- 1959 - Cento sonetti d'amore - Pablo Neruda - Popol Vuh - Insetti

Vai ai contenuti

- 1959 - Cento sonetti d'amore

CENTO SONETTI D'AMORE (1959)


A Matilde Urrutia

Signora mia molto amata, grande sofferenza
provai scrivendoti questi mal chiamati sonetti
e troppo mi dolsero e costarono, ma la
gioia di offrirteli è maggiore di una
prateria. Proponendomelo ben sapevo che
al fianco di ognuno, per affezione elettiva
ed eleganza, i poeti di ogni tempo
disposero rime che suonarono come argenteria,
cristallo o cannonata. Io, con molta umiltà
feci questi sonetti di legno, gli diedi il suono
di questa opaca e pura sostanza e così devono
giungere alle tue orecchie. Tu e io camminando per
boschi e arenili, per laghi perduti, per
cineree latitudini, raccogliemmo frammenti di
legno puro, di legni sottoposti al vaevieni del-
l'acqua e dell'intemperie. Da tali levigatissime
vestigia costruii con accetta, coltello, temperino,
queste legnamerie d'amore ed edificai piccole
case di quattordici tavole perché in esse vivano
i tuoi occhi che adoro e canto. Così stabilite
le mie ragioni d'amore ti affido questa centuria:
sonetti di legno che solo s'innalzarono
perché tu gli desti la vita.

Ottobre 1959



Mattino

I

Matilde, nome di pianta o di pietra, o di vino,
di ciò che nasce dalla terra e dura,
parola nel cui aumento albeggia,
nella cui estate scoppia la luce dei limoni.

In questo nome crescon navigli di legno
circondati da sciami di fuoco azzurro marino,
e quelle lettere sono l'acqua d'un fiume
che sfocia nel mio cuore calcinato.

Oh nome scoperto sotto un rampicante
come la porta d'una galleria sconosciuta
che comunica con la fragranza del mondo!

Oh invadimi con la tua bocca bruciante,
indagami, se vuoi, coi tuoi occhi notturni,
ma lasciami nel tuo nome navigare e dormire.

II

Amore, quante strade per giungere a un bacio,
che solitudine errante fino alla tua compagnia!
I treni continuano a rotolare soli con la pioggia.
A Taltal ancora non albeggia la primavera.

Ma tu ed io, amor mio, siamo uniti,
uniti dai vestiti alle radici,
uniti d'autunno, d'acqua, di fianchi,
fino a essere solo tu, sol io uniti.

Pensare che costò tante pietre che trascina il fiume,
la foce dell'acqua del Boroa,
pensare che separati da treni e da nazioni

tu e io dovevamo semplicemente amarci,
confusi con tutti, con uomini e con donne,
con la terra che pianta ed educa i garofani.

III

Aspro amore, viola coronata di spine,
cespuglio tra tante passioni irto,
lancia dei dolori, corolla della collera,
per che strade e come ti dirigesti alla mia anima?

Perché precipitasti il tuo fuoco doloroso,
d'improvviso, tra le foglie fredde della mia strada?
Chi t'insegnò i passi che fino a me ti portarono?
Qual fiore, pietra, fumo ti mostrarono la mia dimora?

Certo è che tremò la notte paurosa,
l'alba empì tutte le coppe del suo vino
e il sole stabilì la sua presenza celeste,

mentre il crudele amore m'assediava senza tregua
finché lacerandomi con spade e con spine
aprì nel mio cuore una strada bruciante.

IV

Ricorderai quel ruscello capriccioso
dove s'arrampicarono gli aromi palpitanti,
di tanto in tanto un uccello vestito
d'acqua e di lentezza: vestito d'inverno.

Ricorderai i doni della terra:
irascibile fragranza, fango d'oro,
erbe del cespuglio, pazze radici,
sortileghe spine come spade.

Ricorderai il mazzo che recasti,
mazzo d'ombra e d'acqua con silenzio,
mazzo come una pietra con schiuma.

Quella volta fu come mai e come sempre:
andiamo lì dove nulla v'è che attenda
e troviamo tutto ciò che sta attendendo.

V

Non ti tocchi la notte né l'aria né l'aurora,
solo la terra, la virtù dei grappoli,
le mele che crescono udendo l'acqua pura,
il fango e le resine del tuo paese fragrante.

Da Quinchamalí dove nacquero i tuoi occhi
fino ai tuoi piedi creati per me nella Frontiera
sei la creta oscura che conosco;
nei tuoi fianchi tocco di nuovo tutto il frumento.

Forse tu non sapevi, araucana,
che quando prima d'amarti mi dimenticai dei tuoi baci
il mio cuore restò ricordando la tua bocca

e andai come un ferito per le strade
finché compresi che avevo trovato,
amore, il mio territorio di baci e di vulcani.

VI

Nei boschi, sperduto, tagliai un ramo oscuro
e alle labbra, assetato, sollevai il suo sussurro:
forse era la voce della pioggia che piangeva,
una campana rotta o un cuore reciso.

Qualcosa che da così lontano mi sembrava
nascosto gravemente, coperto dalla terra,
un grido soffocato da immensi autunni,
dalla socchiusa e umida tenebra delle foglie.

Ma lì, svegliandosi dai sonni del bosco,
il ramo di nocciolo cantò sotto la mia bocca
e il suo odore errabondo s'arrampicò pel mio criterio

come se d'improvviso mi cercassero le radici
che abbandonai, la terra perduta con la mia infanzia,
e m'arrestai ferito dall'aroma errante.

VII

" Verrai con me " - dissi - senza che nessuno sapesse
dove e come palpitava il mio stato doloroso,
per me non v'era garofano né barcarola,
null'altro che una ferita aperta dall'amore.

Ripetei: vieni con me, come se morissi,
e nessuno vide sulla mia bocca la luna che sanguinava,
nessuno vide quel sangue che saliva al silenzio.
Oh amore dimentichiamo ora le stelle con spine!

Ma quando udii che la tua voce ripeteva
" Verrai con me " - fu come se scatenassi
dolore, amore, la furia del vino incarcerato,

che dalla sua cantina sommersa salisse
'' e di nuovo nella mia bocca sentii un sapore di fiamma,
di sangue e di garofani, di pietra e bruciatura.

VIII

Se non fosse perché i tuoi occhi hanno color di luna,
di giorno con argilla, con lavoro, con fuoco,
e tieni imprigionata l'agilità dell'aria,
se non fosse perché sei una settimana d'ambra,

se non fosse perché sei il momento giallo
in cui l'autunno sale su pei rampicanti
e anche sei il pane che la luna fragrante
elabora passeggiando la sua farina pel cielo,

oh, adorata, io non t'amerei!
Nel tuo abbraccio io abbraccio ciò ch'esiste,
l'arena, il tempo, l'albero della pioggia,

e tutto vive perché io viva:
senz'andare sì lungi posso veder tutto:
Vedo nella tua vita tutto ciò che vive.

IX

Al colpo dell'onda contro la pietra indocile
scoppia la chiarità e stabilisce la sua rosa
e il cerchio del mare si riduce a un grappolo,
a una sola goccia di sale azzurro che cade.

Oh radiante magnolia scatenata nella schiuma,
magnetica viaggiatrice la cui morte fiorisce
e torna eternamente a essere e non esser nulla:
sale rotto, abbacinante movimento marino.

Uniti tu e io, amor mio, sigilliamo il silenzio,
mentre il mare distrugge le sue costanti statue
e abbatte le sue torri di furia e bianchezza,

perché nella trama di questi tessuti invisibili
dell'acqua sbrigliata, dell'incessante arena,
sosteniamo l'unica e perseguitata tenerezza.

X

Dolce è la bella come se musica e legno,
agata, tele, frumento, pesche trasparenti,
avessero eretto la statua fuggitiva.
Verso l'onda dirige la sua contraria freschezza.

Il mare bagna bruniti piedi copiati
alla forma appena lavorata nell'arena
e ora il suo fuoco femminile di rosa
è una sola bolla che il sole e il mare combattono.

Ahi, che nulla ti tocchi se non il sale del freddo!
Che neppure l'amore distrugga la primavera intatta.
Bella, riverbero dell'indelebile schiuma,

lascia che i tuoi fianchi impongano nell'acqua
una misura nuova di cigno o di ninfea
e navighi la tua statua nel cristallo eterno.

XI

Ho fame della tua bocca, della tua voce, dei tuoi capelli
e vado per le strade senza nutrirmi, silenzioso,
non mi sostiene il pane, l’alba mi sconvolge,
cerco il suono liquido dei tuoi piedi nel giorno.

