- 1950 - Canto Generale
CANTO GENERALE (1950)
I
LA LAMPADA DELLA TERRA
Amore, America, (1400)
Prima della parrucca, e della giubba
furono i fiumi, i fiumi arteriali:
furono le cordigliere, sulle cui onde consunte
il condor o la neve immobili sembravano:
fu la densità e l'umidore, il tuono
ancora, senza nome, le pampas planetarie.
L'uomo fu terra, ciotola, palpebra.
del tremulo fango, calco dell'argilla,
anfora caribica, pietra chibcha,
coppa imperiale o silice araucana.
Fu tenero e cruento, ma sull'impugnatura,
della sua arma d'umido cristallo,
le iniziali della, terra erano
scritte.
Nessuno da allora
poté più ricordarle: il vento
le dimenticò, l'idioma dell'acqua
fu sepolto, le chiavi si smarrirono
o s'allagarono di silenzio o sangue.
Non si smarrì la vita, fratelli pastorali.
Ma come una rosa selvatica
cadde nella densità una goccia rossa,
e si spense una lampada di terra.
Io sono qui per narrare la storia.
Dalla pace del bufalo
sino alle percosse sabbie
della terra finale, nelle spume
ammassate della luce antartica,
e tra le impervie tane
della fosca pace venezolana,
ti cercai, padre mio,
giovane guerriero di tenebra e rame,
o pianta nuziale, indomita criniera,
madre caimano, metallica colomba,
Io, della stirpe incaica della mota,
toccai la pietra e dissi:
Chi
mi attende? E strinsi la mano
su una manciata di vuoto cristallo.
Tra i fiori di zapotechi m'inoltrai,
e dolce era la luce come un daino,
e l'ombra come una palpebra verde.
Terra mia senza nome, senza America,
stame equinoziale, lancia di porpora,
il tuo aroma mi salì dalle radici
fin nella coppa a cui bevevo, nella più esile
parola non ancora dalla mia bocca spuntata.
I - Vegetazioni
SULLE TERRE senza numeri e nomi
calava il vento da altre contrade,
recava la pioggia fili celesti,
e il dio degli inzuppati altari
restituiva fiori ed esistenze.
Nella fertilità cresceva il tempo.
Lo jacarandá issava una spuma
formata di bagliori trasmarini,
la araucaria dalle ispide lance
era grandiosità contro la neve,
l'albero primordiale del mogano
dai primi rami distillava sangue,
e nel sud dei larici,
l'albero tuono, l'albero rosso,
l'albero della espina, l'albero madre,
il ceibo vermiglio, l'albero caucciù,
erano suono, volume terrestre,
erano territoriali esistenze.
Un nuovo diffuso aroma
riempiva, dagli interstizi
della terra, le respirazioni
tramutate in fumo e fragranza:
il tabacco selvatico innalzava
la sua rosa d'aria fantasiosa.
Come una lancia con punta di fuoco
apparve il granturco, e si sgranò,
poi rinacque la sua figura,
disseminò la farina, ricoprì
cadaveri con le radici,
e, dopo, sulla sua cuna, vide
sorgere gli dèi vegetali.
Il seme del vento spargeva
sulle piume della cordigliera
rughe ed estensione,
luce spessa di germogli e boccioli,
aurora cieca allattata
dai balsami terragni
dell'implacabile ampiezza piovosa,
dell'ermetiche notti originarie,
delle mattutine cisterne.
E, ancora, sulle pianure,
come lamine del pianeta,
sotto un recente popolo di stelle,
l'ombù, re dell'erba, tratteneva
l'aria libera, il volo rumoroso,
e cavalcava la pampa, domandola
con cavezza di redini e radici.
America, albereto,
rovo selvatico tra i mari,
da un polo all'altro facevi oscillare,
verde tesoro, la tua fitta selva.
Germogliava la notte
entro città dalle sacre cortecce,
entro legni sonori,
vaste foglie che coprivano
la pietra germinale, i nascimenti.
Utero verde, americana
landa seminale, densa cantina,
una rama è nata come un'isola,
una foglia ha preso forma di spada,
un fiore s'è fatto folgore e medusa,
un grappolo ha raccolto il succo in sfera,
una radice è calata nel buio.
II – Alcuni animali
ERA il crepuscolo della iguana.
Dall'iridescente cresta merlata
la sua lingua, come un dardo,
s'immergeva nella verzura;
il monacale formichiere calcava
con melodioso piede la foresta;
il guanaco sottile come ossigeno,
nelle vaste alture brune,
passava calzando stivali d'oro,
mentre il lama apriva candidi
occhi sulla delicatezza
del mondo pieno di rugiada.
Le scimmie intrecciavano un filo
interminabilmente erotico
fra le sponde dell'aurora,
muri di polline abbattendo
e turbando il volo violetto
delle farfalle di Muzo.
Era la notte dei caimani,
la notte pura e pullulante
di musi che sbucavano dal fango;
e, dai pantani sonnolenti,
un opaco rumore d'armature
richiamava all'origine terrestre.
Il giaguaro toccava le foglie
con la sua fosforescente assenza,
il puma corre in mezzo ai rami
come la fiamma che divora,
mentre in lui bruciano gli occhi
alcolici della foresta.
I tassi frugano i piedi
del fiume, e annusando il nido
la cui palpitante delizia
attaccheranno con i rossi denti.
E sul fondo dell'acqua immensa,
come il circolo della terra,
sta la gigantesca anaconda
avvolta di melme rituali,
divoratrice e religiosa.
IlI - Arrivano gli uccelli
TUTTO era volo sulla nostra terra.
Come gocce di sangue e penne
i cardinali dissanguavano
la prima aurora di Anáhuac.
Il tucán era una splendida
cesta di frutta verniciata,
il colibrì serbò le faville
originali del baleno
ed i suoi minuscoli falò
nell'aria immobile ardevano.
Riempivano gli illustri pappagalli
la profondità del fogliame
come lingotti d'oro verde
da poco usciti dall'impasto
delle paludi inabissate,
e dai loro occhi rotondi
occhieggiava un anello giallo,
antico come i minerali.
Tutte le aquile del cielo
nutrivano la loro razza cruenta
là nell'azzurro inabitato,
e, sulle penne carnivore,
volava al di sopra del mondo
il condor, monarca assassino,
frate solitario del cielo,
nero talismano della neve,
uragano della falconeria.
L'ingegneria dell'hornero
faceva del fango fragrante
piccoli teatri sonori
e là compariva cantando.
L'atajacaminos lanciava
il suo verso inumidito
sull'orlo delle cisterne.
La palomba araucana aspri
nidi di sterpi costruiva
e vi lasciava il regale dono
delle sue uova dai riflessi azzurri.
Fragrante, la loica del Sud,
dolce carpentiere d'autunno,
mostrava il suo petto stellato
di costellazioni scarlatte,
e il chingolo australe innalzava
il suo flauto da poco estratto
dalla eternità dell'acqua.
Ma, umido come una ninfea,
il flamenco apriva le porte
della sua rosea cattedrale,
e volava come l'aurora,
lungi dal bosco soffocante
ove penzolano i gioielli
del quetzal, che d'un tratto si sveglia,
si muove, scivola e folgora
e fa volare la sua intatta brace.
Vola una montagna marina
verso le isole, e una luna
d'uccelli tutti diretti al Sud,
sulle isole fermentate
del Perù.
È un fiume animato di ombre,
è una cometa di piccoli
e innumerevoli cuori
che oscurano il sole del mondo
come un astro di folta coda
che palpiti verso l'arcipelago.
E al finale dell'iracondo
mare, nella pioggia dell'oceano,
spuntano le ali dell'albatros
come due sistemi di sale,
che stabiliscono nel silenzio,
tra le raffiche torrenziali,
con la loro spaziosa gerarchia,
l'ordine delle solitudini.
IV - Accorrono i fiumi
AMATA di tanti fiumi, contesa
da acqua azzurra e gocce trasparenti,
pari a un albero di vene è il tuo spettro
di oscura dea che addenta mele:
allora nei destarti, nuda,
tu eri tatuata dai fiumi,
e sui monti bagnati la tua testa
riempiva il mondo di nuove rugiade.
Ti trepidava l'acqua alla cintura.
Di sorgenti tu eri costruita
e ti lucevano laghi sulla fronte.
Dalla tua densità primaria coglievi
l'acqua come le lacrime vitali,
e alla spiaggia trascinavi gli alvei
attraverso la notte planetaria,
solcando aspre rocce dilatate,
travolgendo, nel cammino,
tutto il sale della geologia,
tagliando boschi dai muri compatti,
e distaccando i muscoli del quarzo.
Orinoco
Orinoco, lasciami alle tue rive
in quell'ora senz'ora:
lasciami, come un tempo, andare nudo,
entrare nel tuo buio battesimale.
Lasciami, Orinoco d'acqua scarlatta,
affondare le mani che tornano
alla tua maternità, alla tua corsa,
fiume di razze, patria di radici,
il tuo ampio suono, la tua aspra lama
viene da dove io stesso provengo,
da povere e altère solitudini,
da un segreto di sangue, da una madre
silenziosa d'argilla.
Amazzoni
Rio delle Amazzoni,
capitale delle sillabe dell'acqua,
padre patriarca, tu sei
la segreta eternità
delle fecondazioni,
fiumi ti cadono addosso come uccelli,
ti coprono pistilli color d'incendio,
i grandi tronchi morti ti riempiono di profumo,
la luna non ti può vegliare o misurare.
Sei tutto carico di verde sperma
come un albero nuziale, sei argentato
dalla selvaggia primavera,
sei tinto di rosso dai legni,
azzurro tra la luna delle pietre,
vestito di ferruginosi fumi,
e lento come un giro di pianeta.
Tequendama
Rammenti, Tequendama,
il tuo ermo deflusso fra le vette
senza testimoni, filo
delle solitudini, volontà sottile,
linea celeste, freccia di platino;
rammenti, passo a passo,
quando aprivi muri d'oro
per poi cader dal cielo nel teatro
terrificante della vuota roccia?
Bío-Bío
Ma su, parlami, Bío-Bío:
sono le parole tue quelle
che guizzano nella mia bocca,
sei tu che m'hai dato il linguaggio,
e m'hai dato il canto notturno
misto di pioggia e di fogliame.
Quando nessuno guardava quel bimbo,
tu mi narrasti il sorgere del giorno
dalla terra, la poderosa
pace del tuo regno, l'ascia sepolta
con un mazzo di frecce morte,
ciò che le foglie di magnolia
in mill'anni t'avevano narrato;
vidi poi che ti consegnavi al mare
diviso in bocche e insenature,
largo e florido, mormorando
una storia color di sangue.
