- 1959 - Navigazioni e ritorni - Pablo Neruda - Popol Vuh - Insetti

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- 1959 - Navigazioni e ritorni

1959  -  NAVIGAZIONI E RITORNI  

Prologo

Ai miei obblighi

Compiendo il mio mestiere
pietra con pietra, penna a penna,
passa l’inverno e lascia
luoghi abbandonati,
abitazioni morte:
io lavoro e lavoro,
devo sostituire
tante dimenticanze,
riempire di pane le tenebre,
fondare di nuovo la speranza.

Non è per me altro che la polvere,
la pioggia crudele della stagione,
non mi riservo niente
ma tutto lo spazio
e lì lavorare, lavorare,
manifestare la primavera.

A tutti devo dar qualcosa
ogni settimana e ogni giorno,
un regalo di colore azzurro,
un petalo freddo del bosco,
e già di mattina sono vivo
mentre gli altri si immergono
nella pigrizia, nell’amore,
e sto pulendo la mia campana,
il mio cuore, i miei utensili.

Ho rugiada per tutti.

ODE ALL’ANCORA

Stava lì, un pesante
frammento fuggitivo,
quando morì la nave
la gettarono
lì, sopra la sabbia,
essa non ha morte:
polvere di sale sul suo scheletro,
tempo nella croce della sua speranza,
si stava ossidando come il ferro di cavallo
lontano del suo cavallo,
cadde l’oblio sulla sua sovranità.

La bontà di un amico
la alzò dalla perduta sabbia
e credette all’improvviso
che il tremore di una nave
la aspettasse,
che catene sonore
la aspettassero
e un’onda infinta,
al tuono dei mari ritornasse.

Un tempo si fermò alla luce di Antofagasta,
essa andava per i mari ma ferita,
non era legata alla prua,
non scivolava per l’acqua amara.
Andava, ferita e addormentata
passeggera,
andava verso il Sud, errante
ma morta,
non usciva il suo sangue,
il suo flusso,
non palpitava al bacio dell’abisso.

E infine a San Antonio
cadde, salì colline,
viaggiò un camion con lei,
era nel mese di ottobre, e orgogliosa
passò senza immergersi
il fiume,
il regno della primavera,
il portentoso aroma
che si adatta alla costa,
come la rete sottile della fragranza,
come il vestito chiaro della vita.
Nel mio giardino riposa
dalle navigazioni
davanti allo sterminato oceano
che tagliò come spada,
e a poco a poco i rampicanti
porteranno la loro freschezza
per le braccia di ferro,
e qualche volta fioriranno garofani
sul suo sonno terrestre,
perché arrivò per dormire
e ora non posso restituirla al mare.

Ora non navigherà nessuna nave.

Ma ancorerà nei miei duri sogni.

A LUOIS ARAGON

1

Aragon, permettimi di darti alcuni fiori del Cile,
alcune foglie coperte di rugiada selvaggia,
alcune radici inaspettatamente cieche.
Andando nella luminosa cordigliere dell’Ovest
e allo scatenato materiale dell’oceano
c’è, là lontano, una terra terribile,
calda come la pelle palpitante del puma.
Lì ogni mattina saluto la solitudine.
Le pietre aspettarono migliaia di secoli sole
e non una sola mano le toccò per ferirle,
allora esse sole alzarono la loro struttura,
esse edificarono i loro castelli amari.
Ma la luce marina aprì gli occhi
lì, e nelle nude
solitudini
un fiore e un altro fiore in questo mese di ottobre:
l’azzurro oceanico arde sopra le pietre.

2

Da quella solitaria primavera,
poeta, fratello dalla testa pallida,
con rispetto e amore, ti porto una corona.
Guarda il fiore del cactus elettrico e la spina
dell’agave, chiesa della sabbia,
guarda i quattro petali del trifoglio procellario,
il sole abbandonato del garofano,
la goccia di acqua e sangue del
copihue,
l’acacia errante vicina alla schiuma.
Tutto sotto la cappa
del cielo lento e lungo come un fiume.
Non c’è nessuno lì: i passi che ascoltaste
sono i passi del mare, dei suoi cavalli.

3

Tutto questo per la tua nobile fronte generosa.
Questi fiori lontani per te, distante.
Queste spine per la tua battaglia.
Queste gocce di oceano per l’acqua
del tuo sguardo, chiaro come nessuno.
Questa amicizia per il tuo cuore di cristallo
Queste mani per le tue mani, oh solitario unico,
accompagnato da tutte le mani del passato
e tutto il pane che l’uomo impasterà stamani.
Queste parole per te, proprietario,
castellano, signore
di tutte le parole, dei colori d’argento,
quelli che si rovesciarono come asfalto bruciante
sopra i nemici della bontà, le parole
fatte di frumento, spade, quarzo di Francia, vino,
ragione, valore, querce,
parole che cantarono come soltanto tu canti,
parole con ombra e miele, parole pure
che all’improvviso minacciano, si sbagliano, si perdono,
dirette si dirigono come frecce
al tempo invisibile, alla primavera nascosta,
portando le semenza attraverso la nebbia.

4

Capitano dell’amore, dove andavi,
rovo errante, il fuoco
di alcuni occhi
della moglie amata,
beneamata,
cadde sopra il tuo viso
e ti concesse i suoi doni,
e in te fiorisce e si apre questo sguardo,
in piena moltitudine, in pace e in guerra.
Sei vestito
di mare, di fiore selvaggio,
di onda profonda
o di celeste aurora,
sei il fidanzato con
una lettera sopra il cuore,
con una iniziale sempre pulsante
nella tua nave.
Fedeltà si chiama
la tua nave,
fedeltà feconda,
amore come un granaio,
dolcezza lacerante
e insegnamento,
perché sei l’antico, antico, antico
innamorato dei guanti puri,
la fiamma
del cavaliere
errante
che attraverso la guerra,
le onde,
l’aspro rancore,
le vittorie,
il vento crudele, il giorno
amaro,
conduce nella sua mano di acciaio
contro la tempesta soltanto una rosa.

5

Fratello separato da tante terre e acque,
dalla confusione e dall’intelligenza,
incontriamoci adesso, già distante,
dalla Spagna, nel suo bicchiere di alloro e ceneri,
e sebbene passino gli anni come api
con dolori e lotte che si estinguono e si chiariscono,
anno dopo anno, qui stiamo, nella prua
del tempo,
del tempo che tu canti, che tu vaticinasti.
Non soltanto la ragione, non soltanto l’amore esteso
fino ai popoli vivi, i popoli gialli,
bianchi, neri, del Sud, dell’Est, dell’Ovest,
ci chiedono ogni giorni i doveri del canto.
E tu, esile come le spade,
conosci il tuo dovere del mezzogiorno,
e la minaccia nulla può con te:
l’incertezza non divora la tua chiarezza sacra
perché sei parte pura dell’aurora.

6

Questo occhi della lontana Araucania,
questi fiori nati in un silenzio appena
interrotto dal mare traboccante,
sono per te. Aragon, per te, fratello.
Lì li raccolsi, nella mia patria,
e da tanta solitudine li porto
per te e per tutto quello che canti.

ODE ALLE ALI DI SETTEMBRE

Ho visto entrare in tutti i tetti
le code a forbice del cielo:
vanno e vengono e portano trasparenza:
nessuno rimarrà senza rondini.

Qui era tutto
vestito, l’aria spessa
come coperta e un vapore di sale
ci inzuppò l’autunno
e ci rannicchiò contro la legna.

È sulla costa di Valparaíso,
verso il sud della Planta Ballenera:
lì tutto l’inverno si manteneva
stabile con il suo cielo amaro.

Finché oggi nell’uscire
volava il volo,
non fermai menti all’inizio, camminai
ancora intorpidito, con dolore di freddo,
è lì stava volando,
lì ritornava
la primavera a dividere il cielo.

Rondini di agosto e della costa,
taglianti, scattate
nel primo azzurro,
saette dell’aroma:
improvvisamente respirai le acrobazie
e compresi che quella
era la luce che tornava alla terra,
la prodezza del polline nel volo,
e la velocità tornò al mio sangue.
Tornai ad essere pietra della primavera.

Buon giorno, signore rondini
o signorine o ali o code a forbice,
buon giorno al volo del cielo
che ritornò al mio tetto:
ho compreso alla fine
che i primi fiori
sono piume di settembre.

ODE ALLE ACQUE DEL PORTO

Niente del mare galleggia nei porti
bensì casse rotte,
derelitti cappelli
e frutta marcia.
Dall’alto
i grandi uccelli neri
immobili, aspettano.
Il mare si è rassegnato
all’immondizia,
le impronte digitali dell’olio
rimasero impresse nell’acqua
come
se qualcuno avesse camminato
sopra le onde
con piedi oleaginosi,
la schiuma
si dimenticò della sua origine:
e non è zuppa di dea
né sapone di Afrodite,
è la riva in lutto
di una cucina
con galleggianti, oscuri,
sconfitti cavolfiori.

Gli alti uccelli neri
dalle sottili
ali come pugnali
aspettano
nell’altezza,
lenti, e senza volo,
fissati
a una nube,
indipendenti
e segreti
come
liturgiche forbici,
e il mare che si dimenticò della sua marina,
lo spazio dell’acqua
che disertò
e si fece
porto,
continua solennemente esaminato
da un comitato freddo
di ali nere
che vola senza volare,
fissato al cielo
blindato, indifferente,
mentre l’acqua sporca oscilla
l’eredità vile caduta dalle navi.

L’IMBARCAZIONE

Ma se paghiamo i nostri passaggi in questo mondo
perché, perché non ci fanno sedere e mangiare?
Vogliamo guardare le nubi,
vogliamo prendere il sole e odorare il sale,
francamente non si tratta di molestare nessuno,
è tanto semplice: siamo passeggeri.

Tutti stiamo passando e il tempo con noi:
passa il mare, si congeda la rosa,
passa la terra per l’ombra e per la luce,
e voi e noi passiamo, passeggeri.

Allora, che succede?
Perché sono tanto furiosi?
Chi stanno cercando con il revolver?

Noi non sappiamo
che tutto lo tiene occupato,
i bicchieri, i posti a sedere,
i letti, gli specchi,
il mare, il vino, il cielo.

Adesso risulta
che non abbiamo tavolo.
Non può essere, pensiamo.
Non possono convincerci.
Era scuro quando arrivammo all’imbarcazione.
Eravamo nudi.
Tutti arrivavamo dal medesimo posto.
Tutti veniamo da donne e da uomini.
Tutti avevamo fame e pronti denti.
A tutti noi crebbero le mani e gli occhi
per lavorare e desiderare quello che esiste.

E adesso ci escono che non possiamo,
che non c’è posto sull’imbarcazione,
non vogliono salutarci,
non vogliono prendersi gioco con noi.

Perché tanti vantaggi per loro?
Chi gli dette il cucchiaio quando non erano nati?

Qui non sono contenti,
così non vanno le cose.

Non mi piace nel viaggio
trovare, negli angoli, la tristezza,
gli occhi senza amore o la bocca affamata.

Non ho vestiti per questo crescente autunno
e meno, meno, meno per il prossimo inverno.
E senza scarpe come andiamo a fare il giro
del mondo, a tanta pietra nelle strade?
Senza tavolo dove andiamo a mangiare,
dove ci faranno sedere se non abbiamo sedia?
Se è uno scherzo triste, si decidano, signori,
a terminarlo presto,
a parlare sul serio adesso.

Poi il mare è duro.

E piove sangue.

ODE ALL’ULTIMO VIAGGIO DI “LA BRETONA”

La barca si spaccò contro la costa,
una piccola barca
di formazione errante,
la curva di una chiglia che fu nuvola,
un pezzo di colomba marinara.

Il mare innalzò la sua forza
e triturò la forma,
fu soltanto un fascio di schiuma,
un raggio di magnolia che colpiva
e lì rimasero le spoglie
della spezzata vincitrice:
quattro tavole ferite
piccole come piume
e vicino agli immobili legni
l’eternità del mare in movimento.

