- 1954 - Odi elementari
1954
- ODI ELEMENTARI
L'uomo invisibile
Io rido,
sorrido
dei vecchi
poeti,
io adoro tutta
la poesia
scritta,
tutta la
rugiada,
luna, diamante,
goccia,
d'argento
sommersa
che fu mio
antico fratello,
e l'aggiungo
alla rosa,
ma
sorrido,
dicono sempre «
io »,
ad ogni passo
accade loro
qualcosa,
è sempre « io
»,
per le strade
solo essi
camminano
o la bella che
amano,
nessun altro,
non passano
pescatori,
né librai,
né muratori,
nessuno cade
da
un'impalcatura,
nessuno soffre,
nessuno ama,
soltanto il mio
povero fratello,
il poeta,
a lui accadono
tutte le cose
e alla sua
dolce amata,
nessuno vive,
tranne lui
solo,
nessuno piange
di fame
o d'ira,
nessuno soffre
nei suoi versi
perché non può
pagare
l'affitto,
nessuno, in
poesia,
è gettato sulla
strada
con letti e
sedie,
e nemmeno nelle
fabbriche
accade nulla,
non succede
nulla:
si fabbricano
ombrelli, bicchieri,
armi,
locomotive,
si estraggono
minerali
grattando
l'inferno,
c'è sciopero,
vengono
soldati,
sparano,
sparano contro
il popolo,
cioè
contro la poesia,
e mio fratello,
il poeta
era innamorato,
o soffriva
perché i suoi
sentimenti
sono marini,
ama i porti
remoti, per i
loro nomi,
e scrive su
oceani
che non
conosce,
vicino alla
vita, piena
di grani, come
il mais,
passa senza
saperla
sgranare,
e sale e scende
senza toccare
la terra,
o a volte
si sente
profondissimo
e tenebroso,
egli è così
grande
che non sta in
sé stesso,
s'imbrogia e si
sbrogia,
si dichiara
maledetto,
porta con gran
difficoltà la croce
delle tenebre,
pensa di essere
diverso
da tutto il mondo,
tutti i giorni
mangia pane
ma non ha visto
mai
un panettiere
né è mai
entrato in una associazione
di
panificatori,
e così il mio
povero fratello
diventa cupo,
si torce e si
contorce
e si trova
interessante,
interessante,
questa è la
parola:
io non sono
superiore
a mio fratello
ma sorrido,
perché vado per
le strade,
e io solo non
esisto,
la vita scorre
come tutti i
fiumi,
io sono l'unico
invisibile,
non ci sono
ombre misteriose,
non vi sono
tenebre,
tutti mi
parlano,
mi vogliono
raccontare cose,
mi parlano dei
loro parenti,
delle loro
miserie
e delle loro
gioie,
tutti passano e
tutti
mi dicono
qualcosa,
e quante cose
fanno!
tagliano legna,
tendono fili
elettrici,
impastano fino
a notte tarda
il pane di ogni
giorno,
con una lancia
di ferro
perforano le viscere
della terra
e trasformano
il ferro
in serrature,
salgono al
cielo e portano
lettere,
singhiozzi, baci,
ad ogni porta
c'è qualcuno,
nasce qualcuno,
o mi aspetta
colei che amo,
e io passo e le
cose
mi chiedono di
essere cantate.
Ma io non ho
tempo,
devo pensare a
tutto,
devo tornare a
casa,
andare al
Partito,
che posso fare,
tutto mi chiede
di parlare,
tutto mi chiede
di cantare e
cantare sempre,
tutto è pieno
di sogni e di suoni,
la vita è una
cassa
piena di canti,
si apre
e vola e viene
uno stormo
di uccelli
che vogliono
raccontarmi qualcosa
riposando sulle
mie spalle,
la vita è una
lotta,
simile a un
fiume che avanza,
e gli uomini
vogliono dirmi,
dirti,
perché lottano,
se muoiono,
perché muoiono,
ed io passo e
non ho
tempo per tante
vite,
io voglio
che tutti
vivano
nella mia vita
e cantino nel
mio canto:
io non conto
né ho tempo
per i miei
affari,
di notte e di
giorno
devo annotare
ciò che accade,
e non
dimenticare nessuno.
È vero che d'un
tratto
mi stanco
e guardo le
stelle,
mi stendo
sull'erba, passa
un insetto
color di violino,
pongo il
braccio
su un piccolo
seno
o sotto la
cinta
della dolce che
amo,
e guardo il
velluto
duro
della notte che
trema
con le sue
costellazioni congelate,
allora
sento salire
alla mia anima
l'onda dei
misteri,
l'infanzia,
il pianto negli
angoli,
l'adolescenza
triste,
e mi vien
sonno,
e dormo
come un melo,
piombo nel
sonno
immediatamente
con le stelle o
senza le stelle,
con il mio
amore o senza di lei,
e quando mi
sveglio
la notte se n'è
andata,
la strada s'è
risvegliata prima di me,
vanno al lavoro
le ragazze
povere,
i pescatori
tornano
dall'oceano,
i minatori
con le scarpe
nuove
stanno entrando
alla miniera,
tutto vive,
tutti passano,
camminano
frettolosi,
e io ho appena
il tempo
di vestirmi,
devo correre:
nessuno può
passare senza
che io sappia,
dove va, che
cosa
gli è successo.
Non posso
senza la vita
vivere,
senza l'uomo
essere uomo,
e corro e vedo
e odo
e canto,
le stelle non
hanno
nulla a che
vedere con me,
la solitudine
non ha
né fiore né
frutto.
Datemi, per la
mia vita,
tutte le vite,
datemi tutto il
dolore
di tutti,
lo trasformerò
in speranza.
Datemi
tutte le gioie,
anche le più
segrete,
perché se così
non fosse,
come si
saprebbero?
Io devo
raccontarle;
datemi
la lotta
di ogni giorno
perché quelle
gioie sono il mio canto,
e così
cammineremo insieme,
gomito a
gomito;
tutti gli
uomini,
il mio canto
riunisce:
il canto
dell'uomo invisibile
che canta con
tutti gli uomini.
Ode all’aria
Camminando per
un cammino
incontrai
l'aria,
la salutai e le
dissi
con rispetto:
« Mi rallegro
che per una
volta
lasci la tua
trasparenza,
così parleremo
».
Essa,
instancabile,
ballò, mosse le
foglie,
scosse con il
suo riso
la polvere
dalle mie suole
e, alzando
tutta
la sua azzurra
alberatura,
il suo
scheletro di vetro,
le sue palpebre
di brezza,
immobile come
un palo
si fermò ad
ascoltarmi.
Le baciai la
cappa
di regina del
cielo,
mi avvolsi
nella sua bandiera
di seta
celestiale
e le dissi:
regina o
compagna,
filo, corolla o
uccello,
non so chi sei,
ma
una cosa ti
chiedo,
non venderti.
L'acqua si
vendette
e dalle
tubature
nel deserto
ho visto
esaurirsi le
gocce,
e il mondo
povero, il popolo ho visto
camminare con
la sua sete
barcollando
sulla sabbia.
Ho visto la
luce della notte
razionata,
la gran luce
nella casa
dei ricchi.
Tutto è aurora
nei
nuovi giardini
sospesi,
tutto è
oscurità
nella terribile
ombra del
vicolo.
Da lì la notte,
madre matrigna,
esce
con un pugnale
in mezzo
ai suoi occhi
di gufo,
e un grido, un
assassinio
si levano e si
smorzano
inghiottiti
dall'ombra.
No, aria,
non venderti,
che non ti
canalizzino,
che non
t'imprigionino in tubi
e in serbatoi
né ti
comprimano,
che non ti
riducano in tavolette,
che non ti
mettano in bottiglie,
sta' attenta!
chiamami,
quando hai
bisogno di me,
io sono il
poeta figlio
di poveri,
padre, zio,
cugino,
fratello carnale
e fratello del
cognato
dei poveri, di
tutti,
della mia
patria e della patria degli altri,
dei poveri che
vivono vicino al fiume,
e di quelli che
sulla sommità
della
cordigliera verticale
triturano la
pietra
inchiodano
tavole,
cuciono vesti,
tagliano legna,
macinano terra,
e per questo
voglio che
respirino,
tu sei l'unica
cosa che possiedono,
per questo sei
trasparente,
perché vedano
ciò che accadrà
domani,
per questo
esisti,
aria,
lasciati
respirare liberamente,
non farti
imprigionare,
non fidarti di
quelli che
vengono in
automobile
ad esaminarti,
lasciali
perdere,
ridi di loro,
fa' volar via
il loro cappello,
non accettare
le loro
proposte,
andiamo insieme
a ballare per
il mondo,
a far cadere i
fiori
del melo,
a penetrare
nelle finestre,
a fischiare
insieme,
a fischiare
melodie
di ieri e di
domani!
verrà un giorno
in cui
libereremo
la luce e
l'acqua,
la terra,
l'uomo,
e tutto sarà
per tutti,
come tu sei.
Per questo,
ora,
fa' attenzione!
e vieni con me,
ci rimane molto
da ballare e
cantare,
andiamo
nel mare
aperto,
nell'alto dei
monti,
andiamo
dove sta per
fiorire
la nuova
primavera
e con un colpo
di vento
ed un canto
ripartiamo i
fiori,
l'aroma, i
frutti,
l'aria
di domani.
Ode al
carciofo
II carciofo
dal tenero
cuore
si vestì di
guerriero,
eretto, costruì
una piccola
cupola,
si mantenne
impermeabile
sotto
le sue brattee,
al suo lato
i pazzi
vegetali
si
incresparono,
diventarono
viticci,
biondi,
bulbi
commoventi,
nel sottosuolo
dormì la carota
dai baffi
rossi,
la vigna
inaridì i
sarmenti
da dove sale il
vino,
il cavolo
si mise
a indossare
gonne,
l'origano
a profumare il
mondo,
e il dolce
carciofo,
là nell'orto,
vestito da
guerriero,
lucido
come una
melagrana,
orgoglioso,
e un giorno
l'un con
l'altro
in grandi cesti
di vimini, andò
per il mercato
a realizzare il
suo sogno
militaresco.
In fila
mai fu tanto
marziale
come al
mercato,
gli uomini
fra i legumi
con le loro
camicie bianche
erano
marescialli
dei carciofi,
le fila
serrate,
le voci
autoritarie
e il fracasso
di una cassa
che cade,
ma
in quella
si fa avanti
Maria
con il suo
cesto,
sceglie
un carciofo,
non lo teme,
l'esamina,
l'osserva
contro luce
come se fosse un uovo,
lo compra,
lo confonde
nella borsa
dove sono anche
un paio di scarpe,
un cavolo
cappuccio e una
bottiglia
d'aceto,
finché,
entrata in
cucina,
l'immerge nella
pentola.
Così termina
in pace
la carriera
del vegetale
armato
che si chiama
carciofo,
poi
brattea dopo
brattea
spogliamo
la delizia
e mangiamo
la pacifica
pasta
del suo cuore
verde.
Ode all'allegria
Allegria,
foglia verde
caduta sulla
finestra,
minuscola
chiarità
appena nata,
elefante sonoro
abbagliante
moneta,
a volte
fragile
raffica,
o
piuttosto
pane
permanente,
speranza
compiuta,
dovere svolto.
Ti disdegnai,
allegria.
Fui mal
consigliato.
La luna
mi portò per i
suoi cammini.
Gli antichi
poeti
mi prestarono
occhiali
e posi
vicino ad ogni
cosa
un nimbo
oscuro,
sul fiore una
corona nera,
sulla bocca
amata
un triste
bacio.
È ancora
presto.
Lascia che mi
penta.
Pensai che
solamente
se il mio cuore
avesse bruciato
il rovo del
tormento,
se la pioggia
avesse bagnato
il mio vestito
nella regione
violacea del lutto,
se avessi
chiuso
gli occhi alla
rosa
e toccato la
ferita,
se avessi
diviso tutti i dolori,
avrei aiutato
gli uomini.
Non fui giusto.
Sbagliai i miei
passi
ed oggi ti
chiamo, allegria.
Come la terra
sei
necessaria.
Come il fuoco
sostieni
i focolari.
Come il pane
sei pura.
Come l'acqua
d'un fiume
sei sonora.
Come un'ape
distribuisci
miele volando.
Allegria,
fui un giovane
taciturno,
credetti che la
tua chioma
fosse
scandalosa.
Non era vero,
me ne resi conto
quando sul mio
petto
essa si sciolse
in cascata.
Oggi, allegria,
incontrata per
strada,
lontano da ogni
libro,
accompagnami:
con te
voglio andare
di casa in casa,
voglio andare
di gente in gente,
di bandiera in
bandiera.
Tu non sei
solamente per me.
Andremo sulle
isole,
sui mari.
Andremo nelle
miniere,
nei boschi.
E non soltanto
boscaioli solitari,
povere
lavandaie
o eretti,
augusti
tagliapietre,
mi riceveranno
con i tuoi grappoli,
ma i
congregati,
i riuniti,
i sindacati del
mare o del legno,
i valorosi
ragazzi
nella loro
lotta.
Con te per il
mondo!
Con il mio
canto!
Con il volo
socchiuso
della stella,
e con la gioia
della spuma!
Io sono
debitore verso tutti
perché devo
a tutti la mia
allegria.
Nessuno si sorprenda
perché voglio
consegnare agli
uomini
i doni della
terra
perché appresi
lottando
che è mio
terrestre dovere
propagare
l'allegria.
E con il mio
canto io compio il mio destino.
Ode alle Americhe
Americhe
purissime,
terre che gli
oceani
custodirono
intatte e
purpuree,
secoli di
apiari silenziosi,
piramidi,
anfore,
fiumi di
insanguinate farfalle,
vulcani gialli,
e razze di
silenzio,
formatrici di
brocche,
lavoratrici
della pietra.
E oggi,
Paraguay, turchese
fluviale, rosa
interrata,
ti convertisti
in carcere.
Perù, petto del
mondo,
corona
delle aquile,
esisti ancora?
Venezuela,
Colombia,
non si odono
le vostre
bocche felici.
Dov'è andato il
coro
d'argento
mattutino?
solo gli
uccelli
di antica
vestitura,
solo le
cateratte
mantengono il
diadema.
II carcere ha
esteso
le sue sbarre.
Nell'umido
regno
del fuoco e
dello smeraldo,
fra
i fiumi
paterni,
ogni giorno
sale un
prepotente e con la sua corta sciabola
ipoteca ed
esaurisce il tuo tesoro.
Si apre la
caccia
del fratello.
Risuonano spari
perduti nei porti.
Dalla
Pennsylvania arrivano
gli esperti,
i nuovi
conquistatori,
mentre
il nostro
sangue
alimenta
le putride
piantagioni e
le miniere sotterranee,
i dollari
scorrono
e
le nostre pazze
ragazze
si slombano per
imparare il ballo
degli oranghi.
Americhe purissime,
sacri
territori,
che tristezza!
muore un
Machado e nasce un Batista.
Un Trujillo
resta.
Tanto spazio
di libertà
silvestre,
Americhe,
tanta
purezza, acqua
di oceano,
pampas di
solitudine, vertiginosa
geografia
perché si
propaghino i minuscoli
negozianti del
sangue.
Che succede?
Come può
continuare il
silenzio
interrotto
da sanguinari
pappagalli
appollaiati sui
rami
della cupidigia
panamericana?
Americhe ferite
dall'amplissima
spuma,
dai felici mari
odorosi
di pepe degli
arcipelaghi,
Americhe
oscure,
inclinata
verso di noi
sorge
la stella dei
popoli,
nascono eroi,
si coprono
di vittoria
altri cammini,
risorgono
vecchie
nazioni,
nella luce più
radiosa
ha termine
l'autunno,
il vento
rabbrividisce
con le nuove
bandiere.
Che la tua voce
e i tuoi atti,
America
si stacchino
dalla tua verde
cintura,
che il tuo
amore incarcerato
finisca!
restaura il
decoro
che ti diede il
natale
e innalza le
tue spighe sostenendo
con altri
popoli
l'irresistibile
aurora.
Ode all'amore
Amore, facciamo
i conti.
Alla mia età
non è possibile
ingannare o
ingannarci.
Fui ladro di
cammini,
forse,
e non mi pento.
Un minuto
profondo,
una magnolia
spezzata
dai miei denti
e la luce della
luna
celestina.
Molto bene, ma
qual è il bilancio?
La solitudine
mantenne
la sua rete
tessuta
di freddi
gelsomini
e allora
colei che
giunse nelle mie braccia
fu la regina
rosata
delle isole.
Amore,
una sola
goccia,
quand'anche
cadesse
durante tutta e
tutta
la notturna
primavera,
non forma un
oceano,
e rimasi nudo,
solitario, in
attesa.
Ma ecco che
colei
che passò per
le mie braccia
come un'onda,
colei
che soltanto fu
un sapore
di frutta
vespertina,
palpebrò come
stella,
arse come
colomba
e la incontrai
sulla mia pelle
sciogliendosi
come la chioma
di una fiammata.
Amore, da quel
giorno
tutto fu più
semplice.
Obbedii agli
ordini
che il mio
cuore dimenticato mi dava
e strinsi la
sua vita
e reclamai la
sua bocca
con tutto il
potere
dei miei baci,
come un re che
sconfigge
con un esercito
disperato
una piccola
torre dove cresce
il giglio
selvaggio della sua infanzia.
Per questo,
Amore, io credo
che duro e
intricato
potrà essere il
tuo cammino,
ma tu
ritornerai
dalla tua
caccia,
e quando
accenderai
di nuovo il
fuoco,
come il pane
sulla tavola,
così, con
semplicità,
dovrà essere
ciò che amiamo.
Amore, questo
mi dicesti.
Quando per la
prima volta
ella giunse
nelle mie braccia
passò come
l'acqua
in una
precipitosa primavera.
Oggi
la raccolgo.
Sono anguste le
mie mani e piccole
le conche dei
miei occhi
perché possano
accogliere
il suo tesoro,
la cascata
di luce interminabile,
il filo d'oro,
il pane della
sua fragranza
che sono
semplicemente, Amore, la mia vita.
Ode all'atomo
Piccolissima
stella,
sembravi
per sempre
interrata,
nel metallo,
occulto,
il tuo
diabolico
fuoco.
Un giorno
bussarono
alla porta
minuscola:
era l'uomo.
Con una
scarica
ti liberarono
dalle catene,
vedesti il
mondo,
uscisti
di giorno,
percorresti
città,
il tuo grande
fulgore arrivava
ad illuminare
la vita,
eri
un frutto
terribile,
di elettrica
bellezza,
venivi
ad affrettare
le fiamme
dell'estate,
ed allora
arrivò
munito
di occhiali di
tigre
e di armatura,
con una camicia
quadrata,
baffi sulfurei,
coda di
porcospino,
arrivò il
guerriero
e ti sedusse:
dormi,
ti disse,
accartocciati,
atomo,
assomigli
a un dio greco,
ad una
primaverile
modista di Parigi,
coricati
sulla mia
unghia,
entra in questa
scatoletta,
e allora
il guerriero
ti custodì nel
suo gilè
come se fossi
soltanto
una pillola
nord-americana,
e viaggiò per
il mondo
lasciandoti
cadere
su Hiroshima.
Ci svegliammo.
L'aurora
s'era
consumata.
Tutti gli
uccelli
erano caduti
calcinati.
Un odore
di bara,
gas di tombe,
tuonò per gli
spazi.
Salì orrenda
la forma del
castigo
sovrumano,
fungo
insanguinato, cupola,
fumata,
spada
dell'inferno.
Salì bruciante
l'aria
e la morte si
sparse
in onde
parallele,
raggiungendo
la madre
addormentata
con il suo
bambino,
il pescatore
del fiume
e i pesci,
la panetteria
e i pani,
l'ingegnere
e i suoi
edifici,
tutto
fu polvere
che mordeva,
aria
assassina.
La città
sgretolò i suoi
ultimi alveoli,
cadde, cadde
improvvisamente,
abbattuta,
imputridita,
gli uomini
furono
improvvisi lebbrosi,
prendevano
la mano dei
loro figli
e la piccola
mano
restava nelle
loro mani.
Così, dal tuo
rifugio,
dal segreto
manto di pietra
in cui il fuoco
dormiva
ti tolsero,
scintilla
accecante,
luce rabbiosa,
per distruggere
la vita,
per
perseguitare lontane esistenze,
sotto il mare,
nell'aria,
sulle spiagge,
nelle anse più
remote
dei porti,
per cancellare
i semi,
per assassinare
i germi,
per impedire la
corolla,
ti destinarono,
atomo,
a radere al
suolo
le nazioni,
a convenire
l'amore in nera pustola,
a bruciare
cuori ammucchiati
e annichilire
il sangue.
Oh, pazza
scintilla,
ritorna
nella tua veste
mortuaria,
interrati
nei tuoi manti
minerali,
torna ad essere
cieca pietra,
non ascoltare i
banditi,
collabora,
tu, con la
vita, con l'agricoltura,
soppianta i
motori,
eleva
l'energia,
feconda i
pianeti.
Non hai più
segreto,
cammina
fra gli uomini
senza maschera
terribile,
affrettando il
passo
ed estendendo
i passi dei
frutti,
separando
montagne,
indirizzando
fiumi,
fecondando,
atomo,
traboccante
coppa
cosmica,
ritorna
alla pace del
grappolo,
alla velocità
dell'allegria,
ritorna al
recinto
della natura,
mettiti al
nostro servizio,
ed invece delle
ceneri
mortali
della tua
maschera,
invece degli
inferni scatenati
della tua
collera,
invece della
minaccia
della tua
terribile chiarità, consegnaci
la tua
sorprendente
forza
per i cereali,
il tuo
scatenato magnetismo
per fondare la
pace fra gli uomini,
e così non sarà
inferno
la tua
illuminante luce,
ma felicità,
mattutina
speranza,
contributo
terrestre.