V - Minerali
MADRE dei metalli, ti bruciarono,
ti morsero, ti martirizzarono,
ti corrosero, e quando gl'idoli
più non poterono difenderti,
allora ti fecero marcire.
Liane che scalano la chioma
della notte silvestre, mogani
che danno l'anima alle frecce,
ferro ammassato nella soffitta fiorita,
austeri artigli delle aquile
condottiere della mia terra,
acqua ignorata, e sole perverso,
onda di crudele spuma,
pescecane in agguato, dentatura
delle cordigliere antartiche,
dea-serpente rivestita di piume
e assottigliata da un veleno azzurro,
febbre ancestrale inoculata
da migrazioni d'ali e di formiche,
acquitrini, farfalle
dall'acre pungiglione, legni
prossimi al minerale,
perché il coro degli avversi
non ha difeso il tesoro?
Madre delle oscure
pietre che tingerebbero
di sangue le tue ciglia!
Il turchese
dalle sue fasi, dal brillio di larva
nasceva appena per i gioielli
del sole sacerdotale, dormiva il rame
nei suoi giacimenti solfurici,
e l'antimonio di strato in strato andava
giù nel profondo della nostra stella.
Il carbon fossile dava neri bagliori
come l'inverso assoluto della neve,
nero gelo incistato nell'immota
e segreta tormenta della terra,
quando uno splendore giallo d'uccello
seppellì le correnti dello zolfo
al piè delle glaciali cordigliere.
Il vanadio si vestiva di pioggia
per entrare nella stanza dell'oro,
affilava coltelli il tungsteno,
e il bismuto intrecciava
chiome medicinali.
Le lucciole sbagliate
continuavano la scalata ai monti,
sprigionando gocce di fosforo
sul solco degli abissi
e sulle vette ferruginose.
Sono le vigne della meteora,
i sotterranei dello zaffiro.
Sugli altipiani il piccolo soldato
dorme avvolto in panni di stagno.
Il rame fonda i suoi delitti
nelle tenebre insepolte
cariche di materia verde,
e nel silenzio accumulato
dormono le mummie devastatrici.
Nella dolcezza chibcha, l'oro
dagli oscurati tempietti
lentamente viene fuori
e va incontro ai guerrieri,
si tramuta in rossi stami,
in cuori laminati,
in fosforescenza terrestre,
in favolosa dentatura.
Io dormo, allora, con il sonno
di una semente, di una larva,
e le scale di Querétaro
con te discendo.
Mi hanno atteso
le pietre dell'indecisa luna,
l'opale, gemma color di squame,
l'albero morto di una chiesa
agghiacciata dalle ametiste.
Come potevi, Colombia ciarliera,
sapere che le tue pietre scalze
nascondessero una bufera
d'oro iracondo,
come potevi, patria
dello smeraldo, scoprire
che il giallo di morte e di mare,
lo splendore nel suo brivido,
avrebbe scalato le gole
dei monarchi invasori?
Eri pura nozione di pietra,
rosa allevata dal sale,
perniciosa lacrima sepolta,
sirena dalle arterie assopite,
belladonna, nera serpe.
(Mentre la palma diffondeva
in alti pettini la sua colonna,
gradualmente il sale licenziava
lo splendore delle montagne:
tramutava in vesti di quarzo
le gocce di pioggia sulle foglie
e trasformava gli abeti
in lunghi viali di carbone.)
Io corsi tra i cicloni incontro al rischio,
e scesi alla luce dello smeraldo,
risalii ai pampini del rubino,
ma tacqui per sempre nella statua
del nitrato disteso sul deserto.
Vidi come nella cenere
dell'ossuto altipiano
lo stagno innalzava in coro
i suoi larghi rami di veleno
sino a spandere come una selva
la nebbia equinoziale, e coprire l'orma
delle nostre dinastie cereali.
VI – Gli uomini
SIMILE alla coppa dell'argilla
era la razza minerale, l'uomo
fatto di pietre e d'atmosfera,
terso come una brocca, sonoro.
La luna impastò gli indios Caribes,
estrasse l'ossigeno sacro,
stritolò fiori e radici.
Cominciò l'uomo delle isole
a intrecciare fronde e ghirlande
di solfurei polimiti,
e a soffiare nel tritone marino
lungo la riva delle spume.
Il Tarahumara si vestì di spini
e nelle distese del Nord-Est,
con sangue e pietre focaie, creò il fuoco,
mentre l'universo stava nascendo
di nuovo nella creta del Tarasco:
i miti delle terre amorose,
l'esuberanza umida
in cui loto sessuale e frutta sfatte
divenivano tratto degli dèi
o pallide pareti d'anfora.
Pari a fagiani sfavillanti
discendevano i sacerdoti
dagli scaloni aztechi.
I gradini triangolari
reggevano l'innumerevole
brillio degli ampi vestimenti.
E la maestosa piramide,
pietra su pietra, aria e agonia,
nella sua struttura di dominio
come una mandorla custodiva
un cuore sacrificato.
In un tuono, simile a un urlo,
cadeva il sangue
sulle sacre scalinate.
Ma turbe di popoli la fibra
tessevano, difendevano
l'avvenire dei raccolti,
intrecciavano il lustro delle penne,
domavano il turchese,
e, nelle lunghe fronde dei tessuti,
esprimevano la luce del mondo.
Maya, voi avevate rovesciato
l'albero della conoscenza.
Con effluvio di razze frumentarie
s'innalzavano le strutture
dell'esame e della morte,
e, gettandovi spose d'oro,
scrutavate nelle cisterne
la permanenza dei germi.
Chichén, i tuoi rumori aumentavano
nell'aurora della foresta.
I lavori via via componevano
la simmetria dell'alveare
nella tua gialla cittadella,
e il pensiero minacciava
il sangue dei basamenti,
rovesciava il cielo nell'ombra,
orientava la medicina,
e scriveva sopra le pietre.
Il Sud era un dorato stupore.
Le alte solitudini
di Macchu Picchu alla soglia del cielo
erano piene di oli e di canti,
l'uomo aveva violato le dimore
dei grandi uccelli sulle montagne,
e nel nuovo regno, in mezzo alle vette,
il contadino toccava i semi
con le dita ferite dalla neve.
Il Cuzco albeggiava come un trono
di torrioni e di granai,
e quella stirpe di pallida ombra
era il fiore pensieroso del mondo,
nelle cui mani aperte tremavano
diademi d'imperiali ametiste.
Germogliava sulle terrazze
il granturco delle alte terre
e per i sentieri vulcanici
passavano i vasi e gli dei.
L'agricoltura profumava
il regno delle cucine
e distendeva sopra i tetti
un manto di sole sgranato.
(Dolce razza, figlia dei monti,
stirpe di torri e di turchese,
chiudimi gli occhi in quest'istante,
prima d'incamminarci al mare
di dove vengono i dolori.)
Quella foresta azzurra era una grotta,
e nel mistero d'alberi e tenebre
il Guaraní cantava
come il fumo che s'innalza di sera,
come l'acqua sopra le frasche,
la pioggia in un giorno d'amore,
la tristezza sulle rive dei fiumi.
In fondo all'America senza nome
stava Arauco in mezzo alle acque
vertiginose, isolato
da tutto il freddo del pianeta.
Guardate il gran Sud solitario.
Non si scorge fumo sui monti.
Si vedono solo i ghiacciai
e il vento di ponente respinto
dalle scontrose araucarias.
Non cercare sotto il fitto verde
il canto dei vasai.
Tutto è silenzio d'acqua e vento.
Ma tra le foglie ecco il guerriero.
E tra i larici spunta un grido.
E due occhi di tigre in mezzo
alle montagne nevose.
Guarda le lance a riposo.
Ascolta il sussurro dell'aria
trafitta dalle frecce.
Guarda i petti e le gambe,
e le chiome nereggianti
che brillano alla luce della luna.
Guarda il vuoto dei guerrieri.
Non c'è nessuno. Trilla la diuca
come l'acqua nella notte pura.
Intreccia il condor il suo nero volo.
Non c'è nessuno. Ascolti? È il passo
del puma nell'aria e nelle foglie.
Non c'è nessuno. Ascolta. Ascolta l'albero,
ascolta l'albero araucano.
Non c'è nessuno. Guarda le pietre.
Guarda le pietre di Arauco.
Non c'è nessuno, solo gli alberi.
Solo le pietre ci sono. Arauco.
II
ALTITUDINI DI MACCHU PICCHU
I
DALL'ARIA all'aria, come una vuota rete,
io andavo fra le strade e l'atmosfera, e venivo e salutavo,
nell'avvento dell'autunno, le monete sparse
delle foglie, e fra la primavera e le spighe,
ciò che il più grande amore, come in un guanto
che cade, ci affida come una lunga luna.
(Giornate di splendore vivo nell'intemperie
dei corpi: acciai tramutati
nel silenzio dell'acido:
notti sfilacciate sino all'ultima farina:
stami aggrediti della patria nuziale.)
Chi mi ha atteso in mezzo ai violini
ha scoperto un mondo come una torre sepolta
che immergeva la sua spirale più profondamente
di tutte le foglie color di cupo zolfo:
e ancora più in profondo, nell'oro della geologia,
come una spada circondata di meteore,
ho affondato la mano dolce e turbolenta
in ciò che di più genitale ha la terra.
Ho posato la fronte sui gorghi profondi,
sono sceso come goccia nella pace solfurea,
e, come un cieco, sono tornato al gelsomino
della consunta primavera umana.
II
SE IL FIORE al fiore affida l'alto germe
e se la roccia conserva il fiore sparso
sulla percossa veste di diamante e di sabbia,
l'uomo increspa il petalo della luce raccolto
nelle riconosciute sorgenti marine
e trafora il metallo che gli palpita nelle mani.
E subito, tra i panni e il fumo, sulla tavola sommersa,
come una quantità ingarbugliata, l'anima rimane:
quarzo e insonnia, lacrime nell'oceano
come stagni di freddo: ma tu uccidila pure,
lasciala ancora agonizzare con la carta e con l'odio,
sommergila nel tappeto di tutti i giorni, straziala
tra le ostili vesti del filo di ferro.
