- 1964 - Memoriale di Isla Negra
MEMORIALE DI ISLA NEGRA (1964)
I - DOVE NASCE LA PIOGGIA
NASCITA
Un uomo nacque
tra tanti
che son miti,
visse tra i tanti uomini
vissuti;
ciò non ha storia,
ma terra,
terra centrale del Cile, dove
le vigne incresparono la loro chioma verde,
l'uva si alimenta della luce,
il vino nasce dai piedi del popolo.
Parral sì chiama il luogo
di colui che nacque
d'inverno.
Ormai più non esiste
la casa né la strada:
la cordigliera sciolse
i suoi cavalli,
s'accumulò
il potere
profondo,
saltaron le montagne
e il villaggio cadde
avvolto dal terremoto.
Così muri di fango,
ritratti alle pareti,
mobili sconnessi
in sale oscure,
silenzio interrotto dalle mosche,
tutto tornò
a esser polvere:
solo pochi conservammo
forma e sangue,.
solo pochi, e il vino.
Il vino continuò a vivere,
salendo fino all'uva
sgranata
dell'autunno
errante,
scese in sordi frantoi,
in barili
che si tinsero del suo dolce sangue,
e lì sotto il terrore
della terra terribile
continuò nudo e vivo.
Io non ricordo
paesaggio né tempo,
volti, né figure.
ma solo polvere impalpabile,
la coda dell'estate
e il cimitero dove
mi portarono
a veder tra le tombe
il sonno di mia madre.
E poiché mai avevo visto
il suo volto,
la chiamai tra i morti, per vederla,
ma, come gli altri sepolti,
non sa, non ode, non rispose nulla,
e lì rimase sola, senza il figlio,
scontrosa ed evasiva
tra le ombre.
Io son di lì, di quel
Parral di terra tremolante,
terra carica d'uva
che nacque
da mia madre morta.
PRIMO VIAGGIO
Non so quando arrivammo a Temuco.
Bisognò nascere e fu tardo
nascer davvero, lento,
palpare, conoscere, odiare, amare;
tutto questo ha fiori e spine.
Dal seno polveroso della mia patria
mi condussero senza parola
fino alla pioggia dell'Araucania.
I legni della casa
odoravan di bosco,
di selva pura.
Da allora il mio amore
tu legnaiolo
e ciò che tocco si converte in bosco.
Mi si confondono
gli occhi e le foglie
certe donne con la primavera
del nocciolo, l'uomo con l'albero,
amo il mondo del vento e del fogliame,
non distinguo tra labbra e radici.
Dall'ascia e dalla pioggia andò crescendo
la città, tutta legno
appena tagliato, come
nuova stella con gocce di resina,
e il saracco e la sega
si amavan notte e giorno,
cantando,
lavorando,
e quell'acuto suono di cicala
che innalzava un lamento
nell'ostinata oscurità, torna
al mio stesso canto:
il mio cuore taglia ancora il bosco,
canta con le seghe nella pioggia,
macina freddo, segatura e aroma.
LA MAMADRE
Di lì viene la mamadre,
con zoccoli di legno. lersera
soffiò il vento del Polo, si ruppero
i tetti, caddero
i muri e i ponti,
ululò la notte intera coi suoi puma,
e ora, nel mattino
di sole gelido, arriva
la mia mamadre. donna
Trinidad Marverde.
dolce come la timida freschezza
del sole nelle regioni tempestose,
piccola lampada
sottile, che si spegne,
s'accende,
perché tutti vedano la strada.
Oh dolce mamadre
— mai ho potuto
dire matrigna —
ora
la mia bocca trema per definirti,
perché appena
aprii l'intendimento
vidi la bontà vestita di povero cencio oscuro,
la santità più sottile:
quella dell'acqua e della farina,
e questo fosti: la vita ti fece pane
e lì ti consumammo,
da lungo inverno a inverno desolato
con gocciolature dentro.
nella casa,
e la tua onnipresente umiltà
che sgranava
l'aspro
cereale della povertà
come se fossi andata
ripartendo
un fiume di diamanti.
Ahi, mamma, come ho potuto
vivere senza ricordarti
ogni minuto mio?
Non e possibile. Io reco
il tuo Marverde nel sangue,
il cognome
del pane che si riparte,
di quelle
dolci mani
che tagliarono dal sacco della farina
i calzoncini della mia infanzia,
di colei che cucinò, stirò, lavò,
seminò, calmò la febbre,
e quando tutto fu fatto
e ormai potevo
tenermi ritto con piedi sicuri,
se n'andò, compita, oscura,
alla piccola bara
dove rimase per la prima volta in ozio
sotto la dura pioggia di Temuco.
IL PADRE
II padre brusco, torna
dai suoi treni;
riconoscemmo
nella notte
il fischio
della locomotiva
che perforava la pioggia
con un errante ululato,
un notturno lamento,
poi
la porta che tremava:
il vento in una raffica
entrava con mio padre
e tra le due peste e pressioni
la casa
si scuoteva.
le porte spaventate
sbattevano con secco
sparo di pistole,
le scale gemevano
e un'alta voce
recriminava, ostile,
mentre l'ombra
tempestosa, la pioggia come cateratta
abbattutasi sui tetti
affogava a poco a poco
il mondo
e non s'udiva altro che il vento
in lotta con la pioggia.
Tuttavia egli era diurno.
Capitano del suo treno, dell'alba fredda,
appena spuntava
il vago sole, lì eran la sua barba,
le sue bandiere
verdi e rosse, pronti i fari,
il carbone della macchina nel suo inferno,
la Stazione con i treni nella bruma
e il suo dovere verso la geografia.
Il ferroviere è marinaio in terra
nei piccoli porti senza mare
— villaggi del bosco — il treno corre e corre
sfrenando la natura,
compiendo la sua navigazione terrestre.
Quando riposa il lungo treno
si riuniscono gli amici,
entrano, s'aprono le porte della mia infanzia,
la tavola si scuote
al colpo di una mano ferroviaria,
risuonano i grossi bicchieri del fratello
e luccica
il fulgore
degli occhi del vino.
IL mio povero padre, duro,
era lì, sull'asse della vita,
virile l'amicIzia, piena la coppa.
La sua vita fu una rapida milizia
e tra il suo albeggiare e le sue strade,
tra l'arrivare per partir correndo,
un giorno con più pioggia d'altri giorni
il conducente José del Carmen Reyes
salì sul treno della morte e ancor non torna.
IL PRIMO MARE
Scoprii il mare. Usciva da Carahue
il Cautín alla sua foce
e nelle navi a ruota incominciarono
sogni e vita a trattenermi,
a lasciare nelle mie ciglia la loro domanda.
Bimbo magro o uccello,
solitario scolaro o pesce cupo,
andavo solo sulla prua,
staccato
dalla felicità, mentre
il mondo
della piccola nave
mi ignorava
e dipanava il filo
delle fisarmoniche,
mangiavano e cantavano
passanti
dell'acqua e dell'estate;
io, sulla prua, piccolo,
inumano,
sperduto,
ancora senza ragione né canto,
né gioia.
preso dal movimento delle acque
che tra i monti andavano isolando
per me solo quelle solitudini,
per me solo quel cammino puro,
per me solo l'universo.
Ebbrezza dei fiumi.
rive di foreste e di fragranza,
pietra improvvisa, alberi bruciati,
e terra piena e sola.
Figlio di quei fiumi
mi mantenni
correndo per la terra,
per le stesse rive
verso la stessa schiuma
e quando il mar d'allora
si abbatté come torre ferita,
si sollevò increspato dalla sua furia,
uscì dalle radici,
mi s'ingrandì la patria,
si ruppe l'unità del legno;
la prigione dei boschi
aprì una porta verde
da cui l'onda entrò con il suo tuono
e la mia vira si distese
con un colpo di mare, nello spazio.
LA TERRA AUSTRALE
La gran frontiera.
Dal Bío Bío
a Reloncaví, passando
per
Renaico, Selva Oscura,
Pillanlelbum, Lautaro,
e più oltre le uova di pernice,
i densi muschi della selva,
le foglie nell'humus,
trasparenti
— solo nervature sottili —,
i ragni
dalla grigia chioma,
una biscia
come un brivido
attraversa il ruscello oscuro,
brilla
e scompare,
le scoperte
del bosco,
lo smarrirsi
sotto
la volta, la navata,
la tenebra del bosco,
senza rotta,
piccolissimo, carico d'animaletti,
di frutti, di penne,
vado perduto
nelle viscere
più oscure del verde:
fischiano uccelli glaciali,
un albero lascia cadere
qualcosa che vola e cade
sulla mia testa.
Son solo
nelle selve native,
nella profonda
e nera Araucania.
Vi sono ali
che tagliano con forbici il silenzio,
una goccia cade
pesante e fredda come
un ferro di cavallo.
Il bosco risuona e tace:
tace quando ascolto,
risuona quando m'addormento,
sotterro
i piedi stanchi
nel detrito
di vecchi fiori, nelle definizioni
di uccelli, di foglie e di frutti,
cieco, disperato,
finché brilla un punto:
è una casa.
Son vivo nuovamente
Ma solo da quel tempo,
dai passi perduti,
dall confusa solitudine, dalla paura,
dai rampicanti,
dal cataclisma verde, senza uscita,
sono tornato col segreto:
solo allora e lì potei apprenderlo;
sulla scoscesa riva della febbre,
lì, nella luce cupa.
si decise il mio patto
con la terra.
IL COLLEGIO D'INVERNO
Collegio e inverno sono due emisferi,
una sola mela fredda e lunga,
ma sotto le sale noi scoprimmo
sotterranei popolati di fantasmi,
e nel segreto del mondo
camminammo
con rispetto.
È l'ombra sotterrata,
le lotte senza oggetto
con spade di legno,
bande crepuscolari
armate di ghiande,
figli mascherati
dello scolastico sottosuolo.
Poi il fiume e il bosco, le susine
verdi, e Sandokan e Sandokana,
l'avventura con occhi di leopardo,
l'estate color frumento,
la luna piena di gelsomini,
e
tutto muta:
qualcosa rotolò dal cielo,
si staccò una stella
o palpitò la terra
sulla tua camicia,
qualcosa d'incredibile si mescolò alla tua argilla
e incominciò l'amore a divorarti.
IL SESSO
La porta nel crepuscolo,
d'estate.
Gli ultimi carretti
degli indios,
una luce indecisa
e il fumo
della selva bruciata
che giunge fino alle strade
con gli aromi rossi,
la cenere
dell'incendio lontano.
Io, a lutto,
severo,
assente,
con calzoni corti,
magre gambe,
ginocchia
e occhi che cercano
improvvisi tesori,
Rosita, Josefina
dall'altra parte
della strada,
tutte denti e occhi,
tutte luce e voce come piccole
chitarre nascoste
che mi chiamano.
Attraversai
la strada, il delirio,
timoroso,
e appena
giunsi
mi sussurrarono,
mi presero le mani,
mi chiusero gli occhi
e corsero con me,
con la mia innocenza,
alla Panetteria.
Silenzio di grandi tavole, grave
casa del pane, disabitata,
e lì le due
e io prigioniero
nelle mani di
Rosita la prima,
l'ultima Josefina.
Vollero
svestirmi;
fuggii, tremando,
e non potevo
correre, le mie gambe
non potevano
reggermi. Allora
le incantatrici
produssero
davanti ai miei occhi
un miracolo,
un minuscolo
nido
d'uccello selvatico,
con cinque piccole uova
con cinque acini bianchi:
un piccolo
grappolo
della vira del bosco.
Io allungai
la mano,
mentre
brigavano coi miei vestiti,
mi toccavano,
esaminavano con grandi occhi
il loro primo ometto.
Passi pesanti, tosse,
mio padre che arrivava
con estranei;
corremmo
al fondo dell'ombra
le due pirate
ed io prigioniero,
ammontonati
tra le ragnatele, stretti
sotto una tavola, tremando,
mentre il miracolo,
il nido
dagli ovetti celesti
cadde e i piedi degli intrusi
demolirono fragranza e strutture.
Ma con le due bimbe
nell'ombra
e nella paura,
tra l'odore della farina,
i passi spettrali,
la sera che si trasformava in ombra,
io sentii che cambiava
qualcosa
nel mio sangue,
che saliva alla mia bocca,
alle mie mani,
un elettrico
fiore,
il
fiore
affamato
e puro
del desiderio.
LA POESIA
Fu a quell'età... Venne la poesia
a cercarmi. Non so, non so da dove
uscì, dall'inverno o dal fiume.
Non so come né quando,
no, non eran voci, non eran
parole, né silenzio,
ma da una strada mi chiamava,
dai rami della notte,
d'improvviso tra gli altri,
tra fuochi violenti
o ritornando solo,
era lì senza volto
e mi toccava.
Io non sapevo che dire, la mia bocca
non sapeva
nominare,
i mici occhi erano ciechi,
qualcosa batteva nella mia anima,
febbre o ali perdute,
e mi andai facendo solo,
decifrando
quella scottatura,
scrissi la prima linea vaga,
vaga, senza corpo, pura
sciocchezza,
pura sapienza
di chi non sa nulla,
e vidi d'improvviso
il cielo
sgranato
e aperto,
pianeti,
piantagioni palpitanti,
l'ombra perforata,
crivellata
da frecce, fuoco e fiori,
la notte travolgente, l'universo.
Ed io, essere minimo,
ebbro del grande vuoto
costellato,
a somiglianza, a immagine
del mistero,
mi sentii parte pura
dell'abisso,
rotolai con le stelle,
si sciolse il mio cuore nel vento.
LA TIMIDEZZA
Appena seppi, solamente, che esistevo
e che avrei potuto essere, continuare,
ebbi paura di ciò, della vita,
desiderai che non mi vedessero,
che non si conoscesse la mia esistenza.
Divenni magro, pallido, assente,
non volli parlare perché non potessero
riconoscere la mia voce, non volli vedere
perché non mi vedessero,
camminando, mi strinsi contro il muro
come un'ombra che scivoli via.
Mi sarei vestito
di tegole rosse, di fumo,
per restar lì, ma invisibile,
esser presente in tutto, ma lungi,
conservare la mia identità oscura
legata al ritmo della primavera.
Un volto di ragazza, il colpo puro
di una risata che spacca in due il giorno
come in due emisferi d'arancia,
e cambiai strada,
ansioso della vita e timoroso,
vicino all'acqua senza bere il freddo,
vicino al fuoco senza baciar la fiamma,
e mi coprì una maschera di orgoglio,
fui esile, ostile come una lancia,
senza che udissi nessuno
— perché io l'impedivo —
il mio lamento
chiuso
come la voce di un cane ferito
dal fondo di un pozzo.
I PACHECO
Non è passato quell'anno
senza numero né nome,
né la sua coda deserta
ha sgranato
susine o settimane:
tutto restò nascosto
sotto la mia fronte.
Chiudo gli occhi e qualcosa sta bruciando;
boschi, praterie danzano nel fumo,
entro indeciso
per
quelle porte
che più non esistono, torri che morirono.
Fu quella volta del giorno dell'estate.
Dopo il sole fluviale, da Carahue
giungemmo alla foce
di Puerto Amor
che si chiamava
Puerto
Saavedra, abitato
di case piccoline
battute dal pugno
dell'inverno.
Zinco e legname, moli sdentati
pini delle rive,
magazzini
con Fagaldes, Mariettas,
case di rampicanti e Parodis,
e una casa tra tutte
dove entrammo
mamadre, sorella, bimbi e materassi.
Oh verande che nascondete
l'aroma
di madreselva in chiosco, fiore rampicante
con miele e solitudine, chiosco vuoto
che empii nebbia a nebbia di colombe,
della più discola malinconia.
Casa dei Pacheco!
Oh ricordo
fiorito,
e per la prima volta
il cortile di papaveri!
Quelli bianchi sfogliavano
la bianchezza
o innalzavano
le mani
dell'inverno,
quelli rossi
stampavano
sangue improvviso
e
bocche straziate;
quelli neri
innalzavano
le loro serpi di seta
ed erompevano
in pelle notturna, in seni
africani.
I Pacheco leggevano
nella notte Fantomas
ad alta voce,
ascoltando
intorno al fuoco, in cucina,
e io dormivo udendo
le imprese,
le lettere del pugnale, le agonie,
mentre per la prima volta
il tuono del Pacifico
faceva rotolare i suoi barili
sul mio sonno.
Allora
mare e voce si perdevano
sui papaveri
e il mio piccolo cuore entrava
nella totale imbarcazione del sogno.
IL LAGO DEI CIGNI
Lago Budi, cupo, pesante pietra oscura,
acqua tra grandi boschi insepolta,
lì ti aprivi come porta sotterranea
presso il solitario mare della fine del mondo.
Galoppavamo per l'infinita arena
presso le milionarie schiume sparse,
non una casa, un uomo, né un cavallo,
solo il tempo passava e quella riva verde
e bianca, quell'oceano.
Poi verso le colline e, d'improvviso,
il lago, l'acqua dura e nascosta,
luce compatta, gioia dell'anello terrestre.
Un volo bianco e nero: i cigni fugarono
lunghi colli notturni, zampe di cuoio rosso
e la lor neve serena volava sopra il mondo.
Oh volo dall'acqua equivalente:
mille corpi destinati all'immobile bellezza
come la trasparente permanenza del lago.
D'improvviso tutto fu corsa sull'acqua.
movimento, suono, torri di luna piena,
poi ali selvagge che dal turbine
si fecero ordine, volo, grandezza scossa,
quindi assenza, un tremito bianco nel vuoto.
IL BIMBO PERDUTO
Lenta infanzia da dove
come un pascolo lungo
cresce il duro pistillo:
il legno dell'uomo.
Chi fui? Che cosa fui? Che fummo?
Non v'è risposta. Passammo.
Non fummo. Eravamo. Altri piedi,
altre mani, altri occhi.
Tutto andò cambiando foglia a foglia
sull'albero. E in te? La tua pelle cambiò,
i capelli, la memoria. Quello non fosti.
Quello fu un bimbo che passò correndo
dietro un fiume, una bicicletta,
e col movimento
se n'andò la tua vita in quel minuto.
La falsa identità seguì i tuoi passi.
Giorno per giorno le ore si ancorarono,
ma più non fosti, venne l'altro,
l'altro tu, e l'altro, finché fosti,
finché ti togliesti
dal passeggero stesso,
dal treno, dai vagoni della vita,
dalla sostituzione, dal viandante.
La maschera del bimbo andò cambiando,
s'affinò la condizione dolente,
acquietò il suo cangiante potere;
lo scheletro si mantenne fermo,
la costruzione dell'osso si mantenne,
il sorriso,
il passo, un gesto volante, l'eco
di quel bimbo nudo
che uscì da un lampo,
ma la crescita fu come un vestito:
altro era l'uomo e lo tenne in prestito.
Così accadde con me.
Da silvestre
giunsi alla città, a gas, a volti crudeli
che misurarono la mia luce e la mia statura,
giunsi a donne che in me si cercarono
come se a me si fossero perdute,
così andò succedendo
l'uomo impuro,
figlio del figlio puro,
fino a che nulla fu com'era stato,
e d'improvviso apparve sul mio volto
un volto di straniero,
e ugualmente ero io,
io che crescevo,
eri tu che crescevi,
era tutto.
e cambiammo
e mai più sapemmo chi eravamo,
e a volte ricordiamo
colui che visse con noi
e gli chiediamo qualcosa, forse che ci ricordi,
che sappia almeno che fummo lui, che parlammo
con la sua lingua,
ma dalle ore consunte
quello ci guarda e non ci riconosce.
LA CONDIZIONE UMANA
Dietro a me verso il Sud, il mare aveva
spezzato I territori col suo martello glaciale,
dalla solitudine graffiata il silenzio
si trasformò d'improvviso in arcipelago,
e verdi Isole andarono cingendo la cintura
della mia patria
come polline o petali d'una rosa marina
e, ancor più, eran profondi i boschi accesi
di lucciole, il fango era fosforescente,
gli alberi lasciavano cadere lunghe corde secche
come in un circo, e la luce andava di goccia in goccia
come la ballerina verde della selva.
Io crebbi stimolato da razze silenziose,
da faci penetranti di fulgore di legni,
da segrete fragranze di terra, mammelle e vino;
la mia anima fu una cantina perduta tra i treni
dove si dimenticarono traversine e botticelle,
fil di ferro, avena, frumento, cochayuyo, tavole,
e l'inverno con !c sue nere mercanzie.
Così il mio corpo andò estendendosi, di notte
le mie braccia eran neve,
i miei piedi il territorio tempestoso,
e crebbi come un fiume all'acquazzone,
e fui fertile con tutto
ciò che cadeva in me, germinazioni,
canti tra foglia e foglia, scarabei
che procreavano, nuove
radici che ascesero
alla rugiada,
tormente che ancora scuotono
le torri dell'alloro, il grappolo scarlatto
del nocciolo, la pazienza
sacra del larice,
così la mia adolescenza
fu territorio, ebbi
isole, silenzio, monte, crescita,
luce vulcanica, fango di strade,
fumo selvaggio di legni bruciati.
L'INGIUSTIZIA
Chi scopre il chi sono scoprirà il chi sei.
E il come, e verso dove.
D'improvviso toccai tutta l'ingiustizia.
La fame non era solo fame,
ma la misura dell'uomo,
il freddo, il vento, erano anch'essi misure.
Misurò cento fami e cadde l'eretto.
Ai cento freddi fu sotterrato Pedro.
Un solo vento durò la povera casa.
E appresi che il centimetro e il grammo,
il cucchiaio e la lega misuravano la cupidigia,
e che l'uomo assediato cadeva d'improvviso
in un buco, e più nulla ormai sapeva.
Più nulla, e quello era il luogo,
il gran lusso, il dono, la luce, la vita,
quello era, patir di freddo e di fame,
non aver scarpe e tremare
davanti al giudice, davanti a un altro,
a un altro essere con spada o calamaio,
e così a spintoni, scavando e tagliando,
cucendo, facendo il pane, seminando frumento,
dando a ogni chiodo che chiedeva legno,
cacciandosi nella terra come in un intestino
per estrarre, alla cieca, il carbone crepitante
e, ancor più, salendo fiumi e scogliere,
montando cavalli, muovendo imbarcazioni,
cuocendo tegole, soffiando vetri, lavando biancheria,
in modo tale che tutto ciò
sembrava il regno appena innalzato,
uva splendente del grappolo,
quando l'uomo si decise a essere felice,
e non era, non era cos’. Andai scoprendo
la legge della sventura,
il trono d'oro insanguinato,
la libertà celestina,
la patria senza riparo,
il cuore ferito e stanco,
e un rumore di morti senza lacrime,
secchi, come pietre che cadono.
Allora cessai d'esser fanciullo
perché compresi che al mio popolo
non permisero la vita
e gli negarono la sepoltura.
GLI ABBANDONATI
Non solo il mare, non solo costa, schiuma,
uccelli di non sottomessa potenza,
non solo quei grandi occhi e questi,
non solo la luttuosa notte coi suoi pianeti,
non solo l'albereto con la sua alta moltitudine,
ma dolore, dolore, il pane dell'uomo.
Ma, perché? Allora io ero
sottile come un filo e più oscuro
di un pesce d'acque notturne, e non potei,
non potei più, volli d'un colpo cambiare la terra.
Mi parve di mordere d'improvviso l'erba più amara,
di condividere un silenzio macchiato dal delitto.
Ma nella solitudine nascono e muoiono le cose,
la ragione cresce e cresce fino ad essere delirio,
il petalo si distende senza arrivare alla rosa:
la solitudine è la polvere inutile del mondo,
la ruota che gira senza terra, né acqua, né uomo.
E così fu com'io gridai perduto.
Che ne fu di quel grido incontenibile nell'infanzia?
Chi l'udì? Qual bocca rispose? Che strada intrapresi?
Che risposero
i muri quando li colpì la mia testa?
Sale e ritorna la voce del debole solitario,
gira e gira la ruota atroce delle sventure,
salì e tornò quel grido, e nessuno lo seppe,
non lo seppero neppure gli abbandonati.
LE SUPERSTIZIONI
Zio Genaro tornava
dalle montagne. L'uomo
non aveva un osso intero;
tutto gli aveva rotto la terra,
il cavallo, la pallottola, il toro,
la pietra, la neve, la fortuna.
Dormiva, a volte, nella mia stanza.
Lottava con le sue gambe dure
per cacciarsi nel letto
come salendo a cavallo.
Sbuffava, malediceva, strascicava,
sputando, gli stivali bagnati
e infine, fumando, apriva la bocca
dei fatti della selva.
Così seppi come il Maligno.
gettando alito di zolfo,
comparve a Juan Navarro
implorando fuoco. Per fortuna
prima di condannarsi in tal modo
Juan Navarro scorse in terra,
sotto il poncio, il codino
infernale, elettrico, irsuto,
e prendendo la frusta sferzò
solo il vuoto, perché il Diavolo
si dissolse, si fece ramo.
Aria, notte di vento freddo.
Ahi. che scaltro Demonio!
Genaro Candia fuma e fuma,
mentre la gran pioggia di Luglio
cade e cade su Temuco.
così la razza della pioggia,
procreava le sue religioni.
Quella voce fessa, lenta
voce d'interstizi, di ruscelli,
voce del boldo, dell'aria fredda,
della raffica, delle spine,
quella voce che ricostruiva
il passo del puma sanguinario,
lo stile nero del condor,
l'intricata primavera
quando non v'è fiore, ma vulcani,
non cuore, ma cavalcature,
le bestie sfinite che cadono
negli abissi, saltò la scintilla
di un ventaglio di ferri di cavallo,
e poi solo la morte,
solo l'interminabile selva.
Don Genaro, di scarse parole,
sillaba a sillaba portava
sudore, sangue, spettri, ferite,
fuma e fuma, zio Genaro.
La camera si riempì
di cani, di foglie, di strade,
e udii come nelle lagune
spia una innocente pelle
galleggiante, che appena la tocchi
si trasforma in bestia infernale
e ti attira nel profondo,
verso le sparizioni,
lì dove vivono i morti,
nel fondo di non so dove,
i decapitati del bosco,
i risucchiati dai pipistrelli
d'ali immense e setose.
Tutto era viscido.
Qualsiasi sentiero, una bestia
che camminava sola, un fuoco
che passeggiava per le praterie,
un viandante a piena luna.
una dolce volpe che zoppicava,
una foglia oscura che cadeva.
Si riusciva appena a toccare
lo scapolario, la croce,
a segnarsi, poi, fosforo,
corno bruciato, zolfo nero.