Ode agli uccelli del Cile
Uccelli del
Cile, dalle piume nere,
nati
fra la
cordigliera e le spume,
uccelli
affamati,
uccelli
ombrosi,
gheppi,
falconi,
aquile delle
isole,
condori
coronati di neve
pomposi avvoltoi
neri,
divoratori di
carogne,
dittatori del
cielo,
uccelli amari,
cercatori di
sangue,
nutriti di
serpenti,
ladri,
stregoni della
montagna,
sanguinarie
maestà,
ammiro
il vostro volo.
A lungo
interrogo
lo spazio
esteso
cercando il
movimento
delle ali:
lì siete
nere navi
di terrificante
altezza,
silenziose
stirpi
assassine,
stelle
sanguinarie.
Sulla costa
la spuma sale
all'ala.
Acida luce
spruzza
il volo
degli uccelli
marini,
sfiorando
l'acqua incrociano
i migratori,
chiudono
improvvisamente
il volo
e cadono come
frecce
sul volume
verde.
Navigai senza
tregua
le rive,
lo sdentato
litorale, la strada
fra le isole
dell'oceano,
il grande mare
Pacifico,
rosaio azzurro
dai petali rabbiosi,
e nel Golfo di
Penas
il cielo
e l'albatro,
la solitudine
dell'aria e la sua misura,
l'onda nera del
cielo.
Più in là,
scosso
dalle onde e
dalle ali,
cormorani,
gabbiani e piqueros,
l'oceano vola,
i dirupati
scogli colpiti
dal mare si muovono
palpitanti di
uccelli,
la luce
trabocca, aumenta,
attraversa i
mari verso nord
il volo della
vita.
Ma non soltanto
i mari
o tempestose
cordigliere
andine
procreatrici
di terribili
uccelli,
tu sei,
oh delicata
patria mia:
fra le tue
verdi braccia
scivolano i
fringillidi mattutini,
vanno a messa
vestiti di
manti minuti,
tordi
cerimoniali
e metallici
pappagalli,
il minuscolo
sette colori
dei campi di stoppie,
il queltehue
che nel
prendere il volo
spiega il suo
ventaglio
di neve bianca
e nera,
il canastero
e il matacaballo,
il fringilo
dorato,
l’acamar
e l’huilque,
la palomba,
il chincol
e il chirigue,
la tinca
cristallina,
il tordo mite,
il cardellino
che danza sul filo
della musica
pura,
il cigno
australe, nave
d'argento
e nero velluto,
la pernice
odorosa ed il lampo
dei
fosforescenti colibrì.
Nel grato cuore
della mia patria,
fra le iraconde
monarchie
del vulcano e
dell'oceano,
uccelli della
dolcezza,
voi toccate il
sole, l'aria,
voi siete il
tremito di un volo nell'estate
dell'acqua a
mezzogiorno,
raggi di luce
violetta nell'albereto,
campanule
rotonde,
piccoli
aviatori polverosi
che ritornano
dal polline,
palombari nella
spessezza dell'erba medica.
Oh vivo volo!
Oh vivente
bellezza!
Oh varietà di
trilli!
Uccelli del
Cile, carnivore
navi di uragano
o dolci e
piccole
creature
del fiore e
delle uve,
i vostri nidi
edificano
la fragrante
unità del territorio:
le vostre vite
erranti
sono il popolo
del cielo
che ci canta,
il vostro volo
riunisce le
stelle della patria.
Ode alla minestra di congro
Nel mare
burrascoso
del Cile
vive il roseo
congro,
gigante
anguilla
di carne nivea.
Nelle pentole
cilene,
sulla costa,
nacque la
minestra
ricca e
succulenta,
molto
nutriente.
Portino in
cucina
il congro
scorticato,
la sua pelle
macchiata cede
come un guanto
e allo scoperto
rimane
allora
il grappolo del
mare,
il congro
tenero
risplende
ormai nudo,
preparato
per il nostro
appetito.
Ora
aggiungi
l'aglio,
accarezza per
primo
questo avorio
prezioso,
annusa
la sua
fragranza iraconda,
quindi
lascia l'aglio
tritato
rosolare con la
cipolla
e il pomodoro
fin quando la
cipolla
avrà il colore
dell'oro.
Frattanto
si cuociono
al vapore
i regi
gamberi marini,
e quando
finalmente saranno
a puntino,
quando il
sapore sarà coagulato
nella salsa
formata dal
sugo
dell'oceano
e dall'acqua
chiara
che spense la
lucentezza della cipolla,
allora
entri il congro
e si sommerga
completamente
affinché nella
pentola
si inoli,
si contragga e
si impregni.
Ormai non resta
che
lasciar cadere
nella pietanza
la crema
densa come una
rosa,
e al fuoco,
lentamente,
consegnare il
tesoro
fino a che
nella minestra
si riscaldino
le essenze del
Cile
e arrivino in
tavola,
appena sposati,
i sapori
del mare e
della terra,
perché in
questo piatto
tu conosca il
cielo.
Ode a una castagna in terra
Dal fogliame
eretto
cadesti
completa,
di legno
lucidato,
di splendido
mogano,
veloce
come un violino
appena nato
sull'altura,
e cade
offrendo i suoi
doni rinchiusi,
la sua nascosta
dolcezza,
finendo
segretamente
fra uccelli e
foglie,
scuola della
forma,
lignaggio della
legna e della farina,
strumento ovato
che custodisce
nella sua struttura
delizia intatta
e rosa commestibile.
In alto
abbandonasti
l'irto riccio
che socchiuse
le sue spine
alla luce del
castagno,
da questa
fenditura
vedesti il
mondo,
uccelli
pieni di
sillabe,
la rugiada
con le stelle,
e, sotto,
teste di
ragazzi
e ragazze,
erbe che
tremano senza riposo,
fumo che sale e
sale.
Ti decidesti,
castagna,
e saltasti a
terra,
brunita e
pronta,
dura e dolce
come un piccolo
seno
delle isole
d'America.
Cadesti
picchiando
sul suolo
ma
non accadde
nulla,
l'erba
continuò a
tremare, il vecchio
castagno
sussurrò come le bocche
di tutto un
albereto,
cadde una
foglia dell'autunno rosso,
fermamente
continuarono a lavorare
le ore sulla
terra.
Perché sei
soltanto
un seme,
castagno,
autunno, terra,
acqua, altura,
silenzio
prepararono il
germe,
il farinoso
spessore,
le palpebre
materne
che, interrati,
apriranno
nuovamente
verso l'alto
la semplice
magnificenza
di un fogliame,
l'oscura trama
umida
di nuove
radici,
le antiche e
nuove dimensioni
di un altro
castagno sulla terra.
Ode alla cipolla
Cipolla,
luminoso
matraccio,
petalo a petalo
si formò la tua
bellezza,
squame di
cristallo ti ingrandirono
e nel segreto
della terra scura
si arrotondò il
tuo ventre di rugiada.
Sotto la terra
fu il miracolo
e quando
apparve
il tuo pigro
germoglio verde,
e nacquero
le tue foglie
come spade nell'orto,
la terra
accumulò il suo potere
mostrando la
tua nuda trasparenza,
e come in
Afrodite il mar remoto
duplicò la
magnolia
innalzandone i
seni,
la terra
così ti fece,
cipolla,
chiara come un
pianeta,
e destinata
a brillare,
costellazione
costante,
rotonda rosa
d'acqua,
sulla
tavola
della povera
gente.
Generosa
distruggi
il tuo globo di
freschezza
nella
consumazione
fervente della
pentola,
e il frammento
di cristallo
al calore
acceso dell'olio
si trasforma in
arricciata piuma d'oro.
Ricorderò ancora
come la tua influenza
feconda l'amore
dell'insalata,
e sembra che il
cielo contribuisca,
dandoti fine
forma di grandine,
a celebrare il
tuo chiarore tritato
sugli emisferi
di un pomodoro.
Ma alla portata
delle mani
della gente,
innaffiata
d'olio,
spolverata
con un po' di
sale,
uccidi la fame
del bracciante
nel duro cammino.
Stella dei
poveri,
fata
protettrice
avvolta
in delicata
carta, esci
dalla terra,
eterna,
intatta, pura
come seme
d'astro,
e nel tagliarti
il coltello in
cucina
spunta l'unica
lacrima
non nata da
pena.
Ci facesti
piangere senza affliggerci.
Quanto esiste
io cantai, cipolla,
ma per me sei
più bella di un
uccello
dalle piume
accecanti,
sei per i miei
occhi
globo celeste,
coppa di platino,
ballo immobile
dell'anemone
niveo
e vive la
fragranza della terra
nella tua
natura cristallina.
Ode alla chiarezza
La tempesta
lasciò
sull'erba
fili di pino,
aghi,
e il sole sulla
coda del vento.
Un azzurro
diretto
riempie il
mondo.
Oh giorno
pieno,
oh frutto
dello spazio,
il mio corpo è
una coppa
in cui la luce
e l'aria
cadono come
cascate.
Tocco
l'acqua marina.
Sapore
di fuoco verde,
di bacio ampio
e amaro
hanno le nuove
onde
di questo
giorno.
Tessono la
trama d'oro
le cicale
sulla altura
sonora.
La bocca della
vita
bacia la mia
bocca.
Vivo,
amo
e sono amato.
Ricevo
nel mio essere
quanto esiste.
Sono seduto
su una pietra:
in essa
toccano
le acque e le
sillabe
della selva
la cupa
chiarezza
della sorgente
che giunge
a visitarmi.
Tocco
il tronco del
cedro
le cui rughe mi
parlano
del tempo e
della terra.
Cammino
e vado con i
fiumi
cantando
con i fiumi,
ampio, fresco e
aereo
in questo nuovo
giorno
e lo ricevo,
lo sento
entrare
nel mio petto,
guardare con i miei occhi.
Io sono,
io sono il
giorno,
sono
la luce.
Per questo
ho
doveri di
mattina,
lavori di mezzogiorno.
Devo
andare
con il vento e
l'acqua,
aprire
finestre,
abbattere
porte,
rompere muri,
illuminare
angoli.
Non posso
restare seduto.
A presto.
Domani
ci vedremo.
Oggi ho molte
battaglie da
vincere.
Oggi ho molte
ombre
da colpire e da
finire.
Oggi non posso
stare con te,
devo
compiere il mio
dovere
di luce:
andare e venire
per le strade,
le case e gli
uomini
a distruggere
l'oscurità.
Devo
dividermi
finché tutto
sarà giorno,
finché tutto
sarà chiarezza
e allegria
sulla terra.
Ode ai rame
II rame è là,
addormentato.
Sono le colline
del Nord
devastato.
Dall'alto
le cime
del rame,
cicatrici
scontrose,
manti verdi,
cupole cariate
dall'impeto
cocente del
tempo,
vicino
a noi
la miniera;
la miniera è
soltanto l'uomo,
non esce
dalla terra
il minerale,
esce
dal petto
umano,
lì
si tocca
il bosco morto,
le arterie
del vulcano
trattenuto,
si ricerca
la vena,
si perfora
e
scoppia
la dinamite,
la roccia si
sparge,
viene
purificata:
nasce
il rame.
Dapprima
nessuno saprà
distinguerlo
dalla pietra
materna.
Ora
è uomo,
parte
dell'uomo,
petalo pesante
della sua
gloria.
Ora
non è più
verde,
è rosso,
si è
trasformato in sangue,
in sangue duro,
in cuore
terribile.
Vedo
cadere i monti,
aprirsi
il territorio
in iraconde
cavità grigie,
il deserto, le
case
provvisorie.
Il minerale
col fuoco
e il martello
e la mano
s'è trasformato
in lingotti militari,
in battaglioni
di merci.
Se ne andarono
le navi.
Dove arriva
il rame,
utensile o
filo,
nessuno
che lo tocchi
vedrà le
scoscese
solitudini del
Cile,
o le piccole
case sulla riva
del deserto,
o gli
spaccapietre orgogliosi,
il mio popolo,
i minatori
che scendono in
miniera.
Io soffro.
Io conosco.
Succede
che da tanta
durezza,
dagli scavi,
ferita ed
esplosione, sudore e sangue,
quando l'uomo,
il mio popolo,
Cile,
dominò la
materia,
divise dalla
pietra
il minerale
giacente,
codesto se ne
andò a Chicago
a passeggiare,
il rame
si convertì in
catene,
in macchinari
tetri
del crimine,
dopo tante
lotte
perché la mia
patria lo partorisse,
dopo la sua
gloriosa
verginale
nascita
lo fecero
aiutante della morte,
lo indurirono e
gli assegnarono
il ruolo di
assassino.
Domando
alla ripida
cordigliera,
al deserto
litorale scosso
dalla spuma
del turbolento
mare del Cile,
è per questo
che il rame
nostro
dormiva
nell'utero
verde
della pietra?
Era nato per la
morte?
All'uomo
mio,
al mio fratello
della montagna
irta,
domando:
per questo
gli desti
nascita fra patimenti?
Perché fosse
ciclone
minaccioso,
tempestosa
disgrazia?
Perché demolisse
le vite
dei poveri,
di altri
poveri,
della tua
stessa famiglia
che forse non
conosci
e che è sparsa
in tutto il
mondo?
È ora
di dare il
minerale
ai trattori,
alla fecondità
della terra
futura,
alla pace del
suono,
agli utensili,
alla macchina
limpida
e alla vita.
È ora
di dare
la scontrosa
mano aperta del
rame
ad ogni essere
umano.
Per questo,
rame,
sarai nostro,
non
continueranno a giocare
con te
ai dadi
i bari
della
carneficina!
Dalle colline
scoscese,
dall'altitudine
verde,
uscirà il rame
del Cile
il raccolto
più duro
del mio popolo,
la corolla
incendiata,
irradiando
la vita
e non la morte,
propagando la
spiga
e non il
sangue,
dando a tutti i
popoli
il nostro amore
dissotterrato,
la nostra
montagna verde
che a contatto
della vita e
del vento
si trasforma
in cuore
sanguinante,
in pietra
rossa.
Ode alla critica
Scrissi cinque
versi:
uno verde,
un altro era un
pane rotondo
il terzo una
casa in costruzione,
il quarto un
anello,
il quinto verso
era
breve come un
lampo
e nello
scriverlo
mi lasciò nella
ragione la sua bruciatura.
Ebbene, gli
uomini,
le donne,
vennero e
presero
la semplice
materia,
fibra, vento,
splendore, fango, legno,
e con così poca
cosa
costruirono
pareti, case,
sogni.
Sopra un filo
della mia poesia
asciugarono
biancheria al vento.
Mangiarono
le mie parole,
le custodirono
vicino alla
testiera del letto,
vissero con un
verso,
con la luce che
uscì dal mio fianco.
Allora,
arrivò un
critico muto
ed un altro
pieno di lingue,
e altri, altri
arrivarono
ciechi o pieni
di occhi,
eleganti alcuni
come garofani
con scarpe rosse,
altri
rigorosamente
vestiti da
cadaveri,
alcuni
partigiani
del re e della
sua alta monarchia,
altri si erano
impigliati
sulla fronte
di Marx e
sgambettavano sulla sua barba,
altri erano
inglesi,
semplicemente
inglesi,
e fra tutti
si lanciarono
con denti e
coltelli,
con dizionari
ed altre armi nere,
con citazioni
rispettabili,
si lanciarono
a disputare la
mia povera poesia
alla gente
semplice
che l'amava:
e la fecero
imbuti,
la
arrotolarono,
la fermarono
con cento spilli,
la ricoprirono
di polvere di scheletro,
la riempirono
d'inchiostro,
la sputacchiarono
con dolce
benignità di
gatti,
la destinarono
ad avvolgere orologi,
la protessero e
la condannarono,
la diedero alle
fiamme,
le dedicarono
umidi trattati,
la cucinarono
con latte,
le aggiunsero
minute pietruzze,
cancellarono le
vocali,
uccisero
sillabe e
sospiri,
la
spiegazzarono e fecero
un piccolo
pacchetto
che destinarono
diligentemente
alle loro
soffitte, ai loro cimiteri,
poi
si ritirarono
uno ad uno
infuriati fino
alla pazzia
perché non fui
abbastanza
popolare per
loro
o carichi di
bonario disprezzo
per la mia
ordinaria mancanza di tenebre
si ritirarono
tutti
e allora,
un'altra volta,
vicino alla mia
poesia
ritornarono a
vivere
donne e uomini,
nuovamente
fecero fuoco,
costruirono
case,
mangiarono
pane,
si divisero la
luce
e nell'amore
unirono
lampo ed
anello.
E ora,
perdonatemi
signori
se interrompo
questo racconto
che vi sto
raccontando
e me ne vado a
vivere
per sempre
con la gente
semplice.
Ode a Ángel Cruchaga
Ángel, ricordo
nella mia
infanzia
australe e
scossa
dalla pioggia e
dal vento,
improvvisamente,
le tue ali,
il volo
della tua
scintillante poesia,
la tunica
stellata
che riempiva la
notte, i cammini,
con un fulgore
fosforico,
eri
un palpitante
fiume
pieno di pesci,
eri
la coda
argentata
di una sirena
verde
che
attraversava il cielo
da Ovest
ad Est,
la forma della
luce
si riuniva
nelle tue ali,
ed il vento
lasciava cadere
la pioggia e le foglie nere
sulla tua
veste,
Così eri
là lontano
nella mia
infanzia,
ma la tua
poesia,
non solo
passo di molte
ali,
non solo
pietra errante,
meteora
vestita di
amaranto e di giglio,
è stata e
continua ad essere,
ma anche pianta
fiorita,
monumento
della tenerezza
umana,
fior d'arancio
con radici
nell'uomo.
Per questo
Ángel,
ti canto,
ti ho cantato
come cantai
tutte le cose pure,
metalli,
acque,
vento!
Tutto ciò che è
lezione, per le vite,
crescita
di durezza o di
dolcezza,
com'è la tua
poesia, l'infinito
pane impregnato
di pianto
della tua
passione, i nobili
legni odorosi
che le tue
divine mani elaborano.
Ángel,
tu,
proprietario
dei più estesi
campi di gelsomini,
permetti che
tuo fratello
minore lasci
sul tuo petto
questo ramo di
piogge
e radici.
Io lo lascio
nel tuo libro
perché così si
impregni
di pace, di
trasparenza e di bellezza,
vivendo nella
corolla
della tua
natura diamantina.
Ode al giorno felice
Questa volta
lasciami
essere felice,
non è successo
nulla a nessuno,
non sono in
nessun luogo,
semplicemente
sono felice
nei quattro
angoli
del cuore,
camminando,
dormendo o
scrivendo.
Che posso
farci, sono
felice,
sono più
innumerabile
dell'erba
nelle praterie,
sento la pelle
come un albero rugoso,
di sotto
l'acqua,
sopra gli
uccelli,
il mare come un
anello
intorno a me,
fatta di pane e
pietra la terra
l'aria canta
come una chitarra.
Tu al mio
fianco sulla sabbia
sei sabbia,
tu canti e sei
canto,
il mondo
è oggi la mia
anima,
canto e sabbia,
il mondo
è oggi la tua
bocca,
lasciami
sulla tua bocca
e sulla sabbia
essere felice,
essere felice
perché sì, perché respiro
e perché tu
respiri,
essere felice
perché tocco
il tuo
ginocchio
ed è come se
toccassi
la pelle
azzurra del cielo
e la sua
freschezza.
Oggi lasciatemi
da solo
essere felice,
con tutti o
senza tutti,
essere felice
con l'erba
e la sabbia,
essere felice
con l'aria e la
terra,
essere felice,
con te, con la
tua bocca,
essere felice.
Ode all'edificio
Scavando
in un posto,
scalpellando
una sporgenza,
estendendo e
levigando
sale la
fiammata costruita,
l'edificata
altura
cresciuta per
l'uomo.
Oh allegria
dell'equilibrio
e delle proporzioni.
Oh peso
utilizzato
di ruvidi
materiali,
sviluppo del
fango
nelle colonne,
splendore di
ventaglio
sulle scale.
Da quanti posti
disseminati
nella geografia
qui sotto la
luce si innalzò
l'unità
vincitrice.
La roccia
frammentò il suo potere,
si assottigliò
l'acciaio, il rame
mescolò la sua
salute con il legno
e questo,
appena arrivato dai boschi,
indurì la sua
gravida fragranza,
Cemento,
fratello oscuro,
la tua pasta li
riunisce
la tua sabbia
sparsa
stringe,
ammassa, sale
vincendo piano
dopo piano.
L'uomo
piccolino
perfora,
sale e scende.
Dov'è
l'individuo?
È un martello,
un colpo
d'acciaio
sull'acciaio,
un punto del
sistema
e la sua
ragione si somma
all'ambito che
cresce.
Dovette lasciar
cadere
i suoi piccoli
orgogli
ed innalzare
con gli uomini una cupola,
erigere fra
tutti
l'ordine
e dividere la
semplicità metallica
delle
inesorabili strutture.
Ma
tutto esce
dall'uomo.
Al suo richiamo
accorrono
pietre e si innalzano muri,
entra la luce
nelle sale,
lo spazio si
abbrevia e si divide.
L'uomo
separerà la
luce dalle tenebre
e così
come vinse il
suo inutile orgoglio
ed impiantò il
suo sistema
perché si
erigesse l'edificio,
continuerà a
costruire
la rosa
collettiva,
riunirà sulla
terra
il materiale
scontroso della fortuna
e con la
ragione e l'acciaio
crescerà
l'edificio di
tutti gli uomini.
Ode all'energia
Nel carbone la
tua pianta
di foglie nere
sembrava
addormentata,
poi
scavata
andò,
sorse,
fu
lingua pazza
di fuoco
e visse dentro
la locomotrice
o la nave,
rosa rossa
nascosta,
viscere
d'acciaio,
tu che dai
segreti
corridoi
oscuri
appena
arrivata, cieca,
ti consegnavi
e motori
e ruote,
macchinari,
movimento,
luce e
palpitazioni,
suoni
da te, energia,
da te, madre
energia,
nacquero,
a colpi di
piccone
li partoristi,
bruciasti i
fornelli
e le mani
dell'azzurro
fochista,
sconfiggesti
distanze
urlando dentro
la tua gabbia
e fin dove
andasti
divorandoti,
dove arrivò il
tuo fuoco,
arrivarono i
grappoli,
crebbero
le finestre,
le pagine si
unirono come piume
e volarono le
ali dei libri:
nacquero uomini
e caddero alberi,
feconda fu la
terra.
Energia,
nell'uva
sei rotonda
goccia
di zucchero
scuro,
trasparente
pianeta,
fiamma liquida,
sfera
di frenetica
porpora
ed anche
moltiplicato
grano della
specie,
germe di
frumento,
stella cereale,
pietra vivente
di calamite o
acciaio, torre
dai fili
elettrici,
acque in
movimento,
concentrata
colomba
fedele
dell'energia,
fondo
degli esseri,
ti innalzi
nel sangue del
bambino,
cresci come una
pianta che fiorisce nei suoi occhi,
indurisci le
sue mani
colpendolo,
facendolo crescere
finché diventa
uomo.
Fuoco che corre
e canta,
acqua che crea,
crescita,
trasforma la
nostra vita,
togli
pane dalle
pietre,
oro dal cielo,
città dal
deserto,
dacci,
energia,
ciò che
custodisci,
estendi i tuoi
doni di fuoco
là
sulla steppa,
forgia il
frutto, accendi
il tesoro del
grano,
rompi la terra,
appiana
monti, estendi
le nuove
fecondazioni
per la terra
perché da
allora,
da lì
da dove
cambiò la vita,
ora
cambi la terra,
tutta
la terra,
le isole,
il deserto
e cambi l'uomo.
Allora, oh
energia,
spada ignea,
non sarai
nemica,
fiore o frutto
completo
sarà la tua
dominata
chioma,
il tuo fuoco
sarà pace,
struttura,
fecondità,
colomba,
estensione di
grappoli
praterie di
pane fresco.
Ode all'invidia
Io venni
dal Sud, dalla
Frontiera.
La vita era
piovosa.
Quando arrivai
a Santiago
mi costò molto
cambiare
d'abito.
Ero vestito
da rigido
inverno.
Fiori
dell'intemperie
mi coprivano.
Mi dissanguai
per cambiar
casa.
Tutto era
pieno,
perfino l'aria
aveva
odore di gente
triste.
Nelle pensioni
cadeva la carta
dalle pareti.
Scrissi,
scrissi soltanto
per non morire.
E allora
appena
i miei versi di
ragazzo
esiliato
arsero
sulla strada
mi abbaiò
Teodorico
e mi morse
Ruibardo.
Mi immersi
nell'abisso
delle case più
povere,
sotto il letto,
nella cucina
dentro
l'armadio,
dove nessuno
potesse notarmi,
scrissi,
scrissi soltanto
per non morire.
Fu tutto
uguale. Si levarono
minacciosi
contro la mia
poesia,
armati di
ganci, di coltelli,
di pinzette
nere.
Allora
attraversai
i mari
nell'orrore del
clima
che sussurrava
la febbre con i fiumi,
circondato da
violenti
zafferani e
dei,
mi persi nel
tumulto
dei tamburi
neri,
nelle
emanazioni
del crepuscolo,
mi seppellii ed
allora
scrissi,
scrissi soltanto
per non morire.
Vivevo così
lontano, era grave
il mio
abbandono totale,
ma qui i
caimani
affilavano
i loro morsi
verdi.
Ritornai dai
miei viaggi.
Baciai tutti,
le donne, gli
uomini
e i bambini.
Ebbi partito,
patria.
Ebbi stella.
Si appese al
mio braccio
l'allegria.
Allora nelle
notti,
durante
l'inverno,
nei treni, in
mezzo
al
combattimento,
vicino al mare
o alle miniere,
nel deserto o
vicino
a colei che amavo
o perseguitato,
braccato
dalla polizia,
feci semplici
versi
per tutti gli
uomini
e per non
morire.
E ora
sono un'altra
volta là.
Sono insistenti
come i vermi,
sono invisibili
come i topi
di una nave,
navigano
dove io navigo,
mi distraggo e
mi mordono
le scarpe,
esistono perché
io esisto.
Che posso fare?
Credo
che continuerò
a cantare
fino a morire.
A questo punto
non posso
far loro
concessioni.
Posso, se lo
desiderano,
regalar loro
pacchetti di
merce,
comprar loro un
ombrello
perché si
proteggano
dalla pioggia
inclemente
che arrivò con
me dalla Frontiera,
posso insegnar
loro ad andare a cavallo,
o almeno dar
loro
la coda del mio
cane,
ma voglio che
capiscano
che non posso
cucirmi la
bocca
perché
sostituiscano
il mio canto.
Non è
possibile.
Non posso.
Con amore o con
tristezza,
nella fredda
mattina,
alle tre del
pomeriggio,
o durante la
notte,
ad ogni ora,
furioso,
innamorato,
in treno, di
primavera,
al buio o
ritornando
da una festa
nuziale,
attraversando
il bosco
o l'officina,
alle tre del
pomeriggio
o di notte,
ad ogni ora,
scriverò non
soltanto
per non morire,
ma per aiutare
altri a vivere,
perché sembra
che qualcuno
abbia bisogno
del mio canto.
Sarò,
sarò
implacabile.
Io chiedo loro
che sostengano
senza tregua lo stendardo
dell'invidia.
Mi abituerò ai
loro denti.
Mi occorrono.
Ma voglio dir
loro
che è vero:
un giorno
morirò
(non farò a
meno di concedere
quest'ultima
soddisfazione),
non c'è dubbio,
ma
morirò
cantando.
E sono quasi
sicuro,
benché questa
notizia non li entusiasmi,
che il mio
canto
continuerà
fino alla
morte,
in mezzo
alla mia
patria,
sarà la mia
voce, la voce
del fuoco e
della pioggia
o la voce di
altri uomini,
perché con
pioggia o fuoco restò scritto
che la semplice
poesia
vive
comunque,
ha un'eternità
senza paure,
ha tanta salute
come una
mungitrice
e nel suo
sorriso tanta dentatura
come per
rovinare le speranze
di tutti
i roditori
messi insieme.
Ode alla speranza
Crepuscolo
marino
nel mezzo
della mia vita,
le onde come
uva,
la solitudine
del cielo,
tu mi riempi
e trabocchi
tutto il mare,
tutto il cielo,
movimento
e spazio,
i battaglioni
bianchi
della spuma,
la terra
arancione,
il cerchio
incendiato
del sole
nell'agonia,
tanti
doni e doni,
uccelli
che attendono
ai loro sogni,
ed il mare, il
mare,
aroma
sospeso,
coro di sale
sonoro,
mentre
noi,
gli uomini,
vicino
all'acqua,
lottiamo
e aspettiamo
vicino al mare,
aspettiamo.
Le onde dicono
alla costa ferma:
« Tutto sarà
compiuto ».
Ode alla fertilità della terra
A te,
fertilità, viscera
verde,
madre materia,
vegetale tesoro,
fecondazione,
aumento,
io canto,
io, poeta,
io, erba,
radice grano
corolla,
sillaba della
terra,
io unisco le
mie parole alle foglie,
salgo sui rami
e nel cielo.
Inquiete
sono
le sementi,
sembrano
soltanto
addormentate,
le bacia il
fuoco, l'acqua
le tocca con il
suo nastro
e si agitano,
si muovono a
lungo,
si interrogano,
lanciano
occhiate in basso,
increspate
volute,
tenere
derivazioni,
movimento,
esistenza,
Bisogna vedere
un granaio
pieno,
lì tutto riposa
ma
i fuochi della
vita,
i fermenti
chiamano,
fermentano
ardono
con fili
invisibili.
Uno sente sugli
occhi
e sulle dita
la pressione,
la pazienza,
il lavoro,
di germi e
bocche,
di labbra e
matrici.
Il vento porta
ovari.
La terra
interra rose.
L'acqua spunta
e cerca.
Il fuoco arde e
canta.
Tutto
nasce.
E sei,
fertilità, una
campana,
sotto il tuo
cerchio
l'umidità ed il
silenzio sviluppano
le loro lingue
di verzura,
sale la linfa,
scoppia
la forma della
pianta,
cresce
la linea della
vita
e nella sua
estremità si raggruppano
il fiore e i
grappoli.
Terra, la
primavera
si elabora nel
mio sangue,
sento
come se fossi
albero,
territorio
compiersi in me
i cicli
della terra,
acqua, vento e
aroma
fabbricano la
mia camicia,
nel mio petto
zolle
dimenticate
dall'autunno
cominciano a
muoversi,
esco e
fischietto sotto la pioggia,
germina il
fuoco nelle mie mani,
ed allora
inalbero
una bandiera
verde
che esce dalla
mia anima,
sono seme,
fogliame,
quercia che
matura,
ed allora tutto
il giorno,
tutta la notte
canto,
sale dalle
radici il sussurro,
canta nel vento
la foglia.
Fertilità, ti
dimentico.
Lasciai il tuo
nome scritto
con la prima
sillaba
di questo
canto,
sei tu più
estesa,
più umida e
sonora,
non posso
descriverti,
vieni da me,
fertilizzami,
dammi ogni
giorno il sapore del frutto,
dammi
la segreta
tenacia delle
radici,
e lascia che il
mio canto
cada sulla
terra e si levino
ad ogni
primavera le sue parole.
Ode al fiore
Fiori
di povero
sulle
finestre
povere,
petali
del sole povero
nelle diroccate
case della
povertà.
Io vedo come
il fiore, la
sua chioma,
il suo petto
satinato,
la sua
leggiadria
risplendono nel
negozio.
Vedo
come da lì il
colore, la luce di seta,
la torre di
turgidezza,
il ramo d'oro,
il petalo
violetto dell'aurora,
il picciolo
acceso della rosa,
vestiti e nudi
si preparano
ad entrare
nella casa dei ricchi.
La geografia
moltiplicò i suoi doni,
l'oceano
si trasformò in
cammino,
la terra
mescolò le sue latitudini
e così il fiore
remoto
navigò con il
suo fuoco,
e così arrivò
alla tua porta,
da dove una
mano frettolosa
lo ritirò: « Tu
non sei
fiore di
povero, gli disse,
a te tocca
risplendere in
mezzo
alla sala
lucidata,
non metterti su
questa strada oscura,
unisciti
al nostro
monopolio d'allegria ».
E così vado per
le strade
guardando le
finestre
dove il fiore
caduto
da un geranio
canta lì, nel
mezzo delle povere vite,
dove un
garofano protende
la sua freccia
di carta e di profumo
vicino ai vetri
rotti,
o dove un
giglio
lasciò il suo
monastero
e venne a
vivere in povertà.
Oh fiore, non
ti condanno,
fiore alto di
increspata veste,
non ti nego il
diritto
di portare il
lampo
che la terra
innalzò con la tua bellezza
fino alla casa
dei ricchi.
Sono sicuro
che domani
fiorirai in
tutte
le dimore
dell'uomo.
Non avrai paura
della strada buia,
né ci sarà
sulla terra
tana tenebrosa
dove non possa
entrare la primavera.
Fiore, non ti
incolpo, sono sicuro di ciò
che ti dico
e perché tu
fiorisca dove devi
fiorire, su
tutte le finestre,
fiore,
io lotto
e canto fin
d'ora, come canto
in una forma
così semplice,
per tutti,
perché io
distribuisco
i fiori del
domani.
Ode al fiore azzurro
Camminando
verso il mare
nella prateria
- oggi è
novembre -
tutto è ormai
nato,
tutto ha forma,
ondulazione,
fragranza.
Erba dopo erba
ascolterò la
terra,
passo dopo
passo
fino alla linea
pazza
dell'oceano.
D'improvviso
un'onda
d'aria agita e
fa ondulare
l'orzo
selvatico:
salta
il volo di un
uccello
dai miei piedi,
il suolo,
pieno di fili
d'oro,
di petali senza
nome,
brilla
improvviso come una rosa verde,
si intreccia
con ortiche che rivelano
il loro corale
nemico,
steli sottili,
rovi
stellati,
differenza
infinita
di ogni
vegetale che mi saluta
a volte con un
rapido
scintillio di
spine
o con la
pulsazione del suo profumo
fresco, fine ed
amaro.
Camminando
verso le spume
del Pacifico
con pigro passo
sull'erba bassa
della primavera
nascosta,
sembra
che prima che
la terra finisca
cento metri
prima del più grande oceano
tutto diventi
delirio,
germinazione,
canto.
Le minuscole
erbe
si coronano
d'oro,
le piante della
sabbia
riflettono
raggi violetti
e su ogni
piccola foglia dell'oblio
arriva una
direzione di luna o di fuoco.
Vicino al mare,
camminando,
nel mese di
novembre,
fra i cespugli
che ricevono
luce, fuoco e
sale marini,
trovai un fiore
azzurro
nato nella
durissima prateria.
Da dove, da
quale profondità
estrai il tuo
raggio azzurro?
La tua seta
tremante
sotto la terra
comunica col
mare profondo?
Lo sollevai
nelle mie mani
e lo guardai
come se il mare vivesse
in una sola
goccia,
come se nella
lotta
della terra e
delle acque
un fiore
alzasse
un piccolo
stendardo
di fuoco
azzurro, di pace irresistibile,
di indomita
purezza.
Ode al fuoco
Fuoco
scapigliato,
energico,
cieco e pieno
di occhi,
senza lingua,
tardivo,
repentino,
stella d'oro,
ladro di legna,
silenzioso
brigante,
cucina di
cipolle,
famigerato
burlone sfavillante,
cane rabbioso
con un milione di denti,
ascoltami,
centro dei
focolari,
rosaio
incorreggibile,
distruttore di
vite,
celeste padre
del pane e del forno,
progenitore
illustre
di ruote e
ferri di cavallo,
polline dei
metalli,
costruttore
dell'acciaio,
ascoltami
fuoco.
Arde il tuo
nome,
fa piacere
dir fuoco,
è meglio
che dir pietra
o farina.
Le parole sono
morte
vicino al tuo
raggio giallo,
vicino alla tua
coda rossa,
vicino ai tuoi
crini di luce amaranto,
sono fredde le
parole.
Si dice fuoco,
fuoco, fuoco,
fuoco,
e si accende
qualcosa in
bocca:
è il tuo frutto
che brucia,
è il tuo alloro
che arde.
Soltanto parola
non sei,
sebbene ogni
parola
che non abbia
brace
si stacca e
cade
dall'albero del
tempo.
Tu sei
fiore,
volo,
consumazione,
abbraccio,
inafferrabile
sostanza,
distruzione e
violenza,
sigillo,
tempestosa
ala di morte e
di vita,
creazione e
cenere,
scintilla
abbagliante,
spada piena di
occhi,
potere,
autunno, estati
improvvise,
tuono secco di
polvere,
flagello dei
boschi,
fiume di fumo,
oscurità,
silenzio.
Dove sei, che
cosa sei diventato?
Soltanto la
polvere impalpabile
ricorda le tue
fiammate,
e nella mano
l'impronta
di fiore o di
bruciatura.
Ti ritrovo
alfine
sulla mia carta
vuota,
e mi impegno a
cantarti,
fuoco,
ora
davanti a me,
tranquillo
rimani mentre
cerco
la lira negli
angoli,
o la macchina
dai lampi neri
per
fotografarti.
Infine sei
con me
non per
distruggermi,
né perché io ti
adoperi
per accendere
la pipa,
ma perché ti
tocchi,
ti lisci
la chioma e
tutti
i tuoi fili
pericolosi,
ti pulisca un
poco, perché ti colpisca
per provocare
la tua
reazione,
toro scarlatto.
Osa,
bruciami
ora,
entra
nel mio canto,
sali
per le mie
vene,
esci
attraverso la
mia bocca.
Ora
sai
che non puoi
con me:
io ti converto
in canto,
io ti innalzo e
ti abbasso,
ti imprigiono
nelle mie sillabe,
ti incateno, ti
metto
a fischiare,
ti sciolgo in
gorgheggi,
come se fossi
un canarino
ingabbiato.
Non venire
con la tua nota
tunica
di uccello
degli inferni.
Qui
sei condannato
a vita e a
morte.
Se taccio
ti spegni.
Se canto
ti diffondi
e mi darai la
luce di cui ho bisogno.
Di tutti
i miei amici,
di tutti
i miei nemici,
sei
il più
difficile.
Tutti
ti portano
legato,
demonio della
borsa,
uragano
nascosto,
in casse e in
decreti.
Io no.
Io ti porto al
mio fianco
e ti dico:
è ora
che mi mostri
ciò che sai
fare.
Apriti, sciogliti
i capelli
arruffati,
sali a bruciare
le sommità del
cielo.
Mostrami
il tuo corpo
verde e
arancione,
alza
le tue
bandiere,
ardi
sul mondo
o vicino a me,
sereno
come un povero
topazio,
guardami e
dormi.
Sali le scale
col tuo piede
numeroso.
Insidiami,
vivi,
perché ti lasci
scritto,
perché canti
con le mie
parole
a modo tuo,
ardendo.
Ode al Guatemala
Guatemala
oggi
ti
canto.
Senza ragione
senza scopo,
questa mattina
si destò
il tuo nome
impigliato
nella mia
bocca,
verde, rugiada,
freschezza
mattutina,
ricordai
le liane
che legano
con la loro
cordicella silvestre
il tesoro sacro
della tua
selva.
Ricordai sulle
alture
gli alvei
invisibili
delle tue
acque,
sonora
turbolenza
segreta,
corolle legate
al fogliame,
un uccello
come improvviso
zaffiro,
il cielo
traboccato,
pieno come una
coppa
di pace e di
trasparenza.
In alto
un lago
con un nome di
pietra.
Il suo nome è
Amatitlán.
Acque, acque
del cielo
lo riempirono,
acque, acque di
stelle
si unirono
nella
profondità terrificante
del suo
smeraldo oscuro.
Ai suoi margini
le tribù
del Mayab
sopravvivono.
Teneri, teneri
feticisti
del miele,
segretari
degli astri,
vinti
vincitori
dell'enigma più
antico.
Bello è vedere
lo splendore
degli abiti
nei loro
villaggi,
essi osarono
continuare ad
indossare
tuniche splendenti,
ricami gialli,
calzoni
scarlatti,
colori
dell'aurora.
Anticamente
i soldati
della Castiglia
nera
seppellirono
l'America,
e l'uomo
americano
perfino ora
indossa la
giubba
del notaio
estremegno,
la zimarra
di Loyola.
Spagna
inquisitiva,
purgativa,
rinfoderò i
suoni
e i colori,
le stirpi
d'America,
il polline,
l'allegria,
e ci lasciò il
suo vestito
di salmantino
lutto,
la sua armatura
di stracci
inesorabili.
Il colore
sommerso
solamente in te
sopravvive,
sopravvivono,
radiosi,
i piumaggi,
sopravvive
la tua
freschezza di brocca,
profondo
Guatemala,
non ti seppellì
l'onda
successiva
della morte,
le invaditrici
ali
straniere,
i panni
funerari
non riuscirono
ad affogare la
tua corolla
di fiore
splendente.
A
Quetzaltenango
vidi la
moltitudine
fertile
del mercato,
i cesti
intrecciati con
l'amore,
con antichi
dolori,
le tele
dai colori
accesi,
razza rossa,
testate di
anfore,
profili
di metallico
giglio,
gravi sguardi,
bianchi
sorrisi come
voli
di garze sul
fiume,
piedi del
colore del rame,
gente
della terra,
indios
dignitosi come
i re delle
carte da gioco.
Tanto
fumo cadde
sui loro visi,
tanto
silenzio
che non
parlarono
se non con il
mais, con il tabacco,
con l'acqua,
stettero
minacciati di
tirannia
perfino nei
loro territori impervi
o sulla costa,
da invasori
nord americani
che spianarono
la terra,
portandosi via
i frutti.
Ed ora
Arévalo
sollevava
un pugno di
terra
per loro,
soltanto un
pugno
di polvere
germinale, ed è questo,
soltanto questo
il Guatemala,
un minuscolo
e fragrante
frammento della
terra,
alcuni semi
per la sua
povera gente,
un aratro
per i
contadini.
E per ciò
quando Arbenz
decise di far
giustizia,
e con la terra
divise i fucili,
quando
i feudali
proprietari
delle
piantagioni di caffè
e gli
avventurieri di Chicago
trovarono
nella casa del
governo
non una
marionetta dispotica,
ma un uomo,
allora
fu la furia,
i giornali
si riempirono
di comunicati:
il Guatemala
bruciava.
Il Guatemala
non bruciava.
In alto il lago
Amatitlán,
quieto come lo sguardo
dei secoli,
verso il sole è
la luna risplendeva,
il fiume Dolce
trasportava
le sue acque
primordiali,
i pesci e gli
uccelli,
la selva,
il suo respiro
dall'aroma
originale dell'America,
i pini sulla
vetta
mormoravano,
e il popolo
semplice
come sabbia o
farina
poté, per la
prima volta,
faccia a faccia
conoscere la
speranza.
Guatemala,
oggi ti canto,
oggi le
sventure del passato
e la tua
speranza io canto.
La tua bellezza
canto.
Ma voglio
che il mio
amore ti difenda.
Conosco
coloro che ti
preparano una tomba
come quella che
scavarono per Sandino.
Li conosco. Non
aspettarti
pietà dai
carnefici.
Oggi si
preparano
uccidendo i
pescatori,
assassinando i
pesci delle isole.
Sono
implacabili. Ma
tu, Guatemala,
sei
un pugno ed una
manciata
di polvere
americana con semi,
una piccola
manciata
di speranza.
Difendila, difendici,
noi
oggi soltanto
con il mio canto,
domani con il
mio popolo e con il mio canto
accorreremo
a dirti « siamo
qui »,
piccolo paese
fratello,
cuore fervido,
siamo qui
disposti
a dissanguarci
per
difenderti,
perché nell'ora
oscura
tu fosti
l'onore, l'orgoglio,
la dignità
d'America.
Ode al filo
Questo è il
filo
della poesia.
I fatti come
pecore
vanno carichi
di lana
nera
o bianca.
Chiamali e
verranno
prodigiosi
greggi,
eroi e
minerali,
la rosa
dell'amore,
la voce del
fuoco,
tutto verrà al
tuo fianco.