No: chi, nei corridoi, nell'aria, nel mare o nelle strade,
preserva il proprio sangue (come il papavero
incarnato) senza pugnale? L'ira ha consumato
la triste merce del venditore d'esseri umani,
e, frattanto, sulla cima del susino, la rugiada
da mille anni posa il suo messaggio trasparente
sopra lo stesso ramo che l'attende, oh cuore, oh fronte
triturata, fra le cavità dell'autunno:
Quante volte nelle vie d'inverno di una città,
o in autobus, o in una nave al crepuscolo, o nella solitudine
più densa — quella della sera di festa — sotto il suono
d'ombre e di campane, nella stessa grotta del piacere umano,
mi son voluto fermare a cercare l'eterna vena insondabile
che già avevo toccato nella pietra o nel lampo sprigionato dal bacio!
(E questo nel cereale, come una storia gialla
di piccoli seni ricolmi, ripete via via un numero
che di continuo è tenerezza negli strati germinali,
e che, identica sempre, si sgrana in avorio,
e questo nell'acqua è patria trasparente, campana,
dalla neve solitaria fino alle onde sanguigne.)
Non ho potuto cogliere che un grappolo di volti o di
maschere precipitate, come anelli d'oro vuoto,
come vesti disperse, figlie d'un autunno rabbioso,
che facesse tremare l'infelice albero delle genti spaurite.
Non ho trovato un posto dove posare la mano,
e che, animato come acqua di fonte incatenata,
o fisso come grumo d'antracite o cristallo,
m'avesse ridato il calore o il freddo della mia mano distesa.
Che cos'era l'uomo? In che parte del suo discorso aperto,
tra i negozi e i fischi, in quale dei suoi moti metallici,
viveva l'indistruttibile, l'immortale, la vita?
III
L'ESSERE, come il granturco, si sgranava nell'interminabile
granaio dei fatti perduti, degli accadimenti
meschini, dall'uno al sette, all'otto,
e non una, ma molte morti giungevano a ciascuno:
Ogni giorno una piccola morte, polvere, verme, lampada
che si spegne nel fango del sobborgo, una piccola morte dalle rozze ali
entrava in ogni uomo come una corta lancia
e assediato era l'uomo dal pane o dal coltello,
il pastore, il figlio dei porti, o il capitano ignoto dell'aratro,
o il roditore delle fitte strade:
tutti deperirono aspettando la morte, la loro breve morte quotidiana:
e la loro accanita tribolazione d'ogni giorno era
come una nera coppa ch'essi bevevano tremando.
IV
LA POTENTISSIMA morte m'invitò più volte:
era come il sale invisibile delle onde,
e ciò che il suo invisibile sapore spargeva
era come frammenti di precipizi e di altezze
o vaste costruzioni di vento e di bufera.
Io giunsi al ferreo taglio, alla più angusta zona
dell'aria, al sudario d'agricoltura e pietra,
al vuoto stellare degli estremi passi
e alla vertiginosa strada a spirale:
ma, vasto mare, oh morte!, tu non vieni di onda in onda,
tu vieni come un galoppo di chiarore notturno
o come gli assoluti numeri della notte.
Non sei mai riuscita a frugarti nella tasca,
non era possibile la tua visita senza rosse vesti:
senza il tappeto aurorale e di chiuso silenzio:
senza gli alti o sepolti patrimoni di pianto.
Non ho potuto amare in ogni essere un albero
col suo breve autunno sulle spalle (la morte di mille foglie),
tutte le finte morti e le resurrezioni
senza terra, senza abisso:
ho voluto nuotare nelle più larghe esistenze,
nelle più libere foci,
e quando, a poco a poco, l'uomo cominciò a negarmi
e a chiudermi passo e porta perché non toccassero
le mie mani originarie la sua ferita inesistenza,
allora di strada in strada andai, di fiume in fiume,
di città in città, e di letto in letto,
e la mia maschera salmastra attraversò il deserto,
e nelle ultime case umiliate, senza lampada, senza fuoco,
senza pane, senza pietra, senza silenzio, solo,
vagai, morendo di mia stessa morte.
V
NON ERI tu, grave morte, uccello dalle penne di ferro,
quella che il povero erede delle abitazioni
recava tra i cibi affrettati, sotto la pelle vuota:
era qualcos'altro, un misero petalo di corda distrutta:
un atomo del petto che non venne alla battaglia
o l'aspra rugiada che non cadde sulla fronte.
Era quello che non poté rinascere, un brano
della piccola morte senza pace e senza terra:
un osso e una campana che in lui stesso perivano.
Io sollevai le bende dello iodio, affondai le mani
nei poveri dolori che uccidevano la morte,
e trovai nella ferita solo una fredda raffica
che penetrava nei vaghi interstizi dell'anima.
VI
ALLORA per la scala della terra sono salito,
fra gli atroci meandri delle selve sperdute,
sino a te, Macchu Picchu.
Alta città di pietre a scalinata,
dimora degli esseri che il terrestre
non poté celare nelle vesti assonnate.
In te, come due linee parallele,
la culla del lampo e quella dell'uomo
si dondolavano a un vento di rovi.
Madre di pietra, spuma dei condor.
Alta scogliera dell'aurora umana.
Pala sperduta nella prima spiaggia.
Questa fu la dimora, questo è il luogo:
qui salirono i grossi chicchi del granturco
e ridiscesero come grandine rossa.
Qui la fibra dorata spillò dalla vigogna
a vestire gli amori, i sepolcri, le madri,
il re, le orazioni, i combattenti.
Qui i piedi dell'uomo riposarono la notte
accanto ai piedi dell'aquila, nelle alte tane
carnivore, e, all'alba,
pestarono coi piedi del tuono la nebbia rarefatta,
e toccarono le terre e le pietre
per poi riconoscerle di notte o nella morte.
Io contemplo i vestimenti e le mani,
le tracce dell'acqua nella cavità sonora,
la parete addolcita al contatto d'un volto
che guardò coi miei occhi le lampade terrene,
che unse con le mie mani gli scomparsi legni:
perché tutto, vesti, pelli, vasi,
parole, vino, pani,
tutto scomparve e ritornò alla terra.
E l'aria calò con dita
di zagara su tutti i dormienti;
mille anni d'aria, mesi, settimane d'aria,
di vento azzurro e di ferrigna cordigliera,
trascorsi come teneri uragani di passi
a levigare il remoto recinto della pietra.
VII
MORTI d'un solo abisso, ombre d'una sola fossa,
quella profonda: quasi alla misura
della vostra grandezza
sopraggiunse la vera, la più accesa
morte e giù dalle rupi traforate,
dai capitelli scarlatti,
dagli acquedotti a scale
vi gettaste a precipizio come in un autunno,
in una sola morte.
Oggi già l'aria vuota più non piange,
più non conosce i vostri piedi d'argilla,
più non ricorda le vostre brocche che filtravano il cielo
quando era versato dai coltelli del fulmine,
e l'albero superbo fu ingoiato
dalla nebbia, e infranto dalla raffica.
Essa sostenne una mano che cadde d'un tratto
dalle vette all'estremo limite del tempo.
Voi più non esistete, mani di ragno,
deboli fibre, intricata tela;
tutto ciò che foste è caduto: sillabe consunte,
abitudini, maschere di luce abbagliante.
Ma rimase una presenza di pietra e parola:
la città come un vaso s'innalzò tra le mani
di tutti, vivi, morti, silenziosi, sorretti
da tanta morte, un muro, da tanta vita, un colpo
di petali di pietra: la rosa permanente, la dimora:
questa scogliera andina di glaciali regioni.
Quando la mano, colore d'argilla,
si mutò in argilla, e quando le piccole palpebre si chiusero
piene d'irti muri, affollate di castelli,
e quando tutto l'uomo si avvolse nel suo buco,
rimase l'esattezza inalberata:
l'alto rifugio dell'aurora umana:
il più alto vaso che contenesse il silenzio:
una vita di pietra dopo tante altre vite.
VIII
SALI con me, amore americano.
Bacia con me le pietre misteriose.
L'argento scrosciante dell'Urubamba
fa volare il polline nella sua gialla coppa.
E vola il vuoto del rampicante,
la pianta di pietra, l'aspra ghirlanda
sul silenzio della gola montana.
Vieni, minuscola vita, tra le ali
della terra, mentre - cristallo e freddo, aria percossa -
distaccando smeraldi combattuti,
tu, acqua selvaggia, dalla neve scoli.
Amore, amore, anche l'erta notte,
dalla sonora selce delle Ande,
nell'aurora dalle rosse ginocchia,
contempla il figlio cieco della neve.
Oh, Wilkamayu dai fili sonori,
quando rompi i tuoi diritti boati
in bianca spuma, come lesa neve,
quando il tuo turbine precipitante
canta e castiga risvegliando il cielo,
quale linguaggio rechi tu all'orecchio
ora strappato alla tua spuma andina?
Chi imprigionò la folgore del freddo
e la lasciò incatenata nelle vette,
franta nelle sue lacrime glaciali,
scrollata nelle sue rapide spade,
martellante i suoi stami agguerriti,
ridotta sul suo letto di guerriero,
sgomenta nel suo esito di roccia?
Che dicono le tue scintille incalzate?
Viaggiò una volta densa di parole
la tua segreta folgore ribelle?
Chi sta infrangendo sillabe ghiacciate,
oscuri idiomi, e dorati stendardi,
bocche profonde, ed umiliate grida,
nelle tue tenere acque arteriali?
Chi sta spezzando palpebre di fiori
venute dalla terra a rimirare?
Chi fa cadere i grappoli stecchiti,
scesi nelle tue mani di cascata
a sgranare la loro notte sgranata
nel carbone della geologia?
Chi precipita il ramo dei vincoli?
Chi seppellisce di nuovo gli addii?
Amore, non toccare la frontiera,
non adorare la testa sommersa:
fa' che il tempo acquisti la sua statura
nel suo salone di rotte sorgenti,
e, tra l'acqua veloce e le muraglie,
cogli l'aria delle strette montane,
le parallele lamine del vento,
il cieco solco delle cordigliere,
il crudo saluto della rugiada,
e sali, fiore a fiore, su nel folto,
percorrendo lo scosceso serpente.
Nell'impervia contrada, pietra e bosco,
polvere di verdi stelle, chiara selva,
Mantur esplode come un lago vivo
o come un nuovo piano del silenzio.
Vieni all'essere mio, all'alba mia,
alle incoronate solitudini.
Il morto dominio tuttora vive.
E sul Reloj l'ombra sanguinaria
del condor passa come nave nera.
IX
AQUILA astrale, vigna di foschia.
Sperduto forte, scimitarra cieca.
Pane solenne, cintura stellata.
Scala torrenziale, palpebra immensa.
Toga triangolare, stame di pietra.
Faro di granito, pane di pietra.
Serpe minerale, rosa di pietra.
Nave sepolta, sorgente di pietra.