Ma non solo nell'intemperie
spia il Maligno, il tenebroso.
Nel profondo delle case
un gemito, un lamento cupo,
un trascinarsi di catene,
e la donna morta che accorre
sempre all'appuntamento notturno,
e don Francisco Montero
che torna a cercare il suo cavallo,
laggiù, presso il mulino,
dove peri con la sua sposa.
La notte è lunga, la pioggia è lunga,
diviso il fuoco interminabile
della sigaretta, fuma e fuma
Genaro Candia, racconta e racconta.
Ho paura. Cade la pioggia
e tra l'acqua e il Diavolo cado
in un ruscello con zolfo,
nell'inferno coi suoi cavalli,
nelle montagne spalancate.
Restai più volte addormentato
nel Sud, ascoltando la pioggia,
mentre zio Genaro
apriva quel sacco oscuro
che recava dalle montagne.
I LIBRI
Libri sacri e usati, libri
divorati, divoratori,
segreti,
nelle saccocce:
Nictsche, con odor di cotogna,
e surrettizio e sotterraneo
Gorki camminava con me,
Oh, quel monumento mortale
sulle rocce, di Victor Hugo,
quando il pastore sposa la fidanzata
dopo aver sconfitto il polipo,
e il Gobbo di Parigi
circola nelle vene
della gotica anatomia.
Oh Maria di Jorge Isaacs,
bacio bianco nel giorno rosso
delle tenute celesti
che lì si immobilizzarono
con lo zucchero menzognero
che ci fece piangere d'innocenza.
I libri tessero, scavarono,
scivolarono la loro serpentina
e poco a poco, dietro
le cose, gli affanni.
sorse come un odore amaro
con la chiarità del sale
l'albero della conoscenza.
IL TRENO NOTTURNO"
Oh lungo Treno Notturno,
molte volte
dal Sud verso il Nord,
tra poncios bagnati,
cereali,
scarponi duri di fango,
in terza,
andasti svolgendo geografia.
Forse incominciai allora
la pagina terrestre,
appresi Ì chilometri
del fumo,
l'estensione del silenzio.
Passavamo Lautaro,
roveri, campi di grano, terra
di luce sonora e acqua
vittoriosa:
le lunghe rotaie continuavano lontano,
più lontano i cavalli della patria
andavano attraversando
praterie
argentate,
d'improvviso
l'alto ponte del Malleco,
fine
come un violino
di ferro chiaro,
poi la notte e poi
continua, continua
il Treno Notturno tra le vigne.
Altri erano i nomi
dopo San Rosendo
dove si riunivano
a dormire le locomotive,
quelle dell'Est e dell'Ovest,
quelle che venivano dal Bío Bío,
dai sobborghi,
dallo sconnesso porto di Talcahuano
fino a quelle che recavano avvolte in vapor verde
le chitarre e il vino patrizio di Rancagua.
Lì dormivano
i treni
nel nodo
ferruginoso e grigio di San Rosendo.
Ahi, piccolo studente,
andavi cambiando
di treno e di pianeta,
entravi
in abitati pallidi di fango,
polvere gialla e uva.
All'arrivo ferroviario, uomini
al posto dei centauri,
non legavano cavalli, ma carrozze,
le prime automobili.
S'ingentiliva il mondo
e quando
guardai indietro,
pioveva,
si perdeva la mia infanzia.
Entrò il Treno fragoroso
in Santiago del Cile, la capitale
e persi ormai gli alberi;
calavano le valigie
volti pallidi, e vidi per la prima volta
le mani del cinismo;
entrai nella moltitudine che guadagnava o perdeva,
mi coricai in un letto che non apprese ad attendermi,
stanco dormii come la legna,
e quando mi svegliai
sentii un dolore di pioggia:
qualcosa mi separava dal mio sangue
e uscendo spaventato per
le strade
seppi, poiché sanguinavo,
che mi avevan tagliato le radici.
LA PENSIONE DELLA VIA MARURI
Una via Maruri.
Le case non si guardano, non si amano,
tuttavia, stanno insieme:
Muro con muro, ma
le loro finestre
non vedono la strada, non parlamo
sono silenzio.
Vola una carta come una foglia sporca
dell'albero dell'inverno.
La sera brucia un cirro. Inquieto
il cielo sparge fuoco fuggitivo.
La bruma nera invade i balconi.
Apro il libro. Scrivo
credendomi
nel buco
di una miniera, di un'umida
galleria abbandonata.
So che ora non v'è nessuno,
in casa, nella strada, nella città amara.
Son prigioniero con la porta aperta,
il mondo aperto,
sono studente triste perduto nel crepuscolo.
e salgo verso la minestra di spaghetti
e scendo fino al letto e fino al giorno seguente.
II - LA LUNA NEL LABIRINTO
AMORI – TERUSA (I)
E come, dove sta
l'antico
amore?
Ora
è una tomba d'uccello, una goccia
di quarzo nero,
un pezzo
di legno roso dalla pioggia?
E di quel corpo che come la luna
splendeva nell'oscura primavera
del Sud,
che rimane?
La mano
che sostenne
tutta la trasparenza e il rumore
del fiume calmo,
gli occhi nel bosco,
grandi, pietrificati
come i minerali della notte,
i piedi
della ragazza del miei sogni,
piedi di spiga, di grano, di ciliegia,
frapposti, agili, aerei,
tra la mia pallida infanzia e il mondo?
Dov'è l'amore morto?
L'amore, l'amore,
dove muore?
Nei granai
remoti,
ai piedi dei roseti che son morti
sotto i sette piedi della cenere
di quelle misere case
che un incendio ha distrutto nel villaggio?
Oh amore
della prima luce dell'alba,
del mezzogiorno fierissimo
e delle sue lance,
amore con tutto il cielo
goccia a goccia
quando la notte
passa per il mondo
nel suo pieno naviglio,
oh amore
di solitudine
adolescente,
oh grande viola
sparsa
con aroma e rugiada
e infranta freschezza
sopra il volto:
i baci
che
s'arrampicavano
su per la pelle, ramificandosi e mordendo,
dai puri corpi distesi
fino alla pietra azzurra della nave notturna.
Terusa d'occhi ampi,
alla luna
o al sole d'inverno, quando
le province
ricevono il dolore, il tradimento
dell'oblio immenso
e tu brilli, Terusa,
come il cristallo bruciato .
del topazio,
come la bruciante ferita
del garofano,
come il metallo che scoppia nel lampo
ed emigra alle labbra della notte.
Terusa
aperta tra i papaveri,
scintilla
nera
del primo dolore,
stella tra i pesci,
alla luce
della pura corrente genitale,
uccello violetto del primo abisso,
senza alcova, nel regno
del cuore visibile
il cui miele inaugurano i mandorli,
il polline incendiario
della ginestra agreste,
la cedronella dai tentativi verdi,
la patria dei muschi misteriosi.
Suonavano le campane di Cautín,
tutti i petali chiedevano qualcosa,
non rinunciava a nulla la terra,
l'acqua ammiccava
senza posa;
voleva aprire l’estate,
dargli alfine una ferita,
precipitava in furia
il fiume che veniva dalle Ande,
si trasformava in una stella dura
che inchiodava la selva,
la riva,
le rocce:
lì non abita nessuno:
solo l'acqua e la terra
e i treni che ululavano,
i treni dell'inverno
alle loro occupazioni
attraversando la geografia
solitaria:
regno mio,
regno delle radici
con fulgore di menta,
capigliatura di felci,
pube bagnato,
regno della mia perduta piccolezza
quando vidi nascere la terra
e facevo parte
della bagnata
integrità
terrestre:
lampada tra i germi e l'acqua,
nella nascita del grano,
patria dei legni
che morivano
ululando nell'ululato
delle segherie:
il fumo, anima balsamica
del crepuscolo
selvaggio,
legato
come un pericoloso prigioniero
alle regioni della selva,
a Loncoche,
a Quitratúe,
agli imbarcaderi di Maullín,
e io nascevo
col tuo amore,
Terusa,
col tuo amore che si sfogliava
sulla mia pelle assetata
come
se le cascate
della zagara, dell'ambra, della farina,
avessero trasgredito la mia sostanza
e da quell'ora ti recassi in me,
Terusa,
inestinguibile
anche nell'oblio,
attraverso
le età ossidate,
aroma
straordinario,
profonda madreselva o canto
o sogno
o luna che impastarono i gelsomini
o albeggiare del trifoglio presso l'acqua
o ampiezza della terra coi suoi fiumi
o demenza di fiori o tristezza
o segno della calamità o volontà
del mar radiante e della sua danza infinita.
AMORI - TERUSA (II)
Giungono i 4 numeri dell'anno.
Son come 4 uccelli felici.
Si siedono su un filo
contro il tempo nudo.
Ma, ora
non cantano.
Han divorato il grano, han combattuto
quella primavera
e corolla a corolla è rimasto
solo questo lungo spazio.
Ora che tu vieni in visita,
antica amica, amore, bimba invisibile,
ti prego di sederti
di nuovo
sull'erba.
Ora mi sembra
che la tua testa sia cambiata.
Perché
per venire
hai coperto di cenere
la chioma di carbone vigoroso
che ho spiegato tra le mie mani, nel freddo
delle stelle di Temuco?
I tuoi occhi dove sono?
Perché ti sei messa questo sguardo stretto
per vedere se sono lo stesso?
Dove hai lasciato il tuo corpo d'oro?
Che accadde alle tue mani socchiuse
e alla loro fosforescenza di gelsomino?
Entra nella mia casa, guarda con me il mare.
A una a una le onde
hanno sciupato
le nostre vite
e non solo la spuma si rompeva,
ma le ciliegie,
i piedi,
le labbra
dell'era cristallina.
Addio, ora ti prego
di tornare
alla tua sedia d'ambra
nella luna,
torna alla madreselva del balcone,
torna
all'immagine ardente,
aggiusta i tuoi occhi
a quegli
occhi,
lentamente dirigiti
al ritratto
radiante,
entra in esso
fino al fondo,
nel suo sorriso,
e guardami
con la sua immobilità, finché
tornerò a vederti
da quello,
da allora,
da colui che fui nel tuo cuore fiorito.
La canzone della festa... Ottobre,
premio
della Primavera:
un Pierrot d'ampia voce che scioglie
la mia poesia sulla pazzia
e io, filo sottile
di spada nera tra gelsomino e maschere
cammino ancora chiuso nella mia solitudine,
fendendo la moltitudine con la malinconia
del vento Sud, sotto i sonagli
e lo snodarsi delle serpentine.
Poi, una a una,
riga a riga nella casa e nella strada
germina il nuovo libro,
,20 poesie di sapore salmastro
come venti onde di donna e di mare,
e tra il viaggio di ritorno alla provincia
col gran fiume di Puerto Saavedra
e il colpo spaventoso dell'Oceano
tra una solitudine e un bacio appena
strappato all'amore: foglia per foglia
come se un albero lento si svegliasse
nacque il piccolo libro tempestoso.
E mai scrivendolo
sui treni o al ritorno
dalla festa o dalla furia della gelosia
o dalla notte aperta nel costato
dell'inverno come una splendida ferita,
trafitto dalla luce del cielo
e col cuore coperto di rugiada,
mai suppose il solitario giovane,
pazzo d'amore, che la sua catena,
la prigione senza uscita di quegli occhi,
di quella pelle divorante, di quella bocca,
avrebbe continuato a baciare ogni cosa
e quell'intimità e quella solitudine
avrebbero continuato ad aprire in altri esseri
una rosa perpetua, un lungo bacio,
un fuoco interminabile di papaveri.
AMORI: LA CITTA’
Studentesco arnore con mese d'Ottobre,
con ciliegi che ardono in povere strade
e tram che scampanellano alle cantonate,
ragazze come l'acqua, corpi
nella creta del Cile, fango e neve,
e luce e notte nera, riuniti,
madreselve cadute nel letto
con Rosa o Lina o Carmen ormai nude,
spogliate forse del loro mistero
o misteriose cadendo
nell'abbraccio o spirale o torre
o cataclisma di gelsomino e di bocche:
è stato ieri o domani, dove ruggì
la primavera fugace? Oh ritmo
dell'elettrica cintura,
oh sferzata chiara dello sperma
che esce dal suo tunnel alla specie
e la notte vinta con un nardo
a metà sogno e tra le carte
le mie righe, scritte lì,
col puro fermento, con l'onda,
con la colomba e con la chioma.
Amori d'una volta, rapidi
e assetati, chiave a chiave,
e l'orgoglio d'esser condivisi!
Penso che la mia poesia si fondò
non solo in solitudine ma in un corpo
e altro corpo, a piena pelle di luna
e con tutti i baci della terra.
PAMPOESIA
Poesia, patrimonio stellare:
fu necessario
andar scoprendo con fame e senza guida
la tua terrena eredità,
la luce lunare e la spiga segreta.
Da solitudine a moltitudine la chiave
si perdeva nelle strade e nel bosco,
sotto le pietre e nei treni.
Il primo segno è condizione oscura,
grave ebbrezza con una coppa d'acqua,
il corpo sazio senza aver mangiato,
il cuore mendico con il suo orgoglio.
E molto più che non dicono i libri
pieni di splendore senza gioia:
andar battendo una pietra che ci pesa,
dissolvere il minerale dell'anima
finché tu sei colui che sta leggendo,
finche l'acqua canta per la tua bocca.
Questo è più facile di domani Giovedì
e più difficile di continuare a nascere
ed è uno strano mestiere che ti cerca
e si nasconde quando lo han cercato
ed è un'ombra con il tetto rotto,
ma nei buchi ci sono le stelle.
ADDII
(la poesia non esiste in “Obras Completas” ed. 2000;
è contenuta in “Plenos Poderes”)
Oh addii a una terra e ad altra terra,
a ogni bocca e a ogni tristezza,
alla luna insolente, alle settimane
che arrotolarono i giorni e scomparvero,
addio a questa e a quella voce tinta
d'amaranto, e addio
al letto e al piatto abituale,
al luogo vesperale degli addii,
alla sedia sposata con lo stesso crepuscolo,
alla strada che han fatto le mie scarpe.
Mi son diffuso, non v'è dubbio,
ho cambiato esistenza,
cambiato pelle, lampada, odi,
dovetti farlo
non per legge né capriccio,
ma per catena,
m'incatenò ogni nuova strada,
presi gusto di terra, di terra piena.
E presto dissi addio, appena giunto,
ancora con la tenerezza appena spezzata
come se il pane s'aprisse e d'improvviso
fuggissero tutti dalla tavola.
Me n'andai così da tutte le lingue,
ripetei gli addii come una porta vecchia,
cambiai cine, ragione, tomba,
me ne andai da ogni parte ad altra parte,
continuai ad essere e a rimanere
mezzo smantellato nella gioia,
nuziale nella tristezza,
senza sapere mai come né quando
pronto per tornare, ma non si torna.
Si sa che chi torna non è partito,
così percorsi e ripercorsi la vita
mutando di vestito e di pianeta.
abituandomi alla compagnia,
alla gran moltitudine dell'esilio
sotto la solitudine delle campane.
PAZZI AMICI
Si aprì anche la Notte d'improvviso,
la scoprii, era una rosa oscura
tra un giorno giallo e un altro giorno.
Ma, per chi arriva
dal Sud, dalle regioni
naturali, con fuoco e tormenta,
la notte nella città era una nave,
una vaga stiva di naviglio.
SI aprivan porte e dall'ombra
la luce ci sputacchiava:
ballavano donna e uomo con scarpe
nere come bare che brillavano
e aderivano l'uno all'altra come
le ventose del mare, tra il tabacco,
il vino aspro, le conversazioni,
le sconce risate dell'ubriaco.
Qualche volta una donna cadeva
nel suo pallido abisso, un volto impuro
che mi comunicava occhi e bocca.
Lì stabilii la mia adolescenza ardente
tra rosse bottiglie che scoppiavano
versando a volte i loro rubini,
costellando fantastiche spade,
conversazioni dell'audacia inutile.
Lì i miei compagni
Rojas Giménez perduto
nella sua delicatezza,
marinaio di carta, strettamente
pazzo, innalzando
il fumo in una coppa
e in altra coppa
la sua tenerezza errante,
finché così se n'andò di caduta in caduta,
come se il vino se lo fosse portato
in una regione sempre più lontana!
Oh fragile fratello, tante
cose ho raggiunto con te, tanto
ho perduto nel tuo cuore infelice
come in uno scrigno rotto,
senza sapere che te ne saresti andato con la tua bocca elegante
senza sapere che dovevi
anche morire, tu cui spettava
dar lezione alla Primavera!
Poi come un fantasma
che in piena festa stava
nascosto nell'oscuro
giunse Joaquín Cifuentes
dalla sua prigione: pallida leggiadria,
volto di comando nella pioggia,
incorniciato dalle linee della chioma
sopra la fronte aperta ai dolori:
il mio nuovo amico non sapeva ridere:
e nella cenere della notte crudele
vidi consumarsi l'Ussaro della Morte.
«TOPO ACUTO»
Allora, tabernario e spumeggiante,
maestro di nuovi vini e di bestemmia,
compagno Raúl Topo Acuto
giungesti per insegnarmi la virilità.
E virili, sudanti, puri, andammo
contro la densa moltitudine della malavita
e il tuo cuore scintillante fu
con me come una buona lanterna:
non esistono strade oscure
con un buon compagno di viaggio
ed era come contare su una spada
contare su una mano piccola
come la tua, fragile
e deciso fratello,
e terribile era la tua risposta, l'acre
splendore del tuo elettrico linguaggio,
della loquacità del fango,
della scintilla indelebile
che sprizzava da te
come
se fossi una fonte
cervantina:
l'antica risata dei pícaros,
l'idioma inventore dei coltelli,
e il tuo lampo non l'apprendesti dal libri,
ma difendendoti a pura luce:
da terreno conoscevi il celeste:
da illetterato la tua arguzia risplendeva:
eri il frutto antico delle strade.
uva dei grappoli del mio popolo.
ARCE
Da intermittenti giorni
e pagine notturne
sorge Omero con cognome d'albero
e nome coronato
e così continua, legno puro
di bosco e di banco di scuola
dove ogni vena
come raggio di miele forma la tunica
del cuore glorioso
e una corona di cantore silenzioso
gli dà un giusto nimbo d'alloro.
Fratello la cui cetra impeccabile,
il suo suono segreto,
s'ode malgrado le corde nascoste:
la musica che rechi
risplende,
sei tu l'invisibile poesia.
Qui di nuovo perché hai vissuto
la mia stessa vita come fosse tua,
ti ringrazio, e per i doni
dell'amicizia e della trasparenza,
per quel danaro che mi desti
quando non ebbi pane, e per la mano
quando le mie mani non esistevano,
e per ogni affanno
in cui risuscitò la mia poesia
grazie alla tua dolcezza laboriosa.
AMORI: ROSAURA (I)
Rosaura della rosa, dell'ora
diurna, eretta
nell'ora scivolante
del crepuscolo povero, nella città,
quando brillano i negozi
e il cuore affoga
nella sua stessa regione inesplorata
come il viandante sperduto,
tardi, nella solitudine degli stagni.
Come uno stagno è l'amore:
tra numero e numero
di strada,
lì cademmo,
ci prese l'amore profondo,
il corpo s'appiccica al corpo,
i capelli ai capelli,
la bocca al bacio,
e nel parossismo
l'onda affamata si sazia
e si raccolgono
le lamine del fango.
Oh amore di corpo a corpo,
senza parole,
e la farina bagnata che allaccia
la frenesia dei palpiti,
il roco ieri dell'uomo e della donna,
un colpo nel roseto,
un'oscura corolla scossa
rovescia le penne dell'oscurità,
un circuito fosforico,
ti abbraccio,
ti condanno,
ti faccio morire,
e s'allontana il naviglio dal naviglio
facendo gli ultimi segnali
nel sonno del mare,
della marea
che torna al suo pianeta intransigente,
alla preoccupazione, alla nettezza:
il letto resta
in mezzo
all'ora infedele,
crepuscolo, giglio vespertino:
ormai i naufraghi sono partiti:
lì son rimaste le lenzuola rotte,
l'imbarcazione
ferita,
andiamo guardando il Río Mapocho:
per esso corre la mia vita.
Rosaura al mio braccio,
va la sua vita nell'acqua,
il tempo,
i frangiflutti in muratura,
i ponti dove accorrono
tutti i piedi stanchi:
se ne va la città lungo il fiume,
la luce lungo la corrente,
il cuore di fango
corre corre
corre amore lungo il tempo
1923. uno
nove
due tre
son numeri
ognuno nell'acqua
che correva
di notte
nel sangue del fiume,
nel fango notturno,
nelle settimane
che caddero nel fiume
della città, quando io raccolsi
le tue mani pallide;
Rosaura,
le avevi dimenticate
tanto volavano
nel fumo:
lì le dimenticasti
all'angolo
della via Sazié, o nella piazzetta
di Padura, nella pungente rosa
della casetta che dividevamo.
Il minuscolo cortile
conservò gli escrementi
dei gatti erranti
ed era una pace di bronzo
quella che sorgeva
tra noi due nudi:
la calma dura dei sobborghi:
tra le palpebre
ci cadeva il silenzio
come un liquore oscuro
non si dormiva:
ci preparavamo all'amore:
avevamo sciupato
il pavimento,
la fatica,
il desiderio,
e lì alla fine eravamo
liberi, senza vestiti, senza andare e venire,
e la nostra missione
era
versarci,
come se troppo ci empisse
un liquido silenzioso,
un pesante
acido
divorante,
una sostanza
che empiva il profilo dei tuoi fianchi,
la pura finezza della tua bocca.
Rosaura,
passeggera
color d'acqua,
figlia di Curicó, dove muore il giorno
oppresso dal peso e dalla neve
della gran cordigliera:
tu sei figlia
del freddo
e prima di consumarti
tra le pareti
di mura opprimenti
venisti a me, a piangere o a nascere,
a bruciarti nel mio triste potere
e forse non vi fu altro
fuoco nella tua vita,
torse non esistesti che allora
Accendemmo e spegnemmo il mondo,
tu rimanesti all'oscuro:
io continuai per le strade,
rompendomi le mani e gli occhi,
lasciai indietro il crepuscolo,
tagliai i papaveri vespertini:
passò un giorno che con la sua notte
procrearono
una nuova settimana
e un anno s'addormentò con altro anno:
goccia a goccia
crebbe il tempo,
foglia a foglia
l'albero trasparente:
la città polverosa
cambiò dall'acqua all'oro,
la guerra bruciò uccelli e bambini
nell'Europa oppressa,
il deserto di Atacama
camminò con la sabbia,
col fuoco e col sale,
uccidendo le radici,
girarono con i loro acidi azzurri
i pallidi pianeti,
toccò la luna un uomo,
cambiò il pittore
e non dipinse i volti,
ma i segni e le cicatrici,
e tu che facevi
senza il buco
del dolore e dell'amore?
E io che facevo
tra le foglie della terra?
Rosaura, autunno, lontano
luna di miele sottile,
campana taciturna:
tra noi due lo stesso fiume,
il Mapocho che fugge
rodendo le pareti e le case.
invitando all'oblio
come il tempo.
AMORI: ROSAURA (II)
L'amore ci diede l’unica importanza,
La virtù fisica, il palpito
che nasce e si diffonde,
la continuità
del corpo
con la gioia,
e quella frazione di morte
che ci illuminò fino ad oscurarci.
Per me, per te,
s'aprì quel godimento
come l'unica
rosa
nei sobborghi sordi,
in piena gioventù consunta,
quando ormai tutto cospirò
per andarci uccidendo poco a poco,
perché tra istituzioni orinate
dalla prostituzione e dagli inganni
non sapevi che fare:
eravamo l'amore stordito
la fragilità della purezza:
tutto era sciupato dal fumo,
dal gran gas nero,
dall'inimicizia
dei palazzi e dei tram.
Un secolo intero sfogliava
il suo splendore morto,
il suo fogliame
di teste decapitate,
goccioloni di sangue
cadono dai cornicioni,
non è la pioggia, non servono
gli ombrelli,
il tempo moriva
e nessuna e nessuno
si trovò
quando ormai dal trono i regnanti
avevano decretato
la legge letale della fame
e bisognava morire,
tutti dovevano morire,
era un dovere,
un impegno,
così era scritto:
allora trovammo
nella rosa fisica
il fuoco palpitante
e godemmo di noi
fino al dolore:
ferendoci
vivevamo:
lì si confrontò la vita
con la sua essenza compatta:
l'uomo, la donna
e l'invenzione del fuoco.
Sfuggimmo alla maledizione
che pesava
sul vuoto, sulla città,
amore contro sterminio
e la verità
rubata
di nuovo rifioriva,
mentre sulla gran croce
inchiodavano l'amore,
lo proibivano,
nessuno io, nessuno tu,
nessuno noi
ci difendemmo bragia a bragia,
bacio a bacio.
Spuntano foglie nuove,
si dipingono d'azzurro le porte,
c'è una nube naiade,
suona un violino sotto l'acqua:
è così in ogni parte:
l'amore è vittorioso.
PRIMI VIAGGI
Quando uscii sui mari fui infinito.
Ero più giovane del mondo intero.
Sulla costa mi veniva incontro
l'ampio sapore dell'universo.
Non sapevo che esistesse il mondo.
Credevo nella torre sommersa.
Tanto avevo scoperto in nulla,
nella perforazione della mia tenebra,
nei lamenti d'amore, nelle radici,
che fui il disabitato che usciva:
un misero proprietario di scheletro.
Allora compresi che ero nudo,
che dovevo vestirmi,
mai avevo guardato le scarpe,
non parlavo le lingue,
non sapevo leggere, ma solo leggermi,
non sapevo vivere senza nascondermi,
e compresi che non potevo più
chiamarmi che non sarei accorso:
l'appuntamento era finito;
mai più, mai più, diceva il corvo.
Dovevo vedermela con tante nubi,
con tutti i cappelli di questo mondo,
con tanti fiumi, anticamere, porte,
e con tanti cognomi, che a impararli
avrei passato tutta la mia triste vita.
Il mondo era pieno di donne,
zeppo come una vetrina,
e dalle chiome che appresi d'improvviso,
da tanto seno puro e splendidi fianchi
seppi che Venere non aveva spuma;
era secca e ferma con due braccia eterne
e resisteva con la sua dura madreperla
la genitale azione della mia impudicizia.