Il mio amico la portò
alla sua elevata casa sul monte
e un alto fuoco coronò la morte
della piccola imbarcazione amata.
Una per una le tavole riunite,
quelle che assorbirono
la libertà marina,
arsero nella notte,
e lì improvvisamente
si fecero miracolo:
con uno strano azzurro si dispersero,
con un arancione indescrivibile,
con lingue di acqua verde che uscivano
a restituire il sale che consumarono.

E noi rimaniamo muti:
era l’ultima festa,
la luce mortale della piccola nave
che lì partiva spiegando la sua anima.

E così fu la sua ultima navigazione:
così morì allontanando e incendiando
con fosforici fuochi smarriti
nel viaggio finale la sua alberatura.

ODE AL CAVALLO

Quel cavallo solo e legato
in un povero pascolo
della mia patria,
quel povero cavallo
è un ricordo,
e adesso
quando tutti i cavalli
accorrono al lampo,
alla luce improvvisa della mia ode,
quello dimenticato viene,
quello bastonato,
quello che trasportò la legna dai monti,
le pietre
crudeli
da cava a costa,
lui,
non viene galoppando
con incendiari crini
ondeggiando nel vento,
non arriva
integra groppa come
mela della neve,
no,
così non arriva.
Arriva arrancando, a fatica
le sue quattro zampe camminano
e la sua testa immobile
è torre
di tristezza,
e così
arriva alla mia ode,
cos’ il cavallo arriva affinché lo canti.

Trottò per tutti le strade dure,
mangiò male con i suoi molari gialli,
bevve poco – il suo padrone
usava più bastone che pozzo -,
è secco il mio amico
dai lombi
appuntiti,
ed ha un’anima magra di violino,
un cuore stanco,
il pelo di un tappeto suburbano.

Così vedendolo, toccandolo,
si vedono le sue molte ossa,
l’arco che protegge le costole,
gli oppressi femori caduti
nei lavoratori metatarsi
e il cranio, cattedrale di osso puro,
nei cui due altari
vivono due santi occhi di cavallo.

Quindi mi guardarono con la prova
di un esteso, di una antica sofferenza,
di una sofferenza profonda come l’Asia,
camminando con sete e con sabbia,
e era quel povero e nomade cavallo
con la sua bontà qualcosa che io cercavo,
forse
la sua religione senza illusioni.
Da allora mi cercò il suo sguardo
dentro di me, contro tanti dolori
patiti da uomini e cavalli,
e non mi piace, no, la soave lepre,
né il leone, né il falco,
né i pugnali degli squali,
ma quello sguardo,
quegli occhi fissi
nella tranquillità della tristezza.

Forse qualcuno chiede
del modo
dell’alato ed elastico
cavallo, del puro
destriero di cavalcata,
orgoglio della sfilata,
proiettile della corsa:
ebbene, celebro
la sua grazia di vespa,
la freccia che con linee lo disegna
dal labbro alla coda
e scende per le metalliche caviglie
fino ai nervosi zoccoli frettolosi.

Si, forse è la vela del veliero,
la carezza di un fianco amato,
la curva della grotta nell’onda,
quello che può avvicinarsi alla bellezza,
al veloce arabesco di un cavallo,
alla sua immagine coniata sopra un volo,
disegnata sul francobollo dalla rugiada.

Ma non va la mia ode
a volare con il vento,
a diffondersi con la guerra
né con le allegrie:
la mia poesia si fece passo a passo,
trottando per il mondo,
divorando strade pietrose,
mangiando con
i miserabili
nell’osteria glaciale della povertà,
e è dovuto
a queste pietre
della strada,
alla sete, alla punizione dell’errante,
e se un’aureola saccheggiata da quell’aurora,
riscattò il dolore per cantar vittoria,
adesso la corona
di alloro impassibile per la sofferenza,
la luce che conquistai
per le vite
la do per questa gloria di un cavallo,
di uno che sopportò peso, pioggia e colpi,
fame e remota solitudine e freddo
e che non sa, no, perché vive,
ma va e va e porta carichi e sopporta,
come noi, bastonati uomini,
che non abbiamo dei ma terra,
terra da arare, da percorrere, e quando
è sufficientemente arata e percorsa
si apre per le ossa del cavallo
e per le nostre ossa.
 Ah cavallo
del povero, viandante,
camminiamo
insieme in questo spazio duro
e anche se non sai né saprai che serva
la mia ragione di amarti, povero fratello,
il mio cuore per questa ode,
le mie mani per passarle sopra il tuo soave muso!

SCRITTO SUL TRENO VICINO CAUTÍN, NEL 1958

Un’altra volta, mille altre volte ritorno
al Sud e sto viaggiando
per la lunga linea dura,
l’interminabile patria custodita
dalla statua infinita della neve,
verso lo scontroso Sud da dove anni fa
mi aspettavano le mani e il miele.

E, adesso,
nessuno nei paesi di legno. Sotto
la pioggia tanto tenace come l’edera,
non ci sono occhi per me, né quella bocca,
quella bocca in cui nacque il mio sangue.
E non c’è più tetto, tavolo, bicchiere, muri
per me in quella che fu la mia geografia,
e ciò si chiama andarsene, non è un viaggio.

Andarsene è tornare quando soltanto la pioggia,

soltanto la pioggia aspetta.

E non c’è porta, non c’è pane. Non c’è niente.

ODE AL LETTO

Di letto in letto in letto
è questo viaggio,
il viaggio della vita.
Quello che nasce, il ferito
e quello che muore,
quello che ama e quello che sogna
vennero e se ne vanno di letto in letto,
veniamo e ce ne andiamo
con questo treno, con questa nave, con questo
fiume comune
a tutta
la vita,
comune
a tutta la morte.
La terra è un letto
fiorito d’amore, sporco di sangue,
le lenzuola del cielo
si asciugano
dispiegando
il corpo di settembre e la sua bianchezza,
il mare
scricchiola
colpito
dalla
cupola
verde
dell’
abisso
e muove vestiti bianchi e vestiti neri.

Oh, mare, letto terribile
agitazione perpetua
della morte e della vita,
dell’aria crudele e della schiuma,
dormono in te i pesci,
la notte,
le balene,
giace in te la cenere
centrifuga e celeste
delle agonizzanti meteore:
palpiti, mare, con tutti
i tuoi addormentati,
costruisci e distruggi
il talamo incessante dei sonni,
All’improvviso esce un raggio
con due occhi di puro nontiscordardimé,
con narice di avorio o di mela,
e ti mostra il sentiero
di soavi savane
come stendardi chiari di giglio
da dove scivoliamo
all’unione.
Poi
viene al letto
la morte con le sue mani ossidate
e la sua lingua di iodio
e alza il suo dito
lungo come una strada
mostrandoci la sabbia,
la porta degli ultimi dolori.

ODE ALLA CAMPANA CADUTA

Cadde il campanile.
Cadde la campana
un giorno senza orgoglio,
un giorno
che arrivò come altri giovedì
e andò via,
andò via, andò via con lei,
con la campana che cadde bocconi,
col suono seppellito.

Perché cadde quel giorno?

Perché non fu l’altro ieri né ieri né mai,
perché non fu domani,
ma adesso?
Perché doveva cadere improvvisamente
una campana intera,
fissa, fedele e matura?
Che successe al metallo, al legno,
al suolo, al cielo?
Che successe all’ombra,
al giorno,
all’acqua?
Chi arrivò a respirare e non lo vedemmo?
Quali ire del mare alzarono il loro attributo
finché demolirono
il profondo
eco
che contenne nel suo corpo la campana?
Perché si piegò la stella?
Chi sgretolò la sua sovranità?

Il danno giace adesso.
Morse lo spazio
la campana
con il suo bordo rotondo,
e nessuno può toccare il suo abisso,
tutte le mani sono impure:
essa era dell’aria,
e ciascuna mano nostra
ha unghie,
e le unghie dell’uomo
hanno polvere,
polvere di ieri, cenere,
e dorme
perché
nessuno può ottenere la sua voce perduta,
la sua anima
che essa manifestò nella trasparenza,
il suono
contenuto
in ciascun rintocco e nell’aria.

E così fu la campana:
cantò quando viveva
e adesso sta nella polvere
il suo suono.
L’uomo e la campana
cantarono vittoriosi nell’aria,
pio ammutolirono nella terra.

AL CILE, DI RITORNO

Patria, un’altra volta ritorno al mio destino.
Vengo dalle città e dai boschi,
vengo dal mare, da tutti gli idiomi.
Ciò che vidi lo conservai sotto i miei occhi.
Ciò che toccai lo racchiusero le mie mani.
Ciò che ascoltai lo porto
scritto nelle rughe della mia fronte.

Più giovane e più vecchio
questa volta come sempre sono ritornato:
più giovane per amore, amore, amore,
più vecchio perché sì, perché mi mordono
gli orologi, i mesi, gli acuti
denti del calendario.

Quello che fui là lontano, quello che seppi,
qui lo porto, qui
lo lascerò ai tuoi piedi, lo consegnerò ai tuoi capelli,
aspra e dolce amata, piccola patria mia.
Nulla feci più che darti,
darti quello che io ebbi e quello che non era mio,
consumarmi per te come gli attrezzi
che restituiscono alla fine il metallo alla terra.

Camminai tra gli uomini,
i mercati,
nell’elettricità delle fabbriche,
raccolsi pensieri, pietre, fiori,
e quanto più, e quanto
amai, piccola patria, quanto guadagnai o mi dettero
fu soltanto per te, per adornarti,
per cantare la tua terra di magra vita.

Dove fui mi stavano aspettando
l’amicizia, l’amore e la dolcezza.
Dove fui mi onorarono,
mi alzarono nella piazza,
mi riempirono di farfalle,
mi costellarono con canzoni,
mi decorarono con baci.

E io gli dissi: non sono io, non esisto,
se mi toccano vedranno, sono soltanto terra,
pietra povera del Cile, dei suoi fiumi,
canto vagante, cuore rotolato.
Attraverso del mio canto
gli occhi stranieri
videro la lunga cintura, il territorio,
le sabbia di Arica,
la notte di navi che costella
il sonno grigio di Antofagasta,
più lontano,
la popolazione violacea delle uve,
il carbone sottomarino e sotterraneo,
poi, aggrovigliata alle regioni verdi,
pura di sole, la moltitudine del frumento.

Del tuo tempo e della tua vita,
della tua aurora,
degli uomini e delle donne
raccontai e cantai, di tutti.
Gli eroi procellosi
li collocai con vento e con spada
nei loro raffinati
capitelli
di sangue e di rugiada,
ma,
camminando con essi
e lottando,
io preferii al mio popolo, a quelli che rompono
con le loro mani la terra,
e rame, sale, cipolle,
pesci del mare, solfati,
scarpe, vino, treni,
estraggono e spostano, sollevano
e scendono
interminabilmente.

Qui niente rimane immobile.

II mio popolo è movimento.

La mia patria è una strada.

Così, dunque, alla mia terra
ritorno con il mio canto
e so quello che mi aspetta.
Antipatriota, mi dirà il ministro,
ripeteranno in tanti la sua impostura,
e il Pachacho topo che, penna di bile,
dissemina su
M e su El Mercurio
spruzzerà il mio nome con il suo stile.
Il giovane che voleva
crescere, al quale detti pane e parola,
si darà da fare dicendo:
“Devi unire i morti
contro il suo canto vivo”,
e così vicino alla mia ombra un’onda impura
nutre l’albero amaro dell’invidia.

Patria, questa volta, perdonami
l’alloro che ti porto da lontano:
interralo nel tuo chiaro territorio,
guardalo nella radice delle tue bandiere.
Pensa che non uscii, che non sono arrivato,
dissimula la mia voce, copri la mia bocca,
perché non mi tocchino e non mi vedano.

Scelsi un’altra battaglia:

soltanto per il mio popolo

tengo intatto il mio amore invulnerabile.

ODE AL BUON CIECO

La luce del cieco era la sua compagna.
Talvolta le sue mani di artigiano cieco
elaborarono con pietra perduta
quel volto di torre,
quegli occhi che per lui vedevano.