Cavallo di luna, luce di pietra.
Squadra equinoziale, vapore di pietra.
Geometria finale, libro di pietra.
Timpano tra le raffiche scolpito.
Madrepora del tempo naufragato.
Muraglia dalle dita levigata.
Tettoia dalle piume combattuta.
Rami di specchio, basi di tormenta.
Troni rovesciati dai convolvoli.
Governo dagli artigli inferociti.
Ciclone trattenuto sul declivio.
Immota cateratta del turchese.
Campana patriarcale dei dormienti.
Collare delle nevi dominate.
Ferro coricato sopra statue.
Inaccessibile bufera chiusa.
Mani di puma, roccia sanguinaria.
Discussione di neve, torre d'ombra.
Notte elevata su dita e radici.
Finestra alle nebbie, colomba indurita.
Pianta della notte, statua dei tuoni.
Massiccio essenziale, tetto marino.
Architettura d'aquile sperdute.
Corda del cielo, ape di montagna.
Linea di sangue, stella edificata.
Luna di quarzo, bolla minerale.
Serpente andino, fronte d'amaranto.
Cupola del silenzio, patria pura.
Del mare sposa, albero di duomi.
Ramo di sale, ciliegio d'ali nere.
Dentatura nevosa, tuono freddo.
Luna graffiata, pietra minacciosa.
Chioma del freddo, impresa dell'aria.
Vulcano di mani, buia cascata.
Onda d'argento, condotta del tempo.
X
PIETRA sulla pietra, e l'uomo dov'era?
Aria nell'aria, e l'uomo dov'era?
Tempo nel tempo, e l'uomo dov'era?
Forse la particella infranta fosti
dell'uomo incompiuto, dell'aquila vuota
che sulle strade d'oggi, sulle orme,
che sulle foglie dell'autunno morto
si stritola l'anima fino alla tomba?
Povera la mano, il piede, la vita...
Forse i giorni di luce sfilacciata
in te, come la pioggia
sopra le banderillas della fiesta,
diedero, petalo a petalo, il loro cibo oscuro
alla bocca vuota?
Fame, corallo dell'uomo,
fame, pianta segreta, radice dei taglialegna,
fame, è salita la tua linea di scogli
sino a queste alte torri distaccate?
Io t'interrogo, sale delle strade,
mostrami il cucchiaio, lasciami, architettura,
raschiare con uno stecco gli stami di pietra,
salire tutti i gradini dell'aria fino al vuoto,
grattare le viscere fino a toccare l'uomo.
Macchu Picchu, posasti tu
pietra su pietra, e, alla base, stracci?
Carbone su carbone, e, al fondo, pianto?
Fuoco nell'oro, e, in esso, tremante,
il rosso grondare del sangue?
Ridammi lo schiavo che hai seppellito!
Rimuovi dalle terre il duro pane
dell'infelice, mostrami le vesti
del servo, la sua finestra.
Dimmi come dormì quando viveva.
Dimmi se fu il suo sonno
rauco, socchiuso, come un buco nero
scavato dalla fatica sul muro.
Il muro! Dimmi se sopra il suo sonno
gravò ogni strato di pietra, e s'egli vi cadde sotto
come sotto una luna, col suo sonno!
Antica America, sposa sommersa,
anche le tue dita,
nell'uscire dalla selva verso l'alto vuoto degli dèi,
sotto gli stendardi nuziali della luce e del decoro,
mischiandosi al tuono dei tamburi e delle lance,
anche, anche le tue dita,
quelle che la rosa astratta e la linea del freddo,
quelle che il petto sanguigno del nuovo cereale trasportarono
fino alla tela di materia radiosa, fino alle dure cavità,
anche, anche tu, America sepolta, conservasti nel più profondo,
giù nell'amaro intestino, come un'aquila, la fame?
XI
ATTRAVERSO il confuso splendore,
attraverso la notte di pietra, lascia ch'io affondi la mano,
e lascia che in me palpiti, come uccello da mill'anni prigioniero,
il vecchio cuore del dimenticato!
Lasciami oggi scordare questa felicità più grande del mare,
poiché l'uomo è più grande del mare e delle sue isole,
e bisogna calare in lui come in un pozzo per risalire dal fondo
con un mazzo d'acque segrete e verità sommerse.
Lasciami scordare, vasta pietra, la poderosa proporzione,
la misura trascendente, le pietre dell'arnia,
e dalla squadra lasciami oggi sfiorare
con la mano l'ipotenusa di crudo sangue e cilicio.
Quando, come un ferro di cavallo con elitre rosse, il furioso condor
mi batte le tempie nell'ordine del volo
e l'uragano di penne carnivore spazza l'oscura polvere
dalle scalinate diagonali, non vedo la bestia veloce,
non vedo la cieca frequenza dei suoi artigli,
ma vedo l'antico essere, il servitore, colui che dorme
nei campi, vedo un corpo, mille corpi, un uomo, mille donne,
sotto la raffica nera, neri di pioggia e di notte,
con la pesante pietra della statua:
Juan Tagliapietre, figlio di Wiracocha,
Juan Mangiafreddo, figlio della stella verde,
Juan Piediscalzi, nipote del turchese,
sorgi a rinascere con me, fratello.
XII
SORGI a rinascere con me, fratello.
Dammi la mano giù dalla profonda
regione del tuo diffuso dolore.
Non tornerai dal fondo delle rocce.,
Non tornerai dal tempo sotterraneo.
Non tornerà la tua voce indurita.
Non torneranno i tuoi occhi forati.
Guardami dal profondo della terra,
bifolco, tessile, muto pastore:
domatore di guanacos tutelari:
muratore delle impalcature incurante:
acquaiolo delle lacrime andine:
orefice dalle dita ammaccate:
agricoltore che tremi sul seme:
vasaio nella tua creta impastato:
date alla coppa di questa nuova vita
i vostri vecchi, sepolti dolori.
Mostratemi il vostro sangue e il solco,
ditemi: qui io fui castigato,
perché la gioia non brillò o la terra
non diede all'ora sua la pietra o il grano:
indicatemi la pietra ove cadeste,
e il legno su cui vi crocifissero,
accendetemi gli antichi acciarini,
gli antichi lumi, le fruste attaccate
per secoli sopra le vostre piaghe
e le asce di luce insanguinata.
Io parlo dalla vostra bocca morta.
Attraverso la terra unite tutte
le vostre labbra tacite e disperse
e dal profondo parlatemi, per tutta questa lunga notte,
come se io con voi fossi ancorato,
ditemi tutto, catena a catena,
anello ad anello, e passo a passo,
affilate i coltelli che serbaste,
posatemeli in petto e nella mano,
come un fiume di gialle saette,
come un fiume di tigri sepolte,
e lasciatemi piangere, per ore, giorni, anni,
per età cieche e secoli stellari.
Datemi il silenzio, l'acqua, la speranza.
Datemi la lotta, il ferro, i vulcani.
Unite a me i corpi come calamite.
Accorrete alle mie vene, alla mia bocca.
Parlate con le mie parole e col mio sangue.
III
I CONQUISTATORI
Ccollanan Pachaucutec! Ricuy
anceacunac yahuarniy richacaucuta!
TÚPAC AMARU I
I - Invadono le isole (1493)
GLI SPARVIERI desolarono le isole.
E Guanahaní fu la prima
in questa storia di martiri.
I figli dell'argilla videro infranto
il loro sorriso, colpita
la loro fragile figura di cervi,
ed anche nella morte non capivano.
Furono incatenati e feriti,
furono arsi e bruciacchiati,
furono morsi e sotterrati.
E quando il tempo fece il suo giro di valzer
danzando tra le palme,
il salone verde era svuotato.
Rimanevano solo delle ossa
rigidamente sistemate
a forma di croce, a maggiore
gloria di Dio e degli uomini.
Dalle crete dell'interno
e dalle fronde costiere
sino alle folte coralline
andò tagliando il coltello di Narváez.
Qui la croce e qui il rosario,
qui la Vergine del Garrote.
La fosforica Cuba, gemma di Colombo,
ricevette lo stendardo e le ginocchia
sulle sue sabbie bagnate.
II - Ora tocca a Cuba
E SUBITO venne la cenere e il sangue.
Poi rimasero le palme sole.
Cuba, mio amore, t'avvinsero al cavalletto,
ti tagliuzzarono la faccia,
ti squartarono le gambe d'oro pallido,
ti strapparono il sesso di melagrana,
con i coltelli ti trafissero,
ti lacerarono, ti bruciarono.
Sulle valli della dolcezza
calarono gli sterminatori,
e sulle alte dune il cimiero
dei tuoi figli si perse tra la nebbia,
ma lì, essi, ad uno ad uno,
furono raggiunti e messi a morte,
o massacrati nel supplizio,
senza che la calda terra dei fiori
più non fuggisse sotto i loro piedi.
Cuba, mio amore, che brivido
ti scosse di spuma in spuma,
finché ti facesti purezza,
solitudine, densità, silenzio,
e le piccole ossa dei tuoi figli
tra loro si disputarono i granchi.
III - Giungono al mare del Messico (1519)
Su VERACRUZ tira il vento assassino.
E a Veracruz essi sbarcano i cavalli.
Le barche sono stipate di grinfie
e di rosse barbe di Castiglia.
Sono Arias, Reyes, Rojas, Maldonado,
figli della desolazione castigliana,
sono esperti della fame in inverno
e dei pidocchi nelle locande.
Cosa guardano appoggiati alle murate?
Cosa, dell'avvenire e del passato
perduto, del vagabondo vento
feudale della patria straziata?
Non erano partiti dai porti del Sud
per ficcare le mani di popolo
nel saccheggio e nella morte:
essi vedono verdi terre, libertà,
catene infrante, costruzioni,
e, dalla nave, le onde che si spengono
là sulle coste di compatto mistero.
Andranno forse a morire o rivivere dietro
le palme, nell'aria calda
che la terra rovente, come uno strano forno,
verso di loro getta a dense folate?
Erano popolo, teste irsute di Montiel,
mani tenaci e rotte di Ocaña e Piedrahita,
braccia di fabbri, occhi infantili
che fissavano il sole atroce e le palme.
L'antica fame d'Europa, fame come la coda
d'un mortale pianeta, popolava lo scafo,
la fame stava là, tutta sconvolta,
errabonda accetta fredda, matrigna
dei popoli, la fame getta i dadi
del navigare, soffia sulle vele:
«Più avanti, che ti divoro, più avanti
che, altrimenti, devi ritornare
alla madre, al fratello, al Giudice e al Prete,
agli inquisitori, all'inferno, e alla peste.