Hai in tuo
potere
una montagna,
se ti metti
a traversarla a
cavallo
ti crescerà la
barba,
dormirai per
terra,
avrai fame
e sulla
montagna tutto
sarà ombra.
Non puoi
farcela,
devi filarla,
prendi un filo,
innalzalo:
interminabile e
puro
da tanti posti
esce,
dalla neve,
dall'uomo,
è duro perché
di tutti
i metalli è
fatto,
è fragile
perché il fumo
lo disegnò
tremando,
così è il filo
della poesia.
Non devi
impigliarlo
nuovamente,
confonderlo
ancora
con il tempo e
con la terra.
Al contrario,
è la tua corda,
collocalo nella
tua cetra
e parlerà con
la bocca
dei monti
sonori,
intreccialo
e sarà rete
di nave,
sviluppalo,
caricalo di
messaggi,
elettrizzalo,
consegnalo
al vento, alle
intemperie,
che di nuovo,
ordinato,
in una lunga
linea
avvolga il
mondo,
o meglio,
infilalo,
fine fine,
senza
trascurare il manto
elle fate.
Abbiamo bisogno
di coperte
per tutto
l'inverno.
Stanno venendo
i contadini,
portano
per il poeta
una gallina,
soltanto
una povera
gallina.
Che cosa darai
loro tu,
che cosa darai
loro?
Ora,
ora,
il filo,
il filo
che si
trasformerà in abiti
per coloro che
non hanno
che stracci,
reti
per i
pescatori,
camicie
di colore
scarlatto
per i fochisti
e una bandiera
per tutti.
Fra gli uomini
fra i loro
dolori
pesanti come
pietre,
fra le loro
vittorie
alate come api,
è li il filo
in mezzo
a ciò che sta
accadendo
e a ciò che
accadrà,
sotto
fra i carboni,
sulla
miseria,
con gli uomini,
con te,
con il tuo
popolo,
a filo,
a filo
della poesia.
Non si tratta
di
considerazioni:
sono ordini,
ti ordino,
con la cetra in
braccio,
accompagnami.
Ci sono molte
orecchie che
aspettano,
c'è
un terribile
cuore
sotterrato,
è la nostra
famiglia, il
nostro popolo.
Al filo!
Al filo!
Estraiamolo
dalla montagna
oscura!
Trasmettiamo i
lampi!
Scriviamo la
bandiera!
Così è il filo
della poesia,
semplice,
sacro, elettrico,
fragrante e
necessario
e non finisce
nelle nostre povere mani:
lo fa rivivere
la luce di ogni giorno.
Ode all'uomo semplice
Ti racconterò
in segreto
chi sono io,
così ad alta
voce,
mi dirai chi
sei,
voglio sapere
chi sei,
quanto
guadagni,
in quale
azienda lavori,
in quale
miniera,
in quale
farmacia,
ho un dovere
terribile,
cioè sapere,
sapere tutto,
giorno e notte
sapere
come ti chiami,
è questo il mio
compito,
conoscere una
vita
non è
abbastanza
né conoscere
tutte le vite
è necessario,
vedrai,
bisogna
sviscerare,
grattare a
fondo
e come in una
tela
le linee
nascosero
con il colore,
la trama
del tessuto
io cancello i
colori
e cerco fino a
trovare
il tessuto
profondo,
così trovo pure
l'unità degli
uomini,
e nel pane
cerco
più in là della
forma:
mi piace il
pane, lo mordo,
e allora
vedo il
frumento,
i campi di
grano vicini,
la verde forma
della primavera,
le radici,
l'acqua,
per questo
più in là del
pane,
vedo la terra,
l'unità della
terra,
l'acqua,
l'uomo
e così provo
tutto
cercandoti
in tutto,
cammino, nuoto,
navigo
fino ad
incontrarti,
e allora ti
domando
come ti chiami,
strada e
numero,
perché tu
riceva
le mie lettere,
perché io ti
dica
chi sono e
quanto guadagno,
dove abito,
e com'era mio
padre.
Vedi che
semplice sono,
che semplice
sei,
non si tratta
di nulla di
complicato,
lavoro con te,
tu vivi, vai e
vieni
da un luogo
all'altro,
è molto
semplice:
sei la vita,
sei trasparente
come l'acqua,
e così sono io,
il mio dovere è
questo:
essere
trasparente,
ogni giorno
mi educo,
ogni giorno mi
pettino
pensando come
pensi,
e cammino
come tu
cammini,
mangio come tu
mangi,
tengo fra le
mie braccio il mio amore
come tu la tua
sposa,
e allora
quando questo è
provato,
quando siamo
uguali
scrivo,
scrivo con la
tua vita e con la mia,
col tuo amore e
con i miei,
con tutti i
tuoi dolori
e allora
siamo già
diversi
perché, la mia
mano sulla tua spalla,
come vecchi
amici
ti dico in un
orecchio
non soffrire,
arriva già il
giorno,
vieni,
vieni con me,
vieni
con tutti
coloro che ti
assomigliano,
i più semplici,
vieni,
non soffrire,
vieni con me,
perché sebbene
tu non lo sappia,
questo sì io lo
so:
io so in che
direzione andiamo,
ed è questa la
parola:
non soffrire
perché
vinceremo,
vinceremo noi
i più semplici,
vinceremo,
anche se tu non
lo credi,
vinceremo.
Ode all'inquietudine
Madre
inquietudine, bevvi ai tuoi seni
elettrizzato
latte,
azione severa!
Non mi insegnò
la luna
il movimento.
È
l'inquietudine che sostiene
lo statico volo
della nave,
la scossa del
motore decide
la morbidezza
dell'ala
e il miele
dormirà nella corolla
senza
l'agitazione insigne dell'ape.
Non voglio
sfuggire
a nessuna
solitudine,
non voglio
che le mie
parole leghino gli uomini.
Non voglio
mare senza
marea, poesia
senza uomo,
pittura
disabitata,
musica
senza vento!
Inquieta è la
notte
e la sua
bellezza,
tutto palpita
sotto
le sue bandiere
e il sole
è acceso
movimento,
raffica
d'allegria!
nello stagno
imputridiscono
le stelle,
e canta nella
cascata
la purezza!
La ragione
inquieta
inaugurò i
mari,
e dal disordine
fece
nascere
l'edificio.
Non è
immutabile
la città, né la
tua vita
acquisì la
materia della morte.
Viaggiatore,
vieni con me.
Daremo
grandezza ai
doni della terra:
Cambieremo la
spiga.
Porteremo la
luce al più remoto
Cuore
castigato.
Io credo
che sotto
l'inquieta primavera
il chiarore
del frutto
si consumi,
l'effluvio
dell'aroma
si estenda,
il movimento
lotti contro la morte.
Alla tua bocca
arriverà così la dolcezza
dei frutti
gloriosi,
la vittoria
della luce
inquieta
che solleva le
labbra della terra.
Ode all'inverno
Inverno, c'è
qualcosa
fra noi,
colline sotto
la pioggia,
galoppi
al vento,
finestre
in cui si
accumulò la tua veste,
la tua camicia
di ferro,
i tuoi
pantaloni bagnati,
la tua cintura
di pelle trasparente.
Inverno,
per altri
sei bruma
nei moli,
clamide
clamorosa,
rosa bianca,
corolla di
neve,
Per me.
Inverno,
sei
un cavallo,
nebbia ti esce
dal muso,
gocce di
pioggia cadono
dalla tua coda,
elettrizzate
raffiche
sono i tuoi
crini,
galoppi
interminabilmente
spruzzando di
fango
il passante,
guardiamo
e sei passato,
non ti vediamo
la faccia,
non sappiamo
se sono acqua
di mare
o cordigliera
i tuoi occhi,
sei passato
come la chioma
di un lampo,
non rimase
indenne un albero,
le foglie
si riunirono
sulla terra,
i nidi
rimasero come
stracci
sulla vetta,
mentre tu
galoppavi
nella luce
moribonda del pianeta.
Ma sei freddo,
Inverno,
e i tuoi
grappoli
di neve nera e
acqua
sul tetto
attraversano
le case
come aghi,
feriscono
come coltelli
ossidati.
Nulla
ti ferma.
Cominciano
gli attacchi di
tosse, escono i bambini
con scarpe
bagnate,
nei letti la
febbre
è come
la vela di una
nave
che brucia,
la città dei
poveri
che naviga
verso la morte,
la miniera
scivolosa,
la lotta del
vento.
Da allora,
Inverno, io
conosco
la tua
bucherellata veste
ed il sibilo
búccina fra le
araucarie
quando chiami
e piangi,
raffica nella
pioggia pazza,
fragore di
tuono
o cuore di
neve.
L'uomo
sulla sabbia
s'ingigantì,
si coprì di
intemperie,
il sale ed il
sole vestirono
di seta
spruzzata
il corpo della
nuova nuotatrice.
Ma
quando viene
l'inverno
l'uomo
diventa un
piccolo gomitolo
che cammina
con funebre
ombrello,
si copre
di ali
impermeabili,
si inumidisce
e si mollifica
come una
mollica di pane, accorre
nelle chiese,
o legge
stupidaggini listate a lutto.
Frattanto,
in alto,
fra i roveri,
sulla testa dei
nevai,
sulla costa,
tu regni
con la tua
spada,
con il tuo
violino gelato,
con le piume
che cadono
dal tuo petto
indomito.
Un giorno
ci
riconosceremo
quando
la grandezza
della tua
bellezza
non cadrà
sull'uomo,
quando
non perforerai
più
il soffitto
di mio
fratello,
quando
potrò accorrere
alla più alta
bianchezza del
tuo spazio
senza che tu
possa mordermi,
passerò a
salutare
la tua
monarchia sfrenata,
Mi toglierò il
cappello
sotto la stessa
pioggia
della mia
infanzia
perché sarò
sicuro
delle tue
acque;
esse lavano il
mondo,
si portano via
le carte,
triturano la
piccola
sporcizia dei
giorni,
lavano,
lavano le tue
acque
il viso della
terra
e scendono fino
in fondo
dove
la primavera
dorme.
Tu la scuoti,
ferisci
le sue gambe
trasparenti,
la svegli, la
bagni,
comincia a
lavorare,
scopa le foglie
morte,
riunisce la sua
fragrante
mercanzia,
sale le scale
degli alberi
e d'improvviso
la vediamo
sulla vetta
con il suo
nuovo vestito
e i suoi
antichi occhi
verdi.
Ode al chimico
C'è un uomo
nascosto
guarda
con un solo
occhio
di ciclope
efficiente,
sono minuscole
cose,
sangue,
gocce di acqua,
guarda
e scrive o
racconta,
lì nella goccia
circola
l'universo,
la via lattea
trema
come un piccolo
fiume,
guarda
l'uomo
e annota,
nel sangue
minimi punti
rossi,
mobili
pianeti
o invasioni
di favolosi
reggimenti bianchi,
l'uomo
con il suo
occhio
annota,
scrive
lì rinchiuso
il vulcano
della vita,
lo sperma
con la sua
titillazione di firmamento,
come appare
il rapido
tesoro
tremante,
i piccoli semi
dell'uomo,
poi
nel suo circolo
pallido
una goccia
di urina
mostra paesi
d'ambra
o nella tua
carne
montagne di
ametista,
tremanti
praterie,
costellazioni
verdi,
ma
egli annota,
scrive,
scopre
una minaccia,
un punto
diviso,
un nimbo nero,
lo identifica,
trova
il suo
prontuario,
non può più
scappare,
improvvisamente
nel tuo corpo
ci sarà la caccia,
la battaglia
che incominciò
nell'occhio
del
laboratorista:
sarà di notte,
vicino
alla madre la
morte,
vicino al
bambino le ali
dell'invisibile
paura,
la battaglia
nella ferita,
tutto
incominciò
con l'uomo
e il suo occhio
che cercava
nel cielo
del sangue
una stella
maligna.
Lì col camice
bianco
continua
a cercare
il segno,
il numero,
il colore
della morte
o della vita,
decifrando
la tessitura
del dolore,
scoprendo
l'insegna della
febbre
o il primo sintomo
della crescita
umana.
Poi
lo scopritore
sconosciuto,
l'uomo
che viaggiò per
le tue vene
o denunciò
un viaggiatore
mascherato
a Sud o a Nord
delle tue
viscere,
il temibile
uomo con un
occhio
stacca il
cappello,
se lo mette,
accende una
sigaretta
ed esce in
strada,
si muove, si
allontana
si distribuisce
sulle strade,
si unisce allo
spessore degli uomini,
e scompare
infine
come il dragone
il minuto e
circolante mostro
che rimase
dimenticato in una goccia
nel
laboratorio.
Ode a Leningrado
Dolce la tua
pietra pura,
ampio il tuo
cielo bianco,
bella
rosa grigio,
spaziosa
Leningrado,
con che
tranquillità
posi nella tua
antica terra
le mie scarpe,
da un'altra
terra
venivano,
dalla vergine
America,
i miei piedi
avevano calpestato
fango di
sorgenti
sulla vetta,
fragranze
indicibili
nella grande
cordigliera
della mia
patria,
avevano
toccato le mie
scarpe,
altra neve,
le raffiche
delle Ande
irsute
e ora,
Leningrado,
la tua neve,
la tua illustre
ombra bianca,
il fiume con le
sue gradinate sommerse
nella corrente
bianca,
la luce come un
ramo di pesco
che ti da la
sua bianchezza,
o nave,
nave bianca,
che naviga
nell'inverno,
quante cose
vissero,
si mossero
con me
quando fra il
tuo sartiame
e le tue vele
di pietra
andai,
quando
calpestai le strade
che conobbi sui
libri,
mi saturò
l'essenza
della nebbia e
dei mari,
il giovane
Puskin
mi prese per
mano
con la sua mano
inguantata
e nei solenni
edifici
del passato,
negli alveari
della nuova
vita,
entrò il mio
cuore
americano
battendo con
rispetto
ed allegria,
ascoltando
l'eco
dei miei passi
come se si
svegliassero
esistenze
che dormivano
avvolte nella neve
e d'improvviso
venissero
a camminare con
me
pestando forte
nel silenzio
come sulle
tavole di una nave.
Quante
antiche notti,
là lontano:
il mio libro
la pioggia
dal cielo
dell'isola,
nel Chiloé
marino,
e ora
la stessa
ombra bianca
che mi
accompagna,
Netochka
Nezvanova,
la Perspectiva
Nevsky,
vasta,
dormiente,
un coro
affogato
ed un violino
perduto.
Antico tempo,
antico
dolore bianco,
terribili
esseri di un'altra
città, che qui
vivevano,
tormenti
dissanguati,
pallida
rosa
di nebbia e di
neve,
Netochka
Nezvanova,
un insensato
movimento
nella nebbia,
nella neve,
interrotte
sofferenze,
le vite
come pozzi,
l'anima,
l'anima,
fangaia
di pesci
ciechi,
l'anima,
lago
di alcoli addormentati,
d'improvviso
impazzite
finestre
deliranti
nella notte,
suonate
di una sola
corda
che si
avvolgono
alla coda
del diavolo,
crimini
a lungo contati
e contati.
Onore all'alba
fredda!
Il mondo è
cambiato!
È notte,
chiara
solitudine
notturna,
domani
il giorno
si popolerà di
canti
e di volti
accesi,
di esseri
che navigano
sulla nave
della nuova
allegria,
di mani che
colpiscono
le ardenti
officine,
di camici che
aumentano
la luce bianca,
di affari
divisi
come i pani
d'oro
da scuole
unanimi,
è questo,
ora
gli esseri
solitari
dei libri
vengono ad
accompagnarmi
ma
la solitudine
non viene,
non esiste,
ardono
nella corolla
della vita,
vivono
la organizzata
dignità
del lavoro,
l'antica
angustia
perse le sue
foglie
come un albero
che il vento
inclinò,
scacciando
la tormenta,
ora
il cavallo di
bronzo,
il cavaliere,
non sono sul
punto di intraprendere il viaggio,
ritornano,
il Neva non se
ne va,
sta arrivando
con notizie
d'oro,
con sillabe
d'argento.
Se ne andarono
gli antichi
personaggi
affondati
nella nebbia,
provvisti di
elevati
cappelli di
fumo,
le donne
scolpite sulla
neve
piangendo in un
fazzoletto
sul fiume,
emigrarono,
cadettero dai
libri
e corsero
gli studenti
pazzi
che aspettavano
con un'ascia in
mano
alla porta
di una anziana,
quel mondo
di frenetici pope
e di risate
morte nella coppa,
slitte
che rubavano
l'innocenza,
sangue e lupi
oscuri sulla neve,
tutto quello
cadde dai
libri,
fuggì dalla
vita
come un maligno
sogno,
ora
le cupole
sfilano
l'anello
della luna
crescente,
ed un'altra
volta una notte
chiarissima
naviga
insieme alla
città,
sollevarono
le due pesanti
ancore
nei portoni
dell'Ammiragliato,
naviga
Leningrado,
quelle ombre
si dispersero,
fredde,
spaventate,
quando sulla
scalinata
del Palazzo
d'Inverno
salì la Storia
con i piedi del
popolo.
Più tardi in
città
arrivò la
guerra,
la guerra con i
suoi denti
che
sgretolavano
la bellezza
antica,
ghiottona,
che mangiavano
una torta
di pietra
grigia e di neve
e sangue,
la guerra
fischiando fra
i muri,
portandosi via
gli uomini,
spiando i
figli,
la guerra
con il suo
sacco vuoto
e il suo
tamburo terribile,
la guerra
con i suoi
vetri infranti
e la morte
sul letto,
rigida sotto il
freddo.
Ed il coraggio
alto,
più alto di un
abete,
rotondo
come le gravi
cupole,
eretto
come
le serene
colonne,
la resistenza
grave
come la
simmetria
della pietra,
il coraggio
come una fiamma
viva
in mezzo
alla neve
una fiammata
indomita,
a Leningrado
il cuore
sovietico.
E oggi tutto
vive
e dorme,
la notte
di Leningrado
copre
non soltanto
i palazzi,
le cancellate,
le cornici
platoniche,
lo splendore
antico,
non soltanto
i motori
e le
innumerevoli
case fresche,
la vita
giusta e ampia
la costruzione
del mondo,
la notte, ombra
chiara
si unì alla
antica notte,
come il giorno,
come l'odore
dell'acqua,
Pietro il
Gigante e Lenin
il Gigante
diventarono
unità,
il tempo
fece una rosa,
una torre
invincibile.
Odora
di fuoco
sepolto,
di fiore
infrangibile,
circola per le
strade
vivo sangue
senza tempo
ciò che fu
e ciò che sarà
si unirono
nella rosa
spaziosa,
e naviga
la nave,
profuma
la torre grigia
del Nord,
ampia e
celeste, ferma
nel suo regno
di neve,
popolata non da
ombre
ma dalla
grandezza
del suo sangue,
coronata
dal rumore
marino
della sua
Storia,
brillando con
orgoglio, preparata
con tutta la
sua bellezza
come un salotto
illustre
per le riunioni
del suo popolo.
Ode al libro
(I)
Libro, quando
ti chiudo
apro la vita.
Ascolto
intermittenti
grida
nei porti.
I lingotti di
rame
attraversano
gli arenili,
scendono a
Tocopilla.
È notte.
Fra le isole
il nostro
oceano
palpita con i
pesci.
Tocca i piedi,
le cosce,
le costole
calcaree
della mia
patria.
Tutta la notte
batte sulle sue rive
e con la luce
del giorno
si sveglia
cantando
come se si
svegliasse una chitarra.
Mi chiama il
battito
dell'oceano. Mi
chiama il
vento,
e Rodríguez mi
chiama,
José Antonio,
ricevetti un
telegramma
dal sindacato «
Miniera »
ed ella, colei
che amo,
(non vi dirò il
suo nome)
mi aspetta a
Bucalemu.
Libro, tu non
hai potuto
incartarmi,
non mi
riempisti
di tipografia,
di impressioni
celesti,
non potesti
rilegare i miei
occhi,
esco da te per
popolare gli albereti
con la rauca
famiglia del mio canto,
per lavorare
metalli accesi
o per mangiare
carne arrostita
vicino al fuoco
sui monti.
Amo i libri
esploratori,
libri con
boschi e neve,
profondità o
cielo,
ma
odio
il libro ragno
dove il
pensiero
intessé un filo
velenoso
Perché vi si
impigliasse
la giovanile e
circondante mosca.
Libro, lasciami
libero.
Non voglio
andar vestito
da volume,
non vengo da un
libro,
le mie poesie
non hanno
mangiato poesie,
divorano
appassionati
avvenimenti,
si nutrono di
intemperie,
estraggono
alimento
dalla terra e
dagli uomini.
Libro, lasciami
camminare per le strade
con la polvere
sulle scarpe
e senza
mitologia:
ritorna alla
tua biblioteca,
io me ne vado
per le strade.
Ho imparato la
vita
dalla vita,
l'amore lo
appresi da un solo bacio,
e non potei
insegnare nulla a nessuno
se non ciò che
ho vissuto,
ciò che ebbi in
comune con altri uomini,
ciò per cui
lottai con loro:
ciò che di
tutti espressi nel mio canto.
Ode al libro
(II)
Libro
bello,
libro,
minimo bosco,
foglia
dopo foglia,
odora
la tua carta
di elemento,
sei
mattutino e
notturno,
cereale,
oceanico,
nelle tue
antiche pagine
cacciatori di
ossa,
falò
vicino al
Mississippi,
canoe
sulle isole,
più tardi
strade
e strade,
rivelazioni,
popoli
insorgenti,
Rimbaud come un
ferito
pesce
sanguinante
che palpita
nella melma
e la bellezza
della
fratellanza,
pietra su
pietra
sale il
castello umano,
dolori che
intrecciano
la fermezza,
azioni
solidali,
libro
nascosto
di tasca
in tasca,
lampada
clandestina,
stella rossa.
Noi
poeti
erranti
esploriamo
il mondo
ad ogni porta
ci ricevette la
vita,
partecipiamo
alla lotta
terrestre.
Quale fu la
nostra vittoria?
Un libro,
un libro pieno
di contatti
umani,
di camicie,
un libro
senza
solitudine, con uomini
ed utensili,
un libro
è la vittoria.
Vive e cade
come tutti i
frutti,
non ha soltanto
luce,
non ha soltanto
ombra,
ma si spegne,
si spoglia,
si perde
fra le strade,
crolla a terra.
Libro di poesia
del domani,
torna
ancora
ad avere neve o
muschio
nelle tue
pagine
perché le impronte
o gli occhi
lascino
tracce:
descrivici
di nuovo il
mondo,
le sorgenti
nei folti
boschi,
gli alti
albereti,
i pianeti
polari,
e l'uomo
sui cammini,
sui nuovi
cammini,
che avanza
nella selva,
nell'acqua,
nel cielo,
nella nuda
solitudine marina,
l'uomo
che scopre
gli ultimi
segreti,
l'uomo
che ritorna
con un libro,
il cacciatore
che ritorna
con un libro,
il contadino
che ara
con un libro.
Ode alla pioggia
È ritornata la
pioggia.
E non è venuta
dal cielo
o dall'Ovest.
È ritornata
dalla mia infanzia.
S'è aperta la
notte, un tuono
l'ha commossa,
il suono
ha cancellato
le solitudini,
ed allora
e arrivata la
pioggia,
e ritornata la
pioggia
dalla mia
infanzia,
dapprima
con una raffica
collerica,
poi
come la coda
bagnata
di un pianeta,
la pioggia
tic tac mille
volte tic
tac mille
volte una
slitta,
un martellare
ampio
di petali
oscuri
nella notte,
improvvisamente
intensa
crivellando
di aghi
il fogliame,
altre volte
un manto
tempestoso
cadente
nel silenzio,
la pioggia,
mare che viene
da sopra
rosa fresca,
nuda,
voce del cielo,
violino nero,
bellezza,
ti amo
sin da quando
ero bambino,
non perché tu
sia buona,
ma per la tua
bellezza.
Camminai
con le scarpe
rotte
mentre i fili
del cielo
straripato
si scioglievano
sulla
mia testa,
portavano
a me e alle
radici
le comunicazioni
dell'altezza,
l'ossigeno
umido,
la libertà del
bosco.
Conosco
i tuoi eccessi,
il buco
nel tetto
cadente,
il suo
contagocce
nelle
abitazioni
dei poveri:
lì smascheri
la tua
bellezza,
sei ostile
come una
celeste
armatura,
come un pugnale
di vetro
trasparente,
lì
ti conobbi
davvero.
Tuttavia,
continuai
ad essere
innamorato
tuo,
nella notte
chiudendo lo
sguardo
aspettai che
cadessi
sul mondo,
aspettai che
cantassi
soltanto per le
mie orecchie,
perché il mio
cuore custodiva ogni
germe terrestre
ed in esso si
precipitano i metalli
e cresce il
grano.
L'amarti, però,
mi lasciò in
bocca
un sapore
amaro,
sapore amaro di
rimorso.
Ieri notte
solamente
qui a Santiago
le popolazioni
della Nuova
Lega
si
sgretolarono,
le fungaie
di abitazioni,
accatastati
frammenti di
ignominia,
al peso del tuo
passo
caddero,
i bambini
piangevano nel
fango
e lì giorni e
giorni
sui letti
bagnati,
sedie rotte,
le donne,
il fuoco, le
cucine,
mentre tu,
pioggia nera,
nemica,
continuavi a
cadere
sulle nostre
disgrazie.
Io credo
che un giorno,
che annoteremo
sul calendario,
avranno un
tetto sicuro,
un tetto
solido,
gli uomini che
staranno a sognare,
tutti
coloro che
staranno a dormire,
e quando di
notte
la pioggia
ritornerà
dalla mia
infanzia,
canterà nelle
orecchie
di altri
bambini
e allegro
sarà il canto
della pioggia
sul mondo,
e sarà anche
lavoratrice,
proletaria,
occupatissima
a fertilizzare
monti
e praterie,
a dar forza ai
fiumi,
ad adornare
lo smorto
ruscello
perduto sulla
montagna,
a lavorare
nel gelo
dei nevai
battuti dalle
tormente,
a correre sulla
groppa
dei bestiame,
a dar coraggio
al germe
primaverile del
grano,
a lavare le
mandorle
nascoste,
a lavorare
con forza
e con
delicatezza fuggitiva,
con mani e con
fili
nei preparativi
della terra.
Pioggia
di ieri,
oh, triste
pioggia
di Loncoche e
Temuco!
Canta,
canta,
canta sui tetti
e sulle foglie,
canta nel vento
freddo,
canta nel mio
cuore, sulla mia fiducia,
sul mio tetto,
nelle mie vene,
nella mia vita,
non mi fai più
paura,
scivola
verso la terra
cantando con il
tuo canto
e con il mio
canto,
perché entrambi
lavoriamo sui
semi
e dividiamo
il dovere
cantando.
Ode al legno
Di quanto
conosco
e riconosco
fra tutte le
cose
è il legno
il mio migliore
amico.
Io porto per il
mondo
nel mio corpo,
nei miei vestiti,
l'aroma
della segheria,
odore di tavola
rossa.
Il mio petto, i
miei sensi
si impregnarono
nella mia
infanzia
di alberi che
cadevano,
di grandi
boschi pieni
di costruzione
futura.
Udii flagellare
il gigantesco
larice,
l'alloro alto
quaranta metri.
L'ascia ed il
corpo
del boscaiolo
minuscolo
d'improvviso
becchettano
la sua colonna
arrogante,
l'uomo vince e
cade
la colonna
d'aroma,
trema la terra,
un tuono
sordo, un
singhiozzo nero
di radici, ed
allora
un'onda
di odori
forestali
inondò i miei
sensi.
Fu durante la
mia infanzia, sulla
umida terra,
lontano,
nelle selve del
sud,
nei fragranti,
verdi
arcipelaghi,
con me
nacquero travi,
addormentate,
robuste come il
ferro,
tavole
sottili e
sonore.
La montagna
cigolava
cantando
i suoi amori di
acciaio,
ululava il filo
acuto,
il lamento metallico
della montagna
che taglia
il pane del
bosco
come una madre
al momento del parto,
e dava alla
luce in mezzo
alla luce
e alla selva
squarciando le
viscere
della natura,
partorendo
castelli di
legname,
abitazioni per
l'uomo,
scuole, bare,
tavole e manici
di ascia.
Tutto
lì nel bosco
dormiva
sotto le foglie
bagnate
quando
un uomo
incomincia,
torcendo i
fianchi
e alzando
l'ascia,
a beccucchiare
la pura
solennità
dell'albero
e questo
cade,
tuono e
fragranza cadono
perché da essi
nasca
la costruzione,
la forma,
l'edificio,
dalle mani
dell'uomo.
Ti conosco, ti
amo,
ti vidi
nascere, legno.
Per questo
se ti tocco
mi rispondi
come un corpo
amato,
mi mostri
i tuoi occhi e
le tue fibre,
i tuoi nodi, i
tuoi nei,
le tue venature
come immobili
fiumi.
Io so
ciò che essi
cantarono
con la voce del
vento,
ascolto
la notte
tempestosa,
il galoppo
del cavallo
nella selva,
ti tocco e ti
apri
come una rosa
secca
che risuscita
soltanto per me
offrendomi
l'aroma e il
fuoco
che sembravano
morti.
Sotto
la pittura
sordida
indovino i tuoi
pori,
affogata mi
chiami
e ti ascolto,
sento
scuotersi
gli alberi
che
ombreggiarono la mia infanzia,
vedo
uscir da te,
come un volo di
oceano
e di colombe,
le ali dei
libri,
la carta
di domani,
per l'uomo
la carta pura
per l'uomo puro,
che esisterà
domani
e che oggi sta
nascendo
con un rumore
di montagna
con una
lacerazione
di luce, suono
e sangue.
È la segheria
del tempo,
cade
la selva
oscura, oscuro
nasce
l'uomo,
cadono le
foglie nere
e ci opprime il
tuono,
parlano
all'unisono
la morte e la
vita,
come un violino
si innalza
il canto o il
lamento
della montagna
nel bosco,
e così nasce e
comincia
il legno
a percorrere il
mondo
fino ad essere
costruttore silenzioso
tagliato e
perforato dal ferro,
fino a soffrire
e a proteggere
costruendo
l'abitazione
dove ogni
giurno
si
incontreranno l'uomo, la donna
e la vita.
Ode alla « malvenuta »
Pianta dei mio
paese, rosa di terra
stella
rampicante,
pruno nero,
petalo di luna
nell'oceano
che amai con le
sue disgrazie e le sue onde,
con i suoi
pugnali e le sue insenature,
papavero
eretto,
garofano di
madreperla nera,
perché
quando la mia
coppa
traboccò e
quando
il mio cuore
cambiò dal lutto al fuoco,
quando non ebbi
per te, da offrirti,
ciò che per
tutta In vita ti aspettava,
allora
tu arrivasti,
quando lettere
brucianti
ardevano nella
mia fronte,
perché la linea
pura
del tuo nuziale
contorno
arrivò come un
anello
che gira
intorno alla terra?
Non avresti
dovuto
di tutte e di
tutte
arrivare alla
mia finestra
come un
gelsomino tardivo.
Non eri, oh
fiamma oscura,
colei che
avrebbe dovuto toccarmi
e salire con il
mio sangue
fino alla mia
bocca.
Che posso
risponderei
ora?
Consumati,
non aspettare,
non c'è attesa
per le tue
labbra di pietra notturna.
Consumati,
tu nella tua
fiamma,
io nel mio
fuoco,
e amami
per l'amore che
non potè aspettarti,
amami in ciò
che tu ed io
abbiamo di
pietra o di pianta:
continueremo a
vivere
di ciò che non
ci demmo:
della spalla su
cui non potè chinarsi una rosa,
di un fiore che
la sua stessa scottatura illumina.
Ode al mare
Qui nell'isola
il mare
e quanto mare
esce da sé
stesso
in ogni
momento,
dice di sì, di
no,
di no, di no,
di no,
dice di sì
nell'azzurro,
nella spuma,
nel galoppo,
dice di no, di
no.
Non può stare
tranquillo,
mi chiamo mare,
ripete
battendo su una
pietra
senza ottenere
di convincerla,
allora
con sette
lingue verdi
di sette cani
verdi,
di sette tigri
verdi,
di sette mari
verdi,
la percorre, la
bacia,
la inumidisce
e si colpisce
il petto
ripetendo il
suo nome.
Oh mare, così
ti chiami,
uh compagno
oceano,
non perdere
tempo ed acqua,
non scuoterti
tanto,
aiutaci,
siamo i piccoli
pescatori,
gli uomini
della riva,
abbiamo freddo
e fame,
sei il nostro
nemico,
non colpire
così forte,
non gridare a
questo modo,
apri la tua
cassa verde
ed offri a
tutti noi,
tra le mani
il tuo regalo
d'argento;
il pesce di
ogni giorno.
Qui in ogni
casa
lo amiamo
e benché fatto
d'argento,
di cristallo o
di luna,
nacque per le
povere
cucine della
terra.
Non custodirlo,
avaro,
mentre scivola
freddo come
lampo bagnato
sono le tue
onde.
Vieni, ora,
apriti
e lascialo
vicino alle
nostre mani,
aiutaci,
oceano,
padre verde e
profondo,
a dar termine
un giorno
alla povertà
terrestre.
Lasciaci
raccogliere i
frutti dell'infinita
piantagione
delle tue vite,
Ì tuoi frumenti
e le tue uve,
i tuoi buoi, i
tuoi metalli,
Io splendore
bagnato
e il frutto
sommerso.
Padre mare,
sappiamo già
come ti chiami,
tutti
i gabbiani
diffondono
il tuo nome
sulle spiagge:
ora, comportati
bene,
non scuotere i
tuoi crini,
non minacciare
nessuno,
non rompere
contro il cielo
la tua bella
dentatura,
tralascia per
un momento
le gloriose
storie,
dà ad ogni
uomo,
ad ogni
donna e ad ogni
bambino,
un pesce grande
o piccolo
ogni giorno.
Và per tutte le
strade
del mondo
a distribuire
pesci
ed allora
grida,
grida
perché ti odano
tutti
i poveri che
lavorano
e dicano,
affacciandosi
all'imboccatura
della miniera:
« Ecco che
viene il vecchio mare
a distribuire
pesci ».
Poi torneranno
giù,
nelle tenebre,
sorridendo, e
per le strade
e per i boschi
sorrideranno
gli uomini
e la terra
con sorriso
marino.
Ma
se così non
vuoi,
se non ne hai
voglia,
aspetta,
aspettaci,
dovremo
provvedere,
per prima cosa
regoleremo i
problemi
dell'umanità,
dapprima i più
grandi,
quindi tutti
gli altri,
ed allora
entreremo in
te,
taglieremo le
onde
con un coltello
di fuoco,
su di un
cavallo elettrico
salteremo la
spuma,
cantando
ci immergeremo
fino a toccare
il fondo
delle tue
viscere,
un filo atomico
terrà a bada i
tuoi fianchi,
pianteremo
nel tuo
giardino profondo
alberi
di cemento e
d'acciaio,
ti legheremo
mani e piedi,
sopra la tua
pelle gli uomini
passeggeranno
sputando,
togliendoti
grappoli,
costruendo
armature,
montando sulla
tua groppa per domarti
e per dominarti
l'anima.
Ma questo
accadrà quando
noi uomini
avremo regolato
il nostro
problema,
il grande,
il grande
problema.
Tutto
regoleremo
poco a poco:
ti
obbligheremo, mare,
ti
obbligheremo, terra,
a far miracoli,
perché in noi
stessi,
nella lotta,
sta il pesce,
sta il pane,
sta il
miracolo.
Ode a guardare uccelli
Ora
cerchiamo gli
uccelli!
Gli alti rami
ferrei
nel bosco,
la spessa
fecondità del
suolo,
è bagnato
il mondo,
brilla
pioggia o
rugiada, un astro
minuto
sulle foglie:
fresca
è la mattutina
terra madre,
l'aria
è come un fiume
che scuote
il silenzio,
odora di
rosmarino,
di spazio
e di radici.
In alto
un canto pazzo,
una cascata,
è un uccello.
Come possono
da una gola
più piccola di
un dito
cadere le acque
del suo canto?
Facoltà
luminosa!
Potere
invisibile,
torrente
di musica
sulle foglie,
conversazione
sacra!
Pulito, lavato,
fresco
è questo
giorno,
sonoro
come cetra
verde,
io seppellisco
le scarpe
nel fango,
salto le
sorgenti,
una spina
mi morde e una
raffica
d'aria come
un'onda
cristallina
si divide nel
mio petto.
Dove
sono gli
uccelli?
Fu forse
codesto
sussurro nel
fogliame
o codesta
fugace sfera
di grigio velluto,
o codesto
spostamento
di profumo?
Codesta foglia
staccatasi
dalla cannella
fu un uccello?
Furono forse un
volo
codesta polvere
di magnolia
irritata
o codesta
frutta
che cadde
risuonando?
Oh piccoli
cretini
invisibili,
uccelli del
demonio,
andate
al diavolo
con il vostro
sonaglio,
con le vostre
piume inutili!
Io che soltanto
volevo
accarezzarli,
vederli
risplendere,
non voglio
nella vetrina
vedere i lampi
imbalsamati,
voglio vederli
vivi,
voglio toccare
i loro guanti
di vera pelle
che non
dimenticano mai sui rami,
e conversare
con loro
tenendoli sulle
spalle,
anche se, come
accade alle statue, mi lasciano
immeritatamente
imbiancato,
Impossibile.
Non si toccano,
si odono
come un celeste
sussurro o
movimento,
conversano
con precisione,
ripetono
le loro osservazioni,
si vantano
di quanto
fanno,
commentano
quanto esiste,
dominano
certe scienze
come
l'idrografia
e sanno con
esattezza
dove stanno
raccogliendo
cereali.
Orbene,
uccelli
invisibili
della selva,
del bosco,
del pergolato,
uccelli
dell'acacia
e della
quercia,
uccelli
pazzi,
innamorati,
sorprendenti,
cantanti
vanitosi,
musicanti
migratori,
un'ultima
parola
prima
di tornare
con le scarpe
bagnate, le spine
e le foglie
secche
a casa mia:
vagabondi,
vi amo
liberi,
lontani dallo
schioppo e dalla gabbia,
corolle
fuggitive,
così
vi amo,
inafferrabili,
solidale e
sonora
società
dell'altezza,
foglie
in libertà,
campioni
dell'aria,
petali
del fumo,
liberi
allegri
volatori e
cantatori,
aerei o
terrestri,
navigatori del
vento,
felici
costruttori
di morbidissimi
nidi,
incessanti
messaggeri del
polline,
pronubi
del fiore, zii
del seme,
vi amo,
ingrati:
ritorno
felice per aver
vissuto con voi
un minuto
nel vento.
Ode al mormorio
Versi d'amore,
di lutto,
di collera o di
luna,
mi
attribuiscono:
di quelli che
con sofferenze,
mele ed
allegria,
vado
componendo,
dicono che non
son miei,
che mostrano
l'influenza
di Pitiney, di
Papo,
di Sodostes.
Che posso
farci!
La vita
mi ha posto
nella mano
una colomba
ed un'altra.
Appresi a
volare
e insegnai
volando.
Dal cielo
celeste
compresi i
doveri
della terra,
vidi più grandi
i fatti
degli uomini
che il volo
accanito
degli uccelli.
Amai la terra,
posi
nel mio cuore
la trasparenza
dell'acqua che
cammina,
costruii
col fango e col
vento il vaso
del mio
costante canto,
e allora
per villaggi,
case,
porti
e miniere,
andai
conquistando una famiglia umana,
resistetti con
i poveri
alla povertà,
vissi con i
miei fratelli.
Allora
ogni attacco di
onda nera,
ogni
pesante
zampata della
vita
contro le mie
povere ossa
furono sonoro
suono di campana,
e diventai
campanaro,
campanaro
della terra
e degli uomini.
Ora
sono campanaro,
mi afferro
con l'anima
alle corde,
trema
la terra
come il mio
cuore nel suono,
salgo, percorro
monti,
scendo,
diffondo
l'allarme,
l'allegria,
la speranza.
Perché
quando
sono stanco,
quando dormo,
quando esco a
bere con i miei amici
il vino
delle terre che
amo e che difendo,
perché
mi perseguiti,
infuriato,
con una pietra
con una
mascella
d'asino
vuoi
impaurirmi,
se nessuno
potè
prima
fare in modo
che tacessi?
Credi tu
che mettendo
sulla strada
una
sdrucciolevole
buccia di mela
o la tua remota
produzione di
saliva
potrai
por termine al
mio canto di campana
e alla mia
vocazione, di campanaro?
È ora
che ci
comprendiamo:
va a letto
presto,
preoccupati
che il tuo
sarto sia pagato
da tua madre o
da tuo cognato,
lasciami
salire alla
campana per la scalinata:
arde il sole
nel freddo,
è ancora caldo
il pane
nelle locande,
la terra è
fragrante,
è l'alba,
ed io, con la
mia campana,
con il mio
canto,
mi sveglio e ti
sveglio.
Questo è il mio
compito
- anche se non
li garba -,
svegliare
te e quelli che
dormono,
convincere
il notturno
che s'è fatto
giorno,
e ciò
è semplice
da fare,
così gradevole
come
distribuire
pani sulla via pubblica,
e perfino io
posso farlo,
cantando come
canto,
sono come
l'acqua che cammina,
e come un
campanaro,
inesorabile.
Ode alla notte
Dietro
al giorno,
ad ogni pietra
e albero
dietro ad ogni
libro,
notte,
galoppi e
lavori,
o riposi,
aspettando
fino a che le
tue radici nascoste
sviluppino il
tuo fiore ed il tuo fogliame.
Come
una bandiera
ti agiti nel
cielo
fino a riempire
non soltanto
i monti e i
mari,
ma le più
piccole cavità,
gli occhi
ferrei del
contadino Stanco,
il corallo nero
delle bocche
umane
consegnate al
sonno.
Libera corri
sul corso
selvaggio
dei fiumi,
segreti
sentieri ricopri, notte,
profondità di
amori costellati
da corpi nudi,
crimini che
saltano
con un grido
d'ombra,
mentre i treni
corrono, i
fochisti
gettano carbone
notturno sul fuoco rosso,
l'affaccendato
impiegato di statistica
si è messo in
un bosco
di foglie
pietrificate,
il fornaio
impasta
la bianchezza.
Anche la notte
dorme
come un cavallo
cieco.
Piove
da Nord a Sud,
sui grandi
alberi della
mia patria,
sui tetti
di metallo
corrugato,
risuona
il canto della
notte,
pioggia e
oscurità sono i metalli
della spada che
canta,
e stelle o
gelsomini
vigilano
dall'altura
nera,
segnali
che poco a poco
con lentezza di
secoli
capiremo.
Notte,
notte mia,
notte di tutti,
hai qualcosa
dentro di te,
rotonda
come un bambino
che nascerà,
come un
seme
che s'apre,
è il miracolo,
è il giorno.
Sei più bella
perché alimenti
con il tuo sangue oscuro
il papavero che
nasce,
perché lavori
con gli occhi chiusi
perché si
aprano gli occhi,
perché canti
l'acqua,
perché
risuscitino
le nostre vite.
Ode ai numeri
Che sete
di sapere
quanto!
Che fame
di sapere
quante
stelle ha il
cielo!
Passiamo
l'infanzia
contando
pietre, piante,
dita, spiagge,
denti,
la giovinezza
contando
petali, chiome.
Contiamo
i colori, gli
anni,
le vite e i
baci,
in campagna
i buoi, al mare
le onde. Le navi
divennero cifre
che venivano fecondate.
I numeri
partorivano.
Le città
erano mille,
milioni,
il frumento
centinaia
di unità che
dentro
avevano altri
numeri piccoli,
più piccoli di
un grano.
Il tempo
divenne numero.
La luce fu
numerata
e per quanto
corresse con il suono
la sua velocità
fu un 37.
Ci circondavano
i numeri.
Chiudevamo la
porta,
di notte,
stanchi,
arrivava un
800,
di sotto,
fino ad entrare
con noi nel letto,
e nel sonno
i 4000 e i 77
a colpirci la
fronte
con i loro
martelli e le loro pinze.
I 5
a unirsi
fino ad entrare
nel mare o nel delirio,
fino a che il
sole ci saluta con il suo zero
ed andiamo
correndo
in ufficio,
in officina,
in fabbrica
per cominciare
nuovamente l'infinito
numero 1 di
ogni giorno.
Avemmo, uomo,
tempo
perché la
nostra sete
si saziasse,
l'ancestrale
desiderio
di enumerare le
cose
e sommarle,
di ridurle fino
a farle
polvere,
arenili di
numeri,
Ci mettemmo
ad incartare il
mondo
con numeri e
nomi,
ma
le cose
esistevano,
ruggivano
dal numero,
impazzivano
nelle loro quantità,
evaporavano
lasciando
il loro odore o
il loro ricordo
e rimanevano i
numeri vuoti.
Per questo,
per te
desidero le
cose.
I numeri
vadano in
carcere,
si muovano
in colonne
chiuse
procreando
fino a darci la
somma
della totalità
dell'infinito.
Per te voglio
soltanto
che quei
numeri del
cammino
ti difendano
e che tu li
difenda.
La cifra
settimanale dei tuo salario
cresca fino a
coprire il tuo petto.
E dal numero
due nel quale si allacciano
il tuo corpo e
quello della donna amata
escano gli
occhi pari dei tuoi figli
per contare
ancora una volta
te antiche
stelle
e le
innumerevoli
spighe
che riempiranno
la terra trasformata.
Ode all'autunno
Ah, quanto
tempo
terra
senza autunno,
come
si poté vivere!
Ah, che
oppressiva
naiade
la primavera
che mostra
i suoi scandalosi
capezzoli
a tutti
gli alberi del
mondo,
e poi
l'estate,
frumento,
frumento,
intermittenti
grilli,
cicale,
sudore
sfrenato.
Allora
l'aria
porta nel
mattino
un vapore di
pianeta.
Da un'altra
stella
cadono gocce
d'argento.
Si respira
il cambiamento
di frontiera,
dall'umidità al
vento,
dal vento alle
radici.
Qualcosa di
sordo, di profondo
lavora sotto la
terra
immagazzinando
sogni.
L'energia si
aggomitola,
il nastro
delle
fecondazioni
arrotola
i suoi anelli.
Modesto è
l'autunno
come i
boscaioli.
Costa molto
far cadere
tutte le foglie
da tutti gli
alberi
di tutti i
paesi.
La primavera
le cucì volando
ed ora
bisogna
lasciarle
cadere come se
fossero
uccelli gialli.
Non è facile.
Occorre tempo.
Bisogna correre
per tutte
le strade,
parlare lingue,
svedese,
portoghese,
parlare in
lingua rossa,
in lingua
verde.
Bisogna saper
tacere in tutte
le lingue
ed in tutte le
parti,
sempre,
lasciar cadere,
cadere,
lasciar cadere,
cadere
le foglie.
Difficile
è
essere autunno,
facile essere
primavera.
Accendere tutto
ciò che nasce
per essere
acceso.
Ma spegnere il
mondo
facendolo
scivolare
come se fosse
un anello
di cose gialle,
fino a fondere
odori,
luce, radici,
portare il vino
alle uve,
coniare con
pazienza
l'irregolare
moneta
dell'albero
sull'altura
spargendola poi
su disinteressate
strade deserte,
è professione
di mani
maschili.
Per questo,
autunno,
compagno
vasaio,
costruttore di
pianeti,
elettricista,
preservatore di
frumento,
ti do la mia
mano da uomo
a uomo
e ti chiedo
d'invitarmi
a salire a
cavallo,
a lavorare con
te.
Volli sempre
essere
apprendista dell'autunno,
essere parente
piccolo
del laborioso
meccanico
dell'altura,
galoppare per
la terra
dividendo
oro,
inutile oro.
Ma, domani,
autunno
ti aiuterò
affinché riscuotano
foglie d'oro
i poveri della
strada.
Autunno, buon
cavaliere,
galoppiamo
prima che ci
sorprenda
il nero
inverno.
È duro
il nostro lungo
lavoro.
Prepariamo
la terra,
insegniamole
ad essere
madre,
a custodire le
sementi
che nel suo
ventre
dormiranno ben
custodite
da due
cavalieri rossi
che corrono per
il mondo:
l'apprendista
dell'autunno
e l'autunno.
Così, dalle
radici
oscure e
nascoste
potranno uscire
ballando
la fragranza
e il velo verde
della primavera.
Ode all'uccello Sofré
Ti seppellii
nel giardino:
una fossa
minuscola
con una mano
aperta,
terra
australe,
terra fredda
coprì
le tue piume,
i raggi gialli,
i lampi neri
del tuo corpo
spento.
Dal Mato
Grosso,
dalla fenile
Goianía,
ti inviarono
rinchiuso.
Non potevi.
Te ne andasti.
Nella gabbia
con le piccole
zampe tese,
come afferrate
ad un ramo
invisibile,
morto,
un povero
fagotto
di piume
estinte,
lontano
dai fuochi
natali,
dalla materna
foltissima
selva,
nella terra
fredda,
lontano,
Uccello
purissimo,
ti conobbi
vivo,
elettrico,
agitato,
chiassoso,
una freccia
fragrante
era il tuo corpo,
per le mie
braccia e le mie spalle
andasti
indipendente,
indomito,
nero di pietra
nera
e di polline
giallo.
Oh selvaggia
bellezza,
la direzione
eretta
dei tuoi passi,
nei tuoi occhi
la scintilla
della sfida, ma
così
come un fiore
sfidante,
con la interezza
di una
terrestre integrità, ricolmo
come un
grappolo, inquieto
come uno
scopritore,
sicuro
della sua
debole arroganza.
Feci male,
all'autunno
che comincia
nella mia
patria,
alle foglie
che ora si
indeboliscono
e cadono,
al vento Sud,
galvanico,
agli alberi
duri, alle foglie
che tu non
conoscevi,
ti portai,
feci viaggiare
il tuo orgoglio
in un altro
sole cenerognolo
lontano dal tuo
bruciante
come cetra
scarlatta,
e quando
all'aerodromo
metallico
la tua gabbia
discese,
non avevi più
la maestà del
vento,
eri già
spogliato
della luce
zenitale che ti copriva,
eri già
una piuma della
morte,
e poi,
in casa mia,
andò il tuo
ultimo sguardo
al mio viso, il
rimprovero
del tuo sguardo
indomabile.
Allora,
con le ali
chiuse,
ritornasti
al tuo cielo,
al cuore
esteso,
al fuoco verde,
alla terra
accesa,
ai declivi,
alle piante
rampicanti,
ai frutti,
all'aria, alle
stelle,
al suono
segreto
delle sorgenti
inesplorate,
all'umidità
delle
fecondazioni nella selva,
ritornasti
alla tua
origine,
al fulgore
giallo,
al petto oscuro,
alla terra e al
cielo della tua patria.
Ode al pane
Pane,
con farina
acqua
e fuoco
lieviti.
Spesso e
leggero,
coricato e
rotondo,
ripeti
il ventre
della madre,
equinoziale
germinazione
terrestre.
Pane,
che facile
e che profondo
sei!
Sul vassoio bianco
della
panetteria
si allungano le
tue file
come utensili,
piatti
o carte,
e d'improvviso
l'onda
della
vita,
la congiunzione
del germe
e del
fuoco,
cresci, cresci
subito
come
cintola, bocca,
seni,
colline della
terra,
vite,
sale il calore,
ti inonda
la pienezza, il
vento
della
fecondità,
ed allora
resta immobile
il tuo colore d’oro
e quando furono
gravidi
i tuoi piccoli
ventri,
la cicatrice
bruna
lasciò la sua
bruciatura
su tutto il tuo
dorato
sistema
di emisferi.
Ora,
intatto,
sei,
azione di uomo,
miracolo
ripetuto,
volontà della
vita.
Oh pane di ogni
bocca
non
ti imploriamo,
noi uomini
non siamo
mendicanti
di vaghi dei
o di angeli
ignoti:
del mare e
della terra
faremo pane,
coltiveremo a
grano
la terra e i
pianeti,
il pane di ogni
bocca,
di ogni uomo,
ogni giorno
arriverà perché
andammo
a seminarlo
e a produrlo
non per un uomo
ma
per tutti,
il pane, il
pane
per tutti i
popoli
e con esso ciò
che ha
forma e sapore
di pane
divideremo:
la terra,
la bellezza,
l'amore,
tutto questo
ha sapore di
pane,
forma di pane,
germinazione di
farina,
tutto
nacque per
essere diviso,
per essere
consegnato,
per essere
moltiplicato.
Per questo,
pane,
se fuggì
dalla casa
dell'uomo,
se ti
nascondono,
se ti negano,
se l'avaro
ti
prostituisce,
se il ricco
ti accaparra,
se il grano
non cerca solco
o terra,
pane,
non pregheremo,
pane,
non
mendicheremo,
lotteremo per
te con altri uomini,
con tutti gli
affamati,
per tutti i
fiumi e sotto tutti i cieli
andremo a
cercarti,
tutta la terra
divideremo
perché tu
germini,
e con noi
avanzerà Ia
terra,
l'acqua, il
fuoco, l'uomo
lotteranno con
noi.
Andremo
coronati
di spighe
a conquistare
terra e pane
per tutti,
e allora
anche la vita
avrà forma di
pane,
sarà semplice e
profonda,
innumerabile e
pura.
Tutti gli
esseri
avranno diritto
alla terra e
alla vita,
e così sarà il
pane di domani,
il pane di ogni
bocca,
sacro,
consacrato,
perché sarà il
prodotto
della più lunga
e dura
lotta umana.
Non ha ali
la vittoria
terrestre:
ha pane sulle
spalle,
e vola valorosa
liberando la
terra
come una
panificatrice
portata dal
vento.
Ode alla coppia
I
Regina, è bello
vedere
impressa sul
mio cammino
la tua orma
piccola
o vedere i tuoi
occhi
che si
impigliano
in tutto ciò
che guardo,
vedere
svegliare il tuo viso
ogni giorno,
immergersi
nello stesso
frammento
d'ombra
ogni notte.
Bello
è vedere
il tempo
che corre
come il mare
contro una sola
prua
formata dai
tuoi seni e dal mio petto,
dai tuoi piedi
e dalle mie mani.
Passano per il
tuo profilo
onde del tempo,
le stesse che
mi sferzano
e mi accendono,
onde come
furiosi
morsi di freddo
e onde come i
grani
della spiga.
Ma
siamo insieme,
resistiamo,
custodendo
forse
spuma nera o
rossa
nella memoria,
ferite
che palpitarono
come labbra o ali.
Camminiamo
insieme
per strade e
per isole,
sotto il
violino spezzato
delle raffiche,
davanti a un
dio nemico,
semplicemente
insieme
una donna e un
uomo.
II
Coloro
che non hanno
sentito ogni
giorno del
mondo
cadere
sulla doppia
maschera della
nave,
non il sale ma
il tempo,
non l'ombra
ma il passo
nudo
della fortuna,
come potranno
chiudere
gli occhi,
gli occhi
solitari, e dormire?
Non mi piace
la casa senza
tetto,
la finestra
senza vetri.
Non mi piace
il giorno senza
lavoro,
né la notte
senza sogno.
Non mi piace
l'uomo
senza donna,
né la donna
senza l'uomo.
Completati
uomo o donna,
che nulla
ti intimidisca.
In qualche
posto
ora
ti staranno
aspettando.
Alzati:
trema
la luce sulle
campane,
nascono
i papaveri,
devi
vivere
e impastare
con fango e
luce la tua vita.
Se sopra due
teste
cade la neve
è dolce il
cuore
caldo della casa.
Altrimenti
nell'intemperie,
il vento
ti domanda;
dov'è
colei che
amasti?
e ti spinge,
mordendoti, a cercarla.
Mezza donna è
una
e un uomo è
mezzo uomo.
In mezza casa
vivono,
dormono in
mezzo letto.
Voglio
che le vile si
integrino
accendendo i
baci
finora spenti.
Io sono il buon
poeta
pronubo. Ho
spose
per tutti gli
uomini,
Tutti i giorni
vedo.
donne solitarie
che mi
domandano di te.
Ti sposerò, se
vuoi,
con la sorella
della sirena
regina delle isole.
Purtroppo, non
puoi
sposarti con la
regina,
perché mi sta
aspettando.
Si sposerà con
me.
Ode al
passato.
Oggi,
conversando,
ho finito con
lo svelare
il passato,
il mio passato.
Con indulgenza
le piccole
cose sporche,
episodi
vuoti,
farina nera,
polvere.
Ti nascondi
docilmente
piegato
in te stesso,
sorridi,
ti esalti,
ma
se si tratta
di un altro,
del tuo amico,
del tuo nemico,
allora
diventi
spietato,
aggrotti le
ciglia:
Che ha fatto
quest'uomo!
Questa donna,
che ha
fatto!
Ti tappi
il naso,
chiaramente
ti disgusta
molto
il passato
altrui.
Del nostro guardiamo
con nostalgia
i giorni
peggiori,
apriamo
con precauzione
lo scrigno
e inalberiamo,
perché ci
ammirino,
la prodezza.
Dimentichiamo
il resto.
È soltanto
cattiva memoria.
Ascolta,
impara:
II tempo
si divide
in due fiumi:
uno
corre
all'indietro, divora
ciò che vivi,
l'altro
va avanti con
te
scoprendo
la tua vita.
In un solo
minuto
si uniscono.
In questo
minuto.
Questa è l'ora,
la goccia di un
istante,
che travolgerà
il passato.
È il presente.
È nelle tue
mani.
Rapido,
scivolando,
cade come una
cascata.
Ma sei il suo
padrone.
Costruiscilo
con amore, con
fermezza,
con pietra e
ala,
con rettitudine
sonora,
con cereali
puri,
con il metallo
più chiaro
del tuo petto,
camminando
a mezzogiorno,
senza temere
la verità, il
bene, la giustizia,
compagni di
canto,
il tempo che
trascorre
avrà forma
e suono
di chitarra,
e quando vuoi
volgerti al
passato,
la sorgente del
tempo
trasparente
rivelerà la tua
integrità cantando.
Il tempo è
allegria.
Ode alla pigrizia
Ieri sentii che
l'ode
non sorgeva
dalla terra.
Era tempo,
doveva
almeno
mostrare una
foglia verde.
Granai la
terra: «Esci,
sorella ode
— le dissi —,
ti ho promessa,
non aver paura
di me,
non ti pesterò,
ode di quattro
foglie,
ode di quattro
mani,
prenderai il tè
con me.
Esci,
ti coronerò fra
le odi,
usciremo insieme
sulla riva
del mare, in
bicicletta».
Fu inutile.
Allora,
dall'alto dei
pini,
la pigrizia
apparve nuda,
mi portò
abbagliato
e sonnolento,
mi scoprì sulla
sabbia
piccoli pezzi
rotti
di sostanze
oceaniche,
legni, alghe,
pietre,
piume di
uccelli marini.
Cercai senza
trovare
agate gialle.
Il mare
riempiva gli
spazi
ruinando torri,
invadendo
le coste della
mia patria,
spingendo
avanti
successive
catastrofi di spuma.
Sola sulla
sabbia
apriva un
raggio
una corolla.
Vidi
attraversare i petrelli inargentati
e come croci
nere
i cormorani
inchiodati
sulle rocce.
Liberai un'ape
che agonizzava
in una tela di ragno,
misi una
pietruzza
in tasca,
era morbida,
morbidissima
come il petto
di un uccello,
mentre sulla
costa,
per tutto il
pomeriggio,
lottarono sole
e nebbia.
A volte
la nebbia si
impregnava
di luce
come un
topazio,
altre volte
cadeva
un raggio di
sole umido
lasciando
cadere gocce gialle.
Ormai notte,
pensando ai
doveri della mia ode
fuggiasca,
mi tolsi le
scarpe
vicino al
fuoco,
da esse scivolò
la sabbia
e d'improvviso
rimasi
addormentato.
Ode alla povertà
Quando nacqui,
povertà,
mi seguisti,
mi guardavi
attraverso
le tavole
imputridite
dal profondo
inverno.
Poi,
i tuoi occhi,
furtivi,
guardavano
dalle fessure.
Le grondaie,
di notte,
ripetevano
il tuo nome e
cognome
o a volte erano
la saliera
sbeccata,
il vestito
sdrucito,
le scarpe rotte
che mi
avvisavano.
Stavi lì
in agguato
coi tuoi denti
di tarlo,
i tuoi occhi di
pantano,
la tua lingua
grigia
che taglia
i vestiti, il
legno,
le ossa e il
sangue,
lì mi stavi
cercando,
seguendomi
fin dalla
nascita
per le strade.
Quando affittai
una stanza
piccola, nei
sobborghi,
seduta su una
sedia
mi stavi
aspettando,
o nel sollevare
le lenzuola,
in un
alberguccio,
quando ero
adolescente,
non trovai la
fragranza
della rosa
nuda,
ma il fischio
freddo
della tua
bocca.
Povertà,
mi seguisti
nelle caserme e
negli ospedali,
in pace e in
guerra.
Quando mi
ammalai bussarono
alla porta:
non era il
dottore, entrava
un'altra volta
la povertà.
Ti vidi mettere
i miei mobili
nella strada:
gli uomini
li lasciavano
cadere come pietre.
Tu, con amore
orribile,
di un mucchio
di abbandono
in mezzo alla
strada e alla pioggia
stavi facendo
un trono
sdentato
e guardando i
poveri
raccoglievi
il mio ultimo
piatto per fartene un diadema.
Ora,
povertà,
ti seguo.
Come tu fosti
implacabile,
così io sono
implacabile.
Vicino
ad ogni povero
mi troverai
cantando,
sotto
ad ogni
lenzuolo
di ospedale
impossibile
troverai il mio
canto.
Ti seguo,
povertà,
ti vigilo,
ti circondo,
ti sparo,
ti isolo,
ti accorcio le
unghie,
ti rompo
i denti che ti
rimangono.
Sono
dappertutto:
nell'oceano con
i pescatori,
nella miniera
gli uomini
nel pulirsi la
fronte,
nell'asciugarsi
il sudore nero,
trovano
le mie poesie.
Esco ogni
giorno
con l'operaia
tessile.
Ho le mani
bianche
a forza di dare
pane nelle panetterie.
Dovunque tu
vada,
povertà,
il mio canto
sta cantando,
la mia vita
sta vivendo,
il mio sangue
sta lottando.
Sconfiggerò
le tue pallide
bandiere
dovunque si
innalzino.
Altri poeti
anticamente ti
chiamarono
santa,
venerarono la
tua cappa,
si alimentarono
di fumo
e sparirono.
Io
ti sfido,
con duri versi
ti colpisco il volto,
ti imbarco e ti
esilio.
Io con altri,
con altri,
molti altri,
ti stiamo
espellendo
dalla terra
alla luna
perché tu lì
rimanga
fredda e
incarcerata
a guardare con
un occhio
il pane e i
grappoli
che copriranno
la terra
di domani.
Ode alla Poesia
Circa cinquanta
anni
che cammino
con te, Poesia.
In principio
mi impigliavi i
piedi
e cadevo
bocconi
sulla terra
scura
o affondavo gli
occhi
nello stagno
per vedere le
stelle.
Più tardi ti
cingesti
a me con le
braccia dell'amante
ed entrasti
nel mio sangue
come un
convolvolo.
Poi
ti trasformasti
in coppa.
Bello
fu
andarli
spargendo senza consumarti,
consegnare la
tua acqua inesauribile,
vedere che una
goccia
cadeva sopra un
cuore bruciato
rivivendo dalle
sue ceneri.
Ma
non mi bastò.
Tanto andai con
te
che ti perdetti
di rispetto.
Cessai di
vederti come
una naiade
vaporosa,
ti misi a
lavorare come lavandaia,
a vendere pane
nelle panetterie,
a filare con le
semplici tessitrici,
a battere il
ferro nell'industria metallurgica.
Insieme a me
continuasti
a camminare per
il mondo,
ma non eri più
la florida
statua della
mia infanzia.
Ora
parlavi
con voce
ferrea.
Le tue mani
divennero dure
come pietre.
Il tuo cuore
fu un'abbondante
sorgente di
campane,
elaborasti il
pane a piene mani,
mi aiutasti
a non cader
bocconi,
mi cercasti
compagnia,
non una donna,
non un uomo,
ma mille,
milioni.
Insieme,
Poesia,
andammo
al
combattimento, allo sciopero,
alla sfilata,
nei porti,
nella miniera,
e risi quando
uscisti
con la fronte
macchiata di carbone
o incoronata
dalla segatura fragrante
delle segherie.
Non dormivamo
più per le strade.
Ci aspettavano
gruppi
di operai con
camicie
appena lavate e
con bandiere rosse.
E tu, Poesia,
prima così
disgraziatamente timida,
fosti
in testa
e tutti
si abituarono
al tuo vestito
di stella
quotidiana,
perché sebbene
qualche lampo tradì la tua famiglia
portasti a
termine il tuo compito,
la tua marcia
nella marcia degli uomini.
Ti chiesi di
essere
utilitaria e
utile,
come metallo o
farina,
disposta ad
essere aratro,
attrezzo,
pane e vino,
disposta.
Poesia,
a lottare corpo
a corpo
e a cadere
dissanguandoti.
E ora,
Poesia,
grazie, sposa,
sorella o madre
o fidanzata,
grazie, onda
marina,
fiore d'arancio
e bandiera,
motore di
musica,
lungo petalo
d'oro,
campana
sottomarina,
granaio
inestinguibile,
grazie
terra di ognuno
dei miei
giorni,
vapore celeste
e sangue
dei miei anni,
perché mi
accompagnasti
dalla vetta più
rarefatta
fino alla
semplice tavola
dei poveri,
perché mettesti
nell'anima mia
sapore
ferruginoso
e fuoco freddo,
perché mi
innalzasti
fino
all'insigne sommità
degli uomini
comuni,
Poesia,
perché mentre
con te
andavo
consumandomi
continuavi
a sviluppare la
tua freschezza eterna,
il tuo impeto
cristallino,
come se il
tempo
che poco a poco
mi trasforma in terra
lasciasse
scorrere eternamente
le acque del
mio canto.
Ode ai poeti popolari
Poeti nativi
della terra,
nascosti nei
solchi,
cantastorie di
piazza,
ciechi dei
vicoli, trovatori
delle praterie e
dei magazzini,
se l'acqua
comprendessimo
forse
parlerebbe come voi,
se le pietre
dicessero il
loro lamento
o il loro
silenzio,
con la vostra
voce, fratelli,
parlerebbero.
Numerosi
siete, come le
radici.
Nell'antico
cuore
del popolo
siete nati
e da lì viene
la vostra voce
semplice.
Avete la
gerarchia
del silenzioso
vaso di creta
perduto negli
angoli,
all'improvviso
canta,
quando
trabocca,
ed è semplice
il suo canto,
è soltanto
terra e acqua.
Così voglio che
cantino
le mie poesie,
voglio che
portino
terra e acqua,
fertilità e
canto,
a tutti.
Per questo,
poeti
del mio popolo,
saluto
l'antica luce
che sorge
dalla terra.
L'eterno
filo in cui si
unirono
popolo
e
poesia,
mai
fu spezzato
questo profondo
filo di pietra,
viene
da tanto
lontano
come
la memoria
dell'uomo.
Vide
con gli occhi
ciechi
dei vati
nascere la
tumultuosa
primavera,
la società
umana,
il primo bacio,
e in guerra
cantò sul
sangue,
era lì mio
fratello,
barba rossa,
testa
insanguinata
ed occhi
ciechi,
con la sua
lira,
lì stava
cantando
fra i morti.
Omero
si chiamava
o Pastor Pérez,
o Reinaldo
Donoso.
I suoi canti
tristi
erano lì, ed
ora
un volo bianco,
una colomba,
erano la pace,
il ramo
dell'albero
dell'olio,
e la continuità
della bellezza.
Più tardi
li assorbì la
strada,
la campagna,
li incontrai che
cantavano
fra il
bestiame,
nella
celebrazione
della sfida,
che
raccontavano le pene
dei poveri,
le notizie
delle
inondazioni,
le rovine
dell'incendio
o la notte
nefanda
degli
assassini!.
Essi,
i poeti
del mio popolo,
erranti,
poveri fra i
poveri,
sostennero
sulle loro
canzoni
il sorriso,
criticarono e
canzonarono
gli
sfruttatori,
raccontarono la
miseria
del minatore
e il destino
implacabile
del soldato.
Essi,
i poeti
del popolo,
con chitarra
lacera
e occhi
conoscitori
della vita,
sostennero
nel loro canto
una rosa
e la mostrarono
nei vicoli
perché si
sapesse
che la vita
non sarà sempre
triste.
Giullari, poeti
umilmente
altezzosi,
attraverso
la storia
e i suoi
rovesci,
attraverso
la pace e la
guerra,
la notte e
l'aurora,
siete voi
i depositari,
i tessitori
della poesia,
ed ora
qui nella mia
patria
sta il tesoro,
il cristallo di
Castiglia,
la solitudine
del Cile,
la maliziosa
innocenza,
e la chitarra
contro l'infortunio,
la mano
solidale
nel cammino
la parola
ripetuta nel
canto
e trasmessa,
la voce di
pietra e acqua
fra le radici,
la rapsodia del
vento,
la voce che non
ha bisogno di libri,
tutto ciò che
dobbiamo apprendere
noi orgogliosi:
con la verità
del popolo
l’eternità del
canto.
Ode alla primavera
Primavera
Terribile,
rosa
pazza
arriverai,
arrivi
impercettibile
appena
un tremore
d’ala, un bacio
di nebbia con
gelsomini,
il cappello
lo sa,
i cavalli,
il vento
porta una
lettera verde
che gli alberi
leggono
e cominciano
le foglie
a guardare con
occhio,
a vedere
nuovamente il mondo,
si convincono,
tutto è pronto
il vecchio sole
supremo,
l’acqua che
parla
tutto,
ed allora
escono tutte le
gonne
del fogliame,
la smeraldina,
pazza
primavera,
luce sfrenata,
cavalla verde,
tutto
si moltiplica,
tutto
cerca
palpando
una materia
che ripeta la
sua forma,
il germe muore
piccoli piedi
sacri,
l'uomo
cinge
l'amore della
sua amata,
e la terra si
colma
di freschezza,
i petali che
cadono
come farina,
la terra
risplende
appena dipinta
mostrando
la sua
fragranza
nelle ferite,
i baci delle
labbra di garofani,
la marea scarlatta
della rosa.
Che bellezza!
Ora,
primavera,
dimmi a che
servi
e a chi servi.
Dimmi se il
dimenticato
nella sua
caverna
ricevette la
tua visita,
se l'avvocato
povero
nel suo ufficio
vide fiorire i
tuoi petali
sul sudicio
tappeto,
se il minatore
delle miniere
della mia patria
non conobbe
altro che la
primavera nera
del carbone
o il vento
avvelenato
dello zolfo!
Primavera,
ragazza,
ti aspettavo!
Prendi questa
scopa e scopa
il mondo!
Pulisci
con questo
straccio
le frontiere,
spolvera
i tetti degli
uomini,
rimuovi
l'oro
accumulato
e dividi
i beni
nascosti,
aiutami
quando
già
l'
uomo
è libero
dalla miseria,
dalla polvere,
dagli stracci,
dai debiti,
dalle piaghe,
dai dolori,
quando
con le tue
trasformatrici mani di fata
e con le mani
del popolo,
quando sulla terra
il fuoco e
l'amore
toccano i tuoi
ballerini
piedi di
madreperla,
quando
tu, primavera,
entri
in tutte
le case degli
uomini,
ti amerò senza
peccato,
disordinata
dalia,
acacia pazza,
amata,
con te, con il
tuo aroma,
con la tua
abbondanza, senza rimorso,
con la tua nuda
neve
ardente,
con le tue più
copiose sorgenti,
senza scartare
la fortuna
di altri
uomini,
con il miele
misterioso
delle api
diurne,
senza che i
negri debbano
vivere divisi
dai bianchi,
o primavera
della notte
senza poveri,
senza povertà,
primavera
fragrante,
arriverai,
arrivi,
ti vedo
venire per la
strada:
questa è la mia
casa,
entra,
tardavi,
era ora,
che bello è
fiorire,
che lavoro
meraviglioso:
che attiva
operaia tu sei,
primavera,
tessitrice,
con cadi ria,
mungitrice,
molteplice ape.
macchina
trasparente,
mulino di
cicale,
entra
in tutte le
case,
avanti,
lavoreremo
insieme
nella futura e
pura
fecondità
fiorita.
Ode a un orologio nella notte
Di notte, nella
tua mano
brillò come una
lucciola
il mio
orologio.
Udii
la sua corda:
come un sussurro
secco
usciva
dalla tua mano
invisibile.
La tua mano
allora
tornò nel mio
petto oscuro
per raccogliere
il mio sonno e il suo battito.
L'orologio
continuò a
tagliare il tempo
con la sua
piccola sega.
Come in un
bosco
cadono
frammenti di
legno,
minute gocce,
pezzi
di rami o nidi,
senza che cambi
il silenzio,
senza che la
fresca oscurità termini,
così
continuò
l'orologio a tagliare
dalla tua mano
invisibile,
tempo, tempo,
e caddero
minuti come
foglie,
fibre di tempo
rotto,
piccole piume
nere.
Come nel bosco
odoravamo
radici,
l'acqua in
qualche posto scioglieva
una
gocciolatura grossa
come uva
bagnata.
Un piccolo
mulino
macinava la
notte,
l'ombra
sussurrava
cadendo dalla
tua mano
e riscopriva la
terra.
Polvere,
terra, distanza
macinava e
macinava
il mio orologio
di notte,
dalla tua mano.
Posi
iI mio braccio
sotto il tuo
collo invisibile,
sotto il tuo
peso tiepido,
e nella mia
mano
cadde il tempo,
la notte,
piccoli rumori
di legno e di
bosco,
di notte
divisa,
di frammenti
d'ombra,
di acqua che
cade e cade:
allora
cadde il sonno
dall'orologio e
dalle
tue due mani
addormentate,
cadde come
acqua scura
dei boschi,
dall'orologio
al tuo corpo,
da te verso i
paesi,
acqua scura,
tempo che cade
e scorre
dentro di noi.
E così fu
quella notte,
ombra e spazio,
terra
e tempo,
qualcosa che
corre e cade
e passa.
E così tutte le
notti
vanno per la
terra,
non lasciano se
non un vago
aroma nero,
cade una
foglia,
una goccia
sulla terra
spegne il suo
suono,
dormono il
bosco, le acque,
le praterie,
le campane,
gli occhi.
Ti ascolto e
respiri,
amor mio,
dormiamo.
Ode a Río de Janeiro
Río de Janeiro,
l'acqua
è la tua
bandiera,
agita i suoi
colori,
soffia e suona
nel vento,
città,
naiade nera,
di chiarezza
infinita,
di bollente
ombra,
di pietra con
schiuma
è il tuo
tessuto,
il lucido
dondolio
della tua amaca
marina,
l'azzurro
movimento
dei tuoi piedi
sabbiosi,
l'acceso
bouquet
dei tuoi occhi.
Río, Río de Janeiro
i giganti
spruzzarono la
tua statua
di polvere di
pepe,
lasciarono
nella tua bocca
lombi di mare,
tiepide alette
turbatrici,
promontori
della
fertilità, mammelle dell'acqua,
declivi di
granito,
labbra d'oro,
e fra la pietra
spaccata
il sole marino
che illumina
schiume
stellate.
Oh, Bellezza,
oh, cittadella
dalla pelle
fosforescente,
melograna
di carne
azzurra, oh dea
tatuata in
successive
onde di agata
nera!
Dalla tua nuda
statua
esce un aroma
di gelsomino bagnato
dal sudore,
un'acida
guazza
di piantagioni
di caffè e di negozi di frutta
e a poco a poco
sotto il tuo diadema,
fra la
duplicata meraviglia
dei tuoi seni,
fra cupola e
cupola
della tua
natura
si affaccia il
dente della sventura,
la cancerosa
coda
della miseria,
sulle colline
lebbrose
il grappolo
inclemente
di vite umane,
lucciola
terribile,
smeraldo
estratto
dal sangue,
il tuo popolo
si estende verso i limiti
della selva,
e un rumore
oppresso,
passi e sorde
voci,
migrazioni di
affamati,
oscuri piedi di
sangue,
il tuo popolo,
al di là dei
fiumi,
nella densa
amazzonia,
dimenticato,
nel Nord
di spine,
dimenticato,
assetato sugli
altipiani,
dimenticato,
nei porti,
morso
dalla febbre,
dimenticato,
sulla porta
della casa da
cui lo espulsero,
ti chiede
un solo
sguardo,
dimenticato.
In altre terre,
regni, nazioni,
isole,
la città
capitale,
la coronata,
fu alveare
di lavori
umani,
esposizione
della sfortuna
e del successo,
fegato della
povera monarchia,
cucina della
pallida repubblica.
Tu sei
l'accecante
vetrina
di un'oscura
notte,
la gola
coperta
di acque marine
e oro
di un corpo
abbandonato,
sei
la porta
delirante
di una casa
vuota,
sei
l'antico
peccato,
la salamandra
crudele,
intatta
nel braciere
dei lunghi
dolori del tuo popolo,
sei
Sodoma,
sì,
Sodoma,
abbagliante
con un fondo
scuro
di velluto
verde,
circondata
da ombra
increspata, da acque
illimitate,
dormi
nelle braccia
della
sconosciuta
primavera
di un pianeta
selvaggio.
Río, Río de Janeiro,
quante cose
devo dirti.
Nomi
che non
dimentico,
amori
che maturano il
loro profumo,
appuntamenti
con te, quando
del tuo popolo
un'onda
unirà al tuo
diadema
la tenerezza,
quando
alla tua
bandiera di acque
ascenderanno le
stelle
dell'uomo,
non del mare,
non del cielo,
quando
nello splendore
della tua
aureola
io vedrò
il negro, il
bianco, il figlio
della tua terra
e del tuo sangue,
elevati
fino alla
dignità della tua bellezza,
uguali nella
tua luce risplendente,
proprietari
umili e
orgogliosi
dello spazio e
dell'allegria,
allora, Río de
Janeiro,
quando
un giorno
per tutti i
tuoi figli,
non soltanto
per alcuni,
offrirai il tuo
sorriso, schiuma
di naiade
bruna,
allora
sarò il tuo
poeta,
arriverò con la
mia lira
a cantare nel
tuo aroma
e dormirò nel
tuo nastro
di platino,
nella tua
sabbia
incomparabile,
nella
freschezza azzurra del ventaglio
che aprirai nel
mio sogno
simile alle ali
di una
gigantesca
farfalla
marina.
Ode alla semplicità
SEMPLICITÀ, io
ti domando,
mi
accompagnasti sempre?
O torno ad
incontrarti
sulla mia
sedia, seduta?
Ora
non vogliono
accettarmi
con te,
mi guardano di
sbieco,
si domandano
chi è
la chioma
rossa.
Il mondo,
mentre ci
incontravamo
e ci
riconoscevamo,
si riempiva di
stupidi
tenebrosi,
di figli di
frutta pieni
di parole
come i
dizionari,
pieni di vento
come un ventre
che ci vuol giocare
un brutto tiro,
e, ora che
arriviamo
dopo tanti
viaggi,
siamo fuori
posto
nella poesia.
Semplicità, che
cosa terribile ciò che ci succede:
non vogliono
riceverci
nei salotti,
i caffè sono
pieni
dei più
squisiti
pederasti,
io e te ci
guardiamo in faccia,
non ci
vogliono.
Allora
andiamocene
sulla spiaggia,
nei boschi,
di notte
l'oscurità è
nuova,
ardono appena
lavate
le stelle, il
cielo
è un campo di
trifoglio
turgido, scosso
dal suo sangue
ombroso.
Di mattina
andiamo
in panetteria,
il pane è
tiepido come un seno,
il mondo
odora di
freschezza
di pane appena
uscito.
Romero, Ruiz,
Nemesio,
Rojas, Manuel
Antonio,
panettieri.
Come sono
simili
il pane e il
panettiere,
che semplice è la
terra
di mattina,
più tardi è
ancora più semplice,
e di notte
è trasparente.
Per questo
cerco
nomi
fra l'erba,
come ti chiami?
chiedo
a una corolla
che
d'improvviso
piegata a terra
fra le pietre povere
s'è arsa come
un lampo.
E così,
semplicità, andiamo
a conoscere
gli esseri
nascosti, il segreto
coraggio di
altri metalli,
a guardare la
bellezza delle foglie,
a conversare
con uomini e donne
che soltanto
per essere tali
sono insigni,
e di tutto,
di tutti,
semplicità, mi
fai innamorare.
Vengo con te,
mi immergo nel
tuo torrente
di acqua
chiara.
E allora
protestano:
Chi è costei
che va con il
poeta?
Noi non
vogliamo avere
nulla a che
fare
con quella
provinciale.
Ma se è aria, è
lei
il cielo che
respiro.
Io non la
conoscevo o non la ricordavo.
Se mi hanno visto
una volta
andare con
misteriose
odalische,
s'è trattato
soltanto di distribuzioni
tenebrose.
Ora,
amor mio,
acqua,
tenerezza,
luce luminosa o
ombra
trasparente,
semplicità,
vieni con me
per aiutarmi a nascere,
per insegnarmi
un'altra volta
a cantare,
verità, virtù,
fonte,
vittoria
cristallina.
Ode alla solitudine
Oh, Solitudine,
bella
parola, erbe
silvestri
spuntano fra le
tue sillabe.
Ma sei soltanto
pallida
parola, oro
falso,
moneta
traditrice!
Io descrissi la
solitudine con lettere
di letteratura,
le misi la
cravatta
tolta dai
libri,
la camicia
del sogno,
ma
la conobbi
soltanto quando fui solo.
Bestia non vidi
nessuna
come quella:
al ragno peloso
assomiglia
e alla mosca
dei letamai,
ma nelle sue
zampe di cammello ha
ventose di
serpente sottomarino,
ha una
pestilenza di cantina
dove
imputridiscono per secoli
grigie pelli di
foca e di topi.
Solitudine, io
non voglio
che continui
a mentire per
bocca dei libri.
Arriva il
giovane poeta tenebroso
e per sedurre
così
l'assonnata signorina
si cerca marmo
nero e ti innalza
una piccola
statua
che
dimenticherà
la mattina
delle nozze.
Ma
nella mezza
luce della prima vita
dei bambini la
incontriamo
e la crediamo
una dea nera
portata dalle
isole,
giochiamo con
il suo torso e le offriamo
la riverenza
pura dell'infanzia.
Non è vera
la solitudine
creatrice.
Non è solo
il seme nella
terra.
Moltitudini di
germi mantengono
il profondo
concerto delle vite
e l'acqua è
soltanto madre trasparente
di un
invisibile coro sommerso.
Solitudine
della terra
è il deserto. E
sterile
come lui è
la solitudine
dell'uomo. Le
medesime
ore, notti e
giorni
avvolgono tutta
la terra
con il loro
manto
ma nel deserto
non lasciano nulla.
La solitudine
non riceve semi.
Non è soltanto
sua la bellezza
di una nave
nell'oceano:
il volo di
colomba sull'acqua
è il prodotto
di una
meravigliosa compagnia
di fuoco e di
fochisti,
di stella e di
naviganti,
di braccia e di
bandiere riunite,
di comuni amori
e destini.
La musica
cercò per
esprimersi
la fermezza
corale dell'oratorio,
e fu scritta
non soltanto da
un uomo
ma da una linea
di ascendenti
sonori.
E questa parola
che non lascio
sospesa sul ramo,
questa canzone
che cerca
non la
solitudine ma la tua bocca
perché tu la
ripeta,
la scrivano il
vento che mi sfiora e quelli
che vissero
prima di me,
e se tu leggi
la mia ode,
è per vincere
la tua solitudine,
come se le tue
mani l’avessero scritta,
senza
conoscermi, con le mie mani.
Ode al terzo giorno
Sei lunedì,
giovedì,
da venire o già
passato.
Agosto nel
mezzo
della sua rete
scarlatta
d'improvviso ti
scaccia,
o Giugno,
Giugno,
quando meno
credevamo
un petalo
con fiamme
spunta
nel mezzo
della settimana
fredda,
un pesce rosso
percorre
come un brivido
improvviso
l'inverno,
e i fiori
cominciano
a vestirsi,
a riempirsi di
luna,
a camminare per
la strada,
a imbarcarsi
sul vento,
è un giorno
qualsiasi,
color di muro,
ma
qualcosa sale
all'apice
di un minuto,
orifiamma
o sale
silvestre,
oro di ape
spunta sulle bandiere,
il vento
effonde miele scarlatto,
è un giorno
senza nome,
ma
con zampe d'oro
cammina nella
settimana,
il polline gli
si appiccica
sui baffi,
la malta
celeste
avanza nei suoi
occhi,
e balliamo
contenti,
cantiamo
inseguendo
i fiori del
ciliegio,
leviamo la
coppa
innamorati,
salutiamo l'ora
che si
avvicina, il minuto
che trascorse,
che nasce
o che fermenta.
Dea del giorno,
papavero
incosciente,
rosa
scapigliata,
improvvisa
primavera,
Giovedì,
raggio nascosto
in mezzo
alla
biancheria,
ti amo,
sono
il tuo
fidanzato.
Comprendo,
passeggera,
passeggero,
che passi:
dobbiamo
salutarci,
ma una goccia
di splendore,
un'uva
di sole
immaginario
penetrò nel
sangue cieco
di ogni giorno,
e noi
custodiremo
questo raggio
rosso
di fuoco e di
ambrosia,
custodiremo
questo giorno
insorgente
splendente
indimenticabile
con la sua
fiamma
nel mezzo della
polvere e del tempo.
Ode al tempo
Dentro di te la
tua età
che avanza,
dentro di me la
mia età
che cammina.
Il tempo è
deciso,
non suona la
sua campana,
si ingrandisce,
cammina,
dentro di noi;
appare
come un'acqua
profonda
nello sguardo
e, vicino alle
castagne
bruciate dei
tuoi occhi,
un filamento,
l'impronta
di un minuscolo
fiume,
una stellina
secca
che sale alla
tua bocca.
Il tempo porta
i suoi fili
ai tuoi
capelli,
ma nel mio
cuore,
come una
madreselva,
rimane la tua
fragranza,
viva come il
fuoco.
È bello
come siamo
vissuti
invecchiare
vivendo.
Ogni giorno
fu pietra
trasparente,
ogni notte
per noi fu una
rosa nera,
e questo solco
sul tuo viso o sul mio
sono pietra o
fiore,
ricordo di un
lampo.
I miei occhi si
sono consumati nella tua bellezza,
ma tu sei i
miei occhi.
Forse sotto i
miei baci ho affaticato
il tuo petto,
ma tutti hanno
visto nella mia allegria
il tuo segreto
splendore.
Amore, che
importa
che il tempo,
lo stesso che
innalzò come due fiamme
o spighe
parallele
il mio corpo e
la tua dolcezza,
domani li
mantenga
o li sgrani
e con le sue
stesse dita invisibili
cancelli
l'identità che ci separa
dandoci la
vittoria
di un solo
essere finale sotto la terra.
Ode alla terra
Non la terra
prodiga
io canto,
la traboccante
madre di
radici,
la
scialacquatrice,
carica di
grappoli e di uccelli,
di limo e di
sorgenti,
patria degli
alligatori,
sultana dagli
ampi seni
e dal diadema
eretto,
non l'origine
del giaguaro
nel fogliame
né la gravida
terra di lavoro
con il suo seme
simile
a un minuscolo
nido
che canterà
domani,
no, io lodo
la terra
minerale, la pietra andina,
la cicatrice
severa
del deserto
lunare, le spaziose
sabbie di
salnitro,
io canto
il ferro,
la increspata
testa
del rame e dei
suoi grappoli
quando emerge
ricoperta di
terra e di polvere di dinamite
appena
dissotterrata
dalla
geografia.
Oh terra, madre
dura,
lì nascondesti
i metalli
profondi,
da lì li
graffiammo
e con il fuoco
l'uomo,
Pedro,
Rodríguez o
Ramirez,
li ha
trasformati di nuovo
in luce
originale, in lava liquida,
e allora,
unito a te,
terra, duro
e collerico metallo,
diventasti, ad
opera
delle piccole
mani di mio zio,
filo metallico
o ferro di cavallo,
nave o
locomotiva,
armatura di
scuola,
velocità di
proiettile.
Arida terra,
mano
senza segni nel
palmo,
te io canto,
qui non
elargisti trilli
né ti nutrì la
rosa
della corrente
che canta
secca, dura e
chiusa,
pugno nemico,
stella
nera,
te io canto
perché l'uomo
ti farà
partorire, ti riempirà di frutti,
cercherà le tue
ovaie;
spargerà nella
tua coppa segreta
i raggi
speciali,
terra dei
deserti,
linea pura,
a te il testo
del mio canto
perché sembri
morta
ma ti risveglia
la fitta
dolorosa della dinamite,
ed un
pennacchio di fumo insanguinato
annuncia il
parto
e saltano i
metalli verso il cielo.
Mi piaci, terra
di argilla e di
arena,
ti ammasso e ti
formo,
come tu mi formasti,
e tu ti stacchi
dalle mie dita
come io,
liberatemi,
tornerò alla
tua ampia matrice.
Terra,
d'improvviso
mi sembra di
toccarti
in tutti i tuoi
contorni
di medaglia
porosa,
di giara
minuta,
e nella tua
forma passeggio
le mie mani
e trovo l'anca
dell'amata,
i seni
piccolini,
il vento come
un granello
di morbida e
tiepida avena,
e a te mi
abbraccio, terra,
vicino a te
dormo,
alla tua vita
si stringono le mie braccia e le mie labbra,
dormo con te e
semino i miei baci più profondi.
Ode al pomodoro
La strada
si riempi di
pomodori,
mezzogiorno,
estate,
la luce
si divide
in due
metà
di pomodoro,
scorre
per le vie
il sugo.
In dicembre
il pomodoro
si libera,
invade
le cucine,
entra nei
pranzi,
si siede
tranquillo
nelle credenze,
fra i vasi,
i piatti del
burro,
le saliere
azzurre.
Ha
luce propria,
maestà benigna.
Disgraziatamente,
dobbiamo
assassinarlo:
si immerge
il cucchiaio
nella sua polpa
vivente,
è una rossa
viscera,
un sole
fresco,
profondo,
inesauribile,
riempie le
insalate
del Cile,
si sposa
allegramente
con la chiara
cipolla,
e per
celebrarlo
si lascia
cadere
l'olio,
figlio
essenziale
dell'olivo,
sui suoi
emisferi socchiusi,
il pepe
aggiunge
la sua
fragranza,
il sale il suo
magnetismo:
sono le nozze
del giorno,
il prezzemolo
tende
il suo aroma,
le patate
bollono
vigorosamente,
l'arrosto
colpisce
con il suo
profumino
sulla porta,
è l'ora!
andiamo!
e sulla
tavola, nel
cuore
dell'estate,
il pomodoro,
astro di terra,
stella
ripetuta
e feconda,
ci mostra
le sue
circonvoluzioni,
i suoi canali,
l'insigne pienezza
e l'abbondanza
senza osso,
senza corazza,
senza squame né
spine,
ci consegna
il regalo
del suo colore
focoso
e la totalità
della sua freschezza.
Ode alla
tormenta
Ieri notte
venne
lei,
rabbiosa,
azzurra, color
della notte,
rossa, color
del vino,
la tempesta
portò
la sua chioma
d'acqua,
occhi di freddo
fuoco,
ieri notte
volle
dormire sulla
terra.
Arrivò
d'improvviso,
appena
srotolatasi
dal suo astro
furioso,
dalla sua
grotta celeste,
voleva dormire
e preparò il
suo letto,
scopò selve,
cammini,
scopò monti,
lavò pietre
d'oceano,
ed allora,
come fossero
piume,
rimosse i
pineti
per farsi il
letto.
Estrasse lampi
dal suo sacco
di fuoco,
lasciò cadere i
tuoni
come grandi
barili.
D'improvviso
fu silenzio:
una foglia
andava sola
nell'aria,
come un violino
volante,
allora,
prima
di toccare
terra,
tempesta, nelle
tue mani
la prendesti,
mettesti tutto
il vento
a soffiare la
sua buccina,
la notte intera
per andare con
i suoi cavalli,
tutto il gelo a
fischiare,
gli alberi
selvaggi
ad esprimere la
sfortuna
degli incatenati,
la terra
a gemere come
madre
partoriente,
con un solo
soffio
nascondesti
il rumore
dell'erba
o delle stelle,
rompesti
come una tela
il silenzio
inattivo,
si empì il
mondo
di orchestra e
di furia e di fuoco,
e quando i
lampi
cadevano come
capelli
dalla tua
fronte fosforica,
cadevano come
spade
dai tuoi
fianchi marziali,
e quando ormai
credevamo
che il mondo
stesse per finire,
allora,
pioggia,
pioggia,
soltanto
pioggia,
tutta la terra,
tutto
il cielo
riposarono,
la notte
si dissanguò
cadendo
sul sonno
dell'uomo,
soltanto
pioggia,
acqua
del tempo e del
cielo:
nulla era
caduto,
se non un ramo
rotto,
un nido
abbandonato.
Con le tue dita
di musica,
con il tuo
fragore d'inferno,
con il tuo
fuoco
di vulcani
notturni,
giocasti
sollevando una
foglia,
desti forza ai
fiumi,
insegnasti
ad essere
uomini
agli uomini,
a temere ai
deboli,
a piangere ai
teneri,
a fremere
alle finestre,
ma,
quando
stavi per
distruggerci, quando
come lama
scendeva dal
cielo la furia,
quando tremava
tutta la luce e
l'ombra
e i pini si mordevano
ululando
vicino al mare
nelle tenebre,
tu, delicata,
tempesta,
fidanzata mia,
furiosa,
non ci facesti
del male:
ritornasti
alla tua stella
e pioggia,
pioggia verde,
pioggia piena
di sogni e di
germi,
pioggia
preparatrice
di raccolti,
pioggia che lavi
il mondo,
lo asciughi
e lo ricrei,
pioggia per noi
e per i semi,
pioggia
per l'oblio
dei morti
e per
il nostro pane
di domani,
questo soltanto
lasciasti,
acqua e musica,
perciò
tempesta,
ti amo,
conta su di me,
ritorna,
svegliami,
illuminami,
mostrami il tuo
cammino
perché a te si
unisca e canti con il tuo canto
la decisa voce
tempestosa di
un uomo.
Ode al vestito
Ogni mattina
aspetti
su una sedia,
vestito,
che
la mia vanità,
il mio amore
la mia
speranza, il mio corpo ti riempiano.
Appena
esco dal sonno,
appena mi
accommiato dall'acqua,
entro nelle tue
maniche,
le mie gambe
cercano
il foro delle
tue gambe
e così
abbracciato
dalla tua
fedeltà infaticabile
esco a
calpestare l'erba,
entro nella
poesia,
guardo
attraverso le finestre;
le cose,
gli uomini, le
donne,
gli avvenimenti
e le lotte
mi vanno
formando,
mi oppongono
resistenza
indurendomi le
mani,
aprendomi gli
occhi,
sciupandomi la
bocca,
e analogamente,
vestito,
anche io vado
formando te
logorando i
tuoi gomiti,
sdrucendo il
tessuto,
sicché la tua
vita cresce
ad immagine
della mia vita.
Al vento
t'increspi e
risuoni
come se fossi
la mia anima,
nei momenti
peggiori
ti attacchi
alle mie ossa
vuoto, di notte
l'oscurità, il
sonno
popolano con i
loro fantasmi
le tue ali e le
mie.
Mi domando
se un giorno
una pallottola
nemica
non ti lascerà
una macchia del mio sangue
e
morirai con me
o se il tutto
non sarà poi
così drammatico
sia più
semplice,
e ti ammalerai,
vestito,
insieme a me,
invecchierai
con me, con il
mio corpo
e insieme
entreremo
nella terra.
Ecco perché
ogni giorno
ti saluto
con reverenza e
poi
tu mi abbracci
e io ti dimentico,
perché siamo
uno solo
e continueremo
ad essere,
nella bufera,
nella notte,
nelle piazze e
nella lotta,
un solo corpo
forse, forse,
un giorno immobile.
Ode alla tranquillità
Ampio
riposo,
acqua
quieta,
chiara, serena
ombra,
uscendo
dall'azione
come escono
i laghi dalle
cascate,
meritata
mercede,
petalo giusto,
ora
supino
guardo
correre il
cielo,
scivola
il suo corpo
azzurro profondo,
dove
si dirige
con i suoi
pesci, con le sue isole,
i suoi estuari?
Il cielo
In alto,
sotto
un rumore
di rosa secca
scricchiolano
piccole cose,
passano
insetti come
numeri:
è la terra,
di sotto
lavorano
radici,
metalli,
acque,
penetrano
il nostro corpo
germinano in
noi.
Immobili, un
giorno,
sotto un
albero,
non lo
sapevamo:
tutte le foglie
parlano,
si raccontano
notizie di
altri alberi,
storie della
patria
degli alberi,
alcuni
ricordano ancora
la sagoma
guardinga
del leopardo
che incrociava
fra i propri rami,
come rigida
nebbia,
altri ricordano
la tempesta di
neve,
lo scettro
del tempo
tempestoso.
Dobbiamo
lasciar parlare
non soltanto
la bocca degli
alberi,
ma tutte le
bocche,
tacere, tacere
in mezzo
al canto
innumerevole.
Nulla è muto
sulla terra;
chiudiamo
gli occhi
e ascoltiamo
cose che scivolano,
creature che
crescono,
scricchiolii
di legno
invisibile,
e poi
il mondo,
terra, celesti
acque,
aria,
tutto
suona
a volte come un
tuono,
altre volte
come un fiume
remoto.
Tranquillità,
riposo
di un minuto,
di un giorno,
dalla tua
profondità raccoglieremo
metalli,
dalla tua
apparenza muta
uscirà la luce
sonora.
Così sarà
l'azione purificata.
Così diranno
gli uomini, senza saperlo,
l'opinione
della terra.
Ode alla tristezza
Tristezza,
scarafaggio
con sette gambe
spezzate,
uovo di
ragnatela,
topo dalla
testa rotta
scheletro di
cagna:
Qui non entri.
Non passi.
Vattene.
Ritorna
al sud con il
tuo ombrello,
ritorna
al nord con i
tuoi denti di serpente.
Qui vive un
poeta.
La tristezza
non può
entrare
attraverso queste porte.
Dalle finestre
entra l'aria
del mondo,
le rosse rose
nuove,
le bandiere
ricamate
del popolo e
delle sue vittorie.
Non puoi.
Qui non entri.
Scuoti pure
le tue ali di
pipistrello,
io calpesterò
le piume
che cadono dal
tuo manto,
scoperò i pezzi
dal tuo
cadavere verso
le quattro
direzioni del vento,
ti torcerò il
collo,
ti cucirò gli
occhi,
taglierò la tua
veste mortuaria
e seppellirò,
tristezza, le tue ossa roditrici
sotto la
primavera di un melo.
Ode a Valparaiso
Valparaiso,
che sproposito
sei,
che pazza,
porto pazzo,
che testa
con colline,
scapigliata,
non finisci
di pettinarti,
mai
avesti
il tempo di
vestirti,
sempre
ti sorprese
la vita,
ti svegliò la
morte,
in camicia,
con lunghe
mutande
a frange
colorate;
nudo,
con un nome
tatuato sulla
pancia,
e con il
cappello,
ti afferrò il
terremoto,
corresti
impazzita,
ti spezzasti le
unghie,
si mossero
le acque e le
pietre,
i sentieri,
il mare,
la notte,
tu dormivi
sulla terra,
stanca
delle tue
navigazioni,
e la terra
furiosa
sollevò le sue
onde
più tempestose
della
libecciata marina,
la polvere
ti copriva
gli occhi,
le fiamme
bruciavano le
tue scarpe,
le solide
case dei
banchieri
trepidavano
come balene
ferite,
mentre in alto
le case dei
poveri
saltavano
nel vuoto
come uccelli
prigionieri
che nel provare
le ali
precipitano.
Ben presto,
Valparaiso,
marinaio,
ti dimentichi
delle lacrime,
ritorni
ad appendere le
tue dimore,
a dipingere
porte
verdi,
finestre
gialle,
tutto
trasformi in
nave,
sei
la rammendata
prua
di un piccolo
prode
vascello.
La tempesta
corona
di schiuma
le tue sartie
che cantano
e la luce
dell'oceano
fa tremare
camicie
e bandiere
nel tuo
vacillare indistruttibile.
Stella
oscura,
sei,
da lontano
sull'altura
della costa
risplendi
e d'improvviso
consegni
il tuo fuoco
nascosto,
il viavai
dei tuoi sordi
vicoli,
la spigliatezza
del tuo
movimento,
la chiarezza
della tua
marineria.
Termino qui, è
questa
ode,
Valparaiso,
piccola
come una
camicetta
abbandonata,
che pende
dalle tue
finestre stracciate,
che svolazza
al vento
dell'oceano,
che si impregna
di tutti
gli odori
della tua
terra,
che riceve
la rugiada
dei mari, il
bacio
dell'ampio mare
collerico
che picchiando
con tutta la sua forza
sulla tua
pietra
non poté
abbatterti
perché nel tuo
petto australe
sono tatuate
la lotta,
la speranza,
la solidarietà
e l'allegria
come ancore
che resistono
alle onde della
terra.
Ode a César Vallejo
La pietra sul
tuo viso,
Vallejo,
le rughe
delle aride
montagne
io ricordo nel
mio canto,
la tua fronte
gigantesca
sul tuo corpo
fragile,
il crepuscolo
nero
nei tuoi occhi
appena
disseppelliti,
giorni quelli,
bruschi,
disuguali,
ogni ora aveva
acidi diversi
o tenerezze
remote,
le chiavi
della vita
tremavano
nella luce
polverosa
della strada,
tu ritornavi
da un viaggio
lento, sotto
terra,
e sull'alto
delle
cicatrizzate cordigliere,
io bussavo alle
porte
perché si
aprissero
i muri,
perché si
srotolassero
i cammini,
appena arrivato
da Valparaíso
mi imbarcavo a
Marsiglia,
la terra
si tagliava
come un limone
fragrante
nei freschi
emisferi gialli,
tu
rimanevi
lì, soggetto
a nulla,
con la tua vita
e la tua morte,
con la tua
arena,
cadendo,
misurandoti
e vuotandoti,
nell'aria,
nel fumo,
nei vicoli
rotti
dell'inverno.
Eri a Parigi,
vivevi
nei malconci
alberghi dei
poveri.
La Spagna
si dissanguava.
Accorrevamo.
E poi
rimanesti
un'altra volta
nel fumo
e così quando
non fosti più,
d'improvviso,
non fu la terra
delle
cicatrici,
non fu
la pietra
andina
ad avere le tue
ossa,
ma fu il fumo,
la brina
invernale
di Parigi.
Due volte
esiliato,
fratello mio,
dalla terra e
dall'aria,
dalla vita e
dalla morte,
esiliato
dal Perù, dai
tuoi fiumi,
assente
dalla tua
argilla.
Non mi mancasti
in vita,
ma nella morte.
Ti cerco
goccia a
goccia,
polvere a
polvere,
nella tua
terra,
giallo
è il tuo volto,
incastonato
è il tuo volto,
pieno
di vecchie
gemme,
di anfore
infrante,
salgo
le antiche
scalinate,
forse
sei perduto,
impigliato
fra i fili
d'oro,
coperto
di turchesi,
silenzioso,
o forse
nel tuo
villaggio,
nella tua
razza,
grano
di mais esteso,
seme
di bandiera.
Forse, forse
ora
trasmigri
e ritorni,
vieni
alla fine
del viaggio,
in modo
che un giorno
ti vedrai al
centro
della tua
patria,
insorto,
vivente,
cristallo del
tuo cristallo, fuoco nel tuo fuoco,
raggio di
pietra porpora.
Ode all'estate
Estate, violino
rosso,
nube chiara,
un ronzio
di sega
o di cicala
ti precede,
il cielo
fatto a volta,
liscio, lucente
come
un occhio,
e sotto il suo
sguardo,
estate,
pesce del cielo
infinito,
elitra
lusinghiera,
pigro
letargo,
pancina
di ape,
sole
indiavolato,
sole terribile
e paterno,
madido
come un bue al
lavoro,
sole secco
sulla testa
come un'inaspettata
bastonata,
sole della sete
che cammina
sulla sabbia,
estate,
mare deserto,
il minatore
della solfara
si riempie
di sudore
giallo,
l'aviatore
percorre
raggio dopo
raggio
il sole
celeste,
sudore
nero
scorre
dalla fronte
agli occhi
nella miniera
di Lota,
il minatore
si sfrega
la fronte
nera,
ardono
i semenzai,
scricchiola
il frumento,
insetti
azzurri
cercano
l'ombra,
toccano
la freschezza,
immergono
la testa
nel diamante.
Oh, estate
abbondante,
carro
di
mele
mature,
bocca
di fragola
nella verzura,
labbra
di prugna
selvatica,
sentieri
di soffice
polvere
sopra
la polvere,
mezzogiorno,
tamburo
di rame rosso,
e nella sera
riposa
il fuoco,
l'aria
fa ballare
il trifoglio,
entra
nella fabbrica
deserta,
spunta
una stella
fresca
nel cielo
scuro,
crepita
senza bruciarsi
la notte
dell'estate.
Ode alla vita
La notte intera
con un'ascia
mi ha colpito
il dolore,
ma il sonno
passò lavando
come un'acqua scura
pietre
insanguinate.
Oggi sono
nuovamente vivo.
Di nuovo
ti sostengo,
vita,
sulle mie
spalle.
Oh, vita,
coppa chiara,
d'improvviso
ti riempi
di acqua
sporca,
di vino morto,
di agonia, di
perdite,
di sorprendenti
ragnatele,
e molti credono
che tu
custodirai codesto colore d'inferno
per sempre.
Non è certo.
Passa una notte
lenta,
passa un solo
minuto
e tutto cambia.
Si riempie
di trasparenza
la coppa della
vita.
Il lavoro
spazioso
ci aspetta.
In un momento
solo nascono le colombe.
Si installa la
luce sulla terra.
Vita, i poveri
poeti
ti credettero
amara,
non ti tolsero
dal letto
per portarti
nel vento del mondo.
Accolsero le
ferite
senza cercarti,
si scavarono
un foro nero
e si calarono
nel lutto
di un pozzo
solitario.
Non è vero,
vita,
tu sei
bella
come colei che
amo
e fra i seni
hai
odor di menta.
Vita
sei
una macchina
piena,
felicità, suono
di tormenta,
tenerezza
d'olio
delicato.
Vita,
sei come una
vigna:
tesaurizzi la
luce e la distribuisci
trasformata in
grappoli.
Colui che ti
bestemmia
aspetti
un minuto, una
notte,
un anno breve o
lungo,
ad uscire
dalla sua
solitudine bugiarda,
indaghi e
lotti, unisca
le sue mani ad
altre mani,
non accolga né
lusinghi
la sfortuna,
la ricacci
dandole
forma di muro,
come con la
pietra gli spaccapietre,
tagli la
sfortuna
e si faccia con
essa
i pantaloni.
La vita aspetta
tutti
noi che amiamo
il selvaggio
odore di mare e
di menta
che ha fra i
seni.
Ode al vino
Vino color del
giorno,
vino color
della notte,
vino con piedi
di porpora
o sangue di
topazio,
vino,
stellato figlio
della terra,
vino, liscio
come una spada
d'oro,
morbido
come un
disordinato velluto,
vino inchiocciolato
e sospeso,
amoroso,
marino,
non sei mai
contenuto in una coppa,
in un canto, in
un uomo,
sei corale,
gregario,
e, quanto meno,
scambievole.
A volte
ti nutri di
ricordi
mortali,
sulla tua onda
andiamo di
tomba in tomba,
tagliapietre
del sepolcro gelato,
e piangiamo
lacrime
passeggere,
ma
il tuo bel
vestito di
primavera
è diverso,
il cuore monta
ai rami,
il vento muove
il giorno,
nulla rimane
nella tua anima
immobile.
Il vino
muove la
primavera,
cresce come una
pianta di allegria,
cadono muri,
rocce,
si chiudono gli
abissi,
nasce il canto.
Oh, tu, caraffa
di vino, nel deserto
con la saporosa
che amo,
disse il
vecchio poeta.
Che la brocca
di vino
al peso
dell'amore aggiunga il suo bacio.
Amor mio,
d'improvviso
il tuo fianco
è la curva
colma
della coppa,
il tuo petto è
il grappolo,
la luce
dell'alcool la tua chioma,
le uve i tuoi
capezzoli,
il tuo ombelico
sigillo puro
impresso sul
tuo ventre di anfora,
e il tuo amore
la cascata
di vino
inestinguibile,
la chiarità che
cade sui miei sensi,
lo splendore
terrestre della vita.
Ma non soltanto
amore,
bacio bruciante
o cuore
bruciato,
tu sei, vino di
vita,
ma
amicizia degli
esseri, trasparenza,
coro di
disciplina,
abbondanza di
fiori.
Amo sulla
tavola,
quando si
parla,
la luce di una
bottiglia
di intelligente
vino.
Lo bevano;
ricordino in
ogni
goccia d'oro
o coppa di
topazio
o cucchiaio di
porpora
che l'autunno
lavorò
fino a riempire
di vino le anfore,
e impari l'uomo
oscuro,
nel cerimoniale
del suo lavoro,
a ricordare la
terra e i suoi doveri
a diffondere il
cantico del frutto.