Venni a vedere e in lui
la luce del mare cadeva
coprendolo di miele, dando al suo corpo
la purezza come di una veste sacra,
e il suo sguardo non aveva fondo,
né pesci crudeli nel suo abisso.

Forse quella volta perse la luce
come un figlio sua madre, ma continuò a vivere.
Il figlio cieco della luce mantenne
l’integrità dell’uomo con l’ombra
e non fu solitudine l’oscurità,
ma radice dell’essere e frutta chiara.

Essa con lui veniva,
beneamata,
sposa, amante
del ragazzo cieco,
e quando vacillava la sua tenerezza,
ella prese le sue mani
e le pose sul suo viso
e fu come violette il minuto,
tutta la terra lì si fece fragrante.
Oh bellezza
di vedere alto e fiorito l’infortunio,
di vedere completo l’uomo
con fiore e con dolore, e vedere improvvisamente
l’eroe cieco
sollevare il mondo,
farlo di nuovo,
annunciare,
nato un’altra volta nei suoi dolori
intero e stellato
con infinita luce di celo oscuro.

Quando andò via, al suo fianco
ella era ombra pura
che accompagna gli alberi di gennaio,
la rumorosa ombra,
la freschezza,
il volo del miele e delle sue api,
e andarono via
tutte le sue fatiche,
capaci della vita,
professori
di sole, di luna, di legno, di acqua,
da quanto egli comprendeva senza i suoi occhi,
dandoti, cieco, irremovibile luce
affinchè tu cammini.

ODE AL CIECO MALVAGIO

Oh cieco senza chitarra
e con invidia,
bollito
nel
tuo
veleno,
disprezzato
come
queste
scarpe
socchiuse e consumate
che a volte
aprono la bocca come se volessero
abbaiare, abbaiare dal fossato sporco.
Oh legato
a quello che mai fu, non poté esserlo,
a quello che non sarà, non avrà bocca,
né voce, né voto,
né ricordo,
perché così somma e sottrae
la vita sulla sua lavagna:
all’innocente il dono,
al legame cieco
la sua corda e il suo castigo.

Io passai e non sapevo
che lì stava aspettando
con le sua braci,
e poiché non poteva
bruciarmi
e mi cercava
dentro la sua ombra,
andai via
con le mie canzoni
alla luce
della vita.

Povero!
Lì trascorre,
lì ha trascorso,
preparando
la sua zuppa di aceto,
il suo formaggio di scorbuto,
cuocendosi
nella sua panna corrosiva,
in questa oscura pentola
in cui cadde
e fu condannato
a consumare il suo proprio
vitalizio beveraggio.

ODE ALLE COSE

Amo le cose pazze,
pazzamente.
Mi piacciono le pinze,
le forbici,
adoro
le tazze,
gli anelli di ferro,
le zuppiere,
senza parlare, ovviamente,
del sombrero.

Amo
tutte le cose,
non soltanto
le supreme,
ma
le
infinita-
mente
piccole,
il ditale,
gli speroni,
i piatti,
i vasi da fiori.

Ahi, anima mia,
bello
è il pianeta,
pieno
di pipe
per la mano
condotta
nel fumo,
di chiavi,
di saliere,
infine,
tutto
quelle che fu fatto
dalla mano dell’uomo, ogni cosa:
le curve della scarpa,
il tessuto,
la nuova nascita
dell’oro
senza il sangue,
gli occhiali,
i chiodi,
le scope,
gli orologi, le bussole,
le monete, la soave
soavità delle sedie.

Ahi, quante
cose
pure
ha costruito
l’uomo:
di lana,
di legno,
di vetro,
di corde,
tavole
meravigliose,
navi, scale.

Amo
tutte
le cose,
non perché siano
ardenti
o fragranti,
ma perché
non so,
perché
questo oceano è il tuo,
è il mio:
i bottoni,
le ruote,
i piccoli
tesori
dimenticati,
i ventagli nei
cui piumaggi
svanì l’amore
e le sue zagare,
i bicchieri, i coltelli,
le forbici,
tutto ha
nel manico, nel contorno,
l’impronta
delle dita,
di una remota mano
perduta
nel più dimenticato dell’oblio.

Io vado per case,
strade,
ascensori,
toccando cose,
distinguendo oggetti
che in segreto ambisco:
uno perché si vanta,
un altro perché
è tanto soave
come la soavità di un’anca,
un altro per il suo colore di acqua profonda,
un altro per il suo spessore di velluto.

Oh fiume
irrevocabile
delle cose,
non si dirà
che solo
amai
i pesci,
o le piante di selva e di prateria,
che non solo
amai
ciò che salta, sale, sopravvive, sospira.
Non è vero:
molte cose
me lo dissero tutto.
Non solo mi toccarono
o le toccò la mia mano,
ma accompagnarono
in tal modo
la mia esistenza
che con me esistettero
e furono per me tanto esistenti
che vissero con me mezza vita
e moriranno con me mezza morte.

L’INDIO

L’indio tramortendosi nelle strade
del Perù, della Bolivia,
per i monti dell’America,
con tanti fili di oro nel museo,
con tanti vestiti nella storia,
e qui va il povero e viene
già senza voce e senza frumento e senza scarpe.

Alzatevi, ragazzoni, andiamo.
Vai una volta al tuo buco
nella terra, e sappi
che non hai cielo.
Andiamo. Vivi!

Io esigo che tu smetta di essere pietra,
che smetta di essere fiume,
piuma di uccello che ora non esiste,
che volò con gli anni.
Adesso,
andiamo, togliti la polverosa
maschera che confonde
il tuo vecchio cuore con le strade,
con i muri che già caddero.
Metti i pantaloni e, andiamo!
Io so di cosa si tratta, e non hai destino.

Non hai più destino di quello che ci faremo
di puro sangue, a mano,
e non è verso il basso né all’indietro la vita,
non c’è strada nel silenzio.
non hai, non abbiamo niente da ricordare.

Perché non ti perda
non ti guardare, né guarda tanto la polvere:
il mondo crebbe da allora,
da quando ti uccisero, ed adesso non c’è spazio
perché ti ritragga risorto.

Ah se solamente
non fossi mai stato
che onesti continuassimo a vederti
perdere, perderlo tutto ogni giorno,
perdere il regno, perdere i piedi, perdere in ogni momento,
e trovarti solo con il tuo sudario, camminando,
con gli occhi più tristi della terra.

All’improvviso sappiamo
che sei lì, alla porta,
aspettando, o dentro di noi,
anche, in ogni parte, aspettando,
sotto la pioggia e senza mangiare.

Adesso
tutti colpiranno, tutti, meno tu.
Tutti chiedono, fanno conti nei loro libretti,
si arrabbiano molto, gridano o non sopportano,
non sopportano più, questo si sa,
e tu, senza patria, con la tua gallinella
aspettando che alla fine te la comprino
per ritornare dove ormai non vivi,
per sognare già neppure sogni.

Andiamo scemo, non credere
che tutti siano tanto scaltri,
che solo tigri ci siano nella casa del giusto.
È difficile raccontarti,
ma è cambiato tutto:
adesso hanno paura
questi signori con baffi e pallottole,
tutti questi signori con catene,
questi signori con poltrona elettrica,
questa gente tanto ricca,
ha paura.
All’improvviso si risvegliamo,
corrono alla finestra,
è solo notte fuori,
non succede niente
ma hanno paura,
hanno paura di tutto e, sembra una bugia,
anche di te hanno paura,
dimenticato
delle Ande, anche
temono i tuo stracci,
e adesso ricordano che essi te li dettero
e hanno paura e non mangiano tranquilli.

Essi sanno
che le cose cambiarono,
e si sa
che adesso da qualche parte
si sente l’indio
come tutto il mondo,
e entra e esce e sorride,
ha scuola e sorriso,
ha pane e immagine,
e questo, amico, non accade nel cielo,
perché in cielo non succede niente.

E si sa,
si sa,
che questo accade sulla terra.

ODE ALLE COSE ROTTE

Si stanno rompendo cose
nella casa
come spinte da un invisibile
incidente volontario:
non sono le mie mani,
né le tue,
non furono le ragazze
dall’unghia dura
e passo di pianeta:
non fu niente né nessuno,
non fu il vento,
non fu l’arancione mezzogiorno
né la notte terrestre,
non fu né la narice né il gomito,
il crescente fianco,
la caviglia
né l’aria:
si sgretolò il piatto, cadde la lampada,
si buttarono giù tutte le fioriere
una ad una, quello
in pieno ottobre
riempito di scarlatto,
affaticato da tutte le violette,
e un altro vuoto
girò, girò, girò
per l’inverno,
fino ad essere soltanto farina
di fioriera,
ricordo rotto, polvere luminosa.
A quell’orologio
il cui suono
era
la voce delle nostre vite,
il segreto
filo
delle settimane,
che una ad una
legava tante ore
al miele, al silenzio,
a tante nascite e lavori,
anche quell’orologio
cadde e vibrarono
tra i vetri rotti
le sue delicate viscere azzurre,
il suo lungo cuore
srotolato.

La vita sta macinando
vetri, rompendo vestiti,
facendo pezzi,
triturando
forme,
e quello che dura nel tempo è come
isola o nave nel mare,
effimero,
circondato dai fragili pericoli,
da implacabili acque e minacce.

Poniamo tutto in una volta, orologi,
piatti, bicchieri intagliate dal freddo,
in un sacco e portiamo
al mare i nostri tesori:
che si facciano cadere tutte le nostre proprietà
in un solo allarmante trituratore,
che suoni come un fiume
quello che si sgretola
e che il mare ricostruisca
con il suo lungo lavoro di maree
tante cose inutili
che nessuno rompe
ma che si ruppero.
INCONTRO NEL MARE CON LE ACQUE DEL CILE

In mezzo al mare ti ritorno a vedere, mare mio,
in mezzo all’acqua altre acque,
altro azzurro tra azzurri, altre spume.
Sento improvvisamente come se toccassero
il mio cuore con una luce profonda,
sento l’aria nella mia bocca e sono i tuoi baci,
qualcosa nel mio sangue ed è il tuo sale nutrimento.

Oceano perduto
dalla mia ragione errante,
ritorno ad incontrare senza tregua
girandomi intorno,
abbracciando nel tuo cerchio la mia vita
e di ritorno alla mia patria abbandonata
già ti ignoravo tra i mari
quando senza vedere mi tocchi
ed è la mia fronte un colpo
di uccello, di vento, di ala fredda.

Oh nudo elemento
senza impronta di parola né di navi,
essenza sola, schiuma,
movimento, distanza,
a nessun mare, a nessuna misura,
a nessun pianeta tu assomigli.

Qui crescesti grave
rosaio dell’infinito,
qui vicino alle terre minerali
si riempirono i tuoi bicchieri cristallini
e smisurato si estese nel tempo
il tuo sviluppo azzurro, la tua idolatria.

Le Ande elevarono
i loro edifici, i loro occhi di neve,
la solitudine, l’ombra dei suoi puma,
il disordine scontroso della roccia.
Qui ai piedi della terra stellata
la pelle del mare crebbe come nessuna
e tra l’aria più alta e l’abisso
più esteso la tua prateria,
la tua pace azzurra, il tuo movimento bianco,
interminabile sposo della terra.

Ritorno da lunghi viaggi,
amai durante la lunga vita
tutte le strade e tutto il silenzio,
la costa e lo zaffiro
delle isole distanti,
odore di miele e di cuore di api
possedette la lontananza
e crepitanti avvenimenti
mi fecero cittadino di dove stavo.
Non fui straniero dagli occhi morti:
condivisi il pane e tutte le loro bandiere.

Ma è il mare del Cile
che tra altre onde sale
penetrando l’oceano del Nord:
in queste acque giunge
la mia disperazione e la mia speranza.
Queste acque del freddo
elaborate sotto le stelle
più gelate del cielo,
questo mare che nei piedi del mondo
fondò il suo stato tempestoso
e salì con il vento,
fugace, freddo e frenetico,
correndo come puledro della neve
sopra le onde e tra le balene:
questo mare, nella sua assenza,
mi chiama con i suoi tuoni
e prima di toccare la patria
mi colpisce
con la sua respirazione e le sue spume.