Più avanti, più avanti, lontano dai pidocchi,
dalla frusta feudale, dalle buie segrete,
dalle galere piene d'escrementi».
E gli occhi di Nùñez e di Bernales
nell'illimitata luce
conficcavano il riposo,
una vita, un'altra vita,
l'infinita e tormentata famiglia
dei poveri del mondo.
IV - Cortés
CORTÉS non ha popolo: è un lampo freddo,
un cuore morto dentro l'armatura.
« Terre feraci, mio Signore e Re,
templi ove l'oro viene coagulato
dalle mani dell'indio».
E avanza, affonda pugnali, percuote
le basse terre, le rampanti
cordigliere dei profumi,
ferma le truppe in mezzo alle orchidee
e alle alte corone di pini,
e calpesta i gelsomini,
fino alle porte di Tlaxcala.
(O fratello terrorizzato,
non fidarti dell'avvoltoio rosa:
qui dal muschio io ti parlo,
dalle radici del nostro regno.
Domani verrà pioggia di sangue,
e le tue lacrime finiranno
per formare nebbia, vapore, fiumi,
sinché i tuoi occhi si scioglieranno.)
Cortés riceve in dono una colomba,
riceve in dono un fagiano, una cetra
dai musicanti del monarca,
ma vuole la sala dell'oro,
vuole altre concessioni: e tutto
entra negli scrigni dei voraci.
Il Re s'affaccia ai balconi:
«È mio fratello», dice. I sassi
del popolo volano in risposta,
e Cortés arrota i pugnali
sugli stessi abbracci traditi.
Torna a Tlaxcala: il vento ha portato
un rumore sordo di dolori.
V - Cholula
A CHOLULA i giovani indossano
le vesti più belle, oro e piume;
e vanno, calzati per la festa,
a interrogare l'invasore.
La morte ha dato loro risposta.
Migliaia di morti sono ora laggiù.
Vi sono cuori assassinati
che palpitano là distesi,
e, nell'umido abisso che hanno aperto,
essi serbano il filo di quel giorno.
(Quelli entrarono uccidendo, a cavallo,
spezzarono la mano che offriva
l'omaggio dell'oro e dei fiori,
chiusero la piazza, straccarono
le braccia sino allo sfinimento,
e uccisero il fiore del reame,
immergendo anche i gomiti nel sangue
dei miei fratelli stupefatti.)
VI - Alvarado
ALVARADO, con artigli e coltelli,
piombò sulle capanne, distrasse
il patrimonio degli orefici,
rapì alla tribù la rosa nuziale,
aggredì stirpi, poderi, religioni,
fu il ricco forziere di tutti i predoni,
fu il falco clandestino della morte.
Verso il gran fiume verde, il Papaloapan,
Fiume delle Farfalle, andò più tardi
e portò sempre sangue il suo stendardo.
L'austero fiume vide i suoi figli
morire o sopravvivere schiavi,
vide bruciare, nei fuochi accanto all'acqua,
razza e ragione, teste giovanili.
Ma i patimenti non finirono
quando egli volse il passo indurito
verso nuove regioni.
VII - Guatemala
GUATEMALA la dolce, ogni lastra
della tua dimora reca una goccia
di sangue antico divorato
dal muso delle tigri.
Alvarado stritolò la tua stirpe,
spezzò gli astrali cippi sepolcrali,
si rotolò in mezzo ai tuoi martiri.
E a Yucatán entrò il vescovo
dietro alle pallide tigri.
Raccolse la più profonda
sapienza captata nell'aria
dal primo giorno del mondo,
quando il primo Maya scrisse
e annotò il tremito del fiume,
la scienza del polline, l'ira
degli Dèi dell'Envoltorio,
le migrazioni nel corso
dei primitivi universi,
le leggi dell'alveare,
il segreto dell'uccello verde,
il linguaggio delle stelle:
misteri del giorno e della notte
raccattati sulle sponde
dello sviluppo terreno!
VIII - Un vescovo
IL VESCOVO levò il braccio,
bruciò i libri sulla piazza
in nome del suo piccolo Dio,
e fumavano gli antichi fogli
consumati dal tempo oscuro.
E il fumo non torna dal cielo.
IX - La testa in cima a lpalo
BALBOA, morte e grinfie
portasti negli angoli della dolce
terra centrale, e fra i cani da caccia,
il tuo possesso era la tua anima.
E, leoncino dal muso insanguinato,
egli acciuffò lo schiavo che fuggiva,
sprofondò le zanne spagnole
nelle gole palpitanti,
e dalle unghie dei cani
la carne andava al martirio
e cadevano le gemme nella borsa.
Siano maledetti il cane e l'uomo,
l'urlo infame nella foresta
originale, l'insidioso
passo del ferro e del bandito.
Maledetta sia la corona
di spine dell'agreste rovo
che non balzò come un istrice
a difendere la culla invasa.
Eppure in mezzo ai capitani
sanguinari s'alzò, nell'ombra,
la giustizia dei pugnali,
l'aspro ramo dell'invidia.
E a sbarrarti come una fune
la strada del ritorno c'era
il cognome di Pedrarias.
Ti giudicarono fra i latrati
dei cani uccisori di indios.
E ora che muori, non odi
il silenzio puro, tagliato
dai tuoi istigati levrieri?
Ora che muori nelle mani
degli accigliati comandanti,
non senti l'aroma dorato
del dolce reame distrutto?
Quando tagliarono la testa
di Balboa, restò infilzata
in un palo. I suoi occhi morti
disfecero il loro fulgore
e scesero, giù per la lancia,
in una gora d’immondizie
che si dileguò nella terra.
X – Omaggio a Balboa
SCOPRITORE, il vasto mare, mia spuma,
latitudine della luna, impero dell'acqua,
dopo secoli dalla mia bocca ti parla.
La tua pienezza giunse prima della morte.
Fino al cielo tu elevasti il tuo sforzo,
e dalla dura notte degli alberi
il sudore ti guidò sino alla riva
del mare estremo, dell'oceano immenso.
Nel tuo sguardo si fecero le nozze
della luce distesa e del piccolo
cuore dell'uomo, si riempì una coppa
mai prima d'allora innalzata, un seme
di lampeggiamenti arrivò con te,
e un tuono torrenziale empì la terra.
Balboa, capitano, com'è minuta
la tua mano sulla visiera, fantoccio
misterioso di sale esploratore,
sposo dell'oceanica dolcezza,
figlio del nuovo utero del mondo.
Dai tuoi occhi entrò, come un galoppo
di zagare, il tenebroso profumo
della usurpata maestà marina,
cadde sul tuo sangue un'alba arrogante
che infine ti empì l'anima, impazzito!
Quando tornasti alle terre ribelli,
sonnambulo del mare, capitano verde,
tu eri ormai morto e ormai la terra
attendeva di accogliere le tue ossa.
Sposo mortale, scoccava il tradimento.
Non per nulla il delitto
entrava nella storia calpestando,
il falco divorava il suo nido, e si riunivano
le serpi assaltandosi con lingue d'oro.
Penetrasti nel frenetico imbrunire,
e gli sperduti passi che recavi,
grondante ancora dei profondi abissi
rivestito di fulgore e sposato
all'eccelsa spuma, ti penavano
sulla riva d'un altro mare: la morte.
XI – Dorme un soldato
SMARRITO nei folti confini giunse
il soldato. Era allo stremo la fatica
e cadde tra le liane e tra le foglie,
ai piedi del Gran Dio piumato:
questi
era laggiù, solo col suo mondo
appena sorto dalla selva.
Guardò il soldato
forestiero, nato dall'oceano.
Guardò i suoi occhi, la barba sanguigna,
la sua spada, il nero splendore
dell'armatura, e la stanchezza caduta
come la bruma sopra quella testa
di fanciullo carnivoro.
Quante regioni
d'oscurità occorrevano perché il Dio di Piuma
nascesse e attorcigliasse il suo volume
sulla pietra rosata, sopra i boschi,
quanto disordine d'acque impazzite
e di notte selvaggia, il traboccante
alveo della luce non nata, il rabbioso fermento
degli esseri, il crollo, la farina
della fecondità e poi l'ordine,
l'ordine della pianta e della specie,
l'erigersi delle rocce spaccate,
il fumo delle lampade rituali,
la stabilità del suolo per l'uomo,
la creazione e l'assetto delle tribù,
il tribunale degli dèi terreni!
Palpitò ogni scaglia della pietra,
sentì il gran terrore caduto
come un'invasione d'insetti,
radunò tutta la sua possanza,
fece arrivare la pioggia alle radici,
parlò alle correnti della terra,
bruno nei suoi abiti
di pietra cosmica immobilizzata,
e non poté muovere né artigli né denti,
né fiumi, né tremori,
né meteore che sibilassero
sotto la volta del reame,
e là restò, pietra immota, silenzio,
mentre Beltrán de Córdoba dormiva.
XII – Ximénez de Quesada (1536)
ECCOLI, eccoli, già arrivano,
o cuore mio, osserva le navi,
le navi su pel Magdalena,
le navi di Gonzalo Jiménez
già arrivano, arrivano le navi,
arrestale, o fiume, chiudi
le tue rive divoratrici,
sommergile nel tuo palpito,
strappagli l'ingordigia,
buttagli addosso la tua tromba di fuoco,
i tuoi cruenti vertebrati,
le tue anguille che mangiano gli occhi,
blocca il tuo corso col grosso caimano
dai denti color del limo
e dall'armatura primordiale,
gettalo come un ponte
sopra le tue acque sabbiose,
scatena il fuoco del giaguaro
dall'alto dei tuoi alberi, nati
dalle tue sementi, fiume madre,
lanciagli addosso mosche di sangue,
accecali con nero sterco,
sprofondali nel tuo emisfero,
piegali in mezzo alle radici
nell'oscurità del tuo letto,
e inquina tutto il loro sangue
divorandogli con i tuoi granchi
e le labbra e i polmoni.
Sono già penetrati nel bosco;
e già predano, mordono, ammazzano.
Oh, Colombia! Difendi il velo
della tua segreta selva rossa.
Ormai hanno alzato il coltello
sopra l'oratorio d'Iraka,
ora afferrano lo Zipa,
ora lo legano. «Consegna
i gioielli del Dio antico »,
i gioielli che fiorivano
e lucevano con la rugiada
delle mattine di Colombia.
Ora torturano il principe.
L'hanno sgozzato e la sua testa
mi guarda con occhi che nessuno
può chiudere, occhi amati
della mia patria verde e nuda.