Sono affamato del tuo riso che scorre,
delle tue mani color di furioso granaio,
ho fame della pallida pietra delle tue unghie,
voglio mangiare la tua pelle come mandorla intatta.

Voglio mangiare il fulmine bruciato nella tua bellezza,
il naso sovrano dell'aitante volto,
voglio mangiare l'ombra fugace delle tue ciglia

e affamato vado e vengo annusando il crepuscolo,
cercandoti, cercando il tuo cuore caldo
come un puma nella solitudine di Quitratúe.

XII

Donna completa, mela carnale, luna calda,
denso aroma d'alghe, fango e luce pestati,
quale oscura chiarità s'apre tra le tue colonne?
Quale antica notte tocca l'uomo con i suoi sensi?

Ahi, amare è un viaggio con acqua e con stelle,
con aria soffocata e brusche tempeste di farina:
amare è un combattimento di lampi
e due corpi da un solo miele sconfitti.

Bacio a bacio percorro il tuo piccolo infinito, ,
i tuoi margini, i tuoi fiumi, i tuoi villaggi minuscoli,
e il fuoco genitale trasformato in delizia

corre per i sottili cammini del sangue
fino a precipitarsi come un garofano notturno,
fino a essere e non essere che un lampo nell'ombra.

XIII

La luce che dai tuoi piedi sale alla tua capigliatura,
la turgidezza che avvolge la tua forma delicata,
non è di madreperla marina, mai d'argento freddo:
sei di pane, di pane amato dal fuoco.

La farina innalzò con te il suo granaio
e crebbe incrementata dall'età felice,
quando i cereali duplicarono il tuo petto
il mio amore era il carbone che lavorava nella terra.

Oh, pane la tua fronte, pane le tue gambe, pane la tua bocca,
pane che divoro e nasce con luce ogni mattina,
beneamata, bandiera delle panetterie,

il fuoco ti diede una lezione di sangue,
dalla farina apprendesti a esser sacra,
e dal pane l'idioma e l'aroma.

XIV

Mi manca il tempo per celebrare i tuoi capelli.
Uno a uno devo contarli e lodarli:
altri amanti voglion vivere con certi occhi,
io voglio essere solo il tuo parrucchiere.

In Italia ti battezzarono Medusa
per l'arricciata e alta luce della tua capigliatura.
Io ti chiamo scarmigliata e intricata mia:
il mio cuore conosce le porte della tua chioma.

Quando ti smarrirai nei tuoi stessi capelli,
non dimenticarmi, ricordati che t'amo,
non lasciarmi andar perduto senza la tua capigliatura

per il mondo cupo di tutte le strade
che solo ha ombra, dolori passeggeri,
finché sale il sole sulla torre della tua chioma.

XV

Da molto tempo la terra ti conosce:
sei compatta come il pane o come il legno,
sei corpo, grappolo di sicura sostanza,
hai peso d'acacia, di legume dorato.

So che esisti non solo perché i tuoi occhi volano
e danno luce alle cose come finestra aperta,
ma perché di fango ti fecero e t'hanno cotta
a Chillán, in un forno di mattoni stupefatto.

Gli esseri si spargono come aria o acqua o freddo
e son vaghi, si cancellano a contatto del tempo,
come se prima che morti fossero sminuzzati.

Tu cadrai con me come pietra nella tomba,
così per il nostro amore che non fu consumato
continuerà a vivere con noi la terra.

XVI

Amo il pezzo di terra che tu sei,
perché delle praterie planetarie
altra stella non ho. Tu ripeti
la moltiplicazione dell'universo.

I tuoi grandi occhi son la luce che posseggo
delle costellazioni sconfitte,
la tua pelle palpita come le strade
che percorre la meteora nella pioggia.

Di tanta luna furon per me i tuoi fianchi,
di tutto il sole la tua bocca profonda e la sua delizia,
di tanta luce ardente come miele nell'ombra

il tuo cuore arso da lunghi raggi rossi,
e così percorro il fuoco della tua forma baciandoti,
piccola e planetaria, colomba e geografia.

XVII

Non t'amo come se fossi rosa di sale, topazio
o freccia di garofani che propagano il fuoco:
t'amo come si amano certe cose oscure,
segretamente, entro l'ombra e l'anima.

T'amo come la pianta che non fiorisce e reca
dentro di sé, nascosta, la luce di quei fiori;
grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo
il concentrato aroma che ascese dalla terra.

T'amo senza sapere come, né quando né da dove,
t'amo direttamente senza problemi né orgoglio:
così ti amo perché non so amare altrimenti

che così, in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.

XVIII

Per le montagne vai come viene la brezza
o la corrente brusca che scende dalla neve,
oppure la tua chioma palpitante conferma
gli alti ornamenti del sole nel folto.

Tutta la luce del Caucaso cade sul tuo corpo
come su una piccola anfora interminabile
in cui l'acqua cambia di vestito e di canto
a ogni movimento trasparente del fiume.

Pei monti la vecchia strada di guerrieri
e sotto infuriata brilla come spada
l'acqua tra muraglie di mani minerali,

finché tu ricevi dai boschi d'improvviso
il mazzo o il lampo di alcuni fiori azzurri
e l'insolita freccia d'un aroma selvaggio.

XIX

Mentre l'enorme spuma d'Isla Negra,
il sale azzurro, il sole nell'onde ti bagnano,
io osservo i lavori della vespa
impegnata nel miele del suo universo.

Va e viene equilibrando il suo volo retto e biondo
come se scivolasse da un fil di ferro invisibile
l'eleganza del ballo, la sete della sua cintura
e gli assassini del pungiglione maligno.

Di petrolio e d'arancia è il suo arcobaleno
Cerca come un aereo tra l’erba,
vola con rumore di spiga, sparisce,

mentre tu esci dal mare, nuda,
e torni al mondo piena di sale e di sole,
statua riverberante e spada dell’arena.

XX

Mia brutta, sei una castagna spettinata,
mia bella, sei bella come il vento,
mia brutta, della tua bocca se ne può far due,
mia bella, son freschi i tuoi baci come angurie.

Mia brutta, dove stan nascosti i tuoi seni?
Son minuscoli come due coppe di frumento.
Mi piacerebbe vederti due lune sul petto:
le torri gigantesche della tua sovranità.

Mia brutta, il mare non ha le tue unghie nella sua bottega,,
mia bella, fiore a fiore, stella per stella,
onda per onda, amore, ho contato il tuo corpo:

mia brutta, t'amo per la tua cintura d'oro,
mia bella, t'amo per una ruga sulla tua fronte,
amore, t'amo perché sei chiara e perché sei oscura.

XXI

Mia brutta, sei una castagna spettinata,
che non resista un momento di più senza primavera,
io non vendetti che le mie mani al dolore,
ora, beneamata, lasciami con i tuoi baci.

Copri la luce del mese aperto col tuo aroma,
chiudi le porte con la tua capigliatura,
e quanto a me non dimenticare che se mi sveglio e piango
è perché in sogno son solo un bimbo, perduto

che cerca tra le imposte della notte le tue mani,
il contatto del frumento che tu mi comunichi,
un impulso scintillante d'ombra e d'energia.

Oh, beneamata, e null'altro che ombra!
per dove tu m'accompagni nei tuoi sogni
e mi dica l'ora della luce.

XXII

Quante volte, amore, 't'amai senza vederti e forse senza ricordo,
senza riconoscere il tuo sguardo, senza guardarti, centaura,
in opposte regioni, in un bruciante mezzogiorno:
eri solo l'aroma dei cereali che amo.

Forse ti vidi, ti supposi passando che sollevavi una coppa
ad Angol, alla luce della luna di Giugno,
eri fu la cintura di quella chitarra
che toccai nelle tenebre e risuonò come il mare smisurato.

T’amai senza che io lo sapessi, e cercai la tua memoria.
Nelle case vuole entrai con lanterna a rubare il tuo ritratto.
Ma io sapevo già com'eri. D'improvviso

mentre venivi con me ti toccai e si fermò la mia vita:
eri davanti ai miei occhi, regnavi su di me, e regni.
Come falò nei boschi il fuoco è il tuo regno.

XXIII

Fu luce il fuoco e pane la luna risentita,
il gelsomino duplicò il suo stellato segreto,
e del terribile amore le dolci mani pure
diedero pace ai miei occhi e sole ai miei sensi.

Oh amore, come d'improvviso, dalle lacerazioni,
costruisti l'edificio della dolce fermezza,
sconfiggesti l'unghie maligne e gelose
e oggi di fronte al mondo siamo come una sola vita.

Così fu, così è e così sarà fino a quando,
selvaggio e dolce amore, beneamata Matilde,
il tempo c'indicherà il fiore finale del giorno.