In mezzo al mare, all’improvviso, nel viaggio,
tra le altra acque estese,
ampie come le mani della luna,
il mare, il mio mare, mi dedicò un bacio.
Lo ricevetti nella fronte e sulla bocca
ed esplose la salamoia e la freschezza
in tutte le strade del mio sangue,
risvegliò la notte e l’assenza,
crebbe il mio cuore come un’onda,
e in pieno sole sentii che mi spingeva
ad adempiere i miei obblighi con la mia terra e con i miei.

Per questo sono qui e questa è la mia casa.
Per questo vado per tutti i cammini.
Adempio a quello che mi disse il mare del Cile
in mezzo al mare, quando venivo da lontano.

ODE ALL’ELEFANTE

Spessa bestia pura,
San Elefante,
animale santo
del bosco sempiterno,
tutto materia forte,
raffinata
e equilibrata,
cuoio
di
selleria planetaria,
avorio
compatto, satinato,
sereno
come
la carne della luna,
occhi minimi
per guardare, non per essere guardati,
e proboscide
toccatrice,
cornetta
del contatto,
manichetta
dell’
animale
giocoso
nella
sua
freschezza,
macchina mobile,
telefono del bosco,
e così
passa tranquillo
e dondolante
con il suo vecchio involucro,
con il suo vestiario
di albero grinzoso,
il suo pantalone
caduto
e la sua codina.

No non sbagliamo.
La dolce e grande bestia della selva
non è un clown,
ma il padre,
il padre nella sua luce verde,
è l’antico
e puro
progenitore terrestre.

Totale fecondazione,
tantalica
ingordigia,
fornicazione
e pelle
maggioritaria,
abitudini
nella pioggia
circondarono
il regno
degli elefanti,
e fu
con sale
e sangue
la generica guerra
nel silenzio.

Le squamose forme,
il torchiato leone,
il pece montagna,
il milodonto ciclope,
caddero,
decaddero,
furono fermento verde nel pantano,
tesoro
delle torride mosche,
di scarabei crudeli.
Emerse l’elefante
stupendo detronizzato.
Fu quasi vegetale, oscura torre
del firmamento verde,
e di foglie dolci, miele
e acqua di roccia
si alimentò la sua stirpe.

Andava dunque per la selva
l’elefante con la sua pace profonda.
Andava decorato
dalle
medaglie più luminose
della rugiada,
sensibile
alla
umidità
del suo universo,
enorme, triste e tenero
finché lo trovarono
e lo fecero
bestia da circo avvolta
dall’odore umano,
senza aria per la sua inquieta proboscide,
senza terra per le sue terrestri zampe.
Lo vidi entrare quel giorno,
e lo ricordo come un moribondo,
lo vidi entrare a Kraal, il perseguitato.
Fu a Ceylon, nella selva.
I tamburi,
il fuoco,
avevano deviato
il suo percorso di rugiada,
e lì fu circondato.
Tra l’ululato e il silenzio entrò
come un immenso re. Non capiva.
Il suo regno era un carcere, tuttavia
era al sole come sempre, palpitava
la luce libera, proseguiva verde il mondo,
con lentezza toccò la palizzata,
non le lance, e a me,
a me tra tutti,
non so, forse non può essere, non è stato,
ma mi guardò
con i suoi occhi segreti
e ancora mi dolgono
gli occhi
di quell’imprigionato,
di quell’immenso re carcerato nella sua selva.

Per questo oggi ricordo il tuo sguardo,
elefante perduto
tra le dure lance
e le foglie
e in tuo onore, bestia pura,
alzo le collane
della mia ode
affinché passeggi
per il mondo
con la mia infedele poesia
che allora non poteva difenderti,
ma che adesso
unisce
nel ricordo
la palizzata dove imprigionarono
l’onore animale della tua statura
e quei dolci occhi di elefante
che lì persero tutto quelle che avevano amato.

ODE AL GATTO

Gli animali furono
imperfetti,
lunghi di coda, insufficienti
di testa.
Poco a poco si andarono
aggiustando.
facendosi paesaggio,
acquisendo lunari, grazia, volo.
Il gatto,
soltanto il gatto
apparve completo
ed orgoglioso:
nacque completamente finito,
cammina solo e sa quello che vuole.

L’uomo vuole essere pesce e uccello,
il serpente vuole avere le ali,
il cane essere un leone disorientato,
l’ingegnere vuole essere poeta,
la mosca studia per rondine,
il poeta cerca di imitare la mosca,
ma il gatto
vuole essere soltanto gatto
e ogni gatto è gatto
dal baffo alla coda,
da presentimento a ratto vivo,
dalla notte fino ai suoi occhi d’oro.

Non c’è unità
come lui,
non l’hanno
la luna né i fiori
tale struttura:
è una sola cosa
come il sole o il topazio,
e l’elastica linea del suo contorno
fermo e sottile è come
la linea di prua di una nave.
I suoi occhi gialli
lasciano una sola
fessura
per gettare le monete della notte.

È piccolo
imperatore senza universo,
conquistatore senza patria,
piccola tigre da sala, nuziale
sultano del cielo
delle tegole erotiche,
il vento dell’amore
nelle intemperie
reclami
quando passi
e posi
quattro piedi delicati
sul suolo,
odorando,
diffidando
di tutto il terrestre,
perché tutto
è immondo
per l’immacolato piede del gatto.

Oh fiera indipendente
della casa, arrogante
traccia della notte,
pigre, atletico
e estraneo,
profondissimo gatto,
polizia segreta
delle abitazioni,
insegna
di uno
scomparso velluto,
certamente non hai
enigma
simile a te,
forse non sei mistero,
tutto il mondo ti conosce ed appartieni
all’abitante meno misterioso,
forse tutti lo credono,
tutti si credono padroni,
proprietari, zii
di gatti, compagni,
colleghi,
discepoli o amici
di un gatto.

Io no.
Io non sottoscrivo.
Io non conosco il gatto.
Tutto conosco, la vita e il suo arcipelago,
il mare e la città incalcolabile,
la botanica,
il gineceo con i suoi smarrimenti,
e più e meno la matematica,
gli imbuti vulcanici del mondo,
il guscio irreale del coccodrillo,
la bontà ignorata del pompiere,
l’atavismo azzurro del sacerdote,
ma non posso decifrare un gatto.
La mia ragione scivolò sulla sua indifferenza,
i suoi occhi hanno numeri d’oro
I GABBIANI DI ANTOFAGASTA

Tu non conosci terra sterile,
tu non conosci cordigliere secche,
tetti di infinite cicatrici,
e l’ocra morta nella metà del giorno
vicino al colore mortuario del tungsteno,
vicino all’intrasferibile
mucchio di un mondo morto,
alture e catastrofi spoglie,
la luce più crudele del deserto sabbioso.

Così di brutto mi accolse
il Nord riarso della mia patria.

E allora nella linea
di cielo azzurro metallico
e del mare ribelle,
contro crudeli montagne minerali
dietro la mia nave,
vidi sollevarsi l’uomo e l’amore
in un addio di gabbiani.

Triangolari e grigi
apparirono sopra
le sparizione di Antofagasta
e nel volo tagliavano
rettangoli fugaci,
intrecciavano luce e geometria,
si cercavano immobili,
si sollevavano sulla propria schiuma,
e erano improvvisamente linee del sale,
occhi del cielo o ciglia della neve.
Per il mare, il più lungo,
lasciando indietro il guscio calcareo
delle cime di Antofagasta,
venne il grappolo di uccelli
raggruppati,
il purissimo ciclo del loro volo,
la musica senza voce dei gabbiani,
e sopra il mondo orrendo,
sopra la morte secca del deserto lunare,
con il mare
sollevarono
un volo interrotto di zagare,
un accompagnamento
di equilibrio e bianchezza,
ed era nella fine del giorno desolato
la danza sospesa,
il repertorio più puro dell’aria,
il capitolo della dolcezza.

Addio, addio gabbiani,
all’indietro, verso
i crudeli, infernali poteri
della natura riarsa,
verso la notte oscura,
verso quello che andò via quando si chiudeva
il cerchio del mare sopra la nave
mentre io nel mio viaggio
senza meta, senza ragione, senza infortunio,
per tutta la notte ed il giorno navigando
mi fermo e chiedo
per la eccellente luce di quelle rocce,
per le ali erranti che seguirono
in pieno mare il mio petto peregrino.

Addio, addio,
uniche anime della luna morta,
alte domande della luce marina,
addio, fino a perdere
nello spazio
quello che mi accompagnò nella traversata,
la luce dei gabbiani che si alzarono
dietro di me in volo
e nelle loro ali
- onore del mare – la popolazione più pura.

ODE AI RINGRAZIAMENTI

Grazie alla parola
che ringrazia.
Grazie a grazie
per
quanto questa parola
scioglie neve o ferro.

Il mondo sembra minacciante
finché soave
come piuma
chiara,
o dolce come petalo di zucchero,
di labbro in labbro
passa,
grazie,
grandi a piena bocca
o sussurranti,
appena mormorate,
e l’essere tornò ad essere uomo
e non finestra,
qualche chiarezza
entrò nel bosco:
fu possibile cantare sotto le foglie.
Grazie, sei la pillola
contro
gli ossidi taglianti del disprezzo,
la luce contro l’altare della durezza.

Forse
anche tappeto
tra i più distanti uomini
fosti.
I passeggeri
si disseminarono
nella natura
e allora
nella selva
degli sconosciuti.
merci,
mentre il treno frenetico
cambia la patria,
cancella le frontiere.
spasivo,
vicino agli appuntiti
vulcani, freddo e fuoco,
thanks, si, gracias, e allora
si trasforma la terra in un tavolo:
una parola la pulì,
brillano piatti e bicchieri,
suonano le forchette
e sembrano tovaglie le pianure.

Grazie, gracias,
che viaggi e che ritorni,
che salga
e che scenda.
Ho capito, non
lo soddisfi tutto,
parola gracias,
ma
dove appare
il tuo piccolo petalo
si nascondono i pugnali dell’orgoglio,
e appare un centesimo di sorriso.

ODE ALLA GRANDE MURAGLIA, NELLA NEBBIA

È certo che queste pietre
durarono e durarono,
i minuti morirono come insetti,
il sole crebbe, fu rosso,
verde,
azzurro,
nero,
amaranto,
la neve unì gli occhi degli uomini
e questo serpente inutile
mangiò anche il tempo.

Oggi la nebbia
la copre:
questa mattina il mondo,
le montagne, gli asini
che trasportano le stesse pietre dure,
tutto
è vapore,
tremore,
foschia,
e soltanto il prodigioso
suono di flauto
di un pastore nascosto
sale come una spada
per le gole:
è l’uomo che vive e mangia e canta
vicino al morto serpente.

Ma essa
adempì al suo incarico.
Immobile, con l’età,
si dimenticò degli uomini che la fecero:
Nacque dall’artificio,
poi fu naturale come la luna,
rimase dissotterrata
come un cadavere troppo grande.
Vado sulla struttura, la costola
del regno antico, della luce segreta,
la coda del leone dagli artigli morti.

Silenzio, tempo e nebbia,
monti verdi, bagnati,
e verso l’altezza scontroso
la Muraglia,
la Muraglia vuota.

Cosa sei muro?
cosa fosti?
Oh grande separatrice
di paesi,
fosti sempre
immutabile
segno
che scorsero i pianeti?
Volesti essere strada?
Il sangue rovesciato,
il silenzio, la pioggia,
ti trasformarono in rettile di pietra?

Oscure farfalle volano,
si inseguono nella umida mattina,
la solitudine è grande e sale sopra
la tua cinta interminabile,
Grande Muraglia.
Mi sembra che lì dove crescesti
come un fiume disumano,
si intimorirono i nomadi,
prese dimora il silenzio,
e un lungo brivido
cadde sopra i monti
durando, duraturo.

ODE ALLA CHITARRA

Sottile
linea pura
di cuore sonoro,
sei la chiarezza tagliata al volo:
cantando sopravvivi:
tutto se ne andrà tranne la tua forma.

Non so se il pianto rauco
che da te si precipita,
i tuoi tocchi di tamburo, la tua
   moltitudine di ali,
sarà di te il mio,
o se sei
in silenzio
più decisamente estasiatore,
sistema di colomba
o di anca,
stampo che dalla sua schiuma
risuscita
e ti presenti, turgida, reclinata
e risorta rosa.

Sotto un fico,
vicino al rauco e impetuoso Bío-Bío,
chitarra,
uscisti dal tuo nido come un uccello
e a delle mani
brune
consegnasti
gli appuntamenti sepolti,
i singhiozzi oscuri,
la catena senza fine degli addii.
Da te usciva il canto,
il matrimonio
che l’uomo
consumò con la sua chitarra,
i dimenticati baci,
l’indimenticabile ingrata,
e così si trasformò
 la notte intera
in stellata cassa
di chitarra,
tremò il firmamento
con il suo bicchiere sonoro
e il fiume
le sue infinite corde
accordava
trascinando verso il mare
una marea pura
di aromi e lamenti.

Oh solitudine deliziosa
con notte futura,
solitudine come il pane terrestre,
solitudine come un fiume di chitarre!
Il mondo si racchiude
in una sola goccia
di miele, in una stella,
tutto è azzurro tra le foglie,
tutta l’altezza tremolante
 canta.

E la donna che tocca
la terra e la chitarra
alza nella sua voce
il duello
e l’allegria
della profonda ora.
Il tempo e la distanza
cadono alla chitarra:
siamo un sogno,
un canto
interrotto:
il cuore campestre
se ne va per i cammini a cavallo:
suona e suona la notte e il suo silenzio,
canta e canta la terra e la sua chitarra.

ODE DAVANTI ALL’ISOLA DI CEYLON

Un’altra volta nei mari,
avvolto
in pioggia,
in oro,
in vago albeggiare,
in cenerino
vapore di solitudini calorose.

E lì
sorgendo
come
una nuova onda verde,
oh Ceylon,
oh isola
sacra,
baule
dove palpitò
il mio giovane, il mio perduto
cuore
esiliato!

Io il solitario
fui
della foresta,
il testimone
di quanto non accadeva,
il direttore
di ombre
che soltanto
in me
esistevano.
Oh tempi,
oh tristezze,
oh pazza notte di acqua
e luna
rossa
con un
odore
di sangue e di gelsomini,
mentre là,
più lontano,
l’ombra raddoppiava
i suoi tamburi,
trepidava la terra,
tra le foglie
ballavano i guerrieri.

E, adesso,
accompagnato
dalle tue piccole mani
che vanno e vanno asciugando
il sudore
e le pene
della mia fronte,
adesso
con altra voce
sicura,
con altro canto
fatto
per la luce della vita,
qui
vengo a fermarmi
di nuovo vicino
al mare soltanto fu
solitudine rumorosa,
al vento
della notte
sopra le palme
stellate:
e nessuno conosce adesso
quello che fui, quello che seppi.
Io qui soffrii,
senza nessuno,
dissanguandomi.

Appartamento la strada
mia:
macchie di assenza
o di umidità,
le piante
si trasformarono
in ombroso spessore
e c’è una sola
casa
che agonizza,
vuota.
Era la mia casa, e fanno
trent’anni,
trenta
anni. Tocco
la porta
dei miei sogni,
i muri
tarlati,
il tempo
mi aspettava,
il tempo che
girava
con la sua ruota.
Qui,
nella povera strada
dell’isola
mi
aspettò, tutto:
palme, scogliere,
sempre seppero
che io tornavo,
soltanto io non lo seppi
e, all’improvviso,
tutto tornò, le stesse
onde sulle sabbie,
l’umidità, il rumore
della danza tra le foglie,
e seppi, allora,
seppi
che si, esistetti, che non era
menzogna la mia esistenza,
che qui era la casa,
il mare, l’assenza
e tu, amore, al mio fianco.

Perdonami la vita,
perdonami le vite.

Per questa strada
andò al mare la tristezza.
E tu ed io porteremo
sulle nostre labbra
come un lungo bacio,
il ritratto,
il suono,
il colore palpitante
dell’isola,
e adesso, si,
passò, passò
il passato,
chiuderemo il baule
vuoto
dove
soltanto
vivrà ancora
un vecchio
odore
di mare e di gelsomino.

ODE A LENIN

La rivoluzione ha 40 anni.
Ha l’età di una giovane matura.
Ha l’età delle madri belle.

Quando nacque,
nel mondo
la notizia si seppe
in modo differente.

- Che cosa è questo? – si domandavano i vescovi –
se ha spostato la terra
noi potremo continuare a vendere cielo.
I governi dell’Europa,
dell’America oltraggiata,
i dittatori torbidi,
leggevano in silenzio
le allarmanti comunicazioni.
Per soffici, per profonde
scale
arrivava un telegramma,
come arriva la febbre
nel termometro:
non c’erano dubbi,
il popolo aveva vinto,
si trasformava il mondo.

I

Lenin, per cantarti
devo dire addio alle parole;
devo scrivere con alberi, con ruote,
con aratri, con cereali.
Sei concreto come
i fatti e la terra.
Non esistette mai
un uomo più terrestre
di V. Ulianov.
Ci sono altri uomini alti
che come le chiese si abituano
a conversare con le nubi,
sono alti uomini solitari.

Lenin sostenne un patto con la terra.

Vide più lontano che nessuno.
Gli uomini,
i fiumi, le colline,
le steppe,
erano un libro aperto
e li leggeva,
leggeva più lontano di tutti,
più chiaramente che nessuno.
Egli guardava profondo
nel paese, nell’uomo,
guardava l’uomo come in un pozzo,
lo esaminava come
se fosse un minerale sconosciuto
che avesse scoperto.
Bisognava estrarre le acque dal pozzo,
bisognava elevare la luce dinamica,
il tesoro segreto
dei paesi,
perché tutto geminasse e nascesse,
per essere degni del tempo e della terra.

II

Attenti a confonderlo con un freddo ingegnere.
Attenti a confonderlo con un mistico ardente.
La sua intelligenza arse senza essere mai ceneri,
la morte non ha gelato ancora il suo cuore di fuoco.

III

Mi piace vedere Lenin che pesca nella trasparenza
del lago Razliv, e quelle acque sono
come un piccolo specchio perduto nell’erba
del vasto Nord freddo e argentato:
solitudini quelle, scontrose solitudini,
piante martirizzate dalla notte e dalla neve,
l’artico sibilo del vento nella sua capanna.
Mi piace vederlo lì solitario ascoltare
l’acquazzone, il tremulo volo
delle tortore,
l’intensa pulsazione del bosco puro.
Lenin attento al bosco ed alla vita,
ascolta i passi del vento e della storia
nella solennità della natura.

IV

Furono alcuni uomini soltanto studio,
libro profondo, appassionata scienza,
ed altri uomini possedettero
come virtù dell’anima il movimento.
Lenin possedette due ali:
il movimento e la saggezza.
Creò nel pensiero,
decifrò gli enigmi,
ruppe le maschere
della verità e dell’uomo
ed era da tutte le parti,
era al medesimo tempo da tutte le parti.

V

Così, Lenin le tue mani lavorarono
e la tua ragione non conobbe il riposo
finché da tutto l’orizzonte
si scorse una nuova forma:
era una statua insanguinata,
era una vittoria con stracci,
era una bambina bella come la luce,
piena di cicatrici, macchiata dal fumo.
Da remote terre gli uomini la guardarono:
era lei, non c’era dubbio,
era la Rivoluzione.

Il vecchio cuore del mondo pulsò in un altro modo.

VI

Lenin, uomo terrestre,
la tua figlia è arrivata al cielo.
La tua mano
muove adesso
chiare costellazioni.
La stessa mano
che firmò decreti
sul pane e sulla terra
per il popolo,
la stessa mano
si trasformò in pianeta:
l’uomo che tu facesti mi costruì una stella.

VII

Tutto è cambiato, ma
fu duro il tempo
e aspri i giorni.
Durante quaranta anni ulularono
i lupi vicini alle frontiere:
Volevano abbattere la statua viva,
volevano ardere i suoi occhi verdi,
per fame e fuoco
e gas e morte
volevano che morisse
tua figlia, Lenin,
la vittoria,
la estesa, ferma, dolce, forte e alta
Unione Sovietica.

Non poterono.
Mancò il pane, il carbone,
mancò la vita,
dal cielo cadde pioggia, neve, sangue,
sopra le povere case incendiate,
ma tra il fumo
e la luce del fuoco
i popoli più remoti videro la statua viva
difendersi e crescere crescere crescere
finché il suo valoroso cuore
si trasformò in metallo invulnerabile.

VIII

Lenin, grazie ti affidiamo i lontani.
Da allora, dalle tue decisioni,
dai tuoi passi rapidi e dai tuoi rapidi occhi
non sono soli i popoli
nella lotta per l’allegria.
L’immensa patria dura,
quella che sostenne l’assedio,
la guerra, la minaccia,
è torre irremovibile.
E non possono ucciderla.
E così vivono gli uomini
un’altra vita,
e mangiano altro pane
con speranza,
perché nel centro della terra esiste
la figlia di Lenin, chiara e determinante.

IX

Grazie, Lenin,
per l’energia e l’insegnamento,
grazie per la fermezza,
grazie per Leningrado e le steppe,
grazie per la battaglia e per la pace,
grazie per il frumento infinito,
grazie per le scuole,
grazie per i tuoi piccoli
titanici soldati,
grazie per quest’aria che respiro sulla terra
che non assomiglia ad altra aria:
è spazio fragrante,
è elettricità di energiche montagne.

Grazie, Lenin,
per l'aria ed il pane e la speranza

ODE A UNA MATTINA DEL BRASILE

Questa è una mattina
del Brasile. Vivo dentro
a un violento diamante,
tutta la trasparenza
della terra
si materializzò
sulla
mia fronte,
appena si muove
la ricamata vegetazione,
la rumorosa cintura
della selva:
ampia è la chiarezza, come una nave
del cielo, vittoriosa.

Tutto cresce,
gli alberi,
l’acqua,
gli insetti,
il giorno.
Tutto termina in foglia.
Si unirono
tutte
le cicale
che nacquero, vissero
e morirono
da quanto esiste il mondo,
e qui cantano
in un solo congresso
con voce di miele,
di sale,
di segheria,
di violino delirante.

Le farfalle
danzano
rapidamente
un
ballo
rosso
nero
arancio
verde
azzurro
bianco
granata
giallo
violetto
nell’aria,
nei fiori,
nel nulla,
volanti,
successive
e remote.

Disabitate
terre,
vetro
verde
del mondo,
in qualche
regione
un antico fiume
precipita
in piena solitudine,
i sauri attraversano
le acque pestilenti,
migliaia di esseri lenti
schiacciati
dal
cieco spessore
cambiano pianta, acqua,
pantano, caverna,
e attraversano l’aria
uccelli brucianti.

Un grido, un canto,
un volo,
una cascata
attraversano da un bicchiere
di palme
fino
all’attaccatura
del bambù innumerevole.

Il mezzogiorno
arriva
tranquillo,
si estende
la luce come se fosse
nato un nuovo fiume
che corre e canta
riempiendo l’universo:
all’improvviso
tutto
rimane
immobile,
la terra, il cielo, l’acqua
si fecero trasparenza,
il tempo si fermò
e tutto entrò nella sua scatola di diamante.

ODE A UNA MATTINA A STOCCOLMA

Nei giorni del Nord,
amore, noi scivoliamo.
Leningrado restò
con la neve, azzurra, acciaio
sotto le sue nubi
le colonne, le cupole,
l’oro vecchio, il rosa,
la luce antica del fiume,
tutto andò via nel viaggio,
si fermò dietro piangendo.

Si mangia il mare la terra?

La terra al firmamento?

Scorsi il cielo bianco
di Stoccolma, il tridente
di una chiesa nelle nubi,
acidi bicchieri verdi
sono cupole, sono seni
di città ossidata,
e il resto è vago,
notte senza ombra o giorno
senza luce, vetro opaco.