Ora bruciano la casa solenne,
ora arrivano i cavalli,
i supplizi e le spade,
ora restano solo poche braci
e, tra la cenere, gli occhi
del principe che non si sono chiusi.
XIII – Convegno di corvi
A PANAMA si unirono i demoni.
Là si strinse il patto delle faine.
Dava una magra luce una candela
quando giunsero i tre, uno alla volta.
Prima arrivò Almagro, antico e guercio,
poi Pizarro, pastore di maiali,
e frate Luque, canonico esperto
delle tenebre. E ciascuno
nascondeva il pugnale destinato
alla schiena del compare, ciascuno
con untuoso sguardo sulle fosche
pareti già intuiva il sangue,
e l'oro del lontano regno li attraeva
come la luna le pietre maledette.
Appena s'accordarono, Luque levò
in alto il pane dell'eucarestia,
e i tre predoni impastarono
l'ostia con un torvo sorriso.
«Fratelli, Dio è stato tra noi
diviso», affermò il canonico,
e i macellai dai denti
anneriti dissero «Amen.»
Picchiarono sul tavolo sputando.
E, poiché non sapevano scrivere,
riempirono di croci il tavolo,
la carta, le panche, i muri.
Il Perù oscuro, sommerso,
era ormai segnato e le croci,
le piccole, nere, nere croci
al Sud vennero navigando:
croci fatte per le agonie,
croci pelose e affilate,
croci con ganci da rettile,
croci coperte di pustole,
croci come zampe di ragno,
tenebrose croci da preda.
XIV – Le agonie
A CAJAMARCA iniziò l'agonia.
II giovane Atahualpa, azzurro stame,
albero insigne, udì che il vento
portava rumori d'acciaio.
Veniva un confuso
sfolgorio e tremore dalla costa,
un galoppo incredibile
— impennate e potenza —
di ferro e ferro tra le erbe.
Arrivarono i dignitari.
L'Inca uscì dalla fanfara
circondato dai signori.
Gli ospiti
dell'altro pianeta, sudati e barbuti,
facevano la riverenza.
Il cappellano
Valverde, cuore infido, lurido sciacallo,
presenta uno strano oggetto, un pezzo
di canestro, forse un frutto
di quel pianeta
di dove vengono i cavalli.
Atahualpa lo prende. Non sa
di che si tratta: non brilla, non suona,
e lo lascia cadere sorridendo.
«Morte,
vendetta, ammazzate, che io vi assolvo»,
grida lo sciacallo dalla croce assassina.
Il tuono viene in aiuto ai banditi.
Il nostro sangue nella sua culla è versato.
I principi circondano come un coro
l'Inca, al momento dell'agonia.
Diecimila peruviani cadono
sotto le croci e le spade, il sangue
bagna i vestimenti di Atahualpa.
Pizarro, il crudele porco d'Estremadura,
fa incatenare le delicate braccia
dell'Inca. E la notte è discesa
sopra il Perù come una nera brace.
XV – La linea rossa
PIÙ TARDI sollevò la stanca
mano il monarca, e al di sopra
delle teste dei banditi,
toccò le pareti.
E là tracciarono
la linea rossa.
Tre stanze
bisognava riempire d'oro e argento,
fino a quella linea del suo sangue.
Notti e notti girò la ruota dell'oro.
Giorno e notte la ruota del martirio.
Rasparono la terra, staccarono
le gemme fatte con amore e spuma,
strapparono il braccialetto alla sposa,
lasciarono deserti i loro dèi.
Il villano diede la sua medaglia,
il pescatore la goccia d'oro,
e i vomeri tremarono nell'eco
dei messaggi e delle voci sui monti
mentre la ruota dell'oro girava.
Allora tigre e tigre si riunirono
e si spartirono il sangue ed il pianto.
Atahualpa attendeva, lievemente
triste nello scosceso giorno andino.
Non si dischiusero le porte. Fino all'ultima
gemma si spartirono gli avvoltoi:
i turchesi rituali, macchiettati
col sangue del massacro, il vestito
laminato d'argento: le unghie brigantesche
facevano i calcoli, e la risata
del frate, tra i carnefici,
era udita dal re con gran tristezza.
Il suo cuore era un calice pieno
d'un'angoscia amara come
l'essenza amara della china.
Pensò ai suoi confini, all'alto Cuzco,
alle principesse, alla sua età,
al brivido del suo potere.
Maturo si sentiva dentro, e la sua pace
disperata era tristezza. Pensò a Huáscar.
Erano forse chiamati da lui gli stranieri?
Tutto era enigma, tutto era coltello,
tutto era deserto, solo la linea rossa
vivente palpitava,
e ingoiava le viscere gialle
del regno ammutolito che periva.
Entrò allora Valverde con la Morte.
«Ti chiamerai Juan», gli disse,
mentre preparavano il rogo.
E grave egli rispose: «Juan,
Juan mi chiamo, per morire»,
senza capire ormai neppur la morte.
Lo legarono per il collo, e un uncino
si conficcò nell'anima del Perù.
XVI - Elegia
SOLO, nelle solitudini
voglio piangere come i fiumi,
voglio rabbuiarmi, dormire
come la tua antica notte minerale.
Perché giunsero le chiavi splendenti
nelle mani del bandito? Oh, sorgi,
materna Oello, riposa il tuo segreto
nella lunga fatica di questa notte
e versami nelle vene il tuo consiglio.
Ancora non ti chiedo il sole degli Yupanquis.
Io ti parlo nel sonno, lanciando
di terra in terra i miei richiami,
madre peruviana, matrice cordigliera.
Come poté nel tuo recinto sabbioso
entrare la valanga dei pugnali?
Immobile nelle tue mani,
sento i metalli protendersi
nei canali del sottosuolo.
Sono fatto delle tue radici,
ma non comprendo, a me la terra
non trasmette la sua saggezza,
non vedo che notte più notte
sotto le terre stellate.
Quale sogno senza senso strisciò
a serpente fino alla linea rossa?
Occhi della pena, pianta tenebrosa.
Come arrivasti a questo vento acerbo,
e come mai tra i dirupi dell'ira
Capac non alzò la sua tiara
d'abbagliante argilla?
Sotto i padiglioni
lasciatemi patire e sprofondare
come la radice morta che non darà splendore.
Sotto la dura notte dura
calerò nella terra fino a toccare
la bocca dell'oro.
Voglio distendermi sulla pietra notturna.
Voglio giungere là con la sciagura.
XVII – Le guerre
Poi, fino al Reloj di granito
giunse una fiamma d'incendio.
Gli Almagro, i Pizarro e i Valverde,
i Castillo, gli Urías, i Beltrán
si pugnalavano nel dividersi
i tradimenti conquistati,
si rubavano la donna e l'oro,
si disputavano la dinastia.
Si sgozzavano nei recinti,
si sbranavano nella piazza,
s'impiccavano nei Cabildos.
Cadeva l'albero del saccheggio
fra stoccate e cancrena.
Da quel galoppo dei Pizarro
sui lineari territori
sorse un silenzio stupefatto.
Tutto era gravido di morte
e sopra l'agonia prostrata
dei suoi figli sventurati,
nella distesa delle terre
(róse fino all'osso dai topi),
essi si reggevano le viscere
prima d'uccidere e d'uccidersi.
Macellai di collera e forca,
centauri caduti nel fango
della cupidigia, idoli
infranti dalla luce dell'oro,
sterminaste la vostra stessa
razza dalle unghie sanguinarie
e presso le rocce a strapiombo
dell'alto Cuzco incoronato,
di faccia al sole delle più alte spighe,
inscenaste, fra la polvere
dorata dell'Inca, il dramma
degli inferni imperiali:
la Rapina dal muso verde,
la Lussuria unta di sangue,
l'Avidità con unghie d'oro,
l'Inganno, turpe dentatura,
la Croce, un rettile rapace,
la Forca, su sfondo di neve,
e la Morte sottile come l'aria
immota nella sua armatura.
XVIII – Scopritori del Cile
DAL NORD portò Almagro la sua folgore crespa.
E sopra il territorio, tra esplosioni e tramonti,
si chinò notte e giorno come sopra una mappa.
Ombra di spine, ombra di cardo e di candela,
è lo spagnolo, avvolto nella sua asciutta figura,.
che osserva le fosche strategie del suolo.
Notte, neve e sabbia danno la forma
alla mia esile patria.
Tutto il silenzio sta nella sua lunga linea,
tutta la spuma esce dalla sua barba marina,
tutto il carbone la empie di baci misteriosi.
Come una brace l'oro arde nelle sue dita
e l'argento illumina come una luna verde
la rincrudita sua forma di cupo pianeta.
Lo spagnolo seduto un giorno accanto alla rosa,
accanto all'olio, al vino, e all'antico cielo,
non suppose che questo punto d'irosa pietra
nascesse sotto lo sterco dell'aquila marina.
XIX - La terra combattente
PER PRIMA resiste la terra.
La neve araucana bruciò
come un gran fuoco di candore
il passaggio degli invasori.
Cadevano dal freddo le dita,
le mani e i piedi di Almagro,
e gli artigli che divorarono
e seppellirono monarchie
erano sulla neve un punto
di gelida carne, di silenzio.
Accadde nel mare di cordigliere.
L'aria cilena flagellava
segnando stelle e travolgendo
cupidigie e cavallerie.
Poi la fame pestò le orme
d'Almagro come un'invisibile
mandibola sterminatrice.
I cavalli davano il cibo
a quel banchetto glaciale.
E la morte del Sud stritolò
il galoppo degli Almagro,
finché il suo cavallo ritornò
verso il Perù, dove il respinto
scopritore era aspettato
dalla morte del Nord, seduta
sul suo cammino, con un'ascia.
XX – Si congiungono la terra e l'uomo
ARAUCANIA, ramo di querce torrenziali,
o Patria spietata, oscuro amore,
solitaria nel tuo regno piovoso:
eri soltanto gole minerali,
mani di freddo, pugni
abituati a spezzare macigni,
eri, Patria, pace della durezza
e i tuoi uomini erano rumore,
vento sfrenato, cruda apparizione.
Non ebbero i miei padri araucani
cimieri dalle piume risplendenti,
non riposarono su fiori nuziali,
non filarono oro al sacerdote:
erano pietra ed albero, radici
delle sterpaie sconquassate,
foglie dalla forma di lance,
teste di metallo guerriero.
Appena, padri, voi tendeste
l'orecchio al galoppo, appena foste
sulla cima dei monti, saettò il fulmine
d'Araucania.