Senza te, senza me, senza luce più non saremo:
allora oltre la terra e l'ombra
lo splendore del nostro amore continuerà a esser vivo.

XXIV

Amore, amore, le nubi sulla torre del cielo
salirono come trionfanti lavandaie,
e tutto arse d'azzurro, tutto fu stella:
il mare, la nave, il giorno s'esiliarono uniti.

Vieni a vedere i ciliegi dell'acqua costellata
e la chiave rotonda del rapido universo,
vieni a toccare il fuoco dell'azzurro istantaneo,
vieni prima che i suoi petali si consumino.

Altro non v'è qui che la luce, quantità, grappoli,
spazio aperto dalle virtù del vento
fino a consegnare gli ultimi segreti della schiuma.

E tra tanti azzurri celesti, sommersi,
si perdono i nostri occhi indovinando appena
i poteri dell'aria, le chiavi sottomarine.

XXV

Prima d'amarti, amore, nulla era mio:
vacillai per le strade e per le cose:
nulla contava né aveva nome:
il mondo era dell'aria che attendeva.

Io conobbi cinerei saloni,
gallerie abitate dalla luna,
hangars crudeli che s'accommiatavano,
domande che insistevan sull'arena.

Tutto era vuoto, morto e muto,
caduto, abbandonato e decaduto,
tutto era inalienabilmente estraneo,

tutto era degli altri e di nessuno,
finché la tua bellezza e povertà
empirono l'autunno di regali.

XXVI

Né il colore delle dune terribili a Iquique,
né l'estuario del Rio Dolce di Guatemala,
cambiarono il tuo profilo conquistato nel grano,
il tuo stile d'uva grande, la tua bocca di chitarra.

Oh cuore, oh mia da tutto il silenzio,
dalle cime dove regnò il rampicante
alle desolate pianure del platino,
in ogni patria pura ti ripetè la terra.

Ma né mano scontrosa di monti minerali,
né neve tibetana, né pietra di Polonia,
nulla alterò la tua forma di cereale viandante,

come se creta o frumento, chitarre o grappoli
di Chillàn difendessero in te il loro territorio
imponendo il mandato della luna silvestre.

XXVII

Nuda sei semplice come una delle tue mani,
liscia, terrestre, minima, rotonda, trasparente,
hai linee di luna, cammini di mela,
nuda sei sottile come il grano nudo.

Nuda sei azzurra come la notte a Cuba,
hai rampicanti e stelle nei tuoi capelli,
nuda sei enorme e gialla
come l'estate in una chiesa d'oro.

Nuda sei piccola come una delle tue unghie,
curva, sottile, rosea finché nasce il giorno
e t'addentri nel sotterraneo del mondo

come in una lunga galleria di vestiti e di lavori:
la tua chiarezza si spegne, si veste, si sfoglia
e di nuovo torna a essere una mano nuda.

XXVIII

Amore, da grano a grano, da pianeta a pianeta,
la rete del vento coi suoi paesi cupi,
la guerra con le sue scarpe di sangue,
oppure il giorno e la notte della spiga.

Per dove andammo, isole, ponti o bandiere,
violini del fugace autunno sminuzzato,
la gioia ripetè le labbra della coppa,
ci arrestò il dolore con la sua lezione di pianto.

In tutte le repubbliche il vento dispiegava
il suo stendardo impune, la sua glaciale chioma,
poi il fiore ritornava ai suoi lavori.

Ma in noi mai si calcinò l'autunno.
Nella nostra patria immobile germinava e cresceva
l'amore con i diritti della rugiada.

XXIX

Vieni dalla povertà delle case del Sud,
dalle regioni dure con freddo e terremoto
che quando persino i loro dèi rotolaron nella morte
ci diedero la lezione della vita nella creta.

Sei un cavallino di creta nera, un bacio
di fango oscuro, amore, papavero di creta,
colomba del crepuscolo che volò nelle strade,
salvadanaio con lacrime della nostra povera infanzia.

Ragazza, hai conservato il tuo cuore di povera,
i piedi di povera abituati alle pietre,
la tua bocca che non sempre ebbe pane o delizia.

Sei del povero Sud, di dove viene la mia anima:
nel suo cielo tua madre continua a lavar biancheria
con mia madre. Per questo ti scelsi, compagna.

XXX

Hai dell'arcipelago le fibre del larice,
la carne lavorata dai secoli del tempo,
vene che conobbero il mare dei legni,
sangue verde caduto dal cielo sulla memoria.

Nessuno raccoglierà il mio cuore sperduto
tra tante radici, nell'amara freschezza
del sole moltiplicato dalla furia dell'acqua,
lì vive l'ombra che non viaggia con me.

Per questo tu uscisti dal Sud come un'isola
popolata e coronata di penne e di legni
e io sentii l'aroma dei boschi erranti,

trovai il miele oscuro che conobbi nella selva
e toccai nei tuoi fianchi i petali cupi
che nacquero con me e costruirono la mia anima.

XXXI

Con allori del Sud e origano di Lota
t'incorono, piccola regina delle mie ossa,
e non può mancarti quella corona
che elabora la terra con balsamo e fogliame.

Sei, come colui che t'ama, delle province verdi:
di là traemmo il fango che ci scorre nel sangue,
nella città vaghiamo, come tanti, sperduti,
timorosi che chiudano il mercato.

Beneamata, la tua ombra ha odore di susina,
i tuoi occhi nascosero nel Sud le loro radici,
il tuo cuore è una colomba da salvadanaio,

il tuo corpo è liscio come le pietre nell'acqua,
i tuoi baci sono grappoli con rugiada,
e al tuo fianco io vivo con la terra.

XXXII

La casa nel mattino con la verità sossopra
di lenzuola e di penne, l'origine del giorno
senza rotta, errante come una povera barca,
tra gli orizzonti dell'ordine e del sonno.

Le cose vogliono trascinare vestigia,
aderenze senza rotta, eredità fredde,
le carte nascondono vocali grinzose,
nella bottiglia il vino vuol seguire il suo ieri.

Ordinatrice, passi vibrando come ape
toccando le regioni perdute dall'ombra
conquistando la luce con la tua bianca energia.

Allora di nuovo si costruisce la chiarezza:
le cose ubbidiscono al vento della vita
e l'ordine stabilisce il suo pane e la sua colomba.


Mezzogiorno

XXXIII

Amore, ora andiamo alla casa
dove il rampicante sale per le scale:
prima che tu arrivi è giunta alla tua stanza
l'estate nuda con piedi di caprifoglio.

I nostri baci erranti percorsero il mondo:
Armenia, densa goccia di miele dissotterrato,
Ceylon, colomba verde, e lo Yang Tsé che separa
con antica pazienza i giorni dalle notti.

E ora, beneamata, per il mar crepitante
torniamo come due uccelli ciechi al muro,
al nido della lontana primavera,

perché l'amore non può volar senza fermarsi:
al muro o alle pietre del mare van le nostre vite,
al nostro territorio son tornati i baci.

XXXIV

Sei figlia del mare e cugina dell'origano,
nuotatrice, il tuo corpo è d'acqua pura,
cuciniera, il tuo sangue è terra viva
e fiorite le tue abitudini e terrestri.

Vanno all'acqua i tuoi occhi e sollevan onde,
alla terra le tue mani e saltano i semi,
in acqua e in terra hai proprietà profonde
che s'uniscono in te come le leggi della creta.

Naiade, il tuo corpo taglia il turchese,
poi risorto fiorisce nella cucina
in tal modo che assumi quanto esiste

e alfine dormi circondata dalle mie braccia che allontanano
dall'ombra cupa, perché tu riposi,
legumi, alghe, erbe: la schiuma dei tuoi sogni.

XXXV

La tua mano andò volando dai miei occhi al giorno.
La luce entrò come un roseto aperto.
Arena e cielo palpitavano come un
culminante alveare tagliato nel turchese.

La tua mano toccò sillabe che tintinnavano, coppe,
oliere, piene d'oli gialli,
corolle, fonti e, soprattutto, amore,
amore: la tua mano pura preservò i cucchiai,

La sera se n'andò. La notte fece scender con cautela
sopra il sonno dell'uomo la sua capsula celeste.
Un triste odor selvaggio sprigionò la madreselva.

E la tua mano tornò dal volo volando
a chiudere il suo piumaggio ch'io credetti perso
sopra i miei occhi divorati dall'ombra.

XXXVI

Cuor mio, regina dell'apio e della madia:
piccola leoparda del filo e della cipolla:
mi piace veder brillare il tuo impero minuscolo,
le armi della cera, del vino, dell'olio,

dell'aglio, della terra dalle tue mani aperta
della sostanza azzurra accesa nelle tue mani,
della trasmigrazione dal sonno all'insalata,
del rettile arrotolato alla canna.

Tu che con la potatrice sollevi il profumo,
tu, con la direzione del sapone nella schiuma,
tu, che sali le mie pazze scale e scale,

tu, che maneggi il sintoma della mia calligrafia
e trovi nell'arena del quaderno
le lettere smarrite che cercavano la tua bocca.

XXXVII

Oh amore, oh lampo pazzo e minaccia purpurea,
mi visiti e sali per la tua fresca scala
il castello che il tempo coronò di nebbie,
le pallide pareti del cuore chiuso.

Nessuno saprà che fu solo la delicatezza
che costruì i cristalli duri come città
sa che il sangue apriva gallerie sventurate
senza che la sua monarchia abbattesse l'inverno.

Per questo, amore, la tua bocca, la pelle, la luce, le tue pene,
furono il patrimonio della vita, i doni
sacri della pioggia, della natura

che riceve e innalza la gravidezza del grano,
la tempesta segreta del vino nelle cantine,
la fiammata del cereale sulla terra.

XXXVIII

La tua casa risuona come un treno a mezzogiorno,
ronzano le vespe, cantan le casseruole,
la cascata enumera i fatti della rugiada,
il tuo riso svolge il suo gorgheggio di palma.

La luce azzurra del muro conversa con la pietra,
giunge come un pastore fischiando un telegramma
e tra i due fichi dalla voce verde
Omero sale con scarpe prudenti.

Solo qui la città non ha voce né pianto,
né infinito, né sonate, né labbra, né tromba,
ma un discorso di cascata e di leoni,

e tu che sali, canti, corri, cammini, scendi,
pianti, cuci, cucini, inchiodi, scrivi, tomi
o sei partita e si sa ch'è iniziato l'inverno.

XXXIX

Dimenticai però che le tue mani compiacevano
le radici, innaffiando rose intricate,
finché fiorirono le tue orme digitali
nella plenaria pace della natura.

La zappa e l'acqua come animali tuoi
t'accompagnano, mordendo e lambendo la terra,
ed è così che, lavorando, emani
fecondità, freschezza ardente di garofani.

Amore e onore d'api chiedo per le tue mani
che nella terra confondono la loro stirpe trasparente,
e fin entro il mio cuore aprono la loro agricoltura,

in tal modo che sono come pietra bruciata
che d'improvviso, con te, canta, perché riceve
l'acqua dei boschi condotta dalla tua voce.

XL

Era verde il silenzio, bagnata era la luce,
tremava il mese di Giugno come una farfalla
e nell'australe dominio, dal mare e dalle pietre,
Matilde, attraversasti il meriggio.

Eri carica di fiori ferruginosi,
alghe che il vento sud tormenta e oblia,
ancor bianche, screpolate dal sale divorante,
le tue mani sollevavano le spighe d'arena.

Amo i tuoi doni puri, la tua pelle di pietra intatta,
le tue unghie offerte nel sole delle tue dita,
la tua bocca sparsa per tutta la gioia,

ma, per la mia casa prossima all'abisso,
dammi il tormentato sistema del silenzio,
Io stendardo del mare dimenticato sull'arena.

XLI

Sventure del mese di Gennaio quando l'indifferente
mezzogiorno stabilisce la sua equazione nel cielo,
un oro duro come il vino d'una coppa ricolma
empie la terra fino ai suoi limiti azzurri.

Sventure di questo tempo simili a uve
piccole che concentrarono verde amaro,
confuse, nascoste, lacrime dei giorni,
fino a che l'intemperie rivelò i loro grappoli.

Si, germi, dolori tutto ciò che palpita
atterrito, alla luce crepitante di Gennaio,
maturerà, arderà come arsero i frutti.

Saran divise le pene: l'anima
darà un colpo di vento, e la dimora
resterà pulita con il pane fresco sulla tavola.

XLII

Radianti giorni cullati dall'acqua marina,
concentrati come l'interno d'una pietra gialla
il cui splendore di miele non abbatté il disordine:
preservò la purezza di rettangolo.

Crepita, sì, l'ora come fuoco o api
e verde è il compito di sommergersi nelle foglie,
finché verso l'alto il fogliame
è un mondo scintillante che si spegne e sussurra.

Sete del fuoco, bruciante moltitudine dell'estate
che costruisce un Eden con alcune foglie,
perché la terra dal volto oscuro non vuole sofferenze,

ma freschezza o fuoco, acqua o pane per tutti,
e nulla dovrà dividere gli uomini,
altro che il sole o la notte, la luna o le spighe.

XLIII

Cerco un segno tuo in tutte l'altre,
nel brusco, ondeggiante fiume delle donne,
trecce, occhi appena sommersi,
piedi chiari che scivolano navigando nella schiuma.

D'improvviso mi sembra di scorger le tue unghie
oblunghe, fuggitive, nipoti di un ciliegio,
altra volta è la tua chioma che passa e mi sembra
di veder ardere nell'acqua il tuo ritratto di fuoco.

Guardai, ma nessuna recava il tuo palpito,
la tua luce, la creta oscura che portasti dal bosco,
nessuna ebbe le tue minuscole orecchie.

Tu sei totale e breve, di tutte sei una,
così con te vo' percorrendo e amando ...
un ampio Mississipi d'estuario femminile.

XLIV

Saprai che non t'amo e che t'amo
perché la vita è in due maniere,
la parola è un'ala del silenzio,
il fuoco ha una metà di freddo.

Io t'amo per cominciare ad amarti,
per ricominciare l'infinito,
per non cessare d'amarti mai:
per questo non t'amo ancora.

T'amo e non t'amo come se avessi
nelle mie mani le chiavi della gioia
e un incerto destino sventurato.

Il mio amore ha due vite per amarti.
Per questo t'amo quando non t'amo
e per questo t'amo quando t'amo.

XLV

Non star lontana da me un solo giorno, perché,
perché, non so dirlo, è lungo il giorno,
e ti starò attendendo come nelle stazioni
quando in qualche parte si addormentano i treni.

Non andartene per un'ora perché allora
in quell'ora s'uniscono le gocce dell'insonnia
e forse tutto il fumo che va cercando casa
verrà ancora a uccidere il mio cuore perduto.

Ahi non s'infranga la tua figura nell'arena,
ahi, non volino le tue palpebre nell'assenza:
non andartene per un minuto, adorata,

perché in quel minuto sarai andata sì lungi
che attraverserò tutta la terra interrogando .
se tornerai o se mi lascerai morire.

XLVI

Delle stelle che ammirai, bagnate
da fiumi e da rugiade differenti,
io non scelsi che quella che amavo
e da allora dormo con la notte.

Dell'onda, un'onda e un'altra onda,
verde mare, verde freddo, ramo verde,
io non scelsi che una sola onda:
l'onda invisibile del tuo corpo.

Tutte le gocce, tutte le radici,
tutti i fili della luce vennero,
mi vennero a vedere presto o tardi.

Io volli per me la tua chioma.
E di tutti i doni della mia patria
solo scelsi il tuo cuore selvaggio.


XLVII

Dietro di me sul ramo voglio vederti.
A poco a poco ti trasformasti in frutto.
Non ti costò salir dalle radici
cantando con la tua sillaba di linfa.

E qui sarai dapprima in fior fragrante,
nella statua d'un bacio trasformata,
fino a che sole e terra, sangue e cielo,
ti daran la delizia e la dolcezza.

Vedrò sul ramo la tua capigliatura,
il tuo segno che matura nel fogliame,
che avvicina le foglie alla mia sete,

la mia bocca empirà la tua sostanza,
il bacio che ascese dalla terra
col tuo sangue di frutto innamorato.

XLVIII

Due amanti felici fanno un solo pane,
una sola goccia di luna nell'erba,
lascian camminando due ombre che s'uniscono,
lasciano un solo sole vuoto in un letto.

Di tutte le verità scelsero il giorno:
non s'unirono con fili, ma con un aroma,
e non spezzarono la pace né le parole.
È la felicità una torre trasparente.

L'aria, il vino vanno coi due amanti,
gli regala la notte i suoi petali felici,
hanno diritto a tutti i garofani.

Due amanti felici non han fine né morte,
nascono e muoiono più volte vivendo,
hanno l'eternità della natura.

XLIX

È oggi: tutto l'ieri andò cadendo
entro dita di luce e occhi di sogno,
domani arriverà con passi verdi:
nessuno arresta il fiume dell'aurora.

Nessuno arresta il fiume delle tue mani,
gli occhi dei tuoi sogni, beneamata,
sei tremito del tempo che trascorre
tra luce verticale e sole cupo,

e il cielo chiude sopra te le ali
portandoti, traendoti alle mie braccia
con puntuale, misteriosa cortesia.

Per questo canto il giorno e la luna,
il mare, il tempo, tutti i pianeti,
la tua voce diurna e la tua pelle notturna.

L

Cotapos dice che il tuo riso cade
come un falco da una brusca torre
e, davvero, attraversi il fogliame del mondo
con un solo lampo della tua stirpe celeste

che cade, e taglia, e saltano le lingue della rugiada,
le acque del diamante, la luce con le sue api
e lì dove viveva con la sua barba il silenzio
scoppiano le granate del sole e delle stelle,

precipita il cielo con la notte cupa,
ardono a piena luna campane e garofani,
e corrono i cavalli dei sellai:

perché essendo tu piccola come sei :
lasci cadere il riso dalla tua meteora
elettrizzando il nome della natura.

LI

II tuo riso appartiene a un albero dischiuso
da un fulmine, da un lampo argenteo
che cade dal cielo spezzandosi sulla cima,
dividendo in due l'albero con una sola spada.

Solo sull'alte terre di fogliame con neve
nasce un riso come il tuo, beneamante,
è il riso dell'aria scatenata sull'altura,
costumi d'araucaria, beneamata.

Cordiglierana mia, chillaneja evidente,
taglia con i coltelli del tuo riso l'ombra,
la notte, la mattina, il miele del mezzogiorno,

e saltino al cielo gli uccelli del fogliame
quando come una luce prodiga
rompe il tuo riso l'albero della vita.

LII

Canti e a sole e cielo col tuo canto
la tua voce sgrana il cereale del giorno,
parlano i pini con la lor lingua verde:
gorgheggiano tutti gli uccelli dell'inverno.

Il mare empie le sue cantine di passi,
di campane, di catene e di gemiti,
tintinnano metalli e utensili,
suonano le ruote della carovana.

Ma solo la tua voce ascolto e sale
la tua voce con volo e precisione di freccia,
scende la tua voce con gravità di pioggia,

la tua voce sparge altissime spade,
torna la tua voce carica di viole
e quindi m'accompagna per il cielo.

LIII

Qui stanno il pane, il vino, la tavola, la dimora:
il bisogno dell'uomo, la donna e la vita:
a questo luogo correva la pace vertiginosa,
per questa luce arse la comune bruciatura.

Onore alle tue mani che volan preparando
i bianchi risultati del canto e della cucina,
salve! L'integrità dei tuoi piedi corridori
viva! Ballerina che balli con la scopa.

Quei bruschi fiumi con acque e minacce,
quel tormentato stendardo della schiuma,
quegl'incendiari favi e scogliere

son oggi questo riposo del tuo sangue nel mio,
quest'alveo stellato e azzurro come la notte,
questa semplicità senza fine della tenerezza.

Sera

LIV
Splendida ragione, demonio chiaro
del grappolo assoluto, del retto mezzogiorno,
siam qui alfine, senza solitudine e soli,
lungi dal delirio delle città selvagge.

Quando la linea pura circonda la sua colomba
e il fuoco decora la pace col suo alimento
tu e io erigiamo questo celeste risultato.
Ragione e amore nudi vivono in questa casa.

Sogni furiosi, fiumi d'amara certezza,
decisioni più dure del sonno di un martello
caddero nella duplice coppa degli amanti.

Finché nella bilancia s'elevaron, gemelli,
la ragione e l'amore come due ali.
Così si costruì la trasparenza.

LV

Spine, vetri rotti, malattie, pianto
assedian giorno e notte il miele dei felici
e non servon la torre, ìl viaggio, i muri:
penetra la sventura la pace dei dormienti,

sale e scende il dolore e avvicina i suoi cucchiai,
non v'è uomo senza questo movimento,
nascita non v'è, tetto né chiuso:
occorre tener conto di quest'attributo.

Nell'amore neppure valgon occhi chiusi,
profondi letti, lungi dal pestilente ferito,
o da colui che a passo a passo conquista la sua bandiera.

Perché la vita batte come collera o fiume
e apre una galleria insanguinata per dove ci spiano
gli occhi di un'immensa famiglia di dolori.

LVI

Abituati a vedere dietro di me l'ombra
e le tue mani escano dal rancore, trasparenti,
come se nel mattino del mare fossero create:
ti diede il sale, amor mio, proporzione cristallina.

L'invidia soffre, muore, finisce col mio canto.
A uno a uno agonizzano i suoi tristi capitani.
Io dico amore, e si popola il mondo di colombe.
Ogni mia sillaba reca la primavera.

Allora tu, fiorita, cuore, beneamata,
sopra i miei occhi come i fogliami del cielo
stai, e io t'osservo distesa sulla terra.

Vedo il sole trasmigrare grappoli al tuo volto,
guardando verso l'alto riconosco i tuoi passi.
Matilde, beneamata, diadema, benvenuta!

LVII

Mentono quelli che dissero ch'io persi la luna,
quelli che profetizzarono il mio avvenire d'arena,
affermaron tante cose con lingue fredde:
vollero proibire il fior dell'universo.

" Più non canterà l'ambra ribelle
della sirena, non ha che popolo ".
E masticavan le lor carte incessanti
patrocinando l'oblio per la mia chitarra.

Io gli gettai negli occhi le lance abbacinanti
del nostro amore che penetravano il tuo cuore e il mio,
reclamai il gelsomino che lasciavan le tue orme,

mi persi di notte senza luce sotto le tue palpebre
e quando la chiarità mi avvolse
nacqui di nuovo, padrone della mia tenebra stessa.

LVIII

Tra gli spadoni di ferro letterario
passo come un marinaio remoto
che non conosce angoli di strada e canta
perché sì, perché come se non fosse per questo.

Dai tormentati arcipelaghi portai
la mia fisarmonica con burrasche, raffiche di pioggia pazza,
e un'abitudine lenta di cose naturali:
esse determinarono il mio cuore silvestre.

Così quando i denti della letteratura
cercarono di mordere i miei onorati talloni,
passai, senza sapere, cantando col vento

verso i magazzini piovosi della mia infanzia,
verso i boschi freddi del Sud indefinibile,
verso dove la mia vita s'empi del tuo aroma.

LIX (G. M.)

Poveri poeti che la vita e la morte
perseguitarono con la stessa cupa tenacia,
poi son coperti d'impassibile pompa,
abbandonati al rito e al dente funerario.

Essi - oscuri come pietruzze - ora
dietro gli alteri cavalli, distesi
vanno, alfine governati dagli intrusi,
tra i becchini, a dormire senza silenzio.

Anzi, ormai sicuri, che il morto è morto
fanno delle esequie un festino miserabile
con tacchini, maiali e altri oratori.

Spiarono la loro morte e allora l'offesero:
solo perché la loro bocca è chiusa
e più non può rispondere il canto.

LX

Colui che volle ferirmi te ferisce,
e il colpo del veleno contro me diretto
come per una rete passa pei miei lavori
e ,in te lascia una macchia d'ossido e d'insonnia.

Non voglio vedere, amore, sulla luna fiorita
della tua fronte passar l'odio che mi spia.
Non voglio che nel tuo sonno l'altrui rancore lasci
dimenticata l'inutile corona di coltelli.

Dove vado mi seguono passi amari,
dove rido una smorfia d'orrore copia il mio volto,
dove canto l'invidia maledice, ride e rode.

Ed è quella, amore, l'ombra che la vita m'ha dato:
è un vestito vuoto che mi segue zoppicando
come uno spaventapasseri dal sorriso insanguinato.

LXI

L'amore recò la sua coda di dolori,
il suo lungo raggio statico di spine
e chiudiamo gli occhi perché nulla,
perché nessuna ferita ci separi.

Non è colpa dei tuoi occhi questo pianto:
le tue mani non affondaron questa spada:
i tuoi piedi non cercarono questa strada:
giunse al tuo cuore il miele cupo.

Quando l'amore come un'onda immensa
ci sfracellò contro la pietra dura,
c'impastò in un'unica farina,

cadde il dolore su altro dolce volto,
e nella luce della stagione aperta
si consacrò la primavera ferita.

LXII

Ahimè, ahinoi, beneamata,
solo volemmo, amore, amarci,
e tra tanti dolori fu disposto
che noi due soli fossimo feriti.

Volemmo il tu e l'io per noialtri,
il tu del bacio, l'io del pan segreto,
così era tutto, eternamente semplice,
fino a che l'odio entrò dalla finestra.

Odia chi non amò il nostro amore,
né altro amore; sventurati
come le sedie d'una sala sperduta,

fino a che s'impigliaron nella cenere
e il volto minaccioso ch'essi avevano
si spense nel crepuscolo spento.

LXIII

Non solo per le terre deserte dove la pietra salina
è come l'unica rosa, il fiore del mare sotterrato,
andai, ma per la riva di fiumi che tagliano la neve.
Le amare altezze delle cordigliere conoscono i miei passi.

Intricata, sibilante regione della mia patria selvaggia,
liane il cui bacio mortale s'incatena nella selva,
lamento bagnato dell'uccello che s'alza lanciando i suoi brividi,
oh regione di perduti dolori e di pianto inclemente!

Non solo son miei la pelle velenosa del rame
o il salnitro disteso come statua giacente e di neve;
ma la vigna, il ciliegio premiato dalla primavera,

son miei, e io appartengo come atomo nero
alle aride terre e alla luce dell'autunno nell'uva,
a questa patria metallica elevata da torri di neve.

LXIV

Per tanto amore la mia vita si tinse di viola
e andai di rotta in rotta come gli uccelli ciechi
fino a raggiungere la tua finestra, amica mia:
tu sentisti un rumore di cuore infranto

e lì dalle tenebre mi sollevai al tuo petto,
senz'essere e senza sapere andai alla torre del frumento,
sorsi per vivere tra le tue mani,
mi sollevai dal mare alla tua gioia.

Nessuno può dire ciò che ti devo, è lucido
ciò che ti devo, amore, ed è come una radice,
nativa d'Aurcania, ciò che ti devo, amata.

È senza dubbio stellato tutto ciò che ti devo,
ciò che ti devo è come il pozzo d'una zona silvestre
dove il tempo conservò lampi erranti.

LXV

Matilde, dove sei? Notai, verso il basso,
tra cravatta e cuore, in alto,
certa malinconia intercostale:
era che d'improvviso eri assente.

M'abbisognò la luce della tua energia
e guardai divorando la speranza,
guardai com'è vuota senza te una casa,
non restano che tragiche finestre.

Tanto è taciturno il tetto ascolta
cadere antiche piogge sfogliate,
penne, ciò che la notte imprigionò:

così ti attendo come casa sola,
tornerai a vedermi e ad abitarmi.
Altrimenti mi dolgon le finestre.

LXVI

Non t'amo se non perché t'amo
e dall'amarti a non amarti giungo
e dall'attenderti quando non t'attendo
passa dal freddo al fuoco il mio cuore.

Ti amo solo perché io te amo,
senza fine io t'odio, e odiandoti ti prego,
e la misura del mio amor viandante
è non vederti e amarti come un cieco.

Forse consumerà la luce di Gennaio,
il raggio crudo, il mio cuore intero,
rubandomi la chiave della calma.

In questa storia solo io muoio
e morirò d'amore perché t'amo,
perché t'amo, amore, a ferro e fuoco.

LXVII

La gran pioggia del sud cade su Isla Negra
come una sola goccia trasparente e pesante,
il mare apre le sue fredde foglie e la riceve,
la terra apprende l'umido destino d'una coppa.

Anima mia, dammi nei tuoi baci l'acqua
salubre di questi mesi, il miele del territorio,
la fragranza bagnata da mille labbra del cielo,
la pazienza sacra del mare nell'inverno.

Qualcosa ci chiama, tutte le porte s'apron sole,
racconta l'acqua un lungo rumore alle finestre,
cresce verso il basso il cielo toccando le radici,

e così tesse e stesse il giorno la sua rete celeste
con tempo, sale, sussurri, crescite, strade.
una donna, un uomo, e l'inverno sulla terra.

LXVIII (Mascherone di Prua)

La bimba di legno non giunse camminando:
fu lì d'improvviso seduta sui mattoni,
vecchi fiori del mare coprivano la sua testa,
il suo sguardo aveva tristezza di radici.

Lì stette a guardare le nostre vite aperte,
l'andare, l'essere, girare e tornare per la terra,
il giorno che stinge i suoi petali graduali.
Vegliava senza vederci la bimba di legno.

La bimba coronata dalle antiche onde,
li guardava coi suoi occhi sconfitti:
sapeva che viviamo in una rete remota

di tempo e acqua e onde e suoni e pioggia, ;
senza sapere s'esistiamo o se siamo il Suo sogno.
Questa è la storia della fanciulla di legno.

LXIX

Forse non essere è esser senza che tu sia,
senza che tu vada tagliando il mezzogiorno
come un fiore azzurro, senza che tu cammini
più tardi per la nebbia e i mattoni,

senza quella luce che tu rechi in mano
che forse altri non vedran dorata,
che forse nessuno seppe che cresceva
come l'origine rossa della rosa,

senza che tu sia, infine, senza che venissi
brusca, eccitante, a conoscer la mia vita,
raffica di roseto, frumento del vento,

e da allora sono perché tu sei,
e da allora sei, sono e siamo,
e per amore sarò, sarai, saremo.

LXX
Forse sono ferito senz'essere insanguinato
da uno dei raggi della tua vita
e a mezza selva mi trattiene l'acqua:
la pioggia che cade col suo cielo.

Allora tocco il cuore inzuppato:
lì so che i tuoi occhi penetrarono
per la regione estesa del mio dolore
e un sussurro d'ombra sorge solo:

Chi è? Chi è? Ma non ebbe nome
la foglia o l'acqua oscura che palpita
a mezza selva, sorda, per la strada,

così, amor mio, seppi che fui ferito
e li nessuno parlava, altro che l'ombra,
la notte errante, il bacio della pioggia.

LXXI

Di pena in pena attraversa le sue isole l'amore
e stabilisce radici che poi irriga il pianto,
e nessuno può, nessuno può evadere i passi
del cuore che corre silenzioso e carnivoro.

Così tu e io cerchiamo un buco, altro pianeta
dove il sale non toccherà la tua chioma,
dove non cresceran dolori per mia colpa,
dove vivrà senz'agonia il pane.

Un pianeta intricato per distanza e fogliame,
un ermo, una pietra crudele e disabitata,
fare con le nostre mani un nido duro

volevamo, senza danno, ferita né parola,
non fu così l'amore, ma una città pazza
dove la gente impallidisce ai balconi.

LXXII

Amor mio, l'inverno torna alle sue caserme,
la terra stabilisce i suoi doni gialli
e passiamo la mano su un paese remoto,
sulla chioma della geografia.

Andarcene! Oggi! Avanti, ruote, navi, campane,
aerei induriti dal diurno infinito
verso l'odore nuziale dell'arcipelago,
per longitudinali farine d'usufrutto!

Andiamo, alzati, e indiademati e sali
e scendi e corri e gorgheggia con l'aria e con me
andiamo ai treni d'Arabia o di TocopiIIa,

senz'altro che emigrare verso il polline lontano,
in villaggi lancinanti di stracci e di gardenie
governati da poveri monarchi senza scarpe.

LXXIII

Forse ricorderai quell'uomo magro
che usci dall'oscurità come un coltello
e prima che sapessimo, sapeva:
vide il fumo e decise che veniva dal fuoco.

La pallida donna dalla chioma nera
sorse come un pesce dall'abisso
e tra i due levarono contro l'amore
una macchina armata di denti numerosi.

Uomo e donna divelsero monti e giardini,
scesero ai fiumi, s'arrampicarono pei muri
spinsero sui monti la loro atroce artiglieria.

L'amore seppe allora di chiamarsi amore.
E quando sollevai i miei occhi al tuo nome
il tuo cuore d'improvviso dispose la mia strada.

LXXIV

La strada bagnata dall'acqua d'Agosto
brilla come tagliata in piena luna,
in piena chiarità della mela,
a metà della frutta dell'autunno.

Nebbia, spazio o cielo, la vaga rete del giorno
cresce con freddi sogni, suoni e pesci,
il vapore dell'isole combatte la regione,
palpita il mare sulla luce del Cile.

Tutto si concentra come il metallo, si occultano
le foglie, l'inverno maschera la sua stirpe
e solo ciechi siamo, senza fine, solamente.

Solamente soggetti all'alveo cauto
del movimento, addio, del viaggio, della strada:
addio, cadono le lacrime della natura.

LXXV

Questa è la casa, il mare e la bandiera.
Erravamo per altri lunghi muri.
Non trovavamo porta né suono
dall'assenza, come dopo morti.

E alfin la casa apre il suo silenzio,
entriamo a calpestare l'abbandono,
i topi morti e l'addio vuoto,
l'acqua che pianse nelle tubature.

Pianse, pianse la casa notte e giorno,
gemette con i ragni, socchiusa,
si sgranò dai suoi occhi neri,

e ora d'improvviso la ritorniam viva,
la popoliamo e non ci riconosce:
deve fiorire, e non si ricorda.

LXXVI

Diego Rivera con la pazienza dell'orso
cercava lo smeraldo del bosco nella pittura
o il vermiglione, il fiore improvviso del sangue,
raccoglieva la luce del mondo nel tuo ritratto.

Dipingeva l'imperiosa forma del tuo naso,
la scintilla delle tue pupille indomite,
le unghie che alimentano l'invidia della luna,
e nella pelle estiva, la tua bocca d'anguria.

Ti mise due teste di vulcano accese
per fuoco, amore, stirpe araucana,
e sui due volti dorati dalla creta

ti copri col casco d'un incendio indomito
e lì segretamente rimasero impigliati
i miei occhi nella torre totale: la tua chioma.

LXXVII

Oggi è oggi col peso di tutto il tempo andato,
con le ali di tutto ciò che sarà domani,
oggi è il Sud del mare, la vecchia età dell'acqua
e la composizione di un nuovo giorno.

Alla tua bocca innalzata alla luce o alla luna
si aggiunsero i petali di un giorno consunto,
e ieri vien trottando per la sua strada cupa
perché ricordiamo il suo volto ch'è morto.

Oggi, ieri e domani si mangian camminando,
consumiamo un giorno come un vacca ardente,
il nostro bestiame attende coi suoi giorni contati,

ma nel tuo cuore il tempo gettò la sua farina,
il mio amore costruì un forno col fango di Temuco:
tu sei il pane di ogni giorno per la mia anima.

LXXVIII

Non ho mai più, non ho sempre. Sulla sabbia
la vittoria lasciò i suoi piedi persi.
Sono un pover'uomo disposto ad amare i suoi simili.
Non so chi sei. Ti amo. Non do, non vendo spine.

Qualcuno forse saprà che non intrecciai corone
insanguinate, che combattei la burla,
e che di verità empii la marea della mia anima.
Ricompensai la viltà con colombe.

Io non ho mai perché diverso
fui, sono, sarò. E in nome
del mio cangiante amore proclamo la purezza.

La morte è solo pietra dell'oblio.
Ti amo, bacio sulla tua bocca la gioia.
Portiamo legna. Faremo fuoco sulla montagna.

Notte


LXXIX

Di notte, amata, lega il tuo cuore al mio
e ch'essi nel sonno sconfiggano le tenebre
come un doppio tamburo che combatte nel bosco
contro il denso muro delle foglie bagnate.

Traversata notturna, bragia nera del sonno
che intercetta il filo delle uve terrestri
con la puntualità di un treno scapigliato
che senza fine trascini ombre e pietre.

Per questo, amore, legami al movimento puro,
alla tenacia che nel tuo petto batte
con le ali di un cigno sommerso,

perché alle domande stellate del cielo
risponda il nostro sogno con una sola chiave,
con una sola porta chiusa dall'ombra.

LXXX

Da viaggi e da dolori ritornai, amor mio,
alla tua voce, alla tua mano che vola sulla chitarra,
al fuoco che interrompe con baci l'autunno,
alla circolazione della notte nel cielo.

Per tutti gli uomini chiedo pane e regno,
chiedo terra per il contadino senza fortuna,
nessuno speri tregua dal mio sangue o dal mio canto.
Ma al tuo amore non posso rinunciare senza morire.

Per questo suona il valzer della serena luna,
la barcarola nell'acqua della chitarra
finché si pieghi la mia testa sognando:

tutte le insonnie della mia vita intrecciarono
questa pergola dove la tua mano vive e vola
custodendo la notte del viandante addormentato.

LXXXI

Ormai sei mia. Riposa col tuo sonno nel mio sonno.
Amore, dolore, affanni, ora devono dormire.
Gira la notte sulle sue ruote invisibili
e presso me sei pura come l'ambra addormentata.

Nessuna più, amore, dormirà con i miei sogni.
Andrai, andremo insieme per le acque del tempo.
Nessuna viaggerà per l'ombra con me,
solo tu, sempre viva, sempre sole, sempre luna.

Già le tue mani aprirono i pugni delicati
e lasciarono cadere dolci segni senza rotta,
i tuoi occhi si chiusero come due ali grige,

mentr'io seguo l'acqua che porti e che mi porta:
la notte, il mondo, il vento dipanano il loro destino,
e senza te ormai non sono che il tuo sogno.

LXXXII

Amor mio, nel chiudere questa porta notturna
ti chiedo, amore, un viaggio per oscuro recinto:
chiudi i tuoi sogni, entra col tuo cielo nei miei occhi,
estenditi nel mio sangue come un ampio fiume.

Addio, addio, crudele chiarità che andò cadendo
nel sacco d'ogni giorno del passato,
addio a ogni raggio d'orologio o d'arancia,
salute oh ombra, intermittente compagna!

In questa nave o acqua o morte o nuova vita,
una volta di più uniti, addormentati, risorti,
siamo l'unione della notte nel sangue.

Non so chi vive o muore, chi riposa o si sveglia,
ma è il tuo cuore che distribuisce
nel mio petto i doni dell'aurora.

LXXXIII

È bello, amore, sentirti vicino a me nella notte,
invisibile nel tuo sonno, seriamente notturna,
mentr'io districo le mie preoccupazioni
come fossero reti confuse.

Assente, il tuo cuore naviga pei sogni,
ma il tuo corpo così abbandonato respira
cercandomi senza vedermi, completando il mio sonno
come una pianta che si duplica nell'ombra.

Eretta, sarai un'altra che vivrà domani,
ma delle frontiere perdute nella notte,
di quest'essere e non essere in cui ci troviamo

qualcosa resta che ci avvicina nella luce della vita
come se il sigillo dell'ombra indicasse
col fuoco le sue segrete creature.

LXXXIV

Una volta ancora, amore, la rete del giorno estingue
lavori, ruote, fuochi, rantoli, addii,
e alla notte affidiamo il frumento vacillante
che il mezzogiorno ottenne dalla luce e dalla terra.

Solo la luna in mezzo alla sua pagina pura
sostiene le colonne dell'estuario del cielo,
la stanza adotta la lentezza dell'oro
e vanno e vanno le tue mani preparando la notte.

Oh amore, oh notte, oh cupola chiusa da un fiume
d'impenetrabili acque nell'ombra del cielo
che risalta e sommerge le sue uve tempestose,

finché siamo solo uno spazio oscuro,
una coppa in cui cade la cenere celeste,
una goccia nel battito d'un lento e lungo fiume.

LXXXV

Dal mare verso le strade corre la vaga nebbia
come il vapore d'un bue sotterrato nel freddo
e lunghe lingue d'acqua s'accumulano coprendo
il mese che alle nostre vite promise esser celeste.

Avanzato autunno, favo sibilante di foglie,
quando sui villaggi palpita il tuo stendardo
cantano donne pazze accommiatando i fiumi,
nitriscono i cavalli verso la Patagonia.

C'è un rampicante vespertino sul tuo volto
che cresce silenzioso portato dall'amore
fino alle ferrature crepitanti del cielo.

Mi chino sul fuoco del tuo corpo notturno
e non solo i tuoi seni amo, ma l'autunno
che sparge per la nebbia il suo sangue ultramarino.

LXXXVI

Oh Croce del Sud, oh trifoglio di fosforo fragrante,
oggi con quattro baci penetrò la tua bellezza,
trapassò l'ombra e il mio cappello:
la luna andava tonda per il freddo.

Allora col mio amore, con l'amata, oh diamanti
di brina azzurra, serenità del cielo,
specchio, apparisti e si empì la notte
con le tue quattro cantine tremolanti di vino.

Oh palpitante argento di pesce liscio e puro,
croce verde, prezzemolo dell'ombra radiante,
lucciola all'unità del cielo condannata,

riposa in me, chiudiamo i nostri occhi.
Per un minuto dormi con la notte dell'uomo.
Accendi in me i tuoi quattro numeri costellati.

LXXXVII

I tre uccelli del mare, tre fulmini, tre forbici,
passarono pel cielo freddo verso Antofagasta,
per questo restò tremante l'aria,
tutto tremò come bandiera ferita.

Solitudine, dammi il segno della tua origine incessante,
l'appena strada degli uccelli crudeli,
e il palpito che senza dubbio precede
il miele, la musica, il mare, la nascita.

(Solitudine sostenuta da un volto costante
come un grave fiore disteso senza sosta
fino a comprendere la pura moltitudine del cielo).

Volavano ali fredde del mare, dell'Arcipelago,
verso l'arena del Nordovest del Cile.
E la notte chiuse il suo celeste chiavistello.

LXXXVIII

II mese di Marzo torna con la sua luce nascosta
e scivolano pesci immensi pel cielo,
vago vapore terrestre progredisce cauto,
a una a una cadono nel silenzio le cose.

Per fortuna in questa crisi d'atmosfera errabonda
riunisti le vite del mare con quelle del fuoco,
il movimento grigio della nave d'inverno,
la forma che l'amore impresse alla chitarra.

Oh amore, rosa bagnata da sirene e spume,
fuoco che danza e sale l'invisibile scala
e sveglia nella galleria dell'insonnia il sangue

perché si consumino l'onde nel cielo,
dimentichi il mare i suoi beni e i leoni
e cada il mondo entro le reti oscure.

LXXXIX

Quando morrò voglio le tue mani sui miei occhi:
voglio che la luce e il frumento delle tue mani amate
passino una volta ancora su di me la loro freschezza:
sentire la soavità che cambiò il mio destino.

Voglio che tu viva mentr'io, addormentato, t'attendo,
voglio che le tue orecchie continuino a udire il vento,
che fiuti l'aroma del mare che amammo uniti
e che continui a calpestare l'arena che calpestammo.

Voglio che ciò che amo continui a esser vivo
e te amai e cantai sopra tutte le cose,
per questo continua a fiorire, fiorita,

perché raggiunga tutto ciò che il mio amore ti ordina,
perché la mia ombra passeggi per la tua chioma,
perché così conoscano la ragione del mio canto.

XC

Pensai di morire, sentii dappresso il freddo,
e di quanto io vissi solo te lasciavo:
la tua bocca era il mio giorno e la mia notte terrestri
e la tua pelle la repubblica fondata dai miei baci.

In quell'istante finirono i libri,
l'amicizia, i tesori accumulati senza tregua,
la casa trasparente che tu e io costruimmo:
tutto cessò d'esistere, meno i tuoi occhi.

Perché l'amore, mentre la vita c'incalza,
è semplicemente un'onda alta sulle onde,
ma ahi quando la morte viene a bussare alla porta

solo c'è il tuo sguardo per tanto vuoto,
solo la tua chiarità per non continuare a esistere,
solo il tuo amore per chiudere l'ombra.

XCI

L'età ci copre come una pioggerella,
interminabile e arido è il tempo,
una penna di sale tocca il tuo volto,
una gocciolatura rose il mio vestito:

il tempo non distingue tra le mie mani
o un volo d'arance nelle tue:
punge con neve e con zappa la vita:
la vita tua ch'è la vita mia.

La vita mia che ti diedi s'empie
d'anni, come il volume d'un grappolo.
Ritorneranno l'uve alla terra.

Anche laggiù continua il tempo a esistere,
ad attendere, a piovere sulla polvere,
avido di cancellare fin l'assenza.

XCII

Amor mio, se muoio e tu non muori,
amor mio, se muori e io non muoio,
non diamo al dolor più territorio:
non v'è estensione come quella che viviamo.

Polvere nel frumento, arena nelle arene
il tempo, l'acqua errante, il vento vago
ci portò come grano navigante.
Potuto avremmo non trovarci nel tempo.

Questa prateria in cui noi ci trovammo,
oh piccolo infinito!, restituiamo.
Ma questo amore, amor, non è finito:

così come non ebbe nascimento
morte non ha, è come un lungo fiume,
cambia solo di terre e di labbra.

XCIII

Se un giorno il tuo petto si arresta,
se qualcosa cessa d'andar ardendo per le tue vene,
se la voce nella tua bocca esce senz'essere parola,
se le tue mani dimenticano di volare e s'addormentano.

Matilde, amore, lascia le tue labbra socchiuse
perché quell'ultimo bacio deve durare con me,
deve restare immobile per sempre sulla tua bocca
perché anche così m'accompagni nella mia morte.

Io morirò baciando la tua pazza bocca fredda,
abbracciando il grappolo perduto del tuo corpo,
cercando la luce dei tuoi occhi chiusi.

Così quando la terra riceverà il nostro abbraccio
andremo confusi in una sola morte
a vivere per sempre l'eternità di un bacio.

XCIV

Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura
che tu risvegli la furia del pallido e del freddo,
da sud a sud alza i tuoi occhi indelebili,
da sole a sole suoni la tua bocca di chitarra.

Non voglio che vacillino il tuo riso né i tuoi passi,
non voglio che muoia la mia eredità di gioia,
non bussare al mio petto, sono assente.
Vivi nella mia assenza come in una casa.

È una casa si grande l'assenza
che entrerai in essa attraverso i muri
e appenderai i quadri nell'aria.

È una casa sì trasparente l'assenza
che senza vita io ti vedrò vivere
e se soffri, amor mio, morirò nuovamente.

XCV

Chi s'amò come noi? Cerchiamo
le antiche ceneri del cuore bruciato
e lì cadano a uno a uno i nostri baci
finché risusciti il fiore disabitato.

Amiamo l'amore che consumò il suo frutto
e discese nella terra con volto e potere:
tu e io siamo la luce che continua,
la sua infrangibile spiga delicata.

All'amore sepolto da tanto tempo freddo,
da neve e primavera, da oblio e autunno,
avviciniamo la luce d'una nuova mela,

della freschezza aperta da una nuova ferita,
come l'amore antico che cammina in silenzio
per un'eternità di bocche sotterrate.

XCVI

Penso, quest'epoca in cui tu m'amasti
se n'andrà da un'altra azzurra sostituita,
sarà altra pelle sulle stesse ossa,
altri occhi vedran la primavera.

Nessuno di quelli che legarono quest'ora,
di quelli che conversarono col fumo,
governi, trafficanti, passanti,
continuerà a muoversi nei suoi fili.

Se n'andranno i crudeli dèi con occhiali,
i pelosi carnivori con libro,
le grosse pulci e i pipipasseyros.

E quando sarà appena lavato il mondo
nasceranno altri occhi nell'acqua
e crescerà senza lacrime il frumento.

XCVIII

Occorre volare in questo tempo, dove?
Senz'ali, senz'aereo, volare indubbiamente:
ormai i passi passarono senza rimedio,
non elevarono i piedi del viandante.

Occorre volare a ogni istante come
le aquile, le mosche e i giorni,
occorre vincere gli occhi di Saturno
e stabilire lì nuove campane.

Ormai non bastan più scarpe né strade,
ormai non serve la terra agli erranti,
ormai attraversaron la notte le radici,

e tu apparirai in altra stella
determinatamente transitoria,
trasformata alla fine in un papavero.

XCVIII

Questa parola, questa carta scritta
dalle mille mani d'una sola mano,
non resta in te, non serve per i sogni,
cade nella terra: lì continua.

Non importa che la luce o la lode
si versino ed escano dalla coppa
se furono tenace tremito del vino,
se si tinse la tua bocca d'amaranto.

Non vuoi più la sillaba tardiva,
ciò che getta e ritira la scogliera
dei miei ricordi, l'irritata schiuma,

non vuole che scrivere il tuo nome.
E benché il mio cupo amore lo taccia
Più tardi lo dirà la primavera.

XCIX

Altri giorni verranno, sarà inteso
il silenzio di piante e di pianeti
e quante cose pure accadranno!
Avranno odor di luna i violini!

Il pane sarà forse come tu sei:
avrà la tua voce, la condizione di grano,
e altre cose con la tua voce parleranno:
i cavalli perduti dell'autunno.

Anche se non sarà com'è disposto
l'amore empirà grandi barili
come l'antico miele dei pastori,

e tu nella polvere del mio cuore
(ove saranno immensi magazzini)
andrai e tornerai tra le angurie.

C

In mezzo alla terra scosterò
gli smeraldi per scorgerti
e tu starai copiando le spighe
con una penna d'acqua messaggera.

Che mondo! Che profondo prezzemolo!
Che nave navigante nella dolcezza!
E tu forse e io forse topazio!
Più non sarà divisione nelle campane.

Più non sarà che tutta l'aria libera,
le mele portate dal vento,
il succulento libro sulla pergola,

e lì dove respirano i garofani
fonderemo un vestito che resista
l’eternità di un bacio vittorioso.


Note - Cento sonetti d'amore

LI
Chillaneja: nativa di Chillan.

LIX
G.M.: Gabriela Mistral (1889-1957), poetessa cilena. Premio Nobel per la letteratura nel 1945.

LXXVI ;
Diego Rivera: pittore messicano, noto per i grandiosi affreschi che iniziarono una nuova fiorituta della pittura in America.

XCVI
pipipasseyros: allusione spregiativa a Ricardo Paseyro, poeta uruguaiano, denigratore sistematico di Neruda.


Torna ai contenuti