Per me tutto era nuovo. E il pianeta
cadeva tanto era vecchio:
tutto si apriva perché io vivessi,
perché guardassi quel lampo.
Con piccoli occhi di cavallo
guardai la tela più acre che saliva:
che saliva sorridendo a prezzo fisso:
era la tela dell'Europa sfiorita.
PARIGI 1927
Parigi, rosa magnetica,
antica opera di ragno,
eri lì, argentea,
tra il tempo del fiume che cammina
e il tempo inginocchiato in Nôtre-Dame:
un alveare del miele errante,
una città della famiglia umana.
Tutti eran venuti,
e non conto i nomadi
del mio stesso paese disabitato:
lì erano i lenti
con le pazze cilene
che davano altri occhi neri alla notte
crepitante. Dov'era il fuoco?
Il fuoco se n'era andato da Parigi.
Era rimasto un sorriso chiaro
come un'infinità di perle tristi
e l'aria disperdeva un mazzo rotto
di vaneggiamenti e di ragioni.
Forse quello era tutto:
fumo e conversazione. La notte se n'andava
dai caffè ed entrava il giorno
a lavorare come un feroce garzone,
a pulire scale,
a scopar via l'amore ed i supplizi.
In terra restavano ancora dei tanghi,
spilli di chiesa colombiana,
occhiali e denti giapponesi,
pomodori uruguaiani,
qualche cadavere magro di cileno,
tutto doveva esser scopato via,
lavato da immense lavandaie,
tutto sarebbe finito per sempre;
cenere squisita per gli affogati
che ondeggiavano in forma incomprensibile
nell'oblio naturale della Senna.
L'OPPIO NELL'EST
Già da Singapore odorava d'oppio.
Il buon inglese sapeva quel che faceva.
A Ginevra tuonava
contro i mercanti clandestini
e nelle Colonie ogni porto
mandava un tanfo di fumo autorizzato
con numero ufficiale e licenza succosa.
Il gentleman ufficiale di Londra
vestito da impeccabile usignolo
(con pantaloni a righe e amido d'armatura)
gorgheggiava contro il venditore d'ombre,
ma qui in oriente
si toglieva la maschera
e vendeva il letargo a ogni angolo di strada.
Volli sapere. Entrai. Ogni stuoia
aveva il suo giacente,
non parlava nessuno, nessuno rideva, credetti
che fumassero in silenzio.
Ma vicino a me la pipa crepitava
nell'incontro della fiamma con l'ago
e in quella aspirazione del tepore
col fumo lattiginoso nell'uomo entrava
un'estatica gioia, qualche porta lontano
s'apriva verso un vuoto succulento:
l'oppio era il fiore della pigrizia,
il godimento immobile,
la pura attività senza movimento.
Tutto era puro o sembrava puro,
tutto scivolava su olio e cardini
fino ad essere solo esistenza,
nulla ardeva, nessuno piangeva,
non v'era spazio per i tormenti
né carbone per la collera.
Guardai: poveri caduti,
peones, collies di risciò o di piantagione,
miseri trottatori,
cani da strada,
poveri maltrattati.
Qui, dopo essere stati feriti.
divenuti non esseri ma piedi,
non uomini ma bestie da soma,
dopo aver camminato e camminato e sudato e sudato,
sudato sangue e non aver più anima,
qui ora stavano,
solitari,
distesi,
giacenti alfine, i poveretti;
ognuno aveva comprato con la fame
un oscuro diritto alla delizia,
e sotto la corolla del letargo,
sogno o menzogna, felicità o morte, erano
finalmente nel riposo che cerca ogni vita,
rispettati, alfine, in una stella.
AMORI: RANGOON 1927
A Rangoon era tardi per me.
Tutto era stato fatto:
una città
di sangue,
sogno e oro.
Il fiume che scendeva
dalla selva selvaggia
alla calda città,
alle strade lebbrose
dove un hotel bianco per bianchi
e una pagoda d'oro per gente dorata
era quanto
accadeva
e non accadeva,
Rangoon, gradini feriti
dagli sputacchi
del betel,
le fanciulle birmane
stringendo al nudo
la seta
come se il fuoco accompagnasse
con lingue d'amaranto
la danza, la suprema
danza:
il ballo dei piedi verso il Mercato,
il balletto delle gambe per le strade.
Suprema luce che apri sui miei capelli
un globo zenitale, entrò nei miei occhi
e mi percorse nelle vene
gli ultimi angoli del corpo
fino a concedermi la sovranità
d'un amore smisurato ed esiliato.
Fu così, la trovai vicino
alle navi di ferro
presso le acque sudicie
di Martabán: guardava
cercando uomini:
anche lei aveva
color duro di ferro,
la sua chioma era di ferro,
e il sole batteva su di lei come su un ferro di cavallo.
Era il mio amore che non conoscevo.
Mi sedetti al suo fianco
senza guardarla
perché ero solo
e non cercavo fiume né crepuscolo,
non cercavo ventagli,
né danaro né luna,
ma donna, volevo
donna per le mie mani e il mio petto,
donna per il mio amore, per il mio letto,
donna argentata, nera, puttana o pura,
carnivora celeste, arancione,
non aveva importanza,
la volevo per amarla e non amarla,
la volevo come piatto e cucchiaio,
la volevo da vicino, così da vicino
da poterle mordere i denti coi miei baci,
la volevo fragrante solo di donna,
la desideravo con oblio ardente.
Lei forse voleva
o non voleva ciò che Io volevo,
ma li a Martabán, presso l'acqua di ferro,
quando giunse la notte, che lì esce dal fiume,
come una rete colma di pesci immensi,
io e lei camminammo uniti ad immergerci
nel piacere amaro dei disperati.
RELIGIONE NELL'EST
Lì a Rangoon compresi che gli dèi
erano nemici come Dio
del povero essere umano.
Dèi
d'alabastro distesi
come balene bianche,
dèi dorati come le spighe,
dei serpenti attorcigliati
al delitto di nascere,
budda nudi ed eleganti
che sorridevano nel cocktail
della vuota eternità
come Cristo sulla sua croce orribile,
tutti disposti a tutto,
a imporci il loro cielo,
tutti con piaghe o pistola
per comprar pietà o bruciarci il sangue,.
dèi feroci dell'uomo
per nascondere la vigliaccheria,
e lì tutto era così,
tutta la terra odorava di cielo,
di mercanzia celeste.
MONSONI,
Poi andai a vivere contromare.
La mia dimora fu in magiche regioni
eretta, capitolo d'onda,
zona di vento e di sale, palpebra e occhio
di una tenace stella sottomarina.
Splendido era il sole scapigliato,
verde la grandezza delle palme,
sotto un bosco d'alberi maestri e di frutti
il mare più duro d'una pietra azzurra,
nel cielo dipinto ogni giorno
mai la fragile nave d'una nube,
a volte invece l'insolita assemblea
— torrido tuono e acqua detronizzata
cateratta e sibilo della furia —
il Monsone pregno che scoppiava
srotolando il sacco della sua forza.
QUELLA LUCE
La luce di Ceylon mi diede la vita,
mi diede la morte quando io vivevo,
perché vivere dentro un diamante
è scuola solitaria di sepolto,
essere d'improvviso uccello trasparente,
ragno che fila il cielo e s'accommiata.
La luce delle isole mi fece male,
mi lasciò per sempre circospetto
come se il raggio del miele remoto
mi legasse alla polvere della terra,
Giunsi più straniero dei puma
e me n'andai senza conoscere nessuno
perché forse mi sconvolse il senno
la luce occipitale del paradiso.
(La luce che cade sul vestito nero
e perfora la tela e il decoro,
per questo da allora il mio conflitto
è conservarmi nudo ogni giorno.)
Forse non capirà chi non e stato
così lontano come me per avvicinarsi
né così perduto che ormai sembravo
un numero notturno di carboni.
E allora solo pane e solo luce.
Luce nell'anima, luce nella cucina,
di notte luce e di mattina luce
e luce tra le lenzuola del sonno.
Finché allattato in questo modo
dalla crudele chiarità del mio destino
altro non mi resta che vivere
tra disperato e luminoso
sentendomi forse diseredato
di quei regni che non furon miei.
Le reti che tremavan nella luce
continuano a uscir chiare dall'oceano.
Tutta la luce del tempo permane
e sulla sua torre totale il mezzogiorno.
Adesso lutto mi sembra ombra.
TERRITORI
Dove fui ricordo la terra
come se ancora MI comandasse.
Passano i volti — Patay, Ellen, Arciyha —
lì cerco tra la rete e fuggono nuotando
restituiti al loro oceano,
pesci del freddo, effimere donne.
Ma, costa o nevaio, pietra o nume,
persiste in me l'essenza montuosa,
la dentatura della geografia,
continua indelebile un passo nel folto.
È il silenzio dei cacciatori.
Nulla ho perduto, né un giorno verticale,
né una raffica rossa di rugiada,
né gli occhi dei leopardi
ardenti come alcool infuriato,
né le selvagge elitre del bosco
canto totale notturno del fogliame,
né la notte, mia patria costellata,
né il respiro delle radici.
La terra sorge come se vivesse
in me, chiudo gli occhi, quindi esisto,
chiudo gli occhi e s'apre una nube,
s'apre una porta al passaggio del profumo,
entra un nume cantando con le sue pietre,
m'impregna l'umidità del territorio,
il vapore dell'autunno accumulato
nelle statue della sua chiesa d'oro,
e anche dopo morto vedrete
come ancor raccolgo la primavera,
come assumo il rumore delle spighe
ed entra il mare pei miei occhi sotterrati.
QUELLE VITE
Questo sono, io dirò, per lasciar
scritto questo pretesto: questa è la mia vita.
E già si sa che non si poteva:
che in questa rete non solo il filo conta,
ma l'aria che sfugge dalle reti,
e tutto il resto era inafferrabile;
il tempo che corse come una lepre
attraverso la rugiada di Febbraio
e meglio non parlare dell'amore
che si muoveva come un fianco
senza lasciare dove fu tanto fuoco
che una cucchiaiata di cenere
e così con tante cose che volavano;
l'uomo che sperò credendo chiaro,
la donna che visse e non vivrà,
tutti pensaron che avendo denti,
avendo piedi e mani e alfabeto
la vita fosse solo questione d'onore.
Questo unì i suoi occhi alla storia,
afferrò le vittorie del passato.
assunse per sempre l'esistenza
e la vita gli servi solo per morire:
il tempo per non averlo.
La terra alla fine per sotterrarlo.
Ma ciò nacque con tanti occhi
quanti pianeti ha il firmamento
e tutto il fuoco con cui divorava
la divorò senza tregua fino a lasciarla.
E se vidi qualcosa nella vita fu una sera
in India, sulle rive di un fiume:
bruciare una donna in carne ed ossa
e non so se era l'anima o il fumo
ciò che usciva dal sarcofago,
finché non restò donna, fuoco
bara, né cenere: era tardi ormai
e solo notte e acqua e ombra e fiume
restarono lì nella morte.
LA NOTTE A ISLA NEGRA
(la poesia non esiste in “Obras Completas” ed. 2000;
è contenuta in “Plenos Poderes”)
Antica notte e sale disordinato
battono le pareti della mia casa:
l'ombra è sola. il cielo
è ora un palpito dell'oceano,
e cielo e ombra scoppiano
con fragore di combattimento smisurato:
tutta la notte lottano,
nessuno conosce il peso
della crudele chiarità che si andrà aprendo
come un rozzo frutto:
così nasce sulla costa,
dalla furiosa ombra, l'alba dura,
morsa dal sale in movimento,
spazzata via dal peso della notte,
insanguinata nel suo cratere marino.
PIENO D'OTTOBRE
A poco a poco e anche molto a molto
mi successe la vita
e com'è insignificante questo tema:
queste vene recarono
sangue mio che vidi poche volte,
respirai l'aria di tante regioni
senza conservar nulla di nessuno
e in fin dei conti ormai lo sanno tutti:
nessuno si porta via nulla del suo avere
e la vita è stata un prestito di ossa.
Il bello fu che appresi a non saziarmi
della tristezza né dell'allegria.
ad attendere il forse di un'ultima goccia,
a chiedere altro al miele e alle tenebre.
Forse fui castigato:
forse fui condannato a essere felice.
Resti testimonianza qui che nessuno
passò vicino a me senza compartirmi.
E che affondai il cucchiaio fino al gomito
in un'avversità che non era mia,
nell'altrui sofferenza.
Non si trattò di palma o di partito,
ma di poca cosa: non poter vivere
né respirare con quell'ombra,
con quell'ombra d'altri come torri,
come alberi amari che sotterrano,
come colpi di pietra nei ginocchi.
La tua ferita si cura col pianto,
la tua ferita si cura col canto,
ma alla tua stessa porta si dissangua
la vedova, l'indio, il povero, il pescatore,
e il figlio del minatore non conosce
suo padre tra tante bruciature.
Benissimo, ma il mio ufficio
fu
la pienezza dell'anima:
un ahi del godimento che ti taglia l’aria,
un sospiro di pianta abbattuta
o iI quantitativo dell'azione.
Mi piaceva crescere col mattino,
gonfiarmi al sole, a piena gioia
di sole, di sale, di luce marina e d'onda,
e in quello svolgimento della spuma
il mio cuore fondò il suo movimento:
crescere col profondo parossismo
e morire spargendosi sulla sabbia.
ABBAGLIA IL GIORNO
Nulla per gli occhi dell'inverno,
né una lacrima in più.
ora per ora s'arma verde
la stagione essenziale, foglia a foglia,
fino a che col suo nome ci chiamarono
per partecipare alla gioia.
Che bello è l'eterno per tutti,
l'aria limpida, il fiore promesso:
la luna piena lascia
la sua lettera sul fogliame;
uomo e donna tornano dal mare
con un cesto bagnato
d'argento in movimento.
Come amore o medaglia
io ricevo,
ricevo
dal Sud, dal Nord, dal violino,
dal cane,
dal limone, dalla creta,
dall'aria appena posta in libertà,
ricevo macchine d'aroma oscuro,
mercanzie color di tormenta,
tutto il necessario:
zagare, corde.
uva come topazi,
odore d'onda:
io accumulo
senza tregua,
senza fatica,
respiro,
asciugo al vento il mio vestito,
il mio cuore nudo,
e cade,
cade il cielo:
in una coppa
bevo
la gioia.
LE LETTERE PERDUTE
Di quanto scrivono su di me io leggo
come senza vedere, passando,
come se non mi fossero destinate
le parole, quelle giuste e quelle crudeli.
E non è perché non accetti
la verità buona o la cattiva verità,
la mela che vogliono regalarmi
o il velenoso sterco che ricevo.
Si tratta d'altra cosa.
Della mia pelle, dei miei capelli,
dei miei denti,
di ciò che mi accadde nella sventura:
si tratta del mio corpo e della mia ombra.
Perché mi chiesi, mi chiesero,
altro essere senza amore e senza silenzio
apre la fenditura e con un chiodo
a colpi
penetra nel sudore o nel legno,
nella pietra o nell'ombra
che furono la mia sostanza?
Perché toccare me che vivo lontano,
che non sono, che non esco,
che non torno,
perché gli uccelli dell'alfabeto
minacciano le mie unghie e i mici occhi?
Devo soddisfare o devo essere?
A chi appartengo?
Come s'è ipotecato il mio potere
fino ad arrivare a non appartenermi?
Perché ho venduto il mio sangue?
Chi sono i padroni
delle mie incertezze, delle mie mani,
del mio dolore, della mia sovranità?
A volte ho paura
di camminare vicino al fiume remoto,
di guardare i vulcani
che sempre conobbi e mi conobbero:
forse in alto, in basso,
l'acqua, il fuoco, ora mi esaminano:
pensano che non dico più la verità,
che sono uno straniero.
Per questo, rattristandomi,
leggo ciò che forse non era tristezza,
ma adesione o ira
o comunicazione dell'invisibile.
Per me, tuttavia,
tante parole mi avrebbero
separato dalla solitudine.
E vi passai alla larga,
senza offendermi e senza disconoscermi,
come se fossero lettere
scritte ad altri uomini
simili a me, ma distanti
da me, lettere perdute.
NON V’È PURA LUCE
Non v'è pura luce
né ombra nei ricordi:
questi si fecero livida cenere
o pavimento sporco
di strada attraversata dai piedi della gente
che senza sosta usciva ed entrava nel mercato.
E ve n'è altri: i ricordi che cercano ancora cosa mordere
come denti di fiera non sazia.
Cercano, rodono l'ultimo osso, divorano
questo lungo silenzio di ciò che restò indietro.
Tutto restò indietro, notte e aurora,
il giorno sospeso come un ponte tra le ombre,
le città, i porti dell'amore e del rancore,
come se la guerra fosse entrata nel magazzino
portandosi via a una a una tutte le merci
fino a che alle vuote scansie
giungerà il vento attraverso le porte sfasciate
e farà ballare gli occhi dell'oblio.
Per questo a fuoco lento sorge la luce del giorno,
l'amore, l'aroma di una nebbia lontana
e strada a strada torna la città senza bandiere
a palpitare forse e a vivere nel fumo.
Ore di ieri attraversate dal filo
di una vita come da un ago insanguinato
tra le decisioni senza sosta abbattute,
l'infinito colpo del mare e del dubbio
e il palpito del cielo e dei suoi gelsomini.
Chi sono? Quello? Quello che non sapeva
sorridere, e perché a lutto moriva?
Quello che il sonaglio e il garofano della festa
sostenne abbattendo la cattedra del freddo?
È tardi, tardi. E continuo. Continuo con un esempio
dietro l'altro, senza sapere quale sia la morale,
perché da tante vite che ebbi sono assente
e sono, sono nello stesso tempo l'uomo che fui.
Forse questo è il fine, la verità misteriosa.
La vita, la continua successione di un vuoto
che empivano di giorno e d'ombra questa coppa
e il fulgore fu sotterrato come un antico principe
nel suo stesso sudario di minerale malato,
finché così tardivi ormai siamo, che non siamo:
essere e non essere risulta che è la vita.
Di ciò che fui non ho che questi segni crudeli
perché quei dolori confermano la mia esistenza.
III – IL FUOCO CRUDELE
IL FUOCO CRUDELE
Il fuoco crudele
Quella guerra! Il tempo
un anno e un altro e un altro
lascia cadere come fosse terra
da sotterrare
ciò
che non vuol morire: garofani,
acqua,
cielo,
la Spagna, alla cui porta
bussai, perché aprissero,
allora, laggiù,
e una rete cristallina
m'accolse nell'estate
dandomi ombra e chiarità,
freschezza
d'antica luce che corre
sgranata
nel canto;
d'antico canto fresco
che sollecita
nuova
bocca per cantarlo.
Lì giunsi per compiere il mio canto.
Ho già cantato e contato
ciò che a mani piene mi diede la Spagna,
e ciò che mi rubò con agonia,
ciò che da un momento all'altro
mi tolse dalla vita
senza lasciare nel buco
altro che pianto.
pianto del vento in una grotta amara,
pianto di sangue sopra la memoria.
Quella guerra! Non mancò la luce
né la verità,
la gioia non mancò, mancò il pane,
lì vi fu amore, mancarono i carboni:
c'era uomo, fronte, occhi, coraggio
per la più crivellata gesta
e le mani cadevano come spighe recise
senza che si conoscesse la sconfitta,
v'era, cioè, potere d'uomo e d'anima,
ma non v'erano fucili
e ora vi domando
dopo tanto oblio
che fare? che fare? che fare?
Rispondetemi, silenziosi,
ebbri di quel silenzio, sognatori
di quella falsa pace e falso sogno,
che fare con sola collera negli occhi?
con soli pugni, poesia, uccelli.
ragione, dolore, che fare con le colombe?
Che fare con la purezza e con l'ira
se dinanzi a te si sgrana
il grappolo del mondo
e ormai la morte
occupa
la tavola
il letto
la piazza
il teatro
la casa vicina
e blindata s'avvicina da Albacete e da Soria,
per costa e altopiano, per città e fiume,
strada per strada,
e giunge,
e non v'è che la pelle per lottare,
altro non v'è che bandiere e pugni
e il triste onore insanguinato
con i piedi rotti,
tra polvere e pietra,
per la dura strada catalana
sotto le ultime pallottole
camminando
ahi! fratelli valorosi, verso l'esilio!
I morti
Poi quelle morti che mi fecero
tanto male e dolore
come se mi battessero osso per osso:
le morti personali
in cui tu pure muori.
Perché lì Federico e Miguel
furon legati alla croce della Spagna,
gli inchiodarono gli occhi e la lingua,
li dissanguarono e bruciaron vivi,
li bestemmiarono e insultarono,
li fecero rotolare nei burroni
annichiliti
perche sì, perché no, perché fu così.
Così furon feriti,
crocifissi
fin nel ricordo
con la morte spagnola,
con le mosche ronzanti
le sottane,
risate e sputo tra le lance,
minimi scheletri
d'usignolo
per l'ossario nefasto,
gocce di miele insanguinato
perduto
tra i morti
lo ricordo
Attesto!
Io fui
lì,
io vi fui
e soffrii e sostengo
la testimonianza
anche se nessuno vi sarà
che ricordi
io
son colui che ricorda.
anche se non rimarranno occhi sulla terra
io continuerò a guardare
e qui resterà scritto
quel sangue.
quell'amore qui continuerà ad ardere,
non v'è oblio, signori e signore,
e attraverso la mia bocca ferita
quelle bocche continueranno a cantare!
Molto tempo trascorre
Giunsero poi, lenti come buoi,
e come ventisei sacchi di ferro,
secoli di dodici mesi
che chiudevano la Spagna
all'aria, alla parola,
alla sapienza,
restituendo pietra e intonaco,
sbarre e chiavistelli
a quelle porte che per me s'aprirono
durante il mezzogiorno indimenticabile.
S'abituò il dolore alla pazienza,
s'angoscio la speranza nell'esilio,
si sgranò la spiga
di spagnoli
a Caracas splendida, a Santiago,
a Veracruz, nelle sabbie
dell'Uruguay generoso.
Missione d'amore
Io li misi sulla mia nave.
Era giorno e la Francia
ebbe quella volta
il suo vestito di lusso d'ogni giorno,
fu
la stessa chiarità di vino e d'aria
la sua veste di dea forestale.
La mia nave attendeva
col suo nome remoto
« Winipeg »
addossata al molo del giardino acceso,
alle antiche uve asperrime d'Europa.
Ma i miei spagnoli non venivano
da Versailles,
dal ballo argentato,
dai vecchi tappeti d'amaranto,
dalle coppe che risuonano
col vino,
no, da lì non venivano,
no, da Iì non venivano.
Da più lontano,
da campi e prigioni,
dalle sabbie nere
del Sahara,
da aspri nascondigli
dove giacquero
affamati e nudi,
lì alla mia nave
chiara,
alla nave sul mare, alla speranza
accorsero chiamati a uno a uno
da me, dalle loro carceri,
dalle fortezze
della Francia traballante
chiamati dalla mia bocca
accorsero,
Saavedra, dissi, e venne il muratore,
Zúñiga, dissi, ed era lì,
Roces, chiamai, e giunse con sorriso severo,
gridai, Alberti! e con mani di quarzo
accorse la poesia.
Contadini, falegnami,
pescatori,
tornitori, macchinisti,
vasai,
conciatori:
si andava popolando la nave
che partiva per la mia patria.
Io sentivo nelle dita
i semi
della Spagna
che io stesso avevo riscattato e sparso
sul mare, diretti
alla pace
delle praterie.
Io riunisco
Che orgoglio il mio quando
palpitava
il naviglio
e inghiottiva
uomini e uomini, quando
giungevano le donne
separate
dal fratello, dal figlio, dall'amore,
fino al minuto stesso
in cui
io
li riunivo,
e il sole cadeva sul mare
e sopra
quegli
esseri abbandonati
che tra lacrime pazze,
nomi smozzicati,
baci con sapore di sale,
singhiozzi che soffocavano
occhi che dal fuoco solo qui
s’incontrarono:
qui nacquero di nuovo
risorti,
viventi
e la mia poesia era la bandiera
sopra
tante angosce
che dal naviglio li chiamava
palpitando e accogliendo
l’eredità
della scopritrice
sventurata,
della madre remota
che mi diede il sangue e la parola.
AHI! MIA CITTÀ' PERDUTA
Madrid mi piaceva e ormai più non posso
vederla, più, mai più, amara
è la certezza disperata,
come se anch'io fossi morto quando
i miei morivano, come se la metà
dell'anima fosse caduta nella tomba,
e lì giacesse tra pianure secche,
prigioni e galere,
il tempo di prima quando il fiore
ancora non aveva sangue, coaguli la luna,
Madrid mi piaceva pei sobborghi,
per le strade che davano sulla Castiglia
come piccoli fiumi dagli occhi neri:
era la fine del giorno:
strade di cordai e di botti,
trecce di sparto come chiome,
doghe arcuate
da cui
un giorno
il vino sarebbe volato a un roco regno,
strade dei carboni,
della legna,
strade delle taverne affogate
dal getto
del duro Valdepeñas
e strade sole, secche, dì silenzio
compatto come muro,
e un andare, un saltare di piedi senza alfabeto,
senza guida, senza cercare né trovare, vivendo
ciò che viveva
tacendo con quelle
zolle, ardendo
con le pietre
e infine sommesso il grido di una finestra, il canto
di un pozzo, il segno
di una gran risata
che rompeva
con vetri
il crepuscolo, e ancor
più in qua,
nella gola
della tarda città,
cavalli polverosi,
carri dalle ruote rosse,
e l'aroma
delle panetterie al chiudersi
la corolla notturna
mentre volgevo la mia vaga direzione
verso Cuatro Caminos, al numero
3
della via Wellingtonia
dove m'attendeva
sotto due occhi con scintille azzurre
il sorriso che mai più ho riveduto
nel volto
— plenilunio roseo —
di Vicente Aleixandre
che lasciai lì a vivere con i suoi assenti.
FORSE DA ALLORA CAMBIAI
Nella mia patria arrivai con altri occhi
che la guerra m'aveva posto
sotto i miei.