Ombre si fecero i padri di pietra,
s'intrecciarono al bosco e alle tenebre,
si tramutarono in luce di gelo,
in asperità di terre e di spine,
e così attesero, nelle tenebre
della indomabile solitudine:
uno era l'albero rosso che scrutava,
un altro il frammento di metalli che udiva,
un altro la raffica di vento e il trapano,
un altro aveva il colore del sentiero.
Patria, nave di neve,
indurito fogliame:
là tu sei nata, quando l'uomo tuo
chiese alla terra il suo stendardo,
e terra e aria e pietra e pioggia,
foglia, radice, odore, grido,
copersero come un manto il figlio,
l'amarono o lo difesero.
Così nacque la patria unanime:
e l'unità prima della lotta.
XXI – Valdivia (1544)
MA tornarono.
(Pedro si chiamava.)
Valdivia, il capitano intruso,
spartì fra i ladri la mia terra
con la sua spada: «Questo è tuo,
questo è tuo Valdés, Montero,
questo è tuo Inés, questo luogo
sarà il Cabildo».
Sezionarono la mia patria
come fosse un asino morto.
« Eccoti
questo pezzo di luna e di boschi,
pigliati questo fiume con crepuscolo»,
mentre la grande cordigliera
innalzava bronzo e candore.
Spuntò Arauco. Mattoni, torri,
strade: il silenzioso
padrone di casa si levò sorridendo.
Lavorò con le mani imbevute
della sua acqua e del suo fango, portò
la creta e travasò l'acqua delle Ande:
ma non poté essere schiavo.
E allora Valdivia, il boia,
attaccò col fuoco e con la morte.
Così cominciò il sangue,
il sangue di tre secoli, il sangue oceano,
il sangue atmosfera che coprì la mia terra
e il tempo immenso, come nessuna guerra.
Soni l'avvoltoio rabbioso
dalla sua armatura di lutto
e morse l'araucano, ruppe
il patto scritto nel silenzio
di Huelén, là nell'aria andina.
Arauco cominciò a far bollire il suo piatto
di sangue e di pietre.
Sette principi
vennero a parlamentare.
Furono imprigionati.
Dinnanzi agli occhi dell'Araucania,
tagliarono le teste dei cacicchi.
Prendevano coraggio i carnefici.
Tutta lorda di viscere, urlando,
Inés de Suárez, la donna soldato,
soggiogava le imperiali cervici
con le ginocchia d'infernale arpia.
E le scagliò sopra le palizzate,
bagnandosi di nobile sangue,
coprendosi di mota scarlatta.
Credettero così di dominare Arauco.
Ma a questo punto l'unità segreta
d'albero e pietra, di lancia e volto,
trasmise il delitto nel vento.
Lo seppe l'albero di frontiera,
il pescatore, il re, il mago,
lo seppe l'agricoltore antartico,
lo seppero le acque madri
del Bío-Bío.
Nacque così la guerra patria.
Valdivia ficcò la lancia grondante
entro le viscere petrose
d'Arauco, sprofondò la mano
nelle palpitazioni, strinse
le dita sul cuore araucano,
disperse le vene silvestri
dei contadini,
sterminò
l'alba dei pastori,
mandò al martirio
il regno della selva, incendiò
la casa del padrone del bosco,
segò le mani del cacicco,
restituì i prigionieri
con naso e orecchie mozzate,
impalò il Toqui, assassinò
la ragazza guerrigliera
e col suo guanto insanguinato
sfregiò i sassi della patria,
e la lasciò piena di morti,
di solitudini e cicatrici.
XXII - Ercilla
PIETRE d'Arauco e sprigionate rose
fluviali, territori di radici
si scontrano con l'uomo che è giunto dalla Spagna.
Gli invadono l'armatura con un enorme lichene.
Le ombre delle felci gli strappano la spada.
L'edera primordiale posa mani azzurre
sul recente silenzio del pianeta.
Uomo, Ercilla sonoro, sento il polso dell'acqua
del tuo primo albore, odo una frenesia d'uccelli
e un tuono tra il fogliame.
Lascia, lascia la tua orma
d'aquila fulva, lacera
la tua guancia contro il mais selvatico,
tutto sarà in terra divorato.
Solo tu, sonoro, non berrai la coppa
di sangue, sonoro, solo al rapido
splendore da te sorto
giungerà la segreta bocca del tempo, invano,
per poteri dire: invano.
Invano, invano
il sangue su per i rami di cristallo macchiato,
invano fra le notti del puma,
l'arrogante passo del soldato,
i comandi,
i passi
del ferito.
Tutto torna al silenzio coronato di piume
laddove un re lontano divora convolvoli.
XXIII – Si seppelliscono le lance
Così restò spartito il patrimonio.
II sangue divise l'intera patria.
(Narrerò in altri versi
la lotta del mio popolo.)
Ma la terra rimase tagliuzzata
dai coltelli invasori.
Poi vennero ad abitare le terre ereditate
gli usurai di Euzkadi, nipoti
di Loyola. E dalla cordigliera
sino all'oceano
divisero, con alberi e corpi,
l'ombra reclinata del pianeta.
Le Encomiendas applicate alla terra
scossa, ferita, incendiata,
la spartizione della selva e dell'acqua
risolta nelle tasche, e gli Errázuriz
che si presentano col loro stemma:
uno scudiscio e un sandalo.
XXIV
Il cuore di Magellano (1519)
DI DOVE SONO, talvolta mi chiedo, da dove
diavolo
vengo, che giorno è oggi, che accade,
mi chiedo rauco, in mezzo al sonno, all'albero, alla notte,
e un'onda si leva come una palpebra, un giorno
nasce da essa, e una folgore col muso di tigre.
Mi desto d'improvviso nella notte pensando all'estremo Sud
Viene il giorno e mi dice: «Non odi
l'acqua lenta, l'acqua,
l'acqua,
sulla Patagonia?».
E io rispondo: «Sissignore, sento».
Viene il giorno e mi dice: «Una pecora selvatica
laggiù, in quella zona, lecca il colore gelido
d'una pietra. Non senti il belato, non riconosci
il vento di mare azzurro nelle cui mani
la luna è una coppa, non scorgi la mandria, il dito
astioso del vento
che tocca l'onda e la vita col suo anello vuoto?».
Ricordo la solitudine dello Stretto
La lunga notte, il pino, vengono dov'io mi reco.
E si scompiglia l'acido sordo, la fatica,
il coperchio della botte, e ciò che ho nella vita.
Una goccia di neve piange e piange al mio uscio
mostrando il suo abito chiaro e stracciato
di piccola cometa che mi cerca e singhiozza.
Nessuno osserva la raffica, la distesa, l'urlo
dell'aria nelle praterie.
M'accosto e dico:andiamo.Tocco il Sud,nella spiaggia
sbocco, vedo la pianta secca e nera, tutta radice e roccia,
e le isole graffiate dall'acqua e dal cielo,
il Rio del Hambre, il Corazón de Ceniza,
il Patio del Mar Lúgubre, e dove sibila
il serpe solitario, dove scava la terra
l'ultima volpe ferita e cela il suo tesoro di sangue,
scopro la bufera e la sua voce di rottura,
d'antico libro, la sua bocca di cento labbra,
qualcosa mi dice, qualcosa che l'aria divora ogni giorno.
Arrivano gli scopritori e di essi non resta nulla
L'acqua ricorda che cosa accadde alla nave.
La dura terra straniera serba i loro teschi
che come trombe suonano nel panico australe
e occhi d'uomo e bue danno al giorno l'orbita,
il cerchio e il loro suono d'implacabili scie.
Cerca il vecchio cielo la vela,
nessuno
ormai sopravvive: il naviglio distrutto
vive con la cenere dell'amaro marinaio,
e dei luoghi dell'oro, delle case di cuoio,
del grano pestifero,
e della fiamma fredda delle navigazioni
(quanti colpi di notte [rocce e vascello] sul fondo!)
resta solo il regno arso e senza cadaveri,
l'incessante intemperie appena rotta
da un nero frammento
di fuoco spento.
Regna soltanto la desolazione
Sfera che distrugge lentamente la notte, l'acqua, il gelo,
distesa combattuta dal tempo e dall'estremo confine,
con il suo marchio violetto, con l'azzurra coda
dell'arcobaleno selvaggio,
la mia patria sprofonda i piedi nella tua ombra
e grida ed agonizza la rosa frantumata.
Rievoco il vecchio scopritore
Lungo il canale naviga nuovamente
il cereale ghiacciato, la barba guerriera,
l'Autunno glaciale e il passeggero ferito.
Con lui, con l'antico, con il morto,
con lo scacciato dall'acqua rabbiosa,
con lui, nella sua sventura, con la sua fronte.
Ancora l'insegue l'albatros e la rosicchiata
corda di cuoio, con gli occhi fuori dallo sguardo,
e il topo divorato, che ciecamente contempla
tra i pali rotti il feroce splendore,
mentre l'anello e l'osso là nel vuoto
cadono e scivolano sulla vacca marina.
Magellano
Qual è il dio che passa? Guardate la sua barba piena
di vermi
e le sue brache alle quali la densa atmosfera
si attacca a morsi come un cane in naufragio:
la sua statura ha il peso di un'ancora esecrata,
e fischia il pelago e l'aquilone spira
fino ai suoi piedi bagnati.
Conchiglia della cupa
ombra del tempo,
sperone
tarlato, vecchio signore del lutto litorale, cacciatore d'aquile
senza stirpe, sorgente maculata, lo sterco
dello Stretto ti governa,
e ciò che di croce ha il tuo petto è solo un grido
del mare, un grido bianco, di luce marina,
e di tanaglia, di balzo in balzo, di pungiglione infranto.
Raggiunge il Pacifico
Infatti il giorno sinistro del mare un giorno cessa,
e la mano notturna si taglia, una a una, le dita
fino a scomparire, fino a che l'uomo nasce
e il capitano scopre dentro di sé l'acciaio
e l'America innalza la sua bolla
e la costa rizza la sua pallida scogliera
sporca d'aurora, torbida di parto,
finché dalla nave sgorga un grido e poi si spegne,
e un altro grido e l'alba che sorge dalla spuma.
Tutti sono morti
Fratelli d'acqua e pidocchi, di pianeta carnivoro:
vedeste, dunque, l'albero della nave piegato
dalla tempesta? Vedeste la pietra spaccata
sotto la pazza e dura neve della raffica?
Eccovi, infine, la vostra guarnigione imprecante,
ed ecco i vostri fantasmi trafitti dall'aria
che baciano sulla sabbia l'orma della foca.
Giunge, infine, sulle vostre dita senz'anello
il piccolo sole dei deserti, il giorno morto,
tutto tremante, nel suo ospedale di pietre e onde.