Amore mio, in queste isole
disperse nella bruma,
alle scogliere
di neve ed ali nere,
il mio cuore ti portò.

E adesso come navi
silenziose passiamo,
senza sapere dove fummo
né dove andremo, soli
in un mondo di perle
e implacabili mattoni.

Placati fino ad essere
soltanto neve o foschia,
chiuderemo gli occhi,
chiudiamo i sensi
fino ad uscire al sole
a mordere le arance.

ODE AL TAVOLO

Sopra le quattro zampe del tavolo
sviluppo le mie odi,
dispiego il pane, il vino
e l’arrosto
(la nave nera
dei sogni),
o dispongo forbici, tazze, chiodi,
garofani e martelli.

Il tavolo fedele
sostiene
sogno e vita,
titanico quadrupede.

È
la ricolma di conchiglie
e rifulgente
tavolo del ricco una favolosa nave
carica di grappoli.
È bello il tavolo della gola,
traboccante di gotiche aragoste,
e c’è un tavolo
sola, nella sala da pranzo di nostra zia
in estate. Scorsero
le tende
e un solo raggio acuto dell’estate
penetra come spada
a salutare sopra il tavolo oscuro
la trasparente pace delle susine.

E c’è un tavolo lontana, tavolo povero,
dove stanno preparando
una corona
per
il minatore morto,
e sale dal tavolo il freddo aroma
dell’ultimo dolore disordinato.
E vicino c’è il tavolo
di quella alcova ombrosa
che fa ardere l’amore con i suoi incendi.
Un guanto di donna rimase tremante
lì, come il guscio di fuoco.

Il mondo
è un tavolo
circondato dal miele e dal fumo,
coperta di mele o di sangue.
Il tavolo preparato
e già sappiamo quando
ci chiamarono:
se ci chiamano alla guerra o a mangiare
e dobbiamo scegliere le campane,
dobbiamo sapere adesso
come ci vestiremo
per sederci
al lungo tavolo,
se ci metteremo pantaloni di odio
o camicia d’amore appena lavata:
ma dobbiamo farlo presto,
ci stanno chiamando:
ragazze e ragazzi,
a tavola!

TRE BAMBINE BOLIVIANE

Colomba di Bolivia, figlie di creta,
dorate dell’altezza,
brocche di ’aria, adesso
sediamoci nella strada,
contiamo quaranta centesimi,
una coperta, una candela, una ciotola,
sediamoci nella povertà.
Sopra morde l’aria fredda
ed è un ombrello nel cielo
il condor oscuro e sanguinario.

Io toccai la dorsale andina
con le mie mani ed ho l’anima
attonita e ferruginosa.
Adesso sto seduto con le
taciturne spose di argilla
ed è lontano ogni l’orizzonte,
è solitaria tutta la vita,
solo celeste cielo e neve,
cime logore, pioggia ferrea
come le spade di Dio,
come le lance del diavolo,
come le fruste dell’uomo.

Solo io posso sedermi
tanto elevatamente puro
in questo trono della morte,
della morte color di stagno.

Solo io, re delle solitudini,
re straccione dell’altezza,
posso arrivare, bere un sorso,
masticare le sacre foglie
e sedermi senza dire nulla
con la mia famiglia terrestre.

Juana Pachucutanga,
Maria Sandoval Chacuya
e Rosita Flor Puna Puna.
Lì stemmo senza dire
una sola parola bianca,
una sola parola impura,
perché eravamo terra, eravamo acqua,
eravamo l’aria dell’alto.

Questa volta non voglio raccontare
certe amarezze pesanti
come la rupe di Apac Chaimún.
Non voglio parlare del sangue
inutile, rovesciato nella cavità
di quelle pietre disumane.
Io voglio che canti il silenzio
come se fosse trasparente
e che trovi la voce dell’acqua:
che conti quello che sta sempre zitto,
che decifri le cordigliere.

Silenziose sorelle, adesso
spezziamo in questa sera
il colore di sangue e di zolfo:
io da qui vado in Cile,
voi salite al pianeta.
Già ritornerò, già ci vedremo,
già potremo andare un giorno
e contare beni più estesi:
divideremo la verità,
vivremo in una stella.

L’OLBLIO

Come ti chiami, mi domandò quell’albero,
e quali sono le tue foglie?
la torre domandò,
che altezza hai?

Mi sdraiai sulla terra
e niente domandò, niente mi disse:
tutto lo sa perché sta aspettando
e apprese tutto di quelli che speravano:
io so che è come l’oblio,
questo è, non ha termine,
non c’è fine, non c’è
fine, non c’è punto nell’oblio.

ODE ALLE PATATE FRITTE

Scoppietta
nell’olio
facendo bollire
l’allegria
del mondo:
le patate
fritte
entrano
nella padella
come innevate
piume
di cigno mattutino
e escono
semidorate dalla crepitante
ambra delle olive.
L’aglio
gli aggiunge
la sua terrena fragranza,
il pepe,
polline che attraversò le scogliere,
e
vestite
di nuovo
con vestito di avorio, riempiono il piatto
con la ripetizione della sua abbondanza
e la sua squisita semplicità di terra.

ALLE ACQUE DEL NORD EUROPEO

Acque del Nord
dove si lava il cielo.
Tutto si decise
in opaca bianchezza,
in orizzonti sporchi
e spazio cenerino.

La nave incrocia e taglia
la capigliatura dell’acqua
e continua continua continua
a scivolare nella foschia,
senza peso, come un uccello
destinato al silenzio…

ODE AL CANE

Il cane mi domanda
e non rispondo.
Salta, corre nel campo e mi domanda
senza parlare
e i suoi occhi
sono due domande umide, due fiamme
liquide che interrogano
e non rispondo,
non rispondo perché
non so, non posso niente.

In aperta campagna andiamo
uomo e cane.

Brillano le foglie come
se qualcuno
le avesse baciate
una per una,
salgono dal suolo
tutte le arance
a sancire
piccoli planetari
in alberi rotondi
come la notte, e verdi,
e cane e uomo vanno
annusando il mondo, scuotendo il trifoglio,
per il campo del Cile,
tra le dita chiare di settembre.
Il cane si ferma,
insegue le api,
salta l’acqua agitata,
ascolta lontanissimi
latrati,
orina su una pietra,
e mi porta la punta del suo muso,
a me, come un regalo.
È la sua freschezza terrena,
la comunicazione della sua tenerezza,
e lì mi domandò
con i suoi due occhi,
perché è giorno, perché verrà la notte,
perché la primavera
non porta nel suo canestro
niente
per cani erranti,
ma fiori inutili,
fiori, fiori e fiori.
E così domanda
il cane
e non rispondo.

Andiamo
uomo e cane uniti
per la mattina verde,
per la incitante solitudine vuota
in cui soltanto noi
esistiamo,
questa unità di cane con rugiada
e il poeta del bosco,
perché non esiste l’uccello nascosto,
né il fiore segreto,
ma trillo e aroma
per due compagni,
per due cacciatori compagni:
il mondo umido
dalle secrezioni della notte,
un tunnel verde e poi
un prateria,
una raffica d’aria arancione,
il sussurro delle radici,
la vita che cammina,
che respira, che cresce,
e l’antica amicizia,
la felicità
di essere cane e di essere uomo
trasformata
in un solo animale
che cammina muovendo
sei zampe
e una coda
con rugiada.

AL MIO POPOLO, IN GENNAIO

Quando l’anno
nacque,
robusto, odoroso di pane di cordigliera
e di mela marina,
quando la mia patria povera
il suo poncho di grappoli distendeva,
aprì la tirannia
il vecchio muso
di sauro sdentato
e morse il cuore del territorio.

Passò la raffica, tornò
per la sua strada
la semplice vita amara
o l’allegria.
Molti hanno dimenticato,
sono morti molti
ed altri che oggi parlano non soffrirono
perché non erano nati.

Non ho dimenticato né sono morto.

Sono l’albero di gennaio
nella selva bruciata:
la fiamma crudele che balenò nel fogliame,
forse andò via, fu la bruciatura,
la cenere volò,
si contorse
nella morte il legno.
Non ci sono foglie nei pali.
Soltanto nel mio cuore le cicatrici
fioriscono e ricordano.

Sono l’ultimo ramo del castigo.

ODE AL PIANO

Era triste il piano
nel concerto,
dimenticato nel suo frac di sepoltura,
e poi aprì la bocca,
la sua bocca di balena:
Andò il pianista al piano
volando come un corvo,
poi passò come se cadesse
una pietra
d’argento
o una mano
in uno stagno
nascosto:
scivolò la dolcezza
come una pioggia
sopra una campana,
cadde la luce nel fondo
di una casa chiusa,
uno smeraldo percorse l’abisso
e suonò il mare,
la notte,
le praterie,
la goccia di rugiada,
l’altissimo tuono,
cantò l’architettura della rosa,
girò il silenzio nel letto dell’aurora.

Così nacque la musica
del piano che moriva,
crebbe il paramento
della naiade
del catafalco
e della sua dentatura
fino a che nell’oblio
cadde il piano, il pianista
e il concerto,
e tutto fu suono,
torrenziale elemento,
sistema puro, chiaro campanile.

Allora tornò l’uomo
dell’albero della musica.
scese volando come
corvo perduto
o cavaliere pazzo:
chiuse la sua bocca di balena il piano
ed egli camminava indietro,
verso il silenzio.

ODE AL PIATTO

Piatto,
disco centrale
del mondo,
pianeta e planetario:
a mezzogiorno, quando
il sole, piatto di fuoco,
corona
l’
alto
giorno,
piatto, appaiono
sopra
le tavole del mondo
le tue stelle,
le pletoriche
costellazioni,
e si riempie di zuppa
la terra, di fragranza
l’universo,
finché i lavori
chiamano di nuovo
i lavoratori
e ancora
la sala da pranzo è un vagone vuoto,
mentre tornano i piatti
alla profondità delle cucine.

Soave, pura stoviglia,
ti inventò la fonte in una pietra,
poi la mano umana
ripeté
il vuoto puro
e copiò il vasaio la sua freschezza
perché
il tempo con il suo filo
lo ponesse
definitivamente
tra l’uomo e la vita:
il piatto, il piatto, il piatto,
ceramica speranza,
ciotola santa,
esatta luce lunare nella sua aureola,
bellezza rotonda di diadema.

ODE A RAMÓN GÓMEZ DE LA SERNA

Ramón
sta nascosto,
vive nella sua grotta
di orso di zucchero.
Esce soltanto di notte
e si arrampica per i rami
della città, raccoglie
castagne tricolori,
pinoli ispidi,
chiodi di odore, pettinini di tormenta,
zafferanati ventagli morti,
occhi perduti nelle strade,
e ritorna col suo sacco
verso la sua tana nei monti
tappezzata di lunge capigliature
e orecchie celestiali.

Diventa pieno di paura
al colpo alla porta,
all’impeto
spaziale
degli aeroplani,
al freddo che si cala
dalla Spagna,
ai rampicanti, agli uomini,
alle bandiere, all’ingegneria.
Ha paura di tutto.
Lì nella sua caverna
riunì gli alimenti
migratori
e si nutre
di chiarezza ombrosa
e di arance.
All’improvviso
esce un fulgore, un raggio
del suo faro
e il fascio ultravioletto
che racchiudeva
la sua fronte
ci illumina il diametro e la festa,
ci mostra il calendario
con Venerdì più profondi,
con Giovedì come il mare vociferante,
tutto colmo, tutto
maturo con le sue sfere,
perché il rivelatore dell’universo
Ramón si chiama e quando
soffia nel suo fiore di pietra, nella sua trombetta,
accorrono sorgenti,
mostra il silenzio le sue categorie.

Oh re Ramón,
monarca
mentale,
direttore
ditirambico
della poesia interrogatrice,
pastore delle parabole
segrete, autore
dell’alba e del suo
trascurato
cataclisma,
poeta
frettoloso
e spazioso,
tuttavia con tanti,
con tanti occhi ciechi,
perché
vedendo tutto
Ramón si irrita
e scompare,
si confonde nella foschia
del calamaro lunare
e quello che tutto lo dice
e può
salutare quello che va e che viene,
all’improvviso
si piega verso l’altro ieri, da una testata
contro il sole della storia,
e da questo incontro escono scintille nere
senza l’elettricità della sua ribellione.

Scrivo a Isla Negra,
costruisco
poesia e canto.
Il giorno era distrutto
come l‘antica statua
di una dea marina
da poco estratta dal suo letto freddo
con lacrime e melma,
e vicino al movimento
scopritore
del mare e delle sue sabbie,
ricordai i lavori
del Poeta,
l’insistenza raggiante della sua schiuma,
il futuro vento delle sue onde.
E a Ramón
dedicai
i miei inni mattutini,
la serpe
della mia calligrafia,
per quando
esce
dalla sua prolissa torre di capibara
riceve la serena
grandezza di una raffica del Cile
e che brilli al mago il cartoccio
e si rovescino tutte le sue stelle.

RITORNO

Ostili cordigliere,
cielo duro,
stranieri, questa è,
questa è la mia patria,
qui nacqui e qui vivono i miei sogni.

La barca si muove
per l’azzurro, per tutti gli azzurri,
la costa è la più lunga
linea di solitudine dell’universo,
passano e passano le spiagge bianche,
salgono e scendono i  monti nudi,
e corre fino al mare la terra sola,
addormentata o morta nella pace ferruginosa.

Quando caddero le vegetazioni
e il dolce verde abbandonò queste terre
il sole le bruciò dalla sua altezza,
il sale le consumò dalle sue pietre.

Da allora si riesumarono
le antiche stelle minerali:
lì giacciono le ossa della terra,
compatto come pietra è il silenzio.

Perdonate, stranieri,
perdonate la misura desolata
della nostra solitudine,
e quelle che diamo alla lontananza.

Tuttavia,
qui stanno le radici del mio sogno,
questa è la dura luce che amiamo,
ed in ogni modo, con distante orgoglio,
come nei minerali della notte,
vive l’onore di questa lunga spiaggia.

ODE ALL’ANGURIA

L’albero dell’estate
intenso,
invulnerabile,
è tutto il cielo azzurro,
sole giallo,
stanchezza a goccioloni,
è una spada
sopra le strade,
una scarpa bruciata
nelle città:
la chiarezza, il mondo
ci angosciano,
ci attaccano
gli occhi
con polverone,
con repentini colpi d’oro,
ci incalzano
i piedi
con piccole spine,
con pietre calde,
e la bocca
soffre
più che tutte le dita:
hanno sete
la gola,
i denti,
le labbra e la lingua:
vogliamo
bere le cascate,
la notte azzurra,
il polo,
e quindi
attraversa il cielo
il più fresco di tutti
i pianeti,
la rotonda, suprema
e celestiale anguria.

È il frutto dell’albero della sete.
È la balena verde dell’estate.

L’universo secco
all’improvviso
cancellato
da questo firmamento di freschezza
lascia cadere
la frutta
traboccante:
si aprono i suoi emisferi
mostrando una bandiera
verde, bianca, scarlatta,
che si scioglie
in cascata, in zucchero,
in delizia!

Cassaforte dell’acqua, placida
regina
del fruttivendolo,
bottega
della profondità, luna
terrestre!
Oh pura,
nella tua abbondanza
si sciolgono rubini
e uno
desidera
morderti
affondando
in te
la faccia,
i capelli,
l’anima!
Ti distinguiamo
nella sete
come
miniera o montagna
di splendido alimento,
ma
ti trasformi
tra la dentatura e il desiderio
soltanto in
luce fresca
che si slega,
in sorgente
che ci toccò
cantando.
E così
non pesi
nella siesta
bruciante,
non pesi
soltanto
uvette
e il tuo grande cuore di brace fredda
si trasformò nell’acqua
di una goccia.

ODE ALLA SEDIA

Una sedia nella selva:
sotto le liane dure
scricchiola un tronco sacro,
sale un rampicante,
ululano nell’ombra
bestie insanguinate,
dal cielo verde cadono grandi foglie,
suonano i sonagli
secchi del serpente,
come una freccia contro una bandiera
attraversò un uccello il fogliame,
i rami alzarono i loro violini,
pregano immobili
gli insetti
seduti sui loro fiori,
si affondano i piedi
nel
sargasso nero
della selva marina,
nelle nuvole calde della selva,
e soltanto chiedo
per lo straniero,
per l’esploratore disperato
una sedia
nell’albero delle sedie,
un trono
di felpa scompigliata,
il velluto di una poltrona profonda
tarlato dai rampicanti.
Si,
una sedia,
la sedia
che ama l’universo
per l’uomo che cammina,
la fondazione
sicura,
la dignità
suprema
del riposo!

Dietro tigri assetate,
folla di mosche sanguinarie,
dietro il nero spessore
di fantasmatiche foglie,
dietro acque spesse,
foglie ferruginose,
sempiterni serpenti,
in mezzo
ai tuoni,
una sedia,
una sedia
per me, per tutti,
una sedia non soltanto
per sollievo
del corpo affaticato,
ma
per tutto
e per tutti,
per la forza perduta
e per il pensiero.

La guerra è larga come selva oscura.
La pace
comincia
in
una sola
sedia.

ODE A UN SOLO MARE

È verticale il giorno
come una lancia azzurra. Entro nell’acqua.

È l’acqua dell’Asia,
il mare della Cina.

Non riconosco sierre né orizzonti
tuttavia questo mare, questa onda viene
da terra americana: questa marea,
questo abisso, questo sale,
sono una cintura pura di infinito
che lega due stelle:
i vulcani lontani
della mia patria,
l’agricoltura diafana della Cina.

Che sereno sarei
se io ti navigassi,
se il mio corpo o la mia nave
conducesse
attraverso le onde e la luna,
mare doppiamente mio,
fino ad arrivare dove mi sta aspettando
la mia casa vicino alla sorgente marina.

Che azzurro, che trasmigrante,
che dorato sarebbe
se camminasse il mare con piedi nudi,
se il mare, il mio proprio mare, mi trasportasse.

Vedrei il volo
degli affamati uccelli oceanici,
conterei tartarughe,
scivolerei sopra i pesci,
e nel grande istituto
dell’aurora
il mio cuore bagnato
come un frutto di mare si muoverebbe.

Finché tu, sirena,
vicino a me, trasparente
nuotatrice,
con sale del mare mescolassi
i tuoi amorosi baci
ed uscissimo vicino all’oceano
a comprare pane e svegliare la legna.
Un sogno, si, ma
che cos’è il mare se non un sogno?

Venite a sognare, nuotando,
il mare della Cina e del Cile,
venite a nuotare il sogno,
venite a sognare l’acqua che ci unisce.
Amore o mare o sogno,
facemmo vicino questa traversata,
da terra a terra un solo mare sognando,
di mare in mare un solo sogno verde.

SOLITUDINI DELLA TERRA CINESE

Terra di Cina, voglio dirti
soltanto parole di terra,
parole verdi di riso,
parole di rosso bruciato:
quello che gli uomini fecero e fanno:
guerre, statue, epopee
(di dolori, di allegria, di sangue,
di pace, di allori, di libri),
tutto questo sarà scritto e cancellato.
E né la morte né la vita
dipendono dal mio amore o dal mio canto.
Io voglio soltanto passare le mie mani
sopra i tuoi grandi seni verdi:
che il tuo fango mi modifichi,
che mi costruisca il tuo vento!
Voglio essere un figlio selvaggio
formato dal tuo fango a dal tuo vento.

Vicino a Kumming le montagne
si circondano di argento e di colombe,
l’aria nell’altezza è viva
come un pesce gelato e elettrico,
il lago guarda soltanto verso l’alto:
soltanto verso i fiori del cielo.

Lì i più antichi dei
si fecero una città di pietra
ed io camminai errante sentendo
sopra di me colpi di granito,
lingue di sale, merli d’oro,
esplosioni che immobilizzano
in pieno cielo il suo scoppio.

Da circa mille volte mille anni
si muovono le acque del fiume,
si contraddicono, si sconvolgono,
si agitano come capigliature
e ci sono buchi nell’acqua
come fatti in punta di lancia.
È il Yang Tsé, padre dell’acqua.
E è ampio come una città
questa strada palpitante.

Nelle gole si aprì il passo
consumando con baci la pietra.
E corre il fiume come il tempo.
La roccia rompe il cielo azzurro
e grande aquile fluviali
costruiscono i loro nidi selvaggi
nelle verticali altezze.

Io sono di un’altra patria, la neve
posò una stella sulla mia bandiera
e lì il mare è un leone sonoro
con muso di sale furioso.
In Cile vivono i miei parenti.
E la pioggia cade senza tregua
sopra i miei padri sotterrati.

Il mio paese è chiaro e magro
come uno solo dei tuoi fiumi.
Tuttavia nelle tua mani ampie
mi sento sicuro e cammino,
attraverso deserti e risaie,
neve di montagne amare,
monti di antica pietra e pini.
Io canto con le sorgenti,
raccolgo fiori incredibili,
percorro senza rispetto e cantando
la tua planetaria geografia.

Dall’alto sei, terra di Cina,
moltitudine verde di terrazze,
giardini di smeraldi
o dolce agricoltura di api.
Sei un pieno favo verde.
E l’uomo cresce le sementi
tra le rocce, nelle nubi,
nelle isole, tra le onde.

(L’uomo cinese lavora la terra
e la terra cinese lo lavora,
aguzza le sue mani pazienti,
disegna solchi sul viso.
Dopo la terra aspetta l’uomo
e lui si confonde con la polvere
come una pallida semenza.)

Oh terra magnetica, volto
del mondo, antica e nuova luna,
come il tempo, germogliatrice,
come l’oceano, infinita:
nazione eterna di radici,
piantagione copiosa di esseri:
le nubi ti avvolgono e nasci
milioni di volte il giorno.

Passano i popoli e tu sei.

Rimani, madre feconda.

Cresci, gigante pietra d’oro.

Che non abbiano il coraggio di toccare
la tua antica fronte dura e pura.

I tuoi monti, i tuoi fiumi, le tue rocce,
le tue nubi, il tuo cielo ed i tuoi uomini
sono una sola forza.

Ma io soltanto un amore,
con semplice amore e semplice terra,
scrivo per te questo canto.

Non è per gli eroi, è per
l’antica madre dei tuoi eroi.


ODE AI TRENI DEL SUD

Treni del Sud, piccoli
tra
i vulcani,
scivolano
vagoni
sopra
barre
bagnate
dalla pioggia vitalizia,
tra montagne
crespe
e dispiacere
di pali bruciati.

Oh
frontiera
di boschi gocciolanti,
di ampie felci. di acqua,
di corone.
Oh territorio
fresco
da poco uscito dal lago,
dal fiume,
dal mare e dalla pioggia
con il mantello bagnato,
e con la cintura piena
di liane portentose,
e allora
nel mezzo
della vegetazioni,
nella linea
della moltiplicata capigliatura,
un pennacchio perduto,
il piumino
di una locomotiva fuggitiva
con un treno trascinando
cose vaghe
nella solennità schiacciante
della natura,
lanciando
un grido
di ansia,
di fumo,
come un brivido
nel paesaggio!

Così
dalle tue onde
i campi di grano
con il treno passeggeri
conversano come
se fosse
ombra, cascata o uccello
di quelle latitudini,
e il treno
il suo scintillio
di carbone bruciato
riparte
con oscura
malignità
di diavolo
e continua,
continua,
continua,
si arrampica sull’alto viadotto
del fiume Malleco
come salendo
da una chitarra
e canta
nelle altezze
dell’equilibrio azzurro
della ferramenta,
fischia il vibrante treno
della fine del mondo
come
se
si congedasse
e stesse per cadere dove
termina
lo spazio terrestre,
e si gettasse nelle isole
finali dell’oceano.

Io vado con te,
treno trepidante
treno
della frontiera:
vado a Renaico,
aspettami,
devo comprare lana a Collipulli,
aspettami, devo
discendere a Quepe,
a Loncoche, a Osorno,
cercare pinoli, tessuti
appena tessuti, con odore
di pecora e pioggia…
Corri,
treno, bruco, sussurro,
piccolo animale longitudinale,
tra le foglie
fredde
e la terra fragrante,
corri
con
taciturni
uomini dalle nere coperte,
con cavalcature,
con silenziosi sacchi
di patate delle isole,
con il legno
del larice rosso,
dell’ombroso coique,
del rovere perpetuo.

Oh treno
esploratore
delle solitudini,
quando torni
all’hangar di Santiago
agli alveari
dell’uomo ed al suo incrociato potere,
dormi forse
per una notte triste
un sogno senza profumo,
senza neve, senza radici,
senza isole che ti aspettano nella pioggia,
immobile
tra anonimi
vagoni.
Ma
io, tra un oceano
di treni,
nel cielo
delle locomotive,
ti riconoscerei
per
una certa aria
da lontano, per le tue ruote
bagnate là lontano,
e per il tuo trapassato
cuore che conosce
l’indicibile, selvaggia,
piovosa,
azzurra fragranza!

ODE A UN TRENO IN CINA

La terra sta girando,
il treno girando,
soltanto il cielo sta quieto.
Pianure e bandiere,
mais, mais dalla capigliatura verde,
di quando in quando una bandiera rossa,
fiore fugace, papavero del cammino.

Il treno attraversa correndo
verso Tsing Tao,
vado verso il mare, verso il mio mare, lo stesso,
lo stesso convertito in misteriosa
sabbia e sale che non conosce la mia anima.

L’aria immobile ricoperta
da squamose nubi, da vapori
di pioggia grigia, da silenziosi nastri
che circondano e coprono
la chiarezza, la solitudine del cielo.
Oh viaggio della mia vita,
una volta più piena luce,
in piena proporzione e poesia
vado con il treno girando,
come ieri nella mia infanzia più piovosa
vado con il treno imparando la terra
verso dove l’oceano mi chiama.

ODE ALLA TERRA (II)

Terra, chi
ti misurò e ti pose
muri,
filo di ferro,
staccionate?
Nascesti divisa?
Quando le meteore si incrociarono
e il tuo volto cresceva
sgretolando mari e macigni,
chi ripartì i tuoi doni
fra tutti gli esseri?

Io ti accuso,
avesti
scosse di morte,
tremori di catastrofe,
facesti polvere
le città, i popoli,
le povere case cieche
di Chillán, distruggesti
i sobborghi di Valparaiso,
fosti colera
di iraconda sorte
contro i pacifici abitanti
della mia patria,
e in cambio
sopportasti
la divisione ingiusta
delle tue proprietà,
non crepitò la lancia
del vulcano incendiato
contro l’usurpatore del territorio,
e in te cadde non soltanto il morto giusto,
che compì i suoi giorni,
bensì il crivellato
perseguitato
a cui rubarono campi e cavalli,
e che alla fine si dissanguò cadendo
sopra la tua pelle invisibile.

Il tuo duro inverno al povero desti,
la miniera scura al cercatore ferito,
la caverna fu per l’abbandonato,
il bruciante calore al figlio del deserto,
e così la tua ombra ingiusta non dette conforto a tutti,
e il tuo fuoco non fu ben ripartito.

Terra, ascolta e medita
queste parole,
le do al vento perché volino,
cadranno nel tuo ventre a germinare,
non più battaglie, basta,
non vogliamo pagare la terra col sangue:
ti vogliamo amare,
madre feconda,
madre del pane e dell’uomo,
ma
madre di tutto il pane e di tutti gli uomini.

TEMPESTA CON SILENZIO

Tuona sopra i pini.
La nube spessa sgranò le sue uve,
cadde l’acqua di tutto il cielo confuso,
il vento disperse la sua trasparenza,
si riempirono gli alberi di anelli.
di collane, di lacrime erranti.

Goccia a goccia
la pioggia si riunisce
ancora alla terra.

Un solo tuono vola
sopra il mare ed i pini,
un movimento sordo:
un tuono opaco, oscuro,
sono i mobili del cielo
che si trascinano.

Di nube in nube cadono
i piani dell’altezza,
gli armadi azzurri,
le sedie e i letti cristallini.

Tutto trascina il vento.

Canta e conta la pioggia.

Le lettere di acqua cadono
rompendo le vocali
contro i tetti. Tutto
fu cronica perdita,
sonata disperata goccia a goccia:
il cuore dell’acqua e la sua scrittura.

Terminò la tormenta.
Ma il silenzio è altro.

ODE AL VIOLINO DELLA CALIFORNIA

Come pietra nella costa
della California, un giorno
caddi, abbandonato:
la mattina era una frusta gialla,
il pomeriggio era un bagliore
e arrivava la notte
come un bicchiere limpido
pieno di stelle e freschezza.

Oh firmamento
gravido, tremolante
pezzo di statua azzurra
sui sobborghi messicani,
e lì nella costa
con
quella tristezza passante,
con la solitudine del palo secco,
consumato e bruciato,
gettato nell’oscillazione
della marea
al sinistro sale della California.

Adesso, nella notte
sentii la voce
di un violino
secco
e povero:
era come un ululato
di cane vagabondo
che mi pregava e mi cercava,
era
la compagnia,
l’uomo che ululava.
era un’altra solitudine sopra la sabbia.

Cercai il violino notturno
strada per strada scura,
casa per casa ossidata,
stella per stella:
si perdeva,
taceva,
era all’improvviso uno zampillo,
   un fuoco
di Bengala nella notte salmastra,
era una rete di fosforo sonoro,
una spirale di dimensione sonora,
ed io per strada e strada
cercavo
il filo
del violino oscuro,
la radice sommersa nel silenzio
finché in una
porta
di taverna
l’uomo stava con il suo
  violino povero.

Già l’ultimo ubriaco
traballava
verso i dormitori delle navi,
i tavoli oltraggiati
congedavano i bicchieri:
neanche lì
aspettava niente a nessuno:
il vino era partito,
la birra dormiva,
e nella porta
il violino con il suo logoro
compagno,
volando,
volando,
sopra la notte sola,
con una sola scala
d’argento e di lamento,
con una sola rete che estraeva
  dal cielo
fuoco errante, comete, giullari,
ed io semiaddormentato,
inghiottito dalla bocca
dell’estuario
toccai il violino, le corde
madri di quei solitari
 pianti,
il legno consumato
da tante dita sommerse,
riconobbi la soavità, il tatto
dello strumento puro, costruito,
quel violino di povero
era famiglia,
era parente mio,
non soltanto per sonoro,
non soltanto perché poté sollevare
il suo ululato
tra ostili stelle,
ma perché apprese
dalla sua nascita
ad accompagnare perduti,
a cantare per erranti.

ODE AI NOMI DEL VENEZUELA

I prati riarsi
di febbraio,
ardente è il Venezuela
e il cammino divide
la sua estesa fiammata,
la luce fecondatrice
spogliò il potere
dell’ombra.
Attraverso la strada
mentre cresce
il pianeta da ogni lato,
da Barquisimeto
verso Acarigua.
Come un martello
il sole
si intromette
nei rami,
conficca
chiodi celesti
nella terra,
studia gli angoli
e come un gallo increspa
il suo piumaggio
sopra le tegole verdi di Barinas,
sopra le palpebre di Suruguapo.

I tuoi nomi, Venezuela,
i riti
sotterrati,
l’acqua, le battaglie,
l’ombrosa
unione di giaguaro e cordigliere,
i piumaggi
degli sconosciuti
uccelli variopinti
della selva,
le parole
appena
socchiuse
come di piuma o di polline,
o i duri
nomi di lancia o pietra:
Aparurén, Guasipati, Canaima,
Casiquiare, Macaca,
o più lontano, Maroa,
dove i fiumi sotto le tenebre
combattono come spade,
trascinano la tua esistenza,
legno, spazio, sangue,
verso la schiume ferrea dell’Atlantico.

Nomi del Venezuela
fragranti e sicuri
corrono come l’acqua
sopra la terra secca,
illuminano
il volto
della terra
come l’aranguaney quando alza
il suo padiglione di baci gialli.

Ocumare,
sei occhio, schiuma e perla,
Tocuyo, figlio di farina,
Siquisique, scivoli
come un sapone bagnato e odoroso
e, se scegliessi, il sole
nasceresti nel nome di Carora,
l’acqua nascerebbe a Cabudare,
la notte dormiresti a Sabaneta.

A Chiriguare, a Guay, a Urucure,
a Coro, a Bucarai, a Morituro,
in tutte le regioni
del Venezuela sgranato
non raccolsi tranne questo,
questo tesoro:
le semenze ardenti di questi nomi,
che seminerò nella mia terra, lontana.

ADDIO AL VENEZUELA

Prima, per me, sierre ostili,
cordigliere oscure
e piccoli soldati
dai vestiti crudeli e palla in bocca,
mi allontanarono,
mi dissero: “Non passi”,
“Non vedi”, “Non presenzi”.

Adesso ritorno
dalla larghezza insigne,
dallo spazioso miele venezuelano,
e fui, fummo felici:
Ho toccato, ho visto,
ho presenziato,
parlai con la palma,
conversai con l’uomo,
mi sedetti solo nelle lontane piazze,
parlai con il silenzio,
toccai le terre incendiate,
suole
di petrolio profondo:
niente era chiuso,
si apri una porta e non vidi nessuno
perché lì stavano tutti,
e non mi dettero nulla,
bensì tutta la terra e tutto l’uomo.

Io camminai il Venezuela duro,
le pietre del calvario,
il sangue di strade e prigioni,
la camicia infernale che le cucirono
i suoi antichi dolori
e vidi un Venezuela
chiaro come il pane di mais,
fermo e puro,
da poco uscito, intatto, dal tormento.

E quando verso le isole
palpitanti passarono
i corocoros come se passasse
volando il fuoco vivo,
capii che nasceva,
che per la prima volta guardava il mondo
e che gli ibis rossi spargevano
la semenza del sole sopra la terra.

Mi invitasti, patria calorosa,
a mangiare di fronte al mare o tra i monti
alla tua tavola di poveri e di ricchi,
e eri lì
perpetua e generosa
come se rovesciandoti consegnassi
non soltanto il parto della geologia,
ma il tuo cuore interminabile.

Per le tue strade rosate
uscì la rosa grigia della Charneca
e lì vidi i validi,
i piccoli uomini,
e donne, e bambini,
che con fulgore, con pietre,
con cuore e bastonate
restaurarono
la luce, la tua luce, la tua vita, la nostra vita.
Per questa luce posso arrivare tanto lontano
e tanto vicino, alla pelle delle tue pianure,
alla infinita linea dei tuoi fiumi
e adesso me ne vado, e a tutto
dico addio, me ne vado con la mia chitarra.
Alla mia patria ritorno,
con mia moglie, Matilde, e con il mio canto.
Non so se ritorneremo.
Intanto noi andiamo con la tua stella.

EPILOGO

DOVERI DI DOMANI

Odi senza fine, domani
e ieri (oggi è presto)
nascono, nacquero, nasceranno, servendo
la sete del viandante o della strada,
e cadranno come la pioggia cade,
come l’autunno cade,
rovesciando
la chiarezza dell’irrigazione
o un riassunto errante e giallo.

Tutto alla luce serena della notte,
all’ombra del giorno,
tutto il vento che agisce
nell’esitazione delle spighe,
tutta l’acqua, nella sua parola,
a quella che dice tante cose chiare
e all’acqua della profondità,
acqua segreta che non canta.

Ad ogni sole, a ogni luna vengo,
ad ogni cane, uccello, vascello,
ad ogni mobile, ad ogni essere umano.

Chi è? Già vado! Aspetta!
Aspetta, rosa chiara,
aspetta, frumento verde,
minerale della terra, aspetta,
non rimane tempo per essere campana.

A tutta ruota dico,
aspetta, rotola, aspetta:
già vado, già vengo, un solo
minuto
e rotoleremo.

Si, ruota, rotoleremo,
insetto, insetteremo,
si, fuoco, fuocheremo,
si, cuore,
lo so,
lo so,
e si sa:
è la vita, è la morte
questo destino.

Cantanto moriremo.


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