Altri occhi bruciati
nella fiamma,
cosparsi
di pianto mio e del sangue degli altri,
e incominciai a guardare e a vedere più sotto,
più nel fondo inclemente
delle associazioni. La verità
che prima non riuscivo a staccare dal suo ciclo
fu come una stella,
si convertì in campana,
udii che mi chiamava
e che al richiamo altri uomini
si riunivano. D'improvviso
le bandiere d'America,
gialle, azzurre, argentate,
con sole e stella e amaranto e oro
scoprirono alla mia vista
territori nudi,
povera gente di campagna e di strade,
contadini spaventati, indios morti,
a cavallo, guardando ormai senz'occhi,
poi l'imboccatura infernale delle miniere
col carbone, il rame e l'uomo devastati;
questo non era tutto
nelle repubbliche,
ma qualcosa senza pietà, senza coesione:
in alto un galoppante, un superbo freddo
con tutte le sue medaglie,
macchiato del martiri
oppure i signori al Club
con va e vieni discorsivo tra le ali
della vita felice
mentre il povero angelo oscuro,
il povero rammendato,
andava di pietra in pietra e ancor
scalzo e con sì poco da mangiare
che nessuno sa come sopravvive.
I MIEI
Io dissi: Ieri il sangue!
Venite a vedere il sangue della guerra!
Ma qui era diverso.
Non risuonavano gli spari,
non sentii nella notte
un fiume di soldati
passare
sboccando
verso la morte.
Qui era diverso, nelle cordigliere,
qualcosa di grigio che uccideva,
fumo, polvere di miniere o cemento,
un esercito oscuro
che camminava
in un giorno senza bandiere
e vidi dove viveva
l'oppresso
circondato di legna rotta,
terra marcia, latte arrugginite,
e dissi: « io non lo sopporto »
dissi: « fin qui sun giunto nella solitudine ».
Bisogna vedere questi anni da allora.
Forse è cambiata la pelle delle nazioni,
e s'è visto che l'amore era possibile.
S'è visto che bisognava dare senza posa,
s'è fatta luce e da un estremo all'altro
dell'asprezza
arse la fiamma viva
che io recai nelle mie mani.
NELLE MINIERE DELL'ALTO
Nelle miniere dell'alto fui eletto,
giunsi al Senato, mi sedetti, giurai,
con i signori distinti.
« Giuro » ed era vuoto il giuramento
di molti, non giuravano
con il sangue, ma con la cravatta,
giuravano con la voce, con la lingua, con le labbra
e coi denti, ma il giuramento
lì si arrestava.
lo recavo la sabbia,
la pampa grigia, la luna
ampia e ostile di quelle solitudini,
la notte del minatore,
la sete del giorno duro
e il cucchiaio
di povera latta e di minestra povera:
io portai li il silenzio,
il sangue di lassù,
dello scavatore quasi distrutto
che ancora mi sorrideva
con dentatura allegra,
e giurai con l'uomo e la sua sabbia,
con la fame e i minerali combattuti,
con la destrezza e la povertà umana.
Quando io dissi « Giuro »
non giurai diserzione né compromesso,
né per ottenere onore o ornamenti,
venni a porre la mano ardente
sopra il codice secco
perchè ardesse e si bruciasse
col soffio desolato della sabbia.
A volte mi addormentavo
udendo la cascata
invulnerabile
dell'interesse e degli interessati,
perch alla fine alcuni non eran uomini
erano lo O, il 7, il 25,
rappresentavano
cifre
di corruzione,
lo zucchero gli dava la parola
o la quotazione dei fagioli,
uno era il senatore del cemento,
l’altro aumentava il prezzo del carbone,
uno riscuoteva il rame, il cuoio,
la luce elettrica, il salnitro, il treno,
le automobili, gli armamenti,
la legna del Sud pagava voti,
e vidi un signore mummificato,
proprietario delle imbarcazioni;
non sapeva mai quando
doveva dir si o gridare no:
era come un antico palombaro freddo
che fosse rimasto per errore
sotto il sale della marea
e quell'uomo senza nome
e in salamoia
determinava per strana sorte
la legge del giogo che si promulgava
contro i poveri popoli,
stipulando in ogni codicillo
la fame e il dolore
d'ogni giorno,
dando ragione solo alla morte
e nutrendo il borsellino
del negriero.
Corretti
erano
alla luce contraria
i lividi mercanti
della povera Repubblica,
stirati,
rispettabili,
riuniti
nel loro pulito cortile di legno lucido,
regalandosi l'un l'altro il sorriso.
custodendo nel borsellino
il seme
della pianta crescente
del danaro.
Era meglio l'altipiano lassù
o la cava di pietra e le esplosioni
di quelli che mi avevano inviato lì:
compagni irsuti,
donnette senza il tempo di pettinarsi,
uomini abbandonati
della grande estensione di mine.
Presto furono tutti
d'accordo come chiodi
di una casona
marcia:
cadevano le tavole,
ma erano solidali
con la struttura morta.
Si disposero tutti
a dar carcere, tormento,
campi di prigionieri,
esodo e morte a quelli
che nutrivano qualche speranza
e vidi che eran feriti
quelli lontani,
assassinati
i miei
compagni assenti
del deserto, non solo
stabilirono per essi
la costa crudele, Pisagua,
la solitudine, il dolore, l'abbandono,
come unico regno, non solo
in sudore e pericolo,
fame, freddo, miseria desolata,
consistette per il compatriota povero
il pane di ognuno dei suoi giorni:
ora
qui in questo recinto
potei vedere, udire,
emichiusi e setosi pesci,
rosei enormi, calamari,
armati di camicia e d'orologio,
firmare la condanna
del povero diavolo oscuro,
del povero compagno della miniera.
Erano
tutti d'accordo
nel rompere la testa
dell'affamato,
nell'aizzare le lance, T
i bastoni,
nel condannare la patria
a cento anni di sabbia.
Scelsero
le coste
infernali
o l'inabitabile dorso
delle Ande,
qualsiasi
posto
con morte a termine fisso
era scelto
con la lente sulla mappa:
un pezzo
di carta gialla,
un punto d'oro, così
l'aveva nascosto la geografia,
ma il penitenziario di Pisagua, dirupata
prigione di pietra e d'acqua,
lasciò una cicatrice di morso
nella patria, nel suo petto di colomba.
RIVOLUZIONI
Caddero dignitari
avvolti nelle loro toghe
dì fango pieno di vermi,
popoli senza nome levarono in alto le lance,
abbatterono i muri,
inchiodarono il tiranno contro le sue porte d'oro
o semplicemente in maniche di camicia
accorsero
a una piccola riunione
di fabbrica, di miniera o di lavoro.
Furono questi
gli
anni
intermedi;
cadeva Trujillo coi suoi denti d'oro,
e in Nicaragua
un Somoza crivellato
di colpi
si dissanguò nel suo fosso pantanoso
perché su quella talpa morta
salisse ancora come un brivido
un altro Somoza o talpa
che non durerà molto.
Onore e disonore, venti contrari
dei giorni terribili!
Da un luogo ancor nascosto recarono al poeta
qualche alloro oscuro
e lo riconobbero:
passò per i villaggi
col suo tamburo di pelle chiara,
col suo clarino di pietra.
Contadini dagli occhi semichiusi
che impararono ad essere oscuri nell'ombra
e impararono la fame come un testo sacro
guardarono il poeta che attraversava
vulcani, acque, villaggi, pianure,
e seppero chi era:
lo protessero
sotto
il loro fogliame.
Il poeta
era lì con la sua lira
e il suo bastone tagliato sulla montagna
da un albero odoroso
e quanto più soffriva
più sapeva
più cantava quell'uomo;
aveva trovato
la famiglia umana,
le madri perdute,
i padri.
il numero infinito
di nonni, i figli,
così si abituò
ad aver mille fratelli.
Un uomo così non si sentiva solo.
Inoltre con la sua lira
e il suo bastone del bosco
sulla riva
del fiume innumerevole
si bagnava i piedi
tra le pietre.
Nulla accadeva o nulla sembrava
accadere:
forse l'acqua che andava
scivolando in se stessa,
cantando
dalla trasparenza;
la selva lo circondava
col suo color di ferro:
lì era il punto puro
il grado più azzurro, il centro immobile
del pianeta
e lui lì con la sua lira,
tra le rocce
e l'acqua
rumorosa,
e nulla trascorreva
se non l'ampio silenzio,
il battito, il potere
della natura
e tuttavia
a un grave amore era destinato,
a un onore iracondo.
Emerse dai boschi
e dalle acque:
con lui andava con chiarità di spada
il fuoco del suo canto.
SOLILOQUIO MELLE ONDE
Si, ma qui son solo.
Un'onda
si solleva,
forse dice il suo nome, non comprendo,
mormora, trascina il peso
di spuma e movimento
e si ritira, A chi
domanderò cosa mi disse?
Chi tra le onde
potrò nominare?
E attendo.
Di nuovo s'avvicinò la chiarità,
si sollevò nella spuma
il dolce numero
e non seppi nominarlo.
Così cadde il sussurro;
scivolò alla bocca della sabbia:
il tempo distrasse tutte le labbra
con la pazienza
dell'ombra e il
bacio arancione
dell'estate.
Rimasi solo
senza poter accorrere a ciò che il mondo,
senza dubbio, m'offriva,
ascoltando
come si sgranava la ricchezza,
la misteriosa uva
del sale, l'amore sconosciuto
e nel giorno degradato rimaneva
solo un rumore
sempre più distante
finché tutto ciò che potè essere
si convertì in silenzio.
CORDIGLIERE DEL CILE
Devo dire che l'aria
stabilisce una rete. E nubi, neve,
sul più alto delle Ande,
s'arrestarono come pesci puri,
immobili, invitti.
Son circondato
dalla fortezza
dell'altopiano più aspro;
tra le sue mille torri sibila
il vento futuro,
e da cordigliere sdentate
cade l'acqua metallica
in un filo veloce
come se fuggisse
dal cielo abbandonato.
Ogni parola muore e tutto muore
ed è silenzio e freddo la materia
del morto e del sarcofago:
a piena luce, brillando, scorre il fiume,
lungi dalla durezza
e dal morire s'allontana precipitando
la neve che il dolore induriva
e che scese morendo
dalla crudele altura
su cui dormiva:
ieri, avvolta nel sudario,
oggi. amante del vento.
LO SCONOSCIUTO
Voglio misurare il molto che non so
ed è così che giungo
senza rotta, suono e aprono, entro e osservo
i ritratti di ieri alle pareti,
la sala da pranzo della donna e dell'uomo,
le poltrone, i letti, i salini,
solo allora comprendo
che lì non mi conoscono.
Esco e non so che strade vado calpestando,
né quanti uomini questa strada ha divorato,
quante povere donne incitanti,
lavoratori di razza diversa
di emolumenti insoddisfacenti.
LA PRIMAVERA URBANA
Si sciupò il pavimento fino a non esser altro
che una rete di sudici buchi
in cui la pioggia accumulò le sue lacrime,
poi il sole giungeva come un invasore
sopra il pavimento sciupato
della città crivellata senza fine
dalla quale fuggirono tutti i cavalli.
Alla fine caddero alcuni limoni
e qualche rosso vestigio d'arancia
l'imparentò con alberi e penne,
le diede un sussurro falso d'albereto
che non durava molto,
ma provava che in qualche parte
la primavera impudica e argentata
si denudava tra i fiori d'arancio.
Ero io di quel luogo? Della fredda
sostanza di muro contro muro?
La mia anima apparteneva alla birra?
Questo mi chiesero nell’uscire
e nell’entrare in me stesso, nel coricarmi,
questo mi domandavan le pareti,
la pittura, le mosche, i tappeti
calpestati tante volte
da altri abitanti simili
a me fino a confondersi:
avevano il mio naso e le mie scarpe,
la stessa biancheria morta di tristezza,
le stesse unghie pallide, lunghe,
e un cuore aperto come un mobile
in cui sì accumularono i grappoli,
gli amori, i viaggi e la sabbia,
cioè, tutto ciò che accadendo
se ne va e resta inesorabilmente.
MI SENTO TRISTE
Forse io protestai, io protestarono,
forse dissi, dissero: ho paura,
me ne vado, ce ne andiamo, io non sono di qui,
non nacqui condannato all'ostracismo,
chiedo perdono ai presenti,
torno a cercar le penne del mio vestito,
mi lascino tornare alla mia gioia,
all'ombra selvaggia, ai cavalli,
al nero odore d'inverno dei boschi,
gridai, gridammo, e malgrado tutto
le porte non s'aprirono
e restai, restammo
indecisi,
senza vivere né morire annichiliti
dalla perversità e dal potere,
indegni ormai, espulsi
dalla purezza e dall'agricoltura.
RICORDO DELL'EST
La pagoda d'oro soffrii
con gli altri uomini d'argilla.
Era lì e non si vedeva
tanto era dorata e verticale;
con tanta luce era invisibile.
Perché regnava sulla città?
Freccia, campana, imbuto d’oro,
il piccolo essere la pose
in mezzo alle sue decisioni,
nel centro di strade impure
dove piangeva e sputava.
Strade che assorbono e fermentano,
strade come vele di seta
di un naviglio disordinato
e poi le feci che nuotano
sotto la pioggia calda,
le code verdi del pesce,
la pestilenza delta frutta,
tutto il sudore della terra,
te lampade nel detrito.
Per questo mi chiesi
di che ha bisogno l'uomo: del pane
o della vittoria misteriosa?
Sotto due capelli di Dio,
s'opra un dente immenso di Budda
il mio fratello piccolo e scontroso
dagli occhi obliqui e dal pugnale,
il birmano dalla pelle terrestre
e dal cuore arancione,
lui come i miei lontani,
(come il soldato di Tlaxcala
o l'aimarà degli altopiani),
stabilisce un grappolo d'oro,
una Roma, una simmetria,
un Partenone di pietra e di miele,
e lì si prosterna il mendicante
attendendo la voce di Dio
che sempre sta in un altro ufficio.
Così fui io per quelle strade
dell'Asia, un giovane senza sorriso,
senza trovar comunicazione
tra la povera moltitudine
e l’oro dei suoi monumenti.
Nel disordine dei piedi.
del sangue, dei bazar,
cadeva sopra la mia testa
tutto il crepuscolo maligno,
sogni crepitanti, fatica,
malinconia coloniale.
La pagoda brillava come
luna spada nella ferita del cielo.
Dall'alto non cadeva sangue.
Solo dalla notte cadeva
oscurità e solitudine.
AMORI; JOSIE BLISS (I)
Che ne fu della furiosa?
La guerra
andò bruciando
la città dorata
che la sommerse senza che mai più
né la minaccia scritta,
né la bestemmia elettrica uscissero
un'altra volta a cercarmi, a perseguitarmi
come tanti giorni fa, laggiù.
Come tante ore fa
che una a una fecero
il tempo e l'oblio
fino a chiamarsi, infine, forse, morte,
morte, brutta parola, terra nera
in cui Josie Bliss
riposerà irata.
Conterei aggiungendo
ai miei anni assenti
ruga per ruga, che nel suo volto
forse caddero per dolori miei:
perché attraverso il mondo m'attendeva.
lo non giunsi mai più, ma nelle coppe
vuote,
nella stanza da pranzo morta
forse si consumava il mio silenzio,
i miei passi più lontani,
e lei forse finché morì mi vide
come dietro l'acqua.
come se io nuotassi fatto di vetro,
di movimenti impacciati,
e non potesse afferrarmi
e mi perdesse
ogni giorno, nella pallida laguna
dove restò fisso il suo sguardo.
Finché ormai chiuse gli occhi
quando?
Finché tempo e morte la coprirono
quando?
Finché odio e amore se la portarono
dove?
Finché ormai colei che mi amò con furia,
con sangue, con vendetta,
con gelsomini,
non poté continuare a parlar sola,
guardando la laguna della mia assenza.
Ora forse
riposa e non riposa
nel grande cimitero di Rangoon.
O forse sulla riva
dell'Irrawadhy bruciarono il suo corpo
tutta una sera, mentre
il fiume mormorava
quel che piangendo io le avrei detto.
AMORI: JOSIE BLISS (II)
Sì, per quei giorni
vana è la rosa: nulla
crebbe
se non una lingua rossa:
il fuoco che scendeva
dall'estate insepolto,
il sole di sempre.
Io scappai dalla disabitata.
Fuggii come inafferrabile marinaio,
salii su per il Golfo del Bengala
fino alle case sporche della riva
e mi persi
di cuore e d'ombra.
Ma non bastò il mare inappellabile:
Josie Bliss mi raggiunse sconvolgendo
il mio amore e il suo martirio.
Lance di ieri, spade del passatoi
— Son colpevole, — dissi
alla lucciola.
E m'avvolse la notte.
Volli dire che anch'io
soffrii:
non basta:
chi ferisce è ferito fino a morire.
Questa è la storia: fu scritta sulla sabbia,
nell'avvento dell'ombra.
Non e vero! Non è vero!
Era anche l'ora
degli dèi,
di marzapane, di luna,
di ferro, di rugiada,
dèi sanguinali la cui sparsa
demenza
empiva come fumo
le cupole del regno,
sì
esisteva l’aria
densa, il fulgore
degli ignudi,
ahi,
l’odor di nardo che chiudeva
la mia ragione col peso dell'aroma
come se mi chiudessero in un pozzo
da dove non uscii per gridare,
ma per soffocare.
Ahimè, quei muri
che rosero
l’umidità e il calore fino a lasciarli
come la pelle spaccata della lucertola,
sì,
sì,
tutto questo e ancor più: la moltitudine
aperta
dalla violenza di un turbante, da
quei parossismi di turchese
delle donne che si sgranavano
ardendo tra sottane di zafferano.
Altre volte la pioggia
cadde sopra la timida regione:
cadde lenta come le meduse
su bimbi, mercati e pagode:
era altra pioggia,
il cielo fisso
inchiodato come un grave vetro opaco
a una finestra morta
e attendevamo,
poveri e ricchi,
dèi,
sacerdoti e usurai.
cacciatori di iguane,
tjgri che scendevano
da Assam,
affamate e piene
di sangue:
tutti
attendevamo:
gridava il cielo dell'Est,
la terra si chiudeva:
non accadeva nulla.
forse dentro
quegli dèi
germinava e nasceva
una volta di più
il tempo:
si ordinava il destino:
partorivano i pianeti.
Ma il silenzio raccoglieva solo
penne bagnate,
lento sudor celeste,
e per tanta attesa il mondo piangeva
finché il tuono
risvegliava la pioggia,
la vera pioggia,
e allora l'acqua si denudava
ed era
sulla terra
la danza del cristallo, i piedi del ciclo.
le cerimonie del vento.
Pioveva come piove Dio,
come cade l'oceano,
come il tamburo della battaglia,
pioveva il Monsone verde
con occhi e con mani,
con abissi,
con nuove cateratte
che si aprivano
sugli alberi di cocco e sulle cupole,
sul tuo volto, sulla tua pelle, sui tuoi ricordi.
pioveva come se la pioggia uscisse
per la prima volta dalla sua gabbia
e batteva le porte
del mondo: Apritemi! Apritemi!
si apriva
non solo il mondo, ma
lo spazio.
il mistero,
la verità,
tutto si risolveva
in farina celeste
la fecondazione si spargeva
contro la solitudine della foresta,
Così era il mondo e lei sempre sola.
Ieri! Ieri!
I tuoi occhi agguerriti,
i tuoi piedi nudi
che disegnano un fulmine,
il tuo rancore di pugnale, il tuo bacio duro,
come i frutti della gola montana,
ieri, ieri
vivendo
nel rumore del fuoco,
furiosa mia,
colomba della fiamma,
oggi ancora senza la mia assenza, senza sepolcro,
forse, abbandonata dalla morte,
abbandonata dal mio amore, lì
dove il vento Monsone e i suoi tamburi
rullano sordamente e più non possono
cercarmi i tuoi fianchi estinti.
IL MARE
Ho bisogno del mare perché m'insegna;
non sò se imparo musica o coscienza:
non so se è onda sola o essere profondo
o solo roca voce o abbacinante
supposizione di pesci e di navigli.
Il fatto è che anche quando sono addormentato
circolo in qualche modo magnetico
nell'università delle acque.
Non sono solo le conchiglie triturate
come se qualche pianeta tremante
partecipasse lenta morte,
no, dal frammento ricostruisco il giorno,
da una raffica di sale le stalattiti
e da una cucchiaiata il dio immenso.
Ciò che m'insegnò prima lo custodisco! È aria,
vento incessante, acqua e arena.
Sembra poca cosa per l'uomo giovane
che giunse a vivere qui coi suoi incendi,
e tuttavia il battito che saliva
e scendeva al suo abisso,
il freddo dell'azzurro che crepitava,
lo sgretolamento della stella,
il tenero dispiegarsi dell'onda
sperperando neve con la schiuma,
il potere quieto, lì determinato
come un trono di pietra nel profondo,
sostituì il recinto in cui crescevano
ostinata tristezza, oblio accumulato,
e bruscamente cambiò la mia esistenza:
diedi la mia adesione al puro movimento.
INSONNIA
In mezzo alla notte mi domando,
che avverrà del Cile?
Che ne sarà della mia povera povera patria oscura?
Tanto amai questa nave sottile,
queste pietre, queste zolle,
la rosa persistente
del litorale che vive con la schiuma,
che giunsi ad essere una sola cosa con la mia terra,
conobbi ognuno dei suoi figli
e in me le stagioni camminavano
successive, piangendo o fiorendo.
Mi duole che ora, appena
passato l'anno morto dei dubbi,
quando l'errore che ci dissanguò tutti
se n'andò e incominciammo a contare di nuovo
il meglio, il più giusto della vita,
appaia nuovamente la minaccia
e sul muro il rancore inalberato.
ADDIO ALLA NEVE
Chiaretta era lì
C. con barba bianca e vestito bianco
giaceva nel suo ricordo:
essa aveva pianto
cattive nuove:
suo fratello, nel Laos, lontano
morto, e perché così lontano?
Cosa aveva perduto nella selva?
Ma l'Isola,
pietra e profumo in alto,
come torre calcarea
s'innalzava
con la certezza azzurra
del cielo fermo
e forte:
un edificio immobile
sempre appena dipinto,
con gli stessi gabbiani
intrepidi, affamati;
l'Isola
pullulante
di api, di vigne, d'uomini
e di donne,
solitaria sulla roccia,
pura della sua piccola solitudine:
qui i ricchi pazzi,
lì i poveri saggi:
c'è posto per tutti:
c'è troppa luce per rifiutarla:
si versi un bicchiere di luce,
tutto il miele di un giorno,
tutta la notte col suo fuoco azzurro,
stiamocene tranquilli,
non litighiamo con Luca
né con Piero:
un pane di luce per il mondo
dice l'Isola
ed è lì con la luce accumulata
inesauribile come un gran ciliegio
e son dieci anni e salgo scale;
è la stessa,
chiara di calce, colma di verbena,
tra gesso e roccia
i teneri rami teneri,
l'odore tremante
delle vegetazioni increspate;
dall'alto il silenzio
del mare come un anello,
come un anello azzurro,
il mare azzurro,
l’lsola:
ne le guerre né i ricchi la schiacciarono:
i poveri non se n'andarono:
non emigrarono né il fumo
né l'aroma:
ronzavano le vespe:
continuò nelle bottiglie
il vino color d'acqua,
il fuoco trasparente
e ronzavano le elitre
della natura.
Io tornavo da lontano
per andarmene,
per andarmene di nuovo,
e seppi così che così è morire:
è andarsene e resta tutto:
è morire e l’Isola
che fiorisce,
è andarsene e tutto intatto:
i giacinti,
la nave che circonda
come cigno annegato
il pallido piacere
delle arene:
dieci anni che avrebbero potuto essere cent'anni,
cent’anni senza toccare né odorare né vedere,
assenza, ombra, freddo,
e lì tutto fiorito,
rumoroso:
un edificio d'acqua
sempre,
un bacio
sempre,
un'arancia
sempre.
PARTENONE
Salendo per le pietre rugose
nel calore di Giugno:
l'orizzonte, ulivo e alluminio,
le colline
come cicale secche;
lasciamo indietro il re,
la regina falsa,
lasciamo
l’onda minacciosa:
corazzate;
i boa d'Illinois,
sauriani di lowa,
mastini della Louisiana,
lasciamo
il gusto grigio,
il sapore di ferro sanguinario,
l'ostinata torre
amara.
Saliamo allo splendore,
all'edificio,
al rettangolo puro
che ancora sopravvive
sostenuto, senza dubbio,
dalle api.
Rettore del mondo,
canone
della luce,
azzurro nonno
della geometria,
ora le tue colonne
striate dalle unghie
degli dèi perduti,
non sostengono il tetto passeggero
ma tutto l'azzurro,
azzurro indifferente;
così si chiama
l'eternità:
azzurro e il suo nome,
azzurro con voli grigi,
nubi corte,
azzurro disabitato.
E queste chiare colonne.
L'intelligenza stabilì la norma,
edificò il sistema,
sospese la misura nello spazio,
creò la luce, il triangolo.
E li fece volare come colombe.
Dal disordine eterno,
dai gruppi ostili
della natura:
oscurità, radici, sterpeti,
tane e selve terribili,
stalattiti crudeli,
tagliò la proporzione come uno zaffiro.
E l'uomo allora potè
contare e percepire e prolungarsi;
incominciò ad essere l'uomo!
l'ape salì al favo
e gli occhi scesero al problema:
il pensiero ebbe continente
dove camminare e misurare, i piedi ebbero,
guidati dalla linea,
la rettitudine di cui erano assetati:
l'infinito per conoscerlo.
II mare lì estendeva il suo segreto.
II Partenone fu la prima nave,
la nave della luce di prua pura
e navigò il rettangolo marino
diffondendo la favola e il miele.
Accettò la sua bianchezza l'universo.
Quando l'abbandonarono, di nuovo
crebbe il terrore, le ombre;
l'uomo tornò a vivere nella crudeltà.
Lì rimase vuota,
disabitata e pura,
la nave delicata,
dimenticata e radiante,
distante nella sua struttura,
fredda come fosse morta.
Ma non era vero, era viva
la casa, nave, prua,
In direzione centrale della materia.
Non eran tenere le linee
né la severità della sua bellezza
perché permaneva.
Nella pioggia, nella guerra,
nell'ira o nell'oblìo
il suo terribile dovere era durare.
E il tempo non rispetta
il sorriso:
il suo dovere è stare, permanere:
era lezione la pietra,
ragione la luce edificata.
E l'uomo sarebbe tornato,
l'uomo senza il suo dio passeggero,
sarebbe tornato:
l'ordine è l'eternità dell'anima
e l'anima sarebbe tornata
a vivere nel corpo che creò.
Sono sicuro
della pietra immobile,
ma conosco il vento.
L'ordine è solo una creatura.
Cresce e torna a vivere l'edificio.
Una volta e un'altra il fuoco si spegne,
ma l'amore torna alla sua dimora.
MAREE
Crebbi inzuppato d'acque naturali
come il mollusco di fosforo marino:
in me ripercuoteva il sale spezzato
e costruiva il mio scheletro stesso.
Come spiegare, quasi senza movimento
della respirazione azzurra e amara,
a una a una le onde ripeterono
ciò che io presentivo e palpitavo
fino a che sale e succo mi formarono:
il disdegno e il desiderio di un'onda,
il ritmo verde che nel più occulto
innalzo un edificio trasparente,
quel segreto si mantenne e poi
sentii che palpitavo come quello:
che il mio canto cresceva con l'acqua.
LA LUCE DI SOTCHI,.
A Sotchi traboccò tanta luce
che fuori dalla coppa scoppia e cade:
il mare non può contenere i suoi raggi
e una pace d'orologio pende dal cielo
finché come un'elitra marina
l’onda svolge il suo esercizio
in piena castità di pietra e d'acqua,
mentre continuo sole,sale continuo,
si toccano come due dèi ignudi.
SCRITTO A SOTCHI
Vento del mare nella mia testa, sopra
i miei occhi come mani fredde
ahi e viene dall'aria sconvolta,
altro vento, altro mare, dal cielo
immobile, altro cielo azzurro
e un altro io, da lungi, ricevendo
dalla mia età lontana, dal mar distante,
un palpito d'uragano:
in una sussurrante onda del Cile
un colpo d'acqua verde e di vento azzurro.
Non e l'acqua né il vento,
né la salubre arena combattuta,
né il pieno sole dall'aria illuminato
ciò che io vedo veramente,
sono le alghe nere, la minaccia
di quelle torri grandi dell'oceano,
l'onda che corre e sale a dismisura,
l’immenso, travolgente tuono marino,
e lungo il solitario litorale
verso Toltén cammino, camminavo.
Io fui il giovane monarca
di quelle solitudini,
monarca oscuro il cui regno fu
arena, bosco, mare e vento duro:
non ebbi sogni, andavo
con lo spazio, a puro
bacio di sale. aperto,
a colpi d'aria liquida e amara,
continuando, continuando l'infinito.
Cosa volli di più? Di più che poterono darmi
quando ero tutto quello che non ero,
quando tutti gli esseri eran aria,
il mondo un uragano d'arena,
un'ombra combattuta
dal va e vieni del cielo possente
e dai feroci denti dell'oceano?
Che più se i minuti allungavano
la loro tela, ed eran giorni,
e i giorni settimane, e gli anni
trascorrono fino ad ora,
così che lungi e poi
quel mare amaro bacia la mia bocca.
Da mare a mare la vita
andò empiendo
la solitudine e trasformò in granaio
la mia coscienza vuota,
fino a che tutto germinò con me
e lo spazio tra mari,
la mia età tra le due onde lontane
si popolò, come un regno,
di sonagli e di sofferenze,
si empì di bandiere,
ebbe messi, rovine.
ferite e battaglie.
Ora suppongo il vento nelle mie ciglia
come se accumulasse i rimproveri
e volesse lavare con forza e con freddo
la patria che io porto,
come se il duro vento mi conficcasse
le sue lance trasparenti
e non lasciasse in me che il suo peso
di rombo cristallino
e così obbligasse la mia ragione a essere
un palpito della purezza.
Ma da un mare all'altro sta la vita.
Il vento limpido corre
fino a perdere il sale dei suoi aghi
e cadrà come un eroe nudo,
morto in un burrone, tra le foglie.
L'ora se lo porta via,
il vento corre dietro i suoi piedi,
di nuovo il sole, la luna si stabiliscono,
le aquile tornano dall'altura,
ed è così immobile la natura
che solo in me trascorre
il tempo trasparente tra onda e onda.
ESILIO
Tra castelli di pietra stanca,
strade di Praga bella,
sorrisi e betulle siberiane,
Capri, fuoco sul mare, aroma
di rosmarino amaro
e l'ultimo, l'amore,
l'essenziale amore che s'uni alla mia vita
nella pace generosa,
frattanto,
tra una mano amica e un'altra
s'andava scavando un buco oscuro
nella pietra della mia anima
e lì ardeva la mia patria
chiamandomi, attendendomi, incitandomi
ad essere, a preservare, a soffrire.
L'esilio è rotondo:
un cerchio, un anello:
i tuoi piedi lo girano, attraversi la terra,
non è la tua terra,
ti sveglia la luce, e non è la tua luce,
la notte giunge: mancano le tue stelle,
trovi fratelli: ma non è il tuo sangue.
Sei come un fantasma che si vergogna
di non amar di più quelli che t'amano tanto,
e ancora è così strano che ti manchino
le spine ostili della tua patria,
il roco abbandono del tuo popolo,
le amare cose che ti attendono
e che ti latreranno dalla porta.
Ma con cuore irrimediabile
ricordai ogni piccolo segno
come se solo miele delizioso
s'annidasse nell'albero della mia terra
e in ogni uccello attesi
il gorgheggio più remoto,
quello che mi svegliò dall'infanzia
sotto la luce bagnata.
La povera terra del mio paese, il cratere,
le arene, il volto minerale dei deserti
tutto mi sembrò migliore
della coppa di luce che m'offrirono.
Mi sentii solo nel giardino, sperduto:
fui un rustico nemico della statua,
di ciò che molti secoli decisero
tra api d'argento e simmetria.
Esili! La distanza
si fa densa,
respiriamo l'aria dalla ferita:
vivere è un precetto obbligatorio.
Tanto è ingiusta l'anima senza radici!
Rifiuta la bellezza che le offrono:
cerca il suo sventurato territorio:
e solo lì il martirio o la calma.
IV – IL CACCIATORE DI RADICI
Alla memoria dell’amico
ALBERTO
scultore di Toledo,
Repubblica Spagnola
IL CACCIATORE NEL BOSCO
Nel mio bosco entro con radici,
con la mia fecondità: Da dove
vieni? mi chiede
una foglia verde e ampia come una mappa.
Io non rispondo. Lì
il terreno è umido
e le mie scarpe s'inchiodano, cercano qualcosa,
battono perché aprano,
ma la terra tace.
Tacerà finché io incomincerò ad essere
sostanza morta e viva, rampicante,
feroce tronco dell'albero spinoso
o chioma tremante.
La terra tace perché non sappiano
i suoi nomi diversi, né il suo idioma disteso,
tace perché lavora
ricevendo e nascendo:
raccoglie quanto muore
come una vecchia affamata:
tutto marcisce in lei,
persino l'ombra,
il fulmine,
i duri scheletri,
l'acqua, la cenere,
tutto si unisce alla rugiada,
alla nera pioggerella
della selva.
Lo stesso sole marcisce
e l'oro interrotto
che le getta
cade nel sacco della selva e subito
si fonde nell'amalgama, si fa farina,
e il suo contributo risplendente
arrugginisce come arma abbandonata.
Vengo a cercar radici,
quelle che trovarono
l'alimento minerale del bosco,
la sostanza
tenace, il cupo zinco,
il rame velenoso.
Quella radice deve nutrire il mio sangue.
Altra increspata, giù,
è parte possente
del silenzio,
s'impone come passo di rettile:
avanza divorando,
tocca l'acqua, la beve,
e sale su per l'albero
l'ordine segreto:
cupo è il lavoro
perché le stelle sian verdi.
LONTANO MOLTO LONTANO
Mi piace cantare nel campo.
Ampia è la terra, il fogliame
palpita, la vita
cambia le sue moltiplicazioni;
da ape a polline, a fronda,
ad alveare, a rumore, a frutta,
e tutti lì è così segreto
che respirando tra le foglie
sembra che cresca con te
l'economia del silenzio.
Era così lontano dalla mia terra
quel campo, la notte stessa
camminava con altri passi,
con passi sanguinari di fosforo.
Da dove veniva il fiume
Irrawadhy con le sue radici?
Da così lontano, tra le tigri.
La nell'ombra consunta
le penne erano un incendio
nello splendore delle ali
e il verde insepolto volava
tra le raffiche del fuoco.
Ahi io vidi il lampo rotondo
del leopardo sulla strada
e ancora vedo gli anelli
di fumo dimenticato sulla pelle d'oro,
il brusco salto e l'assalto
di quella collera stellata.
Elefanti che accompagnarono
il mio cammino nelle solitudini,
grigie proboscidi della purezza,
pantaloni poveri del tempo,
oh bestie della nebbia
spinte nel carcere
delle tenebre taciturne
mentre qualcosa s'avvicina e fugge,
tamburo, paura, fucile o fuoco.
Finché rotola tra le foglie
l'elefante assassinato
nella sua attonita monarchia.
Di quei ricordi ricordo
la selva spaziosa nella notte,
il gran cuore crepitante.
Era come vivere entro
l'utero della terra;
un sibilo veloce, un colpo
di qualcosa di cupo che cadde:
l'arbitrio del fogliame
che attendeva il suo svolgimento
e gli insetti torrenziali,
le larve che scricchiolano e crescono,
le agonie divorate,
la coabitazione notturna
delle vite e delle morti..
Ahi! conservo ciò che vissi
ed è tale il peso dell'aroma
che ancora prevalgono nei miei sensi
il battito della solitudine,
i palpiti della selva!
SORELLA CORDIGLIERA
II frate disse solo « sorella acqua »,
« fratello fuoco »,
e anche « fratello uccello ».
Là non vi sono cordigliere,
Ma l'avrebbe dovuto dire perché essa
è acqua, fuoco e uccello.
Bene le sarebbe stato
« sorella cordigliera ».
Grazie, sorella grande
perché esisti.
Per questa pagliuzza che come una spada
entro nel tuo cuore di pietra
e continuò il suo filo.
Tutte le tue erbe mordono,
hanno fame,
il tuo vento piange di furia,
ha fame,
le tue grandi rocce silenziose
custodiscono il fuoco morto
che non potè saziarsi.
Là, lassù,
non è cielo verde,
no,
è il vulcano che attende.
tutto distrusse e fece di nuovo,
cadde con tutti i suoi denti rossi,
tuonò con tutte le sue gole nere,
poi
scaturì il seme ardente,
le gole,
la terra,
conservarono
il denso tesoro,
il solforico vino
di fuoco, morte e vita,
e si fermò ogni movimento:
solo il fumo ascendeva
dal conflitto.
Poi toccammo ogni pietra,
dicemmo:
— Questa è arancione.
— Questa è ferruginosa.
— Questa è l'arcobaleno.
— Questa è di pura calamità.
— Questa ha verruche.
— Questa e una colomba.
— Questa ha occhi verdi.
Perché così sono le pietre
e caddero dall'alto:
avevan sete e qui riposano
attendendo la neve.
Così nacque questa pietra
bucherellata,
questi monti irsuti
così nacquero
queste sale di rame
verticali,
queste ferite rosse
delle fronti andine
e l'acqua che uscì dalle sue prigioni
e cantando erompe e continua.
Più, ora
bianca e verde
è l'erba
cresciuta sulle alture,
rigida come lancia vincitrice,
le argentee spine.
Né albero, né ombra, tutto
si presenta alla luce come il sale:
vive d'un sol colpo la sua esistenza.
È la patria nuda.
l'azione del fuoco.
della pietra, dell'acqua,
del vento
che pulì la creazione,
e qui alfine ci sentimmo nudi,
giungemmo alfin senza morire
al luogo dove nasce l'aria,
alfine conoscemmo la terra
e la toccammo nella sua origine.
Per tutte queste cose così aspre
e per la neve, di materia soffice,
ti ringrazio, sorella cordigliera.
IL FIUME CHE NASCE DALLE CORDIGLIERE
Il fiume non sa di chiamarsi fiume.
Qui nacque, le pietre lo combattono
e così nell'esercizio
del primo movimento
apprende musica e stabilisce schiume,
Non è che un vago filo
nato dalla neve
tra le circostanze
di roccia verde e d'altopiano:
è un povero lampo
perduto
che incomincia a tagliare
col suo scintillio
la pietra del pianeta,
ma qui
così sottile
e oscuro
è
come se non potesse
sopravvivere cadendo
cercando nella durezza il suo destino
e gira in vetta,
trafigge il costato minerale del monte
come pungiglione e volan le sue api
verso la libertà della prateria.
Le piante della pietra
volgono contro lui i loro spilli,
la terra ostile lo torce,
gli dà forma di freccia o di ferro di cavallo,
lo riduce fino a farlo invisibile,
ma resiste e continua,
minuscolo,
trapassando la soglia ferrigna
della notte vulcanica,
trapanando, rodendo,
sorgendo intatto e duro come spada,
convertito in stella contro il quarzo,
più tardi lento, aperto alla freschezza,
fiume alla fine, costante e abbondante.
IL RE MALEDETTO
La vecchia selva piange tanto
che ormai è marcia la terra.
È la madre della tigre e degli scarabei.
È anche la madre del dio che dorme.
Il dio che dorme
non dorme perché ha sonno,
ma perché i suoi piedi son di pietra.
Piangeva con tutte le sue foglie,
con tutte le sue palpebre nere.
Quando la tigre scese a bere
aveva sangue sul muso
e il dorso pieno di lacrime.
L'iguana scese per il pianto
come una nave scivolosa
e con le gocce che cadevano
moltiplicò le sue ametiste.
Un uccello dal volo scarlatto, viola, giallo,
rovesciò il carico che il cielo
aveva lasciato sui rami, sospeso.
Ahi, cos'ha mangialo la selva!
I suoi alberi stessi, i sogni
delle liane e delle radici,
quel che restò della palomba
dopo che fu assassinata,
i vestiti del serpente.
le torri pazze del fogliame,
il becco crudele delle tartarughe,
tutto si mangia la selva.
I minuti che con lentezza
s'andaron convenendo in secoli.
in polvere di rami inutili,
i giorni brucianti,
le notti nere, senz'altra luce
che il fosforo dei leopardi,
tutto
divorò
la selva.
La luce,
la morte,
l'acqua,
il sole,
il tuono,
le cose che fuggono,
gli insetti
che ardono e muoiono, consumati
nelle loro piccole vite d'oro,
la torrida estate e la sua cesta
d'innumerevoli frutti rossi,
il tempo
con la sua chioma,
tutto è alimento che cade
nell'antica, nella verde bocca
della selva divoratrice.
Lì giunse il re con la sua lancia.
CIÒ CHE NASCE CON ME
Canto l'erba che nasce con me
in questo istante libero, i fermenti
del formaggio, dell'aceto, la segreta
fioritura del primo seme, canto
il canto del latte che ora cade
di bianchezza in bianchezza ai capezzoli,
canto le crescite della stalla,
il fresco sterco delle grandi vacche
dal cui aroma volan moltitudini
d'ali azzurre, parlo
senza transizione di ciò che ora accade
al calabrone col suo miele, al lichene
con le sue germinazioni silenziose:
come un tamburo eterno
suonano le successioni, il passaggio
d'essere a essere, e nasco, nasco, nasco
con ciò che sta nascendo, sono unito
alla crescita, al sordo dintorno
di quanto mi circonda, pullulando,
propagandosi in dense umidità,
in stami, in tigri, in gelatine.
Io appartengo alla fecondità
e crescerò finché crescono le vite;
son giovane con la gioventù dell'acqua,
son lento con la lentezza del tempo,
son puro con la purezza dell'aria,
oscuro col vino della notte
e solo starò immobile quando sarò
così minerale da non vedere né udire,
da non partecipare a ciò che nasce e cresce.
Quando scelsi la selva
per imparare a essere,
foglia per foglia.
estesi le mie lezioni
e appresi a esser radice, fango profondo,
terra silenziosa, notte cristallina,
e a poco a poco più, tutta la selva.
IL PESCATORE
Con lunga lancia il pescatore nudo
attacca il pesce appiccicato alle scogliere
il mare l'aria l'uomo stanno immobili
forse come una rosa la pietà
si apre all'orlo dell'acqua e sale lenta
trattenendo in silenzio la durezza
sembra che a uno a uno i minuti
si sian ripiegati come un ventaglio
e il cuore del pescatore nudo
abbia tranquillizzato nell'acqua il suo battito
ma quando la roccia non guardava
e l'onda dimenticava i suoi poteri
nel centro di quel pianeta muto
si scaricò il lampo dell'uomo
contro la vita immobile della pietra
inchiodò la lancia nella materia pura
il pesce ferito palpitò nella luce
crudele bandiera del mare indifferente
farfalla di sale insanguinato.
APPUNTAMENTO D'INVERNO
Ho atteso questo inverno come nessun inverno
fu atteso da uomo prima di me,
tutti avevano appuntamenti con la felicità:
solo io l'attendevo, ora oscura.
Questo è come quelli d'un tempo, con padre e madre,
con fuoco
di carbone e il nitrito d'un cavallo nella strada?
Questo inverno è come quello dell'anno futuro,
quello dell'inesistenza, col freddo totale
e la natura non sa che ce n'andammo?
No. Reclamai la solitudine circondata
da un gran cinturone di pura pioggia
e qui nel mio stesso oceano m'incontrò col vento
volando come un uccello tra due zone d'acqua.
Tutto era disposto perché il cielo piangesse.
Il ciclo fecondo da una sola dolce palpebra
lasciò cadere le sue lacrime come spade glaciali
e si chiuse come stanza d'albergo
il mondo: cielo, pioggia e spazio.
II
Oh centro, oh coppa senza latitudine né termine!
Oh cuore celeste dell'acqua versata!
Tra l'aria e l'arena balla e vive
un corpo destinato
a cercare il suo alimento trasparente
mentre io giungo ed entro con cappello,
cineree scarpe
sciupate dalla sete delle strade.
Nessuno era arrivato
per la solitaria cerimonia.
Ora che la purezza è percettibile
mi sento appena solo.
So che non ho fondo, come il pozzo
che c'empì di paura da bambini,
e circondato dalla trasparenza
e dal palpito degli aghi
parlo con l'inverno,
con la dominazione e col potere
del suo vago elemento,
con l'estensione e la spruzzatura
della sua rosa tarda
fino a che d'improvviso più non c'era luce
e sotto il tetto
della casa oscura
senza che alcuno risponda continuerò
a parlare con la terra.
IlI
Chi non desidera un'anima dura?
Chi non s'è praticato nell'anima un filo?
Quando appena potemmo vedere scorgemmo l'odio
e appena camminammo ci investirono
e appena volemmo amare ci vollero male
e appena toccammo fummo feriti,
chi non fece qualcosa per armare le sue mani
e per sussistere farsi duro
come il coltello, e restituire la ferita?
Il delicato pretese ruvidezza,
il più tenero cercava impugnatura,
colui che solo voleva che lo amassero
con un forse, con la metà di un bacio,
passò altero senza guardare quella
che l'aspettava aperta e sventurata;
non vi fu nulla da fare: di strada in strada
si stabilirono mercati di maschere
e il mercante provava ad ognuno
un volto di crepuscolo o di tigre.
d'austero, di virtù, di antenato,
fino a che termino la luna piena
e nella notte senza luce fummo uguali.
IV
Io ebbi un volto che persi nell'arena,
una pallida parte di dolente
e mi costò cambiare la pelle dell'anima
fino a giungere ad essere il vero,
a conquistare questo diritto triste:
attendere l'inverno senza testimoni.
Attendere un'onda sotto il volo
del rugginoso cormorano marino
in piena solitudine restituita.
Attendere e trovarmi con un sintomo
di luce o lutto
o nulla:
ciò che appena la mia ragione percepisce,
il mio torto, il mio cuore, i miei dubbi.
V
L'acqua ora ha ormai tanto tempo
che è nuova, l'acqua antica fuggì
a rompere il suo cristallo in altra vita
e l'arena neppure raccolse
il tempo, è altro il mare e la sua camicia,
l'identità perse lo specchio
e crescemmo cambiando di strada.
VI
Inverno, non cercarmi. Son partito.
Son dopo, in ciò che ora giunge
e svolgerà la pioggia fine,
gli aghi senza fine, il matrimonio
dell'anima con gli alberi bagnati.
la cenere del mare, lo scoppio
d'una capsula d'oro nel fogliame.
ed i miei occhi tardi
preoccupati solo della terra.
VII
solo per terra, vento, acqua e sabbia,
che mi diedero chiarità plenaria.
L'EROE
La padrona del castello m'invitò
in ogni stanza per piangere.
Io non la conoscevo
ma l'amavo con amore amaro
come se le mie sventure si dovessero
al fatto che una volta lasciò cadere su di me
le sue trecce, spargendomi addosso l'ombra.
Adesso era ormai tardi.
Entrammo
tra i ritratti morti,
e i passi
erano
come
se andassimo bussando
verso il basso
alla porta
dei triste onore, del labirinto cieco,
e l'unica verità
era l’oblio.
Per questo, in ogni stanza
il silenzio era un liquido,
e la signora dura del castello
e io, il testimone nero,
vacillavamo insieme
fluttuando in quel freddo,
toccava il soffitto con la sua chioma;
in alto l'oro sporco
dei vecchi saloni
si confondeva con i suoi piedi nudi.
II denso segreto
delle camere caduche
mi sollevava, ma io lottai
invocando la naturalezza
della fisica pura,
ma la castellana sommersa
m'invitò a continuare
e divagando
sui tappeti rotti,
piangendo nei corridoi,
giunsero ore pure e vuote,
senza alimentazione e senza parole,
e tutto era passato o sogno vano,
o il tempo
non ci riconosceva
e nella sua rete, imprigionati come pesci, eravamo
due condannati al castello immobile.
Sostengo quelle ore nelle mie mani
come si custodiscono pietre o ceneri
senza chiedere altro ai ricordi.
Ma. se il mio destino errante
mi conduce alle mura del castello,
mi copro con la mia maschera,
affretto
il passo vicino al fossato,
attraverso le rive del funesto lago,
m'allontano senza guardare: forse le sue trecce
cadranno una volta di più dai balconi
e lei con pianto acuto
arriverà al mio cuore a trattenermi.
Per questo io, l'astuto cacciatore
cammino mascherato pel bosco.
BOSCO
Cercai per sotterrare di nuovo
La radice dell’albero defunto:
mi sembrava che nell’aria
quella chioma dura
fosse il dolore del passeggero:
e quando la misi nella terra
rabbrividì come una mano
e di nuovo forse, questa volta,
tornò a vivere con le radici.
Io sono di quel villaggio sperduto
Sotto la campana del mondo:
non ho bisogno degli occhi
la sete determina la mia patria
e l’acqua cieca che mi nutre.
Allora dal bosco logoro
Estrassi il bene dissotterrato
Dalla tempesta o dall’età:
guardai in alto e dentro
come se tutto mi spiasse:
non potevo sentirmi solo,
il bosco contava su di me
per i suoi lavori profondi.
E quando scavai, mi guardavano
I cotiledoni fogliacei,
gli epipetali ipoginei,
le drupe d’intimo contatto,
le migranti azorellas,
i nothofagos inclementi.
Esaminavano la quiete
delle mie mani ferrigne
che di nuovo scavavano un buco
per radici risorte.
L'amancai e l’altramuz
si ergevano sulla creta
fino alle foglie e agli occhi
del raulí che mi esaminava,
del maitén puro e tremante
con le sue ghirlande d'acqua verde:
e io sostenevo nella selva
quel silenzio irresponsabile
come un maggiordomo vuoto
senza arnesi né linguaggio.
Nessuno sa la mia professione
d'attaccato alle radici,
tra le cose che scricchiolano
e quelle che fischian d'improvviso,
quando le heliánteas homógamas
costruiscono i loro cubi genesici
tutta la selva vaginale
è una stiva odorosa,
e vado e vengo spargendo
le costellazioni del polline
nel silenzio possente.
D'IMPROVVISO UNA BALLATA
Sarà vero che di nuovo ha bussato
come aroma o timore, come straniero
che non conosce bene strada né casa.
Sarà vero, così tardi, e poi ancora
la vita manifesta una rottura
qualcosa nasce nel fondo di ciò che era
cenere
e trema il bicchiere col nuovo vino
che cade e che l’accende. Ahi! questa
sarà uguale a ieri, strada senza segnali,
e le stelle ardono con freschezza
di gelsomini tra te e la notte,
ahi! e qualcosa che assume l'allegria
frettolosamente ricacciata
e che dichiara senza che nessuno ascolti
che non s'arrende. E sale una bandiera
una volta di più sulle torri bruciate.
Oh amore oh amore d'improvviso e minaccioso,
improvvisamente, oscurato, freme
la memoria e accorre
il naviglio d'argento,
il luogo di sbarco mattutino:
nebbia e schiuma coprono le rive,
corre un grido spaziale verso le isole
e in piena porta ferita dell'Oceano
la sposa con la sua coda di gigli
pronta per partire. Guarda le sue trecce:
son due cascate pure di carboni,
due ali nere come rondini,
due pesanti catene vittoriose.
E lei come nell'appuntamento di nozze
attende coronata dal mare
sull'imbarcadero immaginario.
AMORI: DELIA (I)
Delia è la luce della finestra aperta
alla verità, all'albero del miele,
e passò il tempo senza che io sapessi
se rimase degli anni feriti
solo il suo splendore d'intelligenza,
la dolcezza con cui accompagnò
la dura abitazione dei miei dolori.
Perché a giudicare da quel che io ricordo.
dove le sette spade s'inchiodarono
in me, cercando sangue,
e mi sbocciò dal cuore l'assenza,
lì, Delia, la luna luminosa
della tua ragione allontanò i dolori.
Tu, dall'esteso paese
a me giungevi
con cuore esteso, diffuso
come un cereale dorato, aperto
alle trasmigrazioni della farina,
e non v'è tenerezza come quella che cade
come cade la pioggia sulla prateria:
lente arrivano le gocce, le riceve
lo spazio, lo sterco, il silenzio
e lo svegliarsi del bestiame
che mugge nell'umidità sotto il violino,
del cielo.
Da lì,
come l'aroma che lasciò la rosa
su un vestito a lutto e d'inverno
così d'improvviso ti riconobbi
come se sempre fossi stata mia
senz'essere, senza altro che quel nudo
vestigio o ombra chiara
di petalo o di spada luminosa.
Allora giunse la guerra;
tu e io la ricevemmo alla porta:
sembrava una vergine transitoria
che cantava morendo
e sembrava bello
il fumo, lo scoppio
della polvere azzurra sulla neve,
ma d'improvviso
le nostre finestre rotte,
la mitraglia
tra i libri,
il sangue fresco
in pozze per le strade:
la guerra non è sorriso,
s'addormentavano gli inni,
vibrava il suolo al passo
pesante del soldato,
la morte sgranava
spiga dietro spiga:
non tornò il nostro amico,
fu amara senza piangere
quell'ora,
poi, poi le lacrime,
perché l'onore piangeva,
forse nella sconfitta
non sapevamo
che s'apriva la fossa più immensa
e a terra sarebbero cadute
nazioni e città.
Quell'età sono le nostre cicatrici.
Conservammo la tristezza e le ceneri.
Vengono ormai
per la porta
di Madrid
i mori,
entra Franco sul suo carro di scheletri,
i nostri amici
morti, esiliati.
Delia, tra tante foglie
dell'albero della vita,
la tua presenza
nel fuoco,
la tua virtù
di rugiada:
nel vento iracondo
una colomba.
AMORI: DELIA (II)
La gente tacque e s’addormentò
Come ognuno era e sarà:
orse in te non nasceva il rancore,
perché sta scritto dove non si legge
che l’amore estinto non è la morte
ma un’amara forma di nascere.
Perdono per il mio cuore dove
Abita il gran rumore delle api:
io so che tu, come tutti gli esseri,
tocchi il miele eccelso
e distacchi
dalla pietra lunare, dal firmamento,
la tua stella,
e cristallina sei tra tutte.
Io non disprezzo, non disdegno, sono
tesoriere del mare, ascolto appena
le parole del male
e ricostruisco
la mia stanza, la mia scienza, la mia gioia,
e se potei aggiungerti la tristezza
dei miei occhi assenti, non fu mia
la ragione e neppure la stoltezza:
amai di nuovo e l’amore sollevò
un’onda nella mia vita e fui empito
dall’amore, solo dall’amore,
senza destinare a nessuno la sventura.
Per questo, passeggera
dolcissima,
filo d'acciaio e di miele che legò le mie mani
negli anni sonori,
tu esisti non come rampicante
sull'albero ma con la tua verità.
Passerò, passeremo,
dice l'acqua
e la verità canta contro la pietra,
il fiume straripa e devia,
crescono l'erbe pazze
sulla riva:
passerò, passeremo,
dice la notte al giorno,
il mese all'anno,
il tempo
impone rettitudine al testimone
di quelli che perdono e di quelli che guadagnano,
ma instancabilmente cresce l'albero
e muore l'albero e alla vita accorre
altro germe e tutto continua.
E non è l'avversità quella che separa
gli esseri, ma
la crescita,
mai un fiore è morto: nasce sempre.
Per questo benché perdonami
e perdono
e lui è colpevole e lei
e vanno e vengono
le lingue legate
alla perplessità e all'impudicizia,
la verità
è
che tutto è fiorito
e il sole non conosce le cicatrici.
LA NOTTE
Entro nell'aria nera.
La notte viaggia, ha
pazienza nel suo fogliame,
si muove
col suo spazio,
rotonda,
bucherellata,
con che piume s'avvolge?
O va nuda?
Cadde su metalliche
montagne
coprendole con sale
di stelle dure;
a uno a uno
quanti monti
esistono
s'estinsero e discesero sotto le sue ali:
sotto il lavoro nero delle sue mani.
Al tempo stesso
fummo
fango nero,
pupazzi
abbattuti
che dormivano
senza essere, lasciando fuori il vestito diurno,
le lance d'oro, il cappello di spighe,
la vita con le sue strade e i suoi numeri
rimase lì,
mucchio di povero orgoglio,
alveare senza suono.
Ahi notte e notte aperta
bocca, barca, bottiglia,
non solo tempo e ombra,
non solo la fatica,
qualcosa irrompe, si colma
come una tazza,
latte oscuro,
sale nero,
e cade
entro
il suo pozzo
il destino,
si brucia quando esiste, il fumo
viaggia cercando spazio fino a estendere la notte,
ma
dalla cenere
domani
nasceremo.
OH TERRA, ATTENDIMI
Restituiscimi oh sole
il mio destino agreste,
pioggia del vecchio bosco,
rendimi l’aroma e le spade
che cadevano dal cielo,
la solitaria pace di erba e di pietra,
l'umidità delle rive del fiume,
l'odore del larice,
il vento vivo come un cuore
che palpita tra la scontrosa moltitudine
della grande araucaria.
Terra, rendimi i tuoi doni puri,
le torri del silenzio che salirono
dalla solennità delle sue radici:
voglio tornar a essere ciò che non son stato,
imparare a tornare da così profondo
che tra tutte le cose naturali
possa vivere o non vivere: non importa
essere una pietra di più, la pietra oscura,
la pietra pura che il fiume si porta via.
PATAGONIE
Aspro territorio,
estremo sud dell'acqua:
percorsi
i fianchi,
i piedi, le dita fredde
del pianeta,
guardando dall'alto
il duro cipiglio,
monti ostinati e neve abbandonata,
cupole del vuoto,
osservando,
come una cinta che si svolge
sotto le ali ferree
l'ostilità
della natura.
Qui, vette d'ombra,
ghiacciai,
e l'infinito orgoglio
che fa risplendere
le solitudini,
qui, in qualche appuntamento
con radici
o solo con l'impeto del vento,
devo esser nato.
Devo vedere, ho doveri puri
con questa chiarità intricata
e mi pesa lo spazio nel passato
come se la mia piccola storia umana
si fosse scritta a colpi nella neve
e ora scoprissi
il mio nome, il mio stupore silvestre,
la vulcanica statua della vita.
II
La patria si scopre
petalo a petalo
sotto gli stracci
perché da tanta solitudine l'uomo
non estrasse fiore, né anello, né cappello:
non trovò in questi altipiani
che la lingua
dei nevai,
i denti della neve,
il ramo turbolento
dei fiumi.
Ma questi monti
mi rasserenano,
la pace scontrosa,
il corpo della luna
sparso
come uno specchio rotto.
Dall'alto accarezzo
la mia pelle, i mici occhi,
la mia tristezza,
e nella mia estensione vedo l'ombra:
la mia Patagonia;
appartengo agli aspri conflitti,
di qualche stella immensa
che cadde sconfiggendomi
e solo sono una radice ferita
del rozzo territorio:
mi bruciò la ciclonica neve,
le schegge del gelo.
l'insistenza del vento,
la crudeltà chiara, la notte pura e dura
come una spina.
Chiedo
alla terra, al destino,
questo silenzio
che m'appartiene.
SERENATA DI MESSICO
Da Cuernavaca al mare Messico distende
pinete, villaggi grigi, fiumi spezzati
tra la pietra antica, brughiere, erbe
con occhi d'amaranto, iguane lente,
tetti di tegola arancione, spine,
scavi di miniera abbandonata,
serpenti ignei, uomini polverosi,
e la strada ondulante, addormentata
dalla geologia dell'inferno.
Oh cuore profondo, pietra e fuoco.
stella ritagliata,
rosa nemica,
polvere da sparo nel vento!
Vissi la slealtà
della vecchia crudeltà,
toccai la rosa
perenne,
il rumore
dell'ape incessante;
quanto il piccolo messicano tocca
con dita o con ali,
filo, argento, legno,
pelle, turchese, fango,
si converte in corolla duratura,
prende esistenza e vola crepitando.
Oh Messico, tra tutte
le vette
o deserti
o campagne
del nostro territorio dissanguato
io ti separerei
come vivo,
come millenario sogno e come lampo,
come sotterraneo di tutte le ombre
e come fulgore e amore mai domati.
Aria per il mio petto,
per le vane
sillabe
dell'uomo,
dell'uomo che ti canta:
così fu il pellegrino
dall'agave alla pietra, ai cappelli,
ai telai, all'agricoltura,
e qui ho sulla mia tempia la cicatrice
per averti amato e conosciuto
e quando di notte chiudo gli occhi
sento musica povera
della tua strada
e vado dormendo come navigando
nel respiro di Sinaloa.
A mano innalzarono
la tua irsuta geografia,
a mani d'uomo oscuro,
a mani di soldato.
di contadino, di musicista,
fu temprata la tua statura
e la creta e la pietra innalzate
sulla riva nuziale
degli oceani
si popolarono di spine.
d'agavi
la cui giada dischiuse per le sue ferite
gli occhi alcoolici
del sogno e dell'ira.
Così tra gli sterpeti si unirono
farfalle e ossa di defunti,
papaveri e dèi dimenticati.
Ma gli dèi non dimenticavano.
Madre materia, germe,
terra germinatrice,
argilla
tempestosa
della fecondazione, pioggia accesa
sopra le terre rosse,
in ogni parte
risorse la mano:
dalla vecchia cenere del vulcano
l'oscura mano pura
rinacque
costruendo e costruendo.
Come forse un tempo,
quando giunse da lontano
l'invasore amaro
e l'eclisse del freddo
coprì col suo sudario
il corpo d'oro,
così lo spaccapietre
fece la sua cellula
di pietra e la sostanza
del sole gli diede il miele d'ogni giorno:
il vasaio sparse sul mercato
il grappolo rotondo
dei vasi
e tra le fibre verdi e gialle
il tessitore iridò le sue farfalle,
in tal modo che fioriscono altipiani
con l'onore della sua merce.
Io conosco la tua selva
sonora, negli angoli
di Chiapas odorosa
misi i miei piedi australi,
ricordo;
cadeva brusco
il gran crepuscolo di cenere azzurra
nell'alto non v'era
ciclo né chiarità:
tutto era foglie:
il cuore del mondo era un fogliame.
Perché tra
terra oscura e notte verde
non mi sentii oppresso,
malgrado
l'infortunio
e l'ora incerta,
non mi sentii forse per la prima volta
padre del pianto
o ospite
dell'eterna agonia.
E la terra sonora e satura
m'insegnò d'un colpo ad essere terrestre;
riconobbi sconfitte e dolori:
per la prima volta m'insegnò l'argilla
terrena
che cantando
il solitario conquista la gioia.
Crepitavano ardendo
e spegnendosi
i cori della selva,
uccelli con voce d'acqua infinita,
rauche grida di bestie sorprese,
o cresceva nell'orbe tormentato
un subito silenzio,
quando d'improvviso la terra fece fremere
il tremito spaziale delle cicale.
Io rimasi atterrito,
piccolissimo, attonito nella certezza
che un motore celeste
sconvolgesse la notte e il suono.
Tremava il cielo con i suoi gigli,
l'ombra raccolse il suo giaietto
e saliva, saliva
la frenesia sottile
di un'onda,
la migrazione metallica
di un fiume
di campane.
Lì, la densa notte
preparava i suoi occhi:
il mondo
s'andava empiendo di colore oscuro:
le stelle palpitavano
e io solo, assediato
dal violino delle segherie
notturne, la cantata
universale
di un popolo
segreto
di cicale.
Tornai alla mia terra, e appoggiato
alle finestre dure dell'inverno
spio l'insistenza delle onde
dell'oceano freddo d'Isla Negra:
si abbatte l'onore del mezzogiorno
nel sale possente
e crescono gli estuari della spuma
nel senza fine del tempo e della sua arena.
Vedo che gli uccelli
diretti
come navi affamate
vanno sul mare cercando il fuoco azzurro:
le calde pietre:
penso che la vittoria delle loro ali
forse li farà scendere un giorno
sulle coste
del Messico selvaggio,
li trasporta la sete
dell'emisfero,
li incita una strada misteriosa.
Qui li raccomando.
Voglio che scendano
alle fosforescenti aniline
del crepitante indaco
e disperdano il mazzo del loro volo
sopra le californie messicane.
Agli uccelli affamati,
emigranti,
sgrana il tuo grappolo generoso,
i pesci della luce, gli uragani
della tua salute sanguinaria:
Oh, Messico, ricevi
con le ali che volarono
dall'estremo Sud, dove termina,
nella bianchezza, il corpo
dell'America oscura,
ricevi il movimento
della nostra identità che riconosce
il suo sangue, il suo mais, il suo abbandono,
la sua stella smisurata:
siamo la stessa pianta
e non si toccano
che le nostre radici.
PER L'INVIDIA
Ad uno ad uno tolsi gli invidiosi
dalla mia camicia, dalla pelle,
li vidi insieme a me ogni giorno,
li contemplai
nel regno trasparente
d'una goccia d'acqua:
li amai quanto potei; nella loro sventura
o nell'equanimità dei loro lavori;
e fino ad ora non so
come né quando
sostituirono nardo o limone
con ruga silenziosa
e una fenditura s'annidò dove s'apriva
la stella regolare del sorriso.
Quella ruga sulla bocca d'un uomo!
Quel miele che fu sostituito!
Il grave vento dell'età
volando
trasse polvere, alimenti,
semi separati dall'amore,
petali arrotolati di serpente,
cenere crudele dell'odio morto
e tutto
fruttificò nella ferita della bocca,
funzionò la passione generatrice
e il triste sedimento dell'oblio
germinò, innalzando la corolla,
la medusa viola dell'invidia,
Che fai tu, Pietro, quando peschi i pesci?
Li rendi al mare, rompi le reti,
chiudi gli occhi davanti all'incentivo
della profondità procreatrice?
Ahi! Io confesso il mio peccato puro!
Quanto estrassi dal mare,
corallo, squama,
coda dell'arcobaleno,
pesce o parola o pianta argentea
o semplicemente pietra sottomarina,
io innalzai, gli diedi la luce della mia anima.
Io, pescatore, raccolsi ciò ch'era perduto
e a nessuno feci male nel mio lavoro.
Non feci male, o forse ferii a morte
colui che volle nascere e ricevette
il canto della mia foce
che zittì la sua indomita condizione:
colui che non volle
navigare nel mio petto,
e sciolse
la sua forza,
ma venne il vento
e si portò via la sua voce e non nacquero
quelli che volevano veder la luce.
Forse l'uomo cresce e non rispetta,
come l'albero del bosco, l'arbitrio
di ciò che lo circonda,
e d'improvviso è
non solo la radice, ma la notte,
non solo da frutti, ma ombra,
ombra e notte che il tempo e il fogliame
abbandonarono nella crescita
finché dall'umidità giacente
dove attendono le germinazioni
non si scorgono dita della luce:
il gratuito sole fu negato
all'affamato seme
e a piena oscurità l'anima
scatena uno sviluppo tormentato.
Forse non so, non seppi, non sapevo.
Non ebbi tempo nelle mie preoccupazioni
di vedere, d'udire, di spiare e toccare
ciò che stava passando, e per amore
pensai che il mio dovere era cantare,
cantar crescendo e sempre dimenticando,
agonizzando come resistendo:
era il mio amore, la mia missione
nel mattino tra i falegnami,
bevendo con gli ussari, di notte,
sciogliere la scrittura de! mio canto
e io credetti di fare il mio dovere,
ardente o lontano
dal fuoco,
vicino alla sorgente o nella cenere,
credetti che dando quanto avevo,
ferendomi per non dormire,
a ogni sogno, a ogni ora, a ogni vita,
col mio sangue e le mie meditazioni,
e con ciò che imparai da ogni cosa,
dal garofano, dalla sua generosità,
dal legno e dalla sua pace odorosa,
dallo stesso amore, dal fiume, dalla morte,
con ciò che mi diede la città e la terra,
con ciò che io strappai da un'onda verde,
o da una casa che lasciò vuota
la guerra, o da una lampada
che trovai accesa in mezzo all'autunno,
così come dall'uomo e dalle sue macchine,
dal piccolo impiegato e dalla sua afflizione,
o dal naviglio che naviga nella nebbia:
con tutto e, più di tutto, con ciò che io dovevo
a ogni uomo per la sua stessa vita
feci il possibile per ripagare, e non ebbi
altra moneta che il mio sangue.
E ora che farò con questo e con l'altro?
Che posso fare per restituire
ciò che non rubai? Perché la primavera
mi recò una corona gialla
e chi andò ostile e intricato
a cercarla nel bosco? Adesso
forse è tardi ormai per trovare
e versare nella coppa del rancore
la verità remota e cristallina.
Forse il tempo indurì la voce,
la bocca, la pietà dell'offeso,
e ormai l'orologio non potrà tornare
alla consacrazione della tenerezza.
L'odio spietato ebbe tempo
di costruire un padiglione furioso
e di destinarmi una corona crudele
con spine insanguinate e ossidate.
E non fu per orgoglio che mantenni
il cuore lontano dal terrore:
né pieno del mio dolore,
né delle gioie che sostengo
dispersi
il potere
nella vendetta.
Per altro fu, perché ero indifeso.
Fu perché a ogni morso
il giorno
che giungeva
mi separava da un nuovo dolore,
mi legava le mani e cresceva
il lichene sulla pietra del mio petto,
il rampicante si diffondeva in me,
piccole mani verdi mi coprivano,
e senza pugni ormai andai nei boschi
o m'addormentai nel titolo del trifoglio.
Oh, io difendo in me stesso l'avarizia
delle mie spade, lento
nell'ira,
gioioso
nella mia durezza,
ma quando la tortora sulla torre
canta e il vasaio curva il suo braccio
verso il fango, facendolo anfora,
tremo e l'aria lancinante
mi trapassa:
il mio cuore va con la colomba.
Piove ed esco a prendere l'acquazzone.
Io esco a essere ciò che amo, la nuda
esistenza del sole sullo scoglio,
e ciò che cresce e cresce senza sapere
che non può abolire la sua crescita:
dar grano il frumento: essere innumerevole
senza ragione: perché così gli fu ordinato:
senz'ordine, senza comando,
e, tra le cose che non si ripartono,
forse questa segreta volontà,
questo palpito di pane e d'arena,
giunse a imporre la sua condizione
e io non sono che materia viva
che fermenta e innalza le sue insegne
nella fecondazione d'ogni giorno.
Forse l'invidia, quando
fece brillare contro me il coltello
e si fece professione di alcuni,
aggiunse alla mia sostanza un alimento
di cui abbisognavo nel mio lavoro,
un acido aggressivo che mi diede
lo stimolo brusco di un'ora,
la corrosiva lingua contro l'acqua.
Forse l'invidia, stella
fatta di vetri rotti
caduti
in una strada amara,
fu una medaglia che decorò
il pane che do cantando ogni giorno
e il mio cuore buono di panettiere.
V – SUONATA CRITICA
ARTE MAGNETICA
Da tanto amare e camminare escono i libri.
E se non hanno baci o regioni
e se non hanno uomo a mani piene,
se non hanno donna in ogni goccia,
fame, desiderio, collera, strade,
non servono per scudo o per campana:
sono senz'occhi e non potranno aprirli,
avran la bocca morta del precetto.
Amai i genitali pergolati
e tra sangue ed amor scavai I miei versi,
in terra dura stabilii una rosa
disputata tra il fuoco e la rugiada.
Per questo ho potuto camminar cantando.
LA NOTTE
Voglio non sapere né sognare.
Chi può insegnarmi a non essere,
a vivere senza continuare a vivere?
Come continua l'acqua?
Qual è il cielo delle pietre?
Immobile finché arresteranno
le migrazioni il loro destino
per poi viaggiare nel vento
degli arcipelaghi freddi.
Immobile con segreta vita
come una città sotterranea
che si stancò delle sue strade,
che si nascose sotto la terra
e più nessuno sa che esiste,
non ha mani né magazzini,
si alimenta del suo silenzio.
Essere qualche volta invisibile,
parlare senza parole, udire
solo certe gocce di pioggia,
solo il volo di certa ombra.
AI DISCORDI
Questi matrimoni combattuti,
queste unioni discordi,
perché non rompono una volta
e finiscono le storie,
le lamentele di Juan e di Juana,
gli striLli tra Pedro e PEdra,
le bastonate tra Roso e Rosa?
A nessuno piace passeggiare
con pesci spada coniugali
armati di duri ragionamenti
o dissolversi nel salmastro.
Per favore, mettetevi d'accordo
per non mettervi d'accordo,
non uscite a mostrare coltelli,
forchette né dentiere.
Nell'estuario dell'amore
entrano ancora tutte le lacrime
e tutta la terra non può
empire la tomba dell'amore,
ma per mordere e ferire
non entra il sole nei letti,
ma l'ombra nelle strade.
A CARTE
Solo sei ori,
sette
coppe, possiedo.
E una finestra d'acqua.
Un fante ondeggiante
e un cavallo marino
con spade.
Una regina furiosa
dai capelli sanguinar!
e dalle mani dorate.
Ora ditemi
cosa gioco, cosa avanzo,
cosa metto, cosa ritiro,
se carte naviganti,
se coppe solitarie,
se la regina o la spada.
Qualcuno guardi e mi dica,
guardi il gioco del tempo,
le ore della vita,
le carte del silenzio,
l'ombra e le sue intenzioni,
e mi dica cosa gioco
per continuare a perdere.
SI ALBEGGIA
Si albeggia senza debiti
e senza dubbi
e poi
cambia il giorno,
ruota la ruota,
si trasfigura il fuoco.
Nulla va rimanendo
di ciò che albeggiò, si andò bruciando
la terra uva a uva,
andò restando il cuore senza sangue,
la primavera rimase senza foglie.
Perché accadde tutto ciò in questo giorno?
Perché si sbagliò di campane?
O tutto dev'esser sempre così?
Come torcere, sbrogliare il filo,
andar risalendo il sole fino all'ombra,
rendere luce finché la notte
si pregni di nuovo con un giorno,
e questo giorno sia nostro figlio,
interminabile ritrovamento, chioma
del tempo ricuperato,
conquistato al debito e al dubbio,
perché la nostra vita
sia solo
un'unica materia mattutina,
una corrente chiara.
LA SOLlTUDINE
Quel che non accadde fu così improvviso
che rimasi lì per sempre,
senza sapere, senza che mi sapessero,
come sotto uno scranno,
come perduto nella notte:
così fu quel che non tu,
così rimasi per sempre.
Domandai agli altri, poi,
alle donne, agli uomini,
cosa facevano con tanta certezza
e come impararono la vita:
in realtà non risposero,
continuarono a ballare e a vivere.
È ciò che a uno non accadde
che determina il silenzio,
e non voglio continuare a parlare
perché rimasi lì ad attendere:
in quella regione e in quei giorno
non so cosa mi accadde
ma non son più lo stesso.
FINALMENTE NON VÈ NESSUNO
Finalmente non c'è nessuno, no, non c’è voce né bocca,
non vi son occhi, mani, piedi: tutti se n'andarono,
il giorno limpido corre con un anello,
l'aria fredda è un metallo nudo.
Sì, metallo, aria e acqua, e gialla
infiorescenza, tolta nel suo grappolo,
qualcosa di più, la tenacia del suo profumo,
il patrimonio puro della terra.
Dov'è la verità? Ma la chiave
si perse in un esercito di porte
ed è lì tra le altre,
senza trovare
mai più
la tua serratura.
Infine,
per questo non c'è dove perdere
la chiave, la verità né la menzogna.
Qui
non v'è strada, nessuno ha porte,
solo con un terremoto s'apre l'arena.
E s'apre tutto il mare, tutto il silenzio,
lo spazio con fiori gialli,
s'apre il profumo cieco della terra,
e poiché non vi son strade
nessuno verrà, solo \
la solitudine che suona
con canto di campana.
FORSE ABBIAM TEMPO
Forse abbiamo ancor tempo
per essere e per esser giusti.
In modo transitorio
ieri morì la verità
e benché tutti lo sappiano
tutti fan finta di niente;
nessuno le ha mandato fiori:
ormai è morta e nessuno piange.
Forse tra oblio e fretta
un po' prima della sepoltura
avremo l'opportunità
della nostra morte e della nostra vita
per uscire di strada in strada,
di mare in mare, di porto in porto,
di cordigliera in cordigliera,
e soprattutto d'uomo in uomo,
a domandare se l'uccidemmo
o se l'uccisero altri,
se furono i nostri nemici
o se il nostro amore commise il delitto,
perché la verità è ormai morta
e ora possiamo esser giusti.
Prima dovevamo combattere
con armi d'oscuro calibro
e per ferirci dimenticammo
perché stavamo lottando.
Mai si seppe di chi fosse
il sangue che ci avvolgeva,
accusavamo senza sosta,
senza sosta fummo accusati,
essi soffrirono, e soffrimmo,
e quando ormai essi vinsero
e anche noi vincemmo
la verità era morta
d'antichità o di violenza.
Ora non c'è nulla da fare:
tutti abbiam perso la battaglia.
Per questo penso che forse
potremmo alfine esser giusti
o alfine potremmo essere:
abbiamo quest'ultimo minuto
e poi mill'anni di gloria.
per non essere e non tornare.
L'EPISODIO
Oggi di nuovo buon giorno, ragione,
come un antenato e senza dubbio forse
come quelli che verranno ai lavoro domani
con una mano prendono gli arnesi
e con lutto le mani il decoro.
Senza loro barcollavano i navigli,
le torri non nascondevano la loro minaccia,
I piedi t'impigliavano al viandante:
ahi, questa umanità che perde la rotta
e vocifera il morto, tirandola indietro,
verso l'inettitudine della cupidigia,
mentre l'equilibrio si copre con la collera
per restituire la ragione della strada.
Oggi di nuovo, eccomi, compagno:
con un sogno più dolce di un grappolo
legato a te, alla tua fortuna, alla tua angoscia.
Devo abolire orgoglio, solitudine, vaneggiamento,
attenermi al recinto comunale e tornare
a sostenere il palio comune dei doveri.
lo so che posso aprire il delirio innocente
del casto essere perduto tra parole
che dispone d'entrate false all'inferno,
ma per quel gioco nacquero i sazi:
la mia poesia è ancora una strada nella pioggia
dove passano bimbi scalzi diretti alla scuola
e non ho rimedio che quando taccio:
se mi dan la chitarra canto cose amare.
Tutti si domandarono, cosa accadde?
Il gran silenzio Senza chiedere si chiedevan tutti
e s'incominciò a vivere nel veleno
senza saper come, dalla notte al giorno.
Si scivolava nel silenzio come
se il pavimento fosse nera neve,
le affamate orecchie attendevano
un segno, e non s'udiva
che un rumore sordo, e numeroso:
erano tante assenze che s'univano
le une all'altre come un buco:
e un altro buco. un altro, altro, altro
van facendo una rete, quella è la patria:
Sì, d'improvviso la patria fu una rete,
tutti furono avvolti dal vuoto,
da una rete senza fili che legava
gli occhi, le orecchie, la bocca
e più nessuno senti perché non c'era
con che sentire, la bocca
non aveva diritto d'aver lingua.
gli occhi non dovevano veder l'assenza,
il cuore viveva murato.
Io andai, io stetti, io toccai le mani,
alzai la coppa di color di fiume,
mangiai il pane difeso dal sangue:
dormii sotto l'ombra dell'onore umano
ed eran splendide le foglie
come se un solo albero riassumesse
tutte le crescite della terra
e andai, di fratello in fratello, accolto
con la nobiltà nuova e vera
di chi con le mani nella farina
impastò il nuovo pane del mondo.
Tuttavia, lì stava in quel tempo
la presenza pugnace, la ferita
di sangue e d'ombra che ci accompagna:
ciò che accadde, il silenzio e la domanda
che non s'apri in bocca, che morì
nella casa, in strada e nell'officina.
Qualcuno mancava, ma la madre, il padre,
il fratello, la sorella non potevano
guardare il vuoto dell'assenza atroce:
il posto dell'assente era uno stigma:
il compagno non poteva guardare
o domandare, senza convenirsi in aria,
e passare al vuoto, d'improvviso,
senza che nessuno notasse né sapesse.
La tristezza Oh gran dolore di una vittoria morta
in ogni cuore! Strangolati
dalle liane della paura
che legavano la Torre del Reloj,
discendevano i muri merlati
ed entravano con l'ombra in ogni casa:
Ah tempo simile all'acqua crudele
del pantano, al pozzo aperto
di notte che inghiotte un bimbo:
e non si sa e non si ode il grido.
E restano al loro posto le stelle.
La paura Che accadde? Che accadde? Come accadde?
Come potè accadere? Ma è certo
che accadde ed è evidente che accadde,
se n'andò, se n'andò il dolore per non
tornare:
l'errore cadde nel suo terribile imbuto
da lì nacque la sua gioventù d'acciaio,
e la speranza innalzò le sue dita.
Ahi cupa bandiera che coprì
la falce vittoriosa, il peso del martello
con una sola effigie spaventosa!
Io la vidi di marmo, di ferro argentato,
del rozzo legno degli Urali
e i suoi baffi eran due radici,
e la vidi d'argento, di madreperla, di cartone,
di sughero, di pietra, di zinco, d'alabastro,
di zucchero, di pietra, di sale. di giada,
di carbone, di cemento, di seta, di fango,
di plastica, d'argilla, d'osso, d'oro,
di un metro, di dicci metri, di cento metri,
di due millimetri, in un granello di riso,
di mille chilometri in tela rossa.
Sempre quelle statue stuccate
di dio baffuto con gli stivali
e quei pantaloni impeccabili
che stirò il servilismo realista.
Io vidi illl'ingresso dell'albergo, in mezzo
alla tavola, nella bottega, alla stazione,
negli aeroporti costellati,
quella fredda effigie di un distante:
di un essere che, tra un movimento e l'altro,
rimase immobile, morto nella vittoria.
E quel morto reggeva la crudeltà
dalla sua stessa statua innumerevole:
quell'immobile governò la vita.
Non può essere L'uomo non può senza pericolo farsi
monumento di pietra e di polizia.
Così accadde con lui, con questo grande
che cominciò a crescersi per decreto.
E quando a poco a poco si fece timpano,
andò congelando la sua anima rarefatta
dall'impeccabile solitudine del freddo
e così quell'ingegnere dell'amore
costruì il padiglione della sventura.
Beria e i perversi banditi
crearono lui o fu lui che li creò?
Il terrore La creatura del terrore nasconde
l'eclisse, la luna, il sole maledetto
della sua progenitura insanguinata
e il Dio demente incuba i castighi;
un esercito pallido di larve
corre con occhi ciechi e pugnali
a esercitare l'odio e l'agonia,
e lì dove passò non rimase
libro, né ritratto, né ricordo;
fin al bimbo senza voce fu ordinato
nuovo nome e scuola di supplizi.
Frattanto nella sua torre e nella sua statua
l'uomo del terrore aveva paura:
sentiva ombra dura e minaccia:
sentiva la sibilante solitudine.
Le sue vacanze E verso il Sud, verso il Caucaso partiva
in incognito, tra le tenebre,
cercando lo stesso sole che ci negava:
la luce dei capitoli georgiani:
(forse lì la sua infanzia ritornò
al torvo sotterraneo della sua vita)
(forse lì tra la paura e la verità
si fece quella domanda che ci ferisce:
Che succede? Che è successo?) (E forse il padre
della paura non trovò risposta).
Il Sud Da lì, da quel miele luminoso,
dove nacque dal palpito delle api,
dal mezzogiorno estatico, acqua e cielo,
splendido fulgore, pietra e fogliame,
da lì uscì la sua gioventù d'acciaio.
Quanto imparò, parola,
azione aperta o lotta clandestina,
fu forgiato tra molti, come si fa
d'organismo o di pianta la struttura;
questa famiglia umana ebbe padri,
fratelli, figli, naufraghi, vittorie,
bandiera, riunione, grido, dottrina,
fino a che fu serio come il fulmine.
E cadde l'albero morto del passato.
Egli incarnò la direzione del giorno
quando chiese opinioni alla luce
e la sua sapienza fu prestata
come a tutti gli uomini: se si lascia
dimenticata come una veste
torna ad esser di nuovo un essere nudo
e la sua passione avrà premio o castigo.
Era un altro Così accadde con lui, quando prese
tra le sue mani le mani collettive,
quando unì il suo passo a quello degli uomini,
quando non venne come il re di spade
nelle carte, crudele e costellato.
La guerra Nella guerra si alzò sopra le spalle
come estatica prua e la vittoria
ancora l'innalzò e così rimase
sulla sua altura immobile, vittorioso, distante.
L'anima a piena luna si congela:
nulla cresce nel suo specchio desolato
se non la propria immagine, il circuito
di un solo polo, di una dimensione,
e la sfera implacabile della neve.
Il dolore Così si forma l'anima rarefatta:
con specchio, con nessuno, con ritratto,
senz'uomini, senza Partito, senza verità,
con sussurro, con gelosia, con distanza,
senza compagno, senza ragione, senza canto,
con armi, con silenzio, con carte,
senza popolo, senza consulta, senza sorriso,
con spie, con ombre e con sangue,
senza Francia, senza Italia, senza garofani,.
con Beria, con sarcofaghi, con morti,
senza comunicazioni, senza gioia,
con fruste menzognere e lingue,
con l'imposizione e la crudeltà,
senza sapere quando tagliano il legno,
con la superbia triste, con la collera,
senza partecipare del pane e della gioia,
con altro e altro e altro e altro e altro
e senza nessuno, senza nessuno, senza alcuno,
con le porte chiuse e con muri,
senza il popolo delle panetterie,
con corde, con nodi, con assenza,
senza mano aperta, senza fiore evidente,
con mitragliatrice, con soldati,
senza la contraddizione, senza la coscienza,
con esilio, con freddo, con inferno,
senza te, senz'anima, solo, con la morte.
Noi tacevamo Sapere è un dolore. E lo sapemmo:
ogni dato uscito dall'ombra
ci diede il patimento necessario:
quel rumore si trasformò in verità,
la porta oscura si empì di luce,
e si rettificarono i dolori.
La verità fu vita in quella morte.
Era pesante il sacco del silenzio.
E ancor costava sangue sollevarlo;
eran tante le pietre del passato.
Ma fu sì coraggioso il giorno:
con un coltello d'oro aprì l'ombra
ed entrò la discussione come ruota
rotolante per la luce restituita
fino al punto polare del territorio.
Ora le spighe coronarono
la grandezza del sole e la sua energia:
di nuovo il compagno rispose
all'interrogazione del compagno.
E quella strada duramente errata
tornò, con la verità, ad esser strada.
I comunisti Noi che ponemmo l'anima nella pietra,
nel ferro, nella dura disciplina,
lì vivemmo solo per amore
e si sa ormai che ci dissanguammo,
quando la stella fu tergiversata
dalla luna cupa dell'eclisse.
Ora vedrete che siamo e che pesiamo
Ora vedrete che siamo e che saremo.
Siamo l'argento puro della terra,
il vero minerale dell'uomo,
incarniamo il mare che continua:
il rafforzamento della speranza:
un minuto d'ombra non ci accieca:
con nessuna agonia moriremo.
I miei nemici Quanto a me aggiungerò un albero
all'estensione dell'intemperie invitta;
parlerò di me stesso e degli uomini
che mi determinavano alla morte,
di chi non mi amava ed attese
che cadesse il pianeta e mi schiacciasse.
I lupi Quando ormai i metalli dell'aurora,
si avvicinarono pietra, neve, giacinto, miele, arena,
s'oscurarono nella fortezza
perché la storia si spense un minuto
essi vennero contro me e i miei
a batter la mia testa contro il suolo
credendosi essi vivi ed io morto,
credendosi forse rivendicati
dalle loro agonie classificate
creandosi un minuto di durata
nel povero passato del ricordo.
Senza orgoglio Né superbia né duolo né allegria
lascerò in questi fogli trasversali
in quest'ora a chi non la vide,
bastò vivere e vedere per cantare
e dove potè dirigersi il canto?
Fummo leali II vento dell'amore ci guidava
e non cercò i capitelli rotti,
le statue marcite dalla polvere,
il vermicaio della slealtà,
né cercò per error la patria morta:
fu ricacciato dagli spilli
e tornò alla gola, senza nascere,
senza conoscer la luce della nascita.
Non ci vendiamo Non servivano i limiti recinti
dal padrone delle mandrie:
né il sussulto dei mercanti
che nell'ombra covavan uova d'oro
e non potevano, con la legge dell'anima,
impegnarsi nella cifra e nelle monete.
La poesia Così il poeta scelse la sua strada
con il fratello che bastonavano:
con quello che scendeva sotto terra,
e dopo aver lottato con la pietra
risuscitava solo per il sonno.
Il poeta E scelse anche la patria oscura,
la madre di fagioli e di soldati,
di stradicciole nere nella pioggia
e di lavori pesanti e notturni.
Per questo non m'attendan di ritorno.
Non son di quei che tornan dalla luce.
No, signori Invano spiano quelli che sperano
che mi metta all'angolo a vendere
le mie armi, la mia ragione, la speranza.
Ogni giorno ho udito la minaccia,
la seduzione, la furia, la menzogna,
e non son retrocesso dalla mia stella.
L'onore Qui presso il mare appare vano
quanto il rancore recava e restituiva,
ma quelli che domani con gli occhi
d'altra età guarderan questa frontiera
della mia vita e della mia morte, troveranno
che nell'onore ho trovato la gioia.
Il male L'uomo incalzato nei suoi errori cerca,
nella sua debolezza commovente,
qualcuno cui sacrificare il peso
di ciò che senza esame ha sopportato,
e allora quella pietra che portava
la getta a chi va aprendogli la strada.
Io ricevetti in fronte la pietrata.
La mia ferita è il ricordo del fratello:
dell'uomo che mi amò senza trovare
altro modo di parlarmi che ferirmi,
dell'uomo che mi odiò senza conoscere
che nella luce assunsi la sua oscurità
e la mia battaglia fu pei suoi dolori.
Non mi arrendo Tutti costoro vollero che calassi
dall'altezza la mia ape e la mia bandiera
e che seguendo il segno del crepuscolo
dichiarassi il mio errore e ricevessi
la decorazione del rinnegato.
In tal frangente il critico vetusto
montò contro di me la ghigliottina,
ma non fu sufficiente né fu poco
e, come se fossi una repubblica
di repentina raffica insorgente,
suonarono la tromba contro il mio petto
e accorsero minuscoli vermi
all'orinale in cui si dibatteva
nella sua stessa pipi Pipipaseyro.
Son qui Limpido è il giorno che lavò l'arena
bianca e fredda nel mare rotola la spuma,
e in questa smisuraya solitudine
si sostiene la luce del mio arbitrio.
Ma questo mondo non è quello che voglio.
Spagna 1964 Le parole del muro stanno scritte
sulla parete e all'ultimo banchetto
giungono i piatti con macchie di sangue.
Franco si siede alla tavola della Spagna,
incappucciato e rode senza sosta
aggiungendo segatura al suo ossame
e i carcerati, quelli che legarono
l'ultima rosa al fucile e cantarono
in prigione, ululano, ed è il coro
del carcere, l'anima imbavagliata
che si lamenta, cantano le catene,
ulula il cuore senza la sua chitarra,
la tristezza cammina per un tunnel.
La tristezza Quando aprii gli occhi su questo mondo
e ricevetti la luce, il movimento,
il cibo, l'amore e la parola,
chi m'avrebbe detto che in tutti i luoghi
l'uomo rompe i patti della luce,
costruisce e continua i castighi.
La mia America alla pietra del dolore
incatenò torvamente i suoi figli
e senza cessa tormentò la sua stirpe.
I tiranni Io passai la mia vita tra i miei,
dell'America tra gli esiliati e i morti,
svegliai il carceriere domandando
il nome del mio fratello sommerso
e a volte la risposta era un silenzio
di pozzo, di socchiusa sepoltura,
di padre e madre muti per sempre.
Mi bruciai il cuore con questo fuoco
d'onore invitto e di dita sconfitte
come se dovessi accumulare
sangue di malconci equatori
e sempre non esser io ma gli altri:
questi che pure sono senza gioia:
perché come sobborgo disabitato
il mio canto si empì di prigionieri.
I «puri» Mi resi conto che l'uomo transitorio
reclama solitudine per colui che canta,
l'ha destinato a torre del deserto
e non accetta la sua grave compagnia.
Lo vuole solo, tormentato e cieco.
Attende il raccolto tenebroso
dell'uva della paura e dell'angoscia,
vuole l'eternità del passeggero.
non riconosce in lui le proprie mani,
né la propria miseria che l’avvolge,
e nella profondità che preconizza
vuoi dimenticare l'incertezza umana.
I popoli Frattanto, le tribù e i popoli
graffiano terra e dormon nella miniera,
pescano nelle spine dell'inverno,
conficcano i chiodi nelle loro bare,
edificano città che non abitano,
seminano il pane che non avran domani,
si disputano la fame ed il pericolo.
NON È NECESSARIO
Non è necessario fischiare
per esser solo,
per vivere nell'oscuro.
In piena moltitudine, a pieno ciclo,
ci ricordiamo noi stessi,
l'intimo, l'ignudo,
l'unico che sa come crescon le sue unghie,
che sa come si fanno il suo silenzio
e le sue povere parole.
C'è Pedro per tutti,
luci, soddisfacenti Berenices,
ma, dentro,
sotto l'età e gli indumenti,
ancora non abbiam nome,
siamo in altro modo.
Non solo per dormire gli occhi si chiusero
ma per non vedere lo stesso cielo.
Ci stanchiamo d'improvviso
e come se suonassero la campana
per entrare in scuola,
ritorniamo al petalo nascosto,
al nocciolo, alla radice semisegreta
e lì, d'improvviso, siamo,
siamo ciò ch'è puro e dimenticato,
siamo ciò ch'è vero
tra le quattro mura della nostra unica, pelle,
tra le due spade del vivere e del morire.
ATTEZIONE AL MERCATO
Attenzione al Mercato,
che è la mia vita!
Attenzione al Mercato
compagni!
Attenti a non ferire
i pesci!
Ormai a piena luna, tra i tradimenti
della rete invisibile, dell'amo,
per mano di pescante pescatore
morirono, credevano
nell'immortalità
ed eccoli qui
con squame e viscere, l'argento con il sangue
sulla bilancia.
Attenti agii uccelli!
Non toccate quelle penne
che anelarono il volo,
il volo
che anche tu, anche il tuo
piccolo cuore si proponeva.
Ora son sacre:
appartengono
alla polvere della morte e del danaro:
in questa dura pace ferruginosa
qualche volta s'imbatteranno di nuovo
nella tua vita, ma non verrà nessuno
a vederti morto, malgrado le tue virtù,
non faranno attenzione al tuo scheletro.
Attenzione al colore delle arance,
all'essenziale aroma della menta,
alla povera patata nel suo involucro,
attenzione
alla verde
lattuga frettolosa,
all'appuntito peperoncino con la sua vendetta,
alla testicolare melanzana,
al rapanello scarlatto, ma freddo,
all'apio che nella musica si avvita.
Attenzione al formaggio!
Non è venuto qui solo per vendersi:
è venuto a mostrare il dono della sua materia,
la sua innocenza compatta,
lo spessore materno
della sua geologia.
Attenti quando arrivan le castagne,
lignee lune dell'astuccio
che fabbricò l'autunno alla castagna,
al fior della farina che imprigiona
in cofani di mogano invulnerabile.
Attenti al coltello del Mercato
che non e lo stesso della coltelleria:
prima era soffocato
come il pesce, prigioniero nel suo pacchetto,
nel centinaio d'uguaglianza tremenda:
qui sulla fiera brilla e canta e taglia,
vive di nuovo nella salute dell'acqua.
Ma se i fagioli
furon bruniti dalla madre dolce
e la natura
li levigò come unghie delle sue dita,
poi li sgranò e all'abbondanza
diede moltiplicata identità.
Perché se le galline
da mano a mano passano e starnazzano
non è solo crudele la richiesta umana
che nello sgozzamento affermerà la sua legge,
anche nelle spazzole spinose
si uniranno i rovi vendicativi
e come spine pungeranno i chiodi
cercando chi potrebbero coronare
con martirio esecrabile e religioso.
Ma ride il pomodoro a pieno labbro.
Abbonda, sviene la delizia
della sua carne gioiosa
e la luce verticale entra a pugnali
nella nuda prole pomodoresca,
mentre la pallidezza delle mele
gareggia con il fiume dell'aurora
da dove esce il giorno al suo galoppo,
alla sua guerra, al suo amore, ai suoi cucchiai.
Non dimentico gli imbuti,
essi sono l'oblio del guerriero,
sono gli elmi del vino,
sempre belligerante, rauco e rosso,
mai disarmato dai nemici,
senza che mai si scordi il primo passo
che fece discendendo
la piccola montagna dell'imbuto.
Ancor ricorda il cuore purpureo
il vino che scende dalla botte
come da un vulcano il dolce fuoco.
II Mercato, nella strada.
nella Valparaiso serpentina,
si snoda come un corpo verde
che corre un solo giorno, risplende,
e la notte inghiotte
il lampo vegetale
delle mercanzie,
la biancheria rozza e pulita
dei lavoratori,
gli intricati banchi
d'incomprensibili ferri:
tutto alla luce di un giorno:
tutto nella rapidità svolto,
sgranato, venduto, trasmesso
e scomparso come il fumo.
Sembravano eterni i cavoli,
seduti nel cerchio della loro spuma,
e le pelose palle
delle indecorose carote
difendevano forse l'assoluto.
Venne una vecchia, un uomo piccolino,
una ragazza pazza con un cane,
un meccanico della raffineria,
la tessile Micaela, Juan Ramírez,
e con innumerabili Rafaeles,
con Marías e Pedros e Matildes.
con Franciscos, Armandos e Rosarios,
Ramones, Belarminos.
con le braccia del mare e con le onde,
col crepitare, con lo stimolo
e con la fame di Valparaiso
non rimasero cavoli né merluzzi:
tutto se n'andò, lo portò via la folla,
tutto fu bocca a bocca disceso
come se una gran botte si versasse
e cadde nella gola della vita
a trasformarsi in sonno e movimento.
Finisco qui. Mercato. A domani.
Mi porto via questa lattuga.
LA MEMORIA
Devo ricordarmi di tutto,
raccogliere le pagliuzze, i fili
dell'accadere pezzente
e metro a metro le dimore,
le lunghe strade del treno,
la superficie del dolore.
Se mi si smarrisce un roseto
e confondo notte con lepre
oppure mi s'è sgretolato
tulto un muro della memoria
devo rifar di nuovo l'aria,
il vapore, la terra, le foglie,
i capelli e anche i mattoni,
le spine che mi conficcarono,
la velocità della fuga.
Abbiate pietà del poeta.
Sempre ho dimenticato con avidità
e in quelle mani che ebbi
solo stavano inafferrabili
cose che non si toccavano,
che si potevano paragonare
solo quando ormai non esistevano.
Era il fumo come un aroma,
l'aroma era come il fumo,
la pelle di un corpo che dormiva
e che si svegliò coi miei baci,
ma non chiedetemi la data
né il nome di ciò che sognai,
non posso misurare la strada
che forse non ha paese
o quella verità che cambiò
che forse si spense di giorno
e poi fu luce errante
come una lucciola nella notte.
IL LUNGO GIORNO GIOVEDÌ
Appena mi svegliai riconobbi
il giorno, era quello di ieri,
era il giorno d'ieri con altro nome,
era un amico che credetti perduto
e che tornava per sorprendermi.
Giovedì, gli dissi, attendimi.
vado a vestirmi e andremo insieme
finché tu cadrai nella notte,
Tu morirai, io continuerò
sveglio, abituato
alle solitudini dell'ombra.
Le cose andarono in altro modo
che conterò con intimi dettagli.
Tardai ad empirmi di sapone il volto
— che schiuma deliziosa
sulle mie guance —
sentii come se il mare mi regalasse
bianchezza successiva,
la mia faccia fu solo un isolotto oscuro
circondato da fregi di sapone
e quando nel combattimento
delle piccole onde e leccate
del tenero issopo e dell'affilata lama
fui maldestro e subito,
ferito,
rovinai la salvietta
con gocce del mio sangue,
cercai allume, cotone, iodio, farmacie
complete che corsero in mio aiuto;
solo accorse il mio volto nello specchio,
la mia faccia mal lavata e ferita.
II bagno
mi incitava
con prenatale calore a immergermi
e accoccolai il mio corpo nella pigrizia.
Quella cavità infrauterina
mi lasciò acquattato
aspettando di nascere, immobile, liquido,
sostanza tremante
che partecipa dell'inesistenza
e attesi prima di muovermi
ore intere,
stendendo le gambe con delizia
sotto la caloria sottomarina.
Quanto tempo nello sfregarmi e nell'asciugarmi,
quanto una calza dopo l'altra calza
e mezzo pantalone e un altro mezzo,
sì lungo tempo mi prese una scarpa
che quando in dolorosa incertezza
scelsi la cravatta, e già partivo
in esplorazione cercando il mio cappello,
compresi che era troppo tardi:
la notte era giunta
e incominciai di nuovo a spogliarmi,
indumento per indumento, a entrare tra le lenzuola,
finché presto rimasi addormentato.
Quando passo la notte e dalla porta
entrò di nuovo il Giovedì precedente
correttamente trasformato in Venerdì
lo, salutai con riso sospettoso,
con diffidenza per la sua identità.
Attendimi, gli dissi, mantenendo
porte, finestre pienamente aperte,
e incominciai di nuovo il mio lavoro
di schiuma di sapone fino al cappello,
ma il mio vano sforzo
s'imbatte nella notte che arrivava
esattamente quando io uscivo.
E tornai a spogliarmi con gran cura.
Frattanto attendendo nell'ufficio
i ripugnanti incartamenti,
i numeri che volavano alla carta
come minuscoli uccelli migratori
uniti in spiegamento minaccioso,
mi sembrò che tutto si unisse
per attendermi per la prima volta:
il nuovo amore, che appena scoperto,
sotto un albero del parco m'incitava
a continuare in me la primavera.
La mia alimentazione fu trascurata
giorno a giorno, occupato a mettermi
una dietro l'altra le mie bardature,
a lavarmi e vestirmi ogni giorno.
Era un'insostenibile situazione:
ogni volta un problema la camicia,
più ostili gli indumenti intimi
e più interminabile la giacca.
Fino a che poco a poco morii
d'inanizione, perché non riuscivo, per nulla,
perché stavo tra quel giorno che tornava
e la notte in attesa come vedova.
E quando morii tutto cambiò.
Ben vestito, con perla alla cravatta,
e ormai squisitamente raso
volli uscire, ma non c'era strada,
nessuno nella strada che non c'era,
e pertanto nessuno m'attendeva.
Il Giovedì sarebbe durato tutto l'anno.
I PIATTI SULLA TAVOLA
Gli animali Prima vidi l'animale e il suo alimento.
mangiano con Vidi il leopardo orgoglioso
bellezza dei suoi agili piedi, della sua corsa,
scatenare
la sua estatica bellezza
e partire in un lampo d'oro e di fumo
il carro esagonale dei suoi nei:
cadere sulla preda
e divorare
come divora il fuoco,
senz'altro, senza insistere,
tornando allora
pulito, cretto, puro
all'ambito dell'acqua e delle foglie,
al labirinto dell'aroma verde.
Vidi pascolare le bestie mattutine,
dolci come la brezza sul trifoglio,
mangiar sotto la musica
del fiume
alzando verso la luce
la coronata
testa ornata di rugiada,
e il coniglio tagliar la limpida erba
con delicato, infaticabile muso,
bianco e nero, dorato o arenoso,
lineare come l'orma vibrante
della purezza sul pascolo verde
e vidi il grande elefante
fiutare e raccogliere nella sua tromba
il germoglio segreto
e compresi, quando i padiglioni
delle sue belle orecchie
si scuotevano di piacere sensibile,
che con i vegetali comunicava
e che la bestia pura raccoglieva
ciò che la terra pura le serbava.
Non così gli Ma non così si conduceva l'uomo
Uomini Vidi il suo stabilimento, la cucina,
la sala da pranzo di nave,
il restaurant di club o di sobborgo,
e presi parte alla disordinata
passione di ogni ora della sua vita.
Impugnai la forchetta, saltò l'aceto
sul grasso, si macchiò le dita
nelle costole fresche del cervo,
mescolò le uova con terribili sughi,
divorò crude bestie sottomarine
che tremavan di vita tra i suoi denti,
inseguì l'uccello dal piumaggio rosso,
colpì il pesce ondeggiante nel suo destino,
infilzò nel ferro il fegato
del timido agnello,
pestò cervella, lingue e testicoli,
s'impigliò tra milioni di spaghetti,
tra lepri insanguinate ed intestini.
Uccidono un La mia infanzia ancor piange. I chiari giorni
maiale nella dell'interrogazione furon macchiati
mia infanzia dal sangue scuro dei maiali.
dall'ululato verticale che cresce
ancora nella distanza terrificante.
Uccidono i pesci E a Ceylon vidi tagliare pesci azzurri,
pesci di pura ambra gialla,
pesci di luce violetta e di pelle fosforescente,
vidi venderli tagliandoli vivi
e ogni pezzo vivo scuoteva
ancora nelle mani il suo tesoro regale
palpitando, dissanguandosi sul filo
del pallido coltello mercenario
come se ancor volesse nell'agonia
spargere fuoco liquido e rubini.
LA BONTÀ NASCOSTA
Come son buoni tutti!
Com'è buono Juan, Silverio,
Pedro! Com'è buona Rosa!
Com'è buono Nicolás! Com'è buono Jorge!
Come son buoni Don Luis e Donna Luisa!
Quanti buoni ricordo!
Saranno come un granaio
o solo mi toccò il grano buono.
Ma, non può essere, camminar tanto
come camminai, e non trovar nessuno,
né uomo, né vecchio, né donna, né giovane:
tutti eran così, di fuori duri
o dolci di fuori,
ma di dentro potevo vederli,
si aprivano per me come angurie
ed erano la polpa pura, frutta pura,
solo che molte volte
non avevano né porta né finestra:
allora, come vederli? Come
assaggiarli e come mangiarli?
La verità è che il male è il segreto.
Dentro il tunnel non vi fu primavera
e i topi caddero nel pozzo.
Da allora l'acqua non fu la stessa.
Forse io conversai con Amadeo
dopo il delitto, non ricordo,
quando ormai la sua testa
valeva meno di nulla
e trovai che il suo delitto non alterò per me
la bontà che legò e che non diede:
la sua avarizia di buono lo fece cattivo.
E appena deviò la sua circostanza
tutti videro il cattivo che recava
quando l’unica cosa che potè dare
la diede una sola volta e rimase
com'era, senza malvagità, ma maledetto.
Quando diede la sua oscurità il poveretto
era tardivo ormai l'intendimento,
la chiarità si convcrtì in sventura.
Io ebbi quasi a lato della mia vita
l'odio, un nemico confesso,
il signor K., poeta balbuziente;
non era cattivo ma soffriva
di non poter cantare senza condizioni:
ardere come sa farlo il fuoco,
ammutolire come i minerali.
Tutto ciò era impossibile
per lui che si ergeva e si lodava,
si reclamava con salti mortali
con tribù e con tamburo davanti alla porta
e poiché chi passava mai seppe
quant'era grande, restava solo
insultando l'onorato passante
che continuò la sua strada verso l'ufficio.
C'è molto da aggiustare in questo mondo
per provare che tutti siamo buoni
senza che occorra sforzarsi; non possiamo
convertir la bontà in pugilato.
Così resterebbero spopolate
le città, dove
ogni finestra nasconde con cura
gli occhi che ci cercano e che non vediamo.
QUESTO SI RIFERISCE A CIÒ CHE ACCETTIAMO
SENZA VOLERLO
Ahi che voglia di no
di no no no
quanta vita
passammo
o perdemmo
sì sì
sì sì
sì sì
andavamo giù per il fango quella volta
e quando cademmo dalla stella
ancor più, tra bufali
che crepitavano,
ardendo di cornupeti
o solo allora quando non potevamo
andar più in là né più in qua, il momento
delle imprecisioni che corrodono
con lento passo di acido,
infine, in ogni pane,
non volevamo
e lì restammo vivi ma morti.
Perché si tratta sempre del fatto
che Pedro non soffra né sua nonna
e con questa misura
ci misurarono
tutta la vita
dagli occhi fino ai talloni
e con questa ragione
dettaron legge
e poi senza più il minimo rispetto
ci dissero che viscere
dovevamo
sacrificare,
che ossa,
che denti e che vene
loro avrebbero soppresso nobilmente
dai nostri scheletri oppressi.
Così passò quel giovedì
quando tra le rocce
non avevamo piedi e poi quando
non avevamo lingua,
l'avevamo sciupata senza saperlo,
dicevamo di sì senza sapere come
e tra sì e sì
restammo senza vita tra i vivi
e rutti ci guardavano e ci credevan morti.
Noi non sapevamo
che poteva accadere perché gli altri
sembravano d'accordo nell'esser vivi
e noi lì
senza mai poter
dire di no di no
che forse no che mai
no che sempre
no no
no no
no no.
LE COMUNICAZIONI
Morte ai sotterranei! decretai.
Fino a quando ingannarsi con la faccia chiusa
e gli occhi volti a non vedere, a dormire.
Non c'è bisogno d'altro che di essere
ed essere è alla luce, essere è esser visto
e vedere, essere è toccare e scoprire.
Abbasso tutti quelli che non hanno fiore!
A nulla servon le radici sole!
Non bisogna vivere rodendo
la pietra sottomarina
né il cristallo
sommerso
della notte;
bisogna crescere e alzar bandiera
far fuoco nell'isola
e che risponda
il navigante addormentato,
che si svegli
e risponda
all'improvviso fuoco
che sorse lì sulla costa fino ad ora oscura:
nacque daL patrimonio luminoso,
da comunicazione a fondamento,
finche non v'e oscurità e siamo:
siamo con altri uomini e donne:
a piena luce amiamo,
a pieno amore ci vedono, questo ci piace:
senza silenzio è la vera vita.
Solo la morte è rimasta silenziosa.
LA VERITÀ
Vi amo idealismo e realismo,
come acqua e pietra
siete
parti del mondo,
luce e radice dell'albero della vita.
Non mi chiudete gli occhi
neppure dopo morto,
ne avrò bisogno ancora per apprendere,
per guardare e comprendere la mia morte.
La mia bocca è necessaria
per cantare, poi, quando più non esisterò.
E la mia anima e le mie mani, il mio corpo,
per continuare a amarti, amata mia.
So che non può essere, ma questo volli.
Amo ciò che non ha che sogni.
Ho un giardino di fiori che non esistono.
Sono decisamente triangolare.
Rimpiango ancora le mie orecchie
ma le arrotolai per lasciarle
in un porto fluviale dell'interno
della Repubblica di Malagueta.
Non ne posso più della ragione a spalle.
Voglio inventare il mare d'ogni giorno.
Venne una volta a trovarmi
un gran pittore che dipingeva soldati.
Erano tutti eroici e il buon uomo
li dipingeva sul campo di battaglia
morendo di piacere.
Dipingeva anche mucche realiste
ed erano così estremamente mucche
che ci si faceva malinconici
e disposti a ruminare eternamente.
Esecrazione e orrore! Lessi romanzi
interminabilmente buoni,
e tanti versi sopra
il Primo Maggio
che ora scrivo solo sul 2 di tale mese.
Sembra che l'uomo
investa il paesaggio
e ormai la strada che prima aveva cielo
ora ci opprime
con la sua ostinazione commerciale.
Così suole accader con la bellezza
come se non volessimo comprarla,
l'impacchettano a lor piacere e modo.
Bisogna lasciar che danzi la bellezza
coi vagheggini più inaccettabili,
tra il giorno e la notte:
non obblighiamola a prendere la pillola
della verità come una medicina.
E il reale? Anche, senza dubbio alcuno,
ma che ci accresca,
che ci allunghi, che ci faccia freddi,
che ci rediga
tanto l'ordine del pane come quello dell'anima.
Su sussurra! ordino
al bosco puro,
perché dica in segreto il suo segreto
e alla verità: Non trattenerti tanto
che t'indurisca fino alla menzogna.
Non son rettore di nulla, non dirigo;
per questo tesaurizzo
gli equivoci del mio canto.
IL FUTURO È SPAZIO
II futuro è spazio,
spazio color di terra,
color di nube,
color d'acqua, d'aria,
spazio nero per molti sogni,
spazio bianco per tutta la neve,
per tutta la musica.
Restò indietro l'amore disperato
che non aveva posto per un bacio,
c'è posto per tutti nel bosco,
nella strada, nella casa,
c'è luogo sotterraneo e sottomarino,
che piacere è trovare finalmente,
salendo
un pianeta vuoto,
grandi stelle chiare come la vodka
così trasparenti e disabitate,
e arrivar lì col primo telefono
perché più tardi tanti uomini parlino
delle loro malattie.
L'importante è scorgersi appena,
gridare da una dura cordigliera
e vedere sull'altra punta
i piedi di una donna appena giunta.
Avanti, usciamo
dal fiume soffocante
in cui con altri pesci navighiamo
dall'alba alla notte migratoria
e ora in questo spazio scoperto
voliamo alla pura solitudine.
AMORI: MATILDE
(la poesia non esiste in “Obras Completas” ed. 2000)
Ti amo Amante, ti amo e m'ami e ti amo:
son corti i giorni, i mesi, la pioggia, i treni:
son alte le case, gli alberi, e siam più alti;
s'avvicina sulla sabbia la spuma che vuol baciarci:
emigrano gli uccelli dagli arcipelaghi
e crescono nel mio cuore le tue radici di frumento.
Non v'è dubbio, amor mio, che la tempesta di Settembre
cadde col suo ferro ossidato sopra la tua testa
e quando, tra raffiche di spine ti vidi camminare indifesa,
presi la tua chitarra d'ambra, mi misi al tuo fianco.
sentendo che non potevo cantare senza la tua bocca,
che morivo se non mi guardavi piangendo nella pioggia.
Perché le pene d'amore sulla riva del fiume,
perché la cantata che in pieno crepuscolo ardeva nella mia ombra,
perché si richiusero in te, chillaneja fragrante,
e restituirono il dono e l'aroma che abbisognava
il mio vestito sciupato da tante battaglie d'inverno?
Nelle strade Ricordi le strade di Praga che dure risuonavano
di Praga come se tamburi di pietra suonassero nella solitudine
di colui che attraverso i mari cercò il tuo ricordo:
la tua immagine sul ponte di San Carlo era un'arancia.
Allora attraversammo la neve di sette frontiere,
da Budapest che aggiungeva roseti e pane alla sua stirpe,
finché gli amanti, tu ed io, inseguiti, assetati e affamati,
si riconobbero, ferendosi con denti e baci e spade.
Oh giorni tagliati dalla scimitarra del fuoco e della furia
in cui innamorato e innamorata soffrivan senza tregua e senza pianto
come se il sentimento si fosse sotterrato in un altopiano deserto tra le ortiche
e ogni espressione si turbasse bruciandosi e trasformandosi in lava.
Le ferite Fu forse l'offesa dell'amore nascosto e forse l'incertezza, il dolore vacillante,
il temere la ferita che trapassasse non solamente la tua pelle e la mia pelle,
ma che giungesse a installare una lacrima roca nelle palpebre di colei che m'amò,
è certo che ormai non avevamo né cielo né ombra né ramo di rosso susino con frutto e rugiada
e solo l'ira dei vicoli che non hanno porte entrava e usciva nella mia anima
senza sapere dove andare né tornare senza uccidere o morire.
I versi del Oh dolore che avvolsero lampi e s'andaron custodendo
Capitano in quei versi, fugaci e duri, rioriti e amari,
in cui un Capitano, gli occhi nascosti da una maschera nera.
ti ama, oh amore, strappandosi con mani ferite
le fiamme che bruciano, le lance di sangue e di supplizio.
Ma tosto un favo sostituisce la pietra del muro graffiato:
faccia a faccia, d'improvviso sentimmo l'impura miseria
di dare agli altri il miele che cercavamo per acqua e per fuoco.
per terra e per luna. per aria e per ferro, per sangue e per ira.
allora al fondo di te e al fondo di me scoprimmo ch'eravamo ciechi
dentro un pozzo che ardeva con le nostre tenebre.
Combatti- L'Europa vestita di vecchie viole e di torri di stirpe prostrata
Mento ci fece volare nella sua onda di illustri passioni
d’Italia e a Roma i fiori, le voci, la notte iraconda,
i nobili fratelli che mi riscattarono dalla Polizia:
ma presto si apriron le braccia d'Italia abbracciandoci
coi loro gelsomini cresciuti in fenditure di roccia sacra
e il parossismo di occhi che c'insegnarono a guardare il mondo.
Gli amanti L'isola sostiene nel suo centro l'anima come una moneta
di Capri che il tempo e il vento pulirono lasciandola pura
come mandorla intatta e agreste tagliata nella pelle dello zaffiro
e lì il nostro amore fu la torre invisibile che trema nel fumo,
l'orbe vuoto trattenne la sua coda stellata e la rete con i pesci del cielo
perché gli amanti di Capri chiusero gli occhi e un roco lampo inchiodò nel sibilante circuito marino
la paura che fuggì dissanguandosi e ferita a morte
come la minaccia di un pesce spaventoso da improvviso arpione sconfitto:
e tosto nel miele oceanico naviga la statua di prua,
ignuda, stretta dall'eccitante ciclone mascolino.
Descrizione La vigna nella roccia, le fenditure del muschio, i muri che impigliano
di Capri i rampicanti, i plinti di fiore e di pietra:
l'isola è la cetra che fu collocata sull'altura sonora,
e corda a corda la luce provò dal giorno remoto
la sua voce, il colore delle lettere del giorno,
e dal suo recinto fragrante volava l'aurora
abbattendo la rugiada e aprendo gli occhi dell'Europa.
Tu tra Tu, chiara e oscura, Matilde bruna e dorata,
coloro che simile al grano e al vino e al pane della patria,
sembravano lì nelle strade aperte da regni poi divorati,
estranei facevi cantare i tuoi fianchi e somigliavi, antica e terrestre araucana,
all'anfora pura che arse col vino in quella regione
e ti conosceva l'olio insigne delle casseruole
e i papaveri crescendo nel polline di antichi aratri
ti riconoscevano e si bilanciavano
ballando nei tuoi piedi rumorosi.
Perché sono i misteri del popolo esser uno ed essere tutti
e la tua madre campestre che giace nelle crete di Ñuble
e uguale alla raffica etrusca che muove le trecce tirrene
e tu sei una brocca nera di Quinchamalí o di Pompei
eretta da mani profonde che non hanno nome:
per questo al baciarti, amor mio, e nello stringere con le mie labbra la tua bocca
nella tua bocca mi desti l'ombra e la musica del fango terrestre.
I sogni Sorella dell'acqua impegnata e delle sue avversarie,
le pietre del fiume, l'argilla evidente, il rozzo legno:
quando innalzavi sognando la fronte nella notte di Capri
cadevano spighe dalla tua chioma, e nel mio pensiero
volava l'ipnotico sciame della campagna del Cile:
il mio sogno deviava i suoi treni verso Antofagasta:
entravano piovendo nell'alba di Pillanlelbun,
lì dove il fiume raccoglie l'odore della vecchia conceria
e la pioggia spruzza il recinto degli abbattuti.
La nostalgia Da quei villaggi che l'inverno e le ferrovie attraversano
usciva invitto malgrado gli anni il mio oscuro lampo
che ancora illumina le strade avverse dove s'unirono il freddo
e il fango come le due ali d'un uccello terribile:
ora nel giungere alla mia vita il tuo aroma scarlatto
tremò la mia memoria nell'ombra perduta come se nel bosco
erompesse in un elettrico canto il palpito della terra.
L'esilio Perché, beneamata, è l'uomo che canta colui che muore morendo senza morte
quando ormai le sue braccia non toccarono le originarie tormente,
quando ormai non bruciarono i suoi occhi gli intermittenti conflitti natali
o quando la patria evasiva negò all'esiliato la sua coppa d'amore e di asprezza,
non muore e muore colui che canta, e soffre morendo e vivendo colui che canta.
La dolce La terra, la mia terra, il mio fango, la luce sanguinaria dall'alba vulcanica
Patria la pace claudicante del giorno e la notte dei terremoti,
il boldo, l'alloro, l'araucaria che occupa il profilo del pianeta,
il dolce di mais, il corvo che esce dal forno silvestre,
il palpito del condor che sale sull'ascetica pelle della neve,
il collare dei fiumi che ostentano l'uva di laghi senza nome,
le anitre selvatiche che emigrano verso il polo magnetico rigando il crepuscolo dei litorali,
l'uomo e sua moglie che leggono dopo pranzo romanzi eroici,
le strade di Rengo, Rancagua, Renaico, Loncoche.
il fumo della campagna d'autunno presso Quirihue,
lì dove la mia anima sembra una povera chitarra che piange
cantando e cade la notte nelle acque oscure del fiume.
L'amore T'ho amato senza perché, senza da dove, t'ho amato senza guardare, senza misura,
e non sapevo che udivo la voce della ferrea distanza,
l'eco che chiama la creta che canta tra le cordigliere,
non supponevo, cilena, che tu fossi le mie stesse radici,
senza saper come tra idiomi estranei lessi l’alfabeto
che i tuoi piedi minuti lasciavan camminando sulla sabbia
e tu senza toccarmi accorrevi al centro del bosco invisibile
a marcare l'albero dalla cui corteccia volava l’aroma perduto.
Resurrezioni Amica, è il tuo bacio quello che canta come una campana nell'acqua
della cattedrale sommersa dalle cui finestre
entravano i pesci senz'occhi, le alghe corrotte,
sotto, nel fango del lago Lianquihue che adora la neve,
il tuo bacio risveglia il suono e propaga alle isole del vento
un'incubazione di ninfee e di sole sottomarino.
Così dal letargo crebbe la corrente che nomina le cose;
il tuo amore scosse i metalli che sprofondò la catastrofe:
il tuo amore affacciò le parole, dispose il colore della sabbia,
e s'innalzò nell'abisso la torre terrestre e celeste.
II canto La torte del pane, la struttura che l'arco costruisce sull'altura
con la melodia elevando la sua fertile fermezza
e il petalo duro del canto che cresce nella rosa,
così la tua presenza e la tua assenza e il peso della tua chioma,
il fresco colore del tuo corpo d'avena nel letto,
la pelle vittoriosa che la tua primavera dispose a fianco
del mio cuore che batteva nella pietra del muro,
il fermo contatto di frumento e d'oro dei tuoi fianchi di sole,
la tua voce che diffondeva dolcezza selvatica come una cascata,
la tua bocca che amò la pressione dei miei baci tardivi,
fu come se il giorno e la notte tagliassero il loro nodo mostrando socchiusa
la porta che unisce e separa la luce dall'ombra
e dall'apertura s'affacciasse il remoto dominio
che l'uomo cercava battendo la pietra, l'ombra, il vuoto.
Poteri Forse l'amore restituisce un cristallo rotto nel fondo
dell'essere, un sale sparso e perduto
e tra sangue e silenzio appare come la creatura
il potere che non impera se non dentro il godimento e l'anima;
così in questo equilibrio potrebbe fondarsi un'ape
o rinchiudere le conquiste di tutti i tempi in un' papavero,
perché è tanto infinito non amare e attendere sulla riva di un fiume rotondo
e così son tramutati i vincoli nel minuscolo regno appena scoperto.
Ritorno Amor mio, nel mare navigammo di ritorno alla razza,
all'eredita, al vulcano e al recinto, all'idioma addormentato
che ci usciva attraverso la chioma nelle terre altrui:
il mare palpitava come una nutrice ricolma:
i seni atlantici sostengono la minuscola nave; dei passeggeri
e gli sconosciuti sorridono appena bevendo sostanze gelate,
tromboni e messe e maschere, pranzi rituali, rumori,
ognuno si lega al suo oblio con la catena prediletta
e i mezzi sì del dissimulato d'orecchio furtivo
la cesta di ferro ci porta palpando e tagliando l'oceano.
Le navi Come al mercato si gettano nel sacco carbone e cipolle,
alcool, paraffina, patate, carote, costolette, olio, arance,
'la nave è il vago disordine dove caddero
melliflue robuste, affamati biscazzieri, popi, mercanti:
a volte decidono di guardare l'oceano che s'è fermato
come un cacio azzurro che minaccia con i suoi occhi densi
e il terrore dell'immobile penetra nella fronte dei passeggeri:
ogni uomo desidera usare le scarpe, i piedi e le ossa,
muoversi nel suo orribile infinito finché più non esista.
Termina il pericolo, la nave circola nell'acqua del circolo,
e lontano si affacciano le torri d'argento di Montevideo.
Datitla Amore, beneamata, alla luce solitaria e alla sabbia d'inverno
ricordi Datitla? I pini oscuri, la pioggia uruguaiana che bagna il gracchiare
dei benteveos, la luce improvvisa della natura
che inchioda con fulmini la notte e la empie di palpebre rotte
e di fiammate e di superstiziosi lampi verdi,
finché accecati dallo splendore dei suoi libri elettrici
ci rivoltavamo in sogni che il cielo perforava e copriva.
I Mántaras furono presenza e assenza, albereto invisibile
di frutti visibili, la casa copiosa della solitudine,
le claves de amigo y amiga mettevano la loro marca sul muro
con la natura generosa che avvolge nel fiore l'ambrosia
o come nell'aria sostiene il suo volo notturno
la stella brunita e brillante affermata nella sua stessa purezza;
lì dell'aroma sparso sulle basse rive
tu ed io raccogliemmo mentastro, origano, menzelia, biodo;
l'erbario interregno che solo l'amore recupera sulle coste del mondo.
L’amicizia Amici, oh tutti, Albertos e Olgas di tutta la terra!
I libri d'amore non scrivono l'amicizia dell'amico all'amore,
non scrivono il dono che suscitano e il pane che concessero all'amante errante,
dimentica il sortilego guardando gli occhi di puma della sua beneamata
che mani amiche lavorarono legni, infissero chiodi
perché i due errabondi unissero in pace la loro gioia.
Ingiusto o tardivo tu ed io inaugurammo. Madide, nel libro d'amore
il capitolo aperto che indica all'amore ciò che deve
e qui si stabilisce con miele l’amicizia vera:
quella di coloro che accolgono la felicità senza impallidire di nevralgia
e innalzano la coppa d'oro in onore dell'onore e dell'amore.
La chascona La pietra e i chiodi, la tavola, la tegola si unirono: ecco innalzata
la casa scarmigliata con acqua che corre scrivendo il suo idioma,
i pruni custodivano il luogo coi loro rami sanguinari
finché la scala e i suoi muri seppero il tuo nome
e il fiore increspato, la vite e il suo alato viticcio,
le foglie di fico che come stendardi di razze remote
libravano le loro ali oscure sulla tua testa.
il muro d'azzurro vittorioso, l’onice astratto della terra,
i tuoi occhi, i miei occhi, son sparsi in roccia e legno
per tutti i luoghi, i giorni febbrili, la pace che costruisce,
ed è sempre in ordine la casa con la tua trasparenza.
La mia casa, la tua casa, il tuo sogno nei miei occhi, il tuo sangue che segue la strada del corpo che dorme
come una colomba chiusa nelle ali immobile insegue il suo volo
e il tempo raccoglie nella sua coppa il tuo sogno e il mio
nella casa che appena nacque dalle mani sveglie.
La notte trovata alfine nella nave che costruimmo.
la pace di legno odoroso che segue con uccelli
che segue il sussurro del vento perduto nelle foglie
e delle radici che mangiano la pace succulenta dell'humus
mentre sopravviene su di me addormentata la luna dell'acqua
come una colomba del bosco del Sud che dirige il dominio
del cielo, dell'aria, del vento cupo che ti appartiene.
addormentala dormendo nella casa che fecero le tue mani,
esile nel sonno, nel germe dell'humus notturno
e moltiplicata nell'ombra come la crescita del grano.
Dorata, la terra ti diede l'armatura del frumento,
il colore che i forni cossero con fango e con delizia,
la pelle che non è bianca né nera né rossa né verde
che ha il colore dell'arena, del pane, della pioggia,
del sole, del puro legno, del vento,
la tua carne color di campana, color d'alimento fragrante,
la tua carne che forma la nave e racchiude l'onda!
Da tante esili stelle che la mia anima raccoglie nella notte
ricevo la rugiada che il giorno converte in cenere
e bevo la coppa di stelle defunte piangendo le lacrime
di tutti gli uomini, dei prigionieri, dei carcerieri,
e tutte le mani mi cercano mostrando una piaga,
mostrando il dolore, il supplizio o la brusca speranza
e così senza che il cielo e la terra mi lascino tranquillo,
così consumato da altri dolori che cambian di volto.
Ricevo nel sole e nel giorno la statua della tua chiarità
e nell'ombra, nella luna, nel sogno, il grappolo del regno,
il contatto che induce il mio sangue a cantare nella morte.
Il miele, beneamata, l'illustre dolcezza del viaggio completo
e ancora, tra lunghe strade, fondammo a Valparaiso una torre,
per quanto nei tuoi piedi abbia trovato le mie radici perdute
tu ed io mantenemmo aperta la porta del mare insepolto
e così destinammo alla Sebastiana il dovere di chiamare i navigli
e di vedere sotto il fumo del porto la rosa eccitante.
la strada tagliata nell'acqua dall'uomo e dalle sue mercanzie.
Ma azzurro e rosa, roso e amaro socchiuso tra le sue ragnatele
ecco, sostenendosi su fili, su unghie, su rampicanti,
ecco, vittorioso, stracciato, color di campana e di miele.
ecco, vermiglione e giallo, purpureo, argentato, viola,
cupo e gioioso, segreto e aperto come un'anguria
il porto e la porta del Cile, il manto radiante di Valparaiso,
il sonoro stupore della pioggia sui monti carichi di sofferenza,
il sole che scivola nell'oscuro sguardo, negli occhi più belli del mondo.
Io t'ho invitato alla gioia di un porto aggrappato alla furia delle alte onde
immerso nel freddo dell'ultimo oceano, vivendo in pericolo,
bella è la nave cupa, la luce vesperale dei mesi antartici,
la nave dal tetto amaranto, il pugno di vele o di case o di vite
che qui si vestirono con vesti d'onore e di bandiere
e si sostennero cadendo nel terremoto che apriva e chiudeva l'inferno,
prendendosi alla fine per mano, uomini, muri, cose,
uniti e sconquassati nel rantolo planetario.
Ogni uomo contò con le sue mani i beni funesti, il fiume
delle sue estensioni, la spada, la briglia, il bestiame,
e disse alla sposa: " Difendi il tuo ardente altopiano o il campo di neve
o « Cura la mucca, i vecchi telai, la montagna e l’oro ».
Benissimo, beneamata, è la legge dei secoli che si andaron legando
dentro l'uomo, in un filo che legava anche le loro teste:
il principe gettava le reti col sacerdote a lutto,
e mentre gli dei tacevano nel forziere cadevano monete
che accumularono l'ira e il sangue dell'uomo ignudo.
Per questo eretta la base e benedetta da corvi oscuri
salì l'interesse e dispose sullo zoccolo il suo piede mercenario,
poi alla Statua imposero medaglie e musica.
giornali, radio e televisori cantarono la lode del Santo Denaro;
così perfino il probabile, perfin colui che non potè esser uomo,
il manomesso, l'ignudo e affamato, il pastore miserabile.
l'impiegato notturno che rode nelle tenebre il suo pane disputato alle talpe,
credettero che quello fosse Dio, difesero l'Arca suprema.
e si seppellirono nell'individuo umiliato, colmi d'orgoglio prestato.
(Frammenti)