XXV – Nonostante l'ira
ELMI corrosi, ferrature morte!
Ma attraverso il fuoco e le ferrature,
come da una sorgente illuminata
dal sangue cupo,
con il metallo immerso nel supplizio,
una luce sulla terra si è diffusa:
numero, nome, linea e struttura.
Pagine d'acqua, limpido dominio
di linguaggi chiassosi, dolci gocce
elaborate al pari dei grappoli,
sillabe di platino nell'affetto
di puri petti adornati di perle,
e una classica bocca di diamanti
diede il suo nevoso splendore ai campi.
Laggiù, lontano, la statua lasciava
il suo marmo inerte,
e, nella primavera
del mondo, fu l'alba delle macchine.
La tecnica inaugurava il suo regno
e il tempo fu raffica e velocità
sulla bandiera di tutti i mercanti.
Fu luna di geografia
quella che scoprì la pianta e il pianeta
e sparse una geometrica bellezza
sopra il suo dispiegato movimento.
L'Asia donò il suo aroma verginale.
L'intelligenza col gelido filo
al sangue tenne dietro e tessé il giorno.
La carta ripartì il miele nudo
conservato nelle tenebre.
Un volo
di colombe spiccò dalle pitture
di rosso al tramonto e d'azzurro oltremare.
E le lingue dell'uomo s'unirono
nell'ira iniziale, prima del canto.
Così, insieme con il cruento
titano di pietra,
falco predatore,
non venne solo il sangue ma anche il grano.
E la luce venne, malgrado i pugnali.
IV
I LIBERATORI
I liberatori
Ecco qui l'albero, l'albero
della tempesta, l'albero del popolo.
Dalla terra sorgono i suoi eroi
come le foglie dalla linfa,
e il vento sconquassa le fronde
di moltitudine chiassosa,
fino a che cade un'altra volta
il seme del pane sulla terra.
Ecco qui l'albero, l'albero
di nudi morti alimentato,
morti flagellati e feriti,
morti dai volti impossibili,
infilzati in una lancia,
spezzettati sopra il rogo,
decapitati dalla scure,
squartati con i cavalli,
crocifissi nelle chiese.
Ecco qui l'albero, l'albero
dalle radici viventi,
estrasse salnitro dal martirio,
succhiò sangue con le radici,
e cavò lacrime dal suolo:
le inalberò nei suoi rami,
le spartì nella sua architettura.
Divennero a volte fiori
invisibili, fiori sepolti,
oppure altre volte accesero
i petali, come pianeti.
E l'uomo raccolse sui rami
le corolle irrigidite,
le passò da una mano all'altra
come magnolie o melagrane
e d'un tratto aprirono la terra,
e crebbero fino alle stelle.
Questo è l'albero dei liberi.
Albero terra, albero nube.
Albero pane, albero freccia,
albero pugno, albero fuoco.
L'annega l'acqua tempestosa
della nostra epoca notturna,
ma il suo alto fusto fa oscillare
il cerchio della sua potenza.
Ancora ricadono i rami
già divelti dalla collera,
e una cenere terribile
copre la sua antica maestà:
così superò altre epoche,
così sortì dall'agonia,
finché una mano segreta,
certe braccia innumerevoli,
il popolo, serbò i frammenti,
nascose tronchi invariabili
e le sue labbra erano foglie
dell'immenso albero sparso,
per ogni dove seminato,
che camminava con le radici.
È questo l'albero, l'albero
del popolo, di tutti i popoli
della libertà, della lotta.
Affacciati alla sua chioma:
tocca i suoi raggi rinnovati:
affonda la mano nelle fabbriche
dove il suo frutto palpitante
propaga la luce ogni giorno.
Alza nelle mani questa terra,
partecipa a questo splendore,
prendi il tuo pane e la tua mela,
prendi il tuo cuore e il tuo cavallo
e monta la guardia al confine,
al limite delle sue foglie.
La punta delle sue corolle
difendi, spezza le notti avverse,
sorveglia il ciclo dell'aurora,
respira le altezze stellate,
per reggere l'albero, l'albero
che cresce nel mezzo della terra.
I - Cuauhtémoc (1520)
GIOVANE fratello da tanto tempo
rimasto insonne, e sempre sconsolato,
giovane tremante fra le metalliche
tenebre del Messico, dalla tua mano
ricevo il dono della tua patria nuda.
In essa nasce e cresce il tuo sorriso
come una linea tra la luce e l'oro.
Le tue labbra serrate dalla morte
sono il più puro silenzio sepolto.
La sorgente sprofondata
sotto tutte le bocche della terra.
Avete udito, avete forse udito,
verso il lontano Anáhuac,
un rombo d'acqua, un vento
di primavera straziata?
Era forse la parola del cedro.
Era un'ondata bianca di Acapulco.
Ma nella notte ruggiva
il tuo cuore come un cervo
verso i confini, confuso,
in mezzo ai monumenti sanguinari,
sotto la luna già pericolante.
Tutta l'ombra preparava altra ombra.
Era la terra una buia cucina,
pietra e caldaia, nero vapore,
parete senza nome, amarezza
che t'invocava fino dai notturni
metalli della tua patria.
Ma non c'è ombra sopra il tuo stendardo.
E arrivata l'ora stabilita,
e in mezzo al tuo popolo
tu sei pane e radice, lancia e stella.
L'invasore ha arrestato la sua marcia.
Non è estinto Moctezuma
come un calice morto,
anzi egli è baleno e sua armatura,
penna di Quetzal, fiore del popolo,
e cimiero incendiato tra le navi.
Eppure una mano dura come secoli di pietra
ti strinse la gola. Ma non spensero
il tuo sorriso, non fecero
cadere i chicchi del segreto
granturco, e ti trascinarono,
vincitore prigioniero,
per le distanze del tuo regno,
tra cascate e catene,
su arenili e punte
come una colonna infinita,
come un teste doloroso,
finché una fune non avvinghiò
la colonna della purezza,
e sollevò il corpo, sospeso
sopra la terra sfortunata.
II – Fra’ Bartolomé de las Casas
UNO PENSA, tornando a casa, di notte, affaticato,
tra le nebbie fredde di maggio, appena uscito
dal sindacato (nella sminuzzata
lotta d'ogni giorno, nella stagione
piovosa che goccia dalle gronde, nel cupo
battito della sofferenza costante)
uno pensa a questo risorgere camuffato,
astuto, umiliato,
del carceriere, della catena,
e quando monta l'angoscia
fino a entrare con te nella porta,
allora sorge un'antica luce, dolce e dura
come un metallo, come un astro sepolto.
Padre Bartolomé, grazie per questo
regalo della cruda mezzanotte,
grazie che il tuo filo fu invincibile:
poté morire schiacciato, sbranato
dal cane con le fauci furibonde,
poté rimanere tra la cenere
della casa incendiata,
poté spezzarlo la fredda lama
dell'innumerevole assassino
o l'odio amministrato coi sorrisi
(il tradimento del nuovo crociato),
e la menzogna lanciata alla finestra.
Poté morire il filo cristallino,
l'irriducibile trasparenza
divenuta azione, acciaio guerriero,
acciaio scatenato di colata.
Poche vite dà l'uomo come la tua, poche
ombre sull'albero come l'ombra tua: ad essa
tutte le vive braci del continente accorrono,
tutte le misere condizioni, la ferita
del mutilato, i villaggi
devastati, tutto rinasce
alla tua ombra, e dai confini
dell'agonia tu fondi la speranza.
Padre, fu per l'uomo e la sua specie buona sorte
che tu giungessi nelle piantagioni,
che tu mordessi i neri cereali
del delitto, che tu bevessi
ogni giorno al calice dell'ira.
Chi ti mise, dispogliato mortale,
tra i denti della furia?
Come mai spuntarono altri occhi,
d'altro metallo, mentre tu nascevi?
In che modo s'incrociano i lieviti
della recondita farina umana
perché il tuo grano immutabile
potesse impastarsi nel pane del mondo?
Tu eri realtà in mezzo ai fantasmi
inferociti, tu eri
l'eternità della tenerezza
sopra la raffica del castigo.
Di battaglia in battaglia, la tua speranza
si trasformò in preciso strumento:
ramificò la solitaria lotta,
l'inutile pianto s'unì in partito.
Non servì la pietà. Quando mostravi
le tue colonne, la nave protettrice,
la tua mano a benedire, la tonaca,
il nemico calpestò le lacrime
e fece a pezzi il colore del giglio.
Non servì la pietà, sublime e vuota
come una cattedrale abbandonata.
Fu la tua invincibile decisione, l'attiva
resistenza, il cuore armato.
Fu la ragione la tua materia titanica.
Fu il fiore organizzato la tua struttura.
Dall'alto in basso vollero guardarti
(dalla loro altezza) i conquistatori,
appoggiandosi come ombre di pietra
sopra i loro spadoni, e, soffocando
con i loro sarcastici sputi
le terre della tua iniziativa,
dicevano: «Ecco l'agitatore»,
e mentivano: «E pagato
dagli stranieri»,
«Non ha patria», «Tradisce»,
ma la tua predica non era
fragile istante, regola
passeggera, orologio del viandante.
Il tuo legno era bosco contrastato,
ferro nella sua vena naturale,
nascosto a ogni luce sulla terra fiorita,
anzi, esso era ancora più profondo:
nell'unità del tempo e nel corso
della vita, la tua mano tesa era
stella di zodiaco, segno di popolo.
Oggi, Padre, entra con me in questa casa.
Ti mostrerò le lettere, il tormento
del mio popolo, e del perseguitato.
Ti mostrerò le antiche sofferenze.
E per non cadere, per essere saldo
sulla terra, per proseguire la lotta,
lasciami nel cuore il vino errante e il pane
implacabile della tua dolcezza.
III - Avanzando sulle terre del Cile
LA SPAGNA penetrò fino all'estremo Sud del mondo.
Curvi, esplorarono la neve gli alti spagnoli.
II Bío-Bío, fiume solenne,
disse alla Spagna: «Arrestati»,
il bosco di maitenes i cui verdi fili
pendono come tremito di pioggia
disse alla Spagna: «Ferma». E il larice,
gigante delle tacite frontiere,
disse in un tuono la sua parola.
Ma fino al fondo della patria mia,
pugno e pugnale, giungeva l'invasore.
Verso il fiume Imperial, sulla cui sponda
il mio cuore albeggiò in mezzo al trifoglio,
l'uragano entrava nella mattina.
Il largo alveo degli aironi andava
dall'isole verso il mare furioso,
pieno come una coppa inesauribile,
tