la grande pancia blu, gravida e grave, che si dondola, lenta, che non viene e non va, che non attacca e non minaccia.
Cosa nascerà?, chiede l’uomo alla tranquillità perfetta. E a poco a poco si dondola e si addormenta, infilandosi ancora una volta nella terribile culla.
IL MARE
Mi circonda il mare, mi invade il mare: siamo salmastri, tavola mia, pantaloni miei, anima mia: diventiamo sale. Non sappiamo cosa fare nelle strade, tra la gente frettolosa, nelle farmacie, al ballo, perdiamo l'abitudine, le parole chiave per acquistare e vendere. La nostra mercanzia erano alghe lucenti, serpentine o fogliacee, petali iodati, frutti di mare sanguinanti. Il sale della schiuma ci ha sferzato tanto, il sale dell'aria ci ha impregnato come se fossimo una casa perduta, finché non è circolata solo salamoia nelle stanze.
IL MARE
II sale delle sette leghe, il sale orizzontale, il sale cristallino del rettangolo, il sale burrascoso, il sale dei sette mari, il sale.
IL MARE
Questo recinto, questa porta sull'infinito, e perché?
Abbiamo ereditato i recinti, i lucchetti, i muri, le prigioni.
Abbiamo ereditato i limiti. E perché?
Perché al momento di venire al mondo non abbiamo rifiutato tutto quello che ci concedevano e non capivamo? È che dovevamo essere d'accordo ancora prima di essere. Dopo che si è e si sa, si impara a recintare e a chiudere. Il nostro misero contributo al mondo è un mondo più stretto.
IL MARE
Questo povero recinto è stato costruito solo perché i miei due cani - Panda e Yufù - non scappassero e uccidessero le pecore nelle terre dei sacerdoti. Questi ultimi hanno delle greggi qui vicino, a Punta de Tralca, vicino allo scoglio più alto della costa. I miei cani ancestrali hanno scoperto le pecore e la cosa ci è parsa pericolosa e selvaggia.
Adesso le erbe della riva, nutrite di rugiada salata, si arrampicano ai vecchi bastoni, gli stessi che sbiancavano come ossi di balena e si sfiancavano ai colpi del vento ferreo. Non serve a niente il vecchio recinto. Da questo lato i miei occhi si aprono verso l'infinito che ci circonda.
IL MARE
Oltre a queste mutili sbarre, il mare che davvero non sa di essere circoscritto, e non lo ammette, canta. Il suo impeto è amaro, il suo canto è fragore. La sua schiuma rivoluzionaria mi racconta ed esplode, mi racconta e crolla, mi chiama e se n'è già andata.
IL MARE
Canta e picchia il mare, non è d'accordo. Non legatelo. Non rinchiudetelo. Sta ancora nascendo. Esplode l'acqua sulla pietra e si aprono per la prima volta i suoi occhi infiniti. Ma si chiudono di nuovo, non per morire, ma per continuare a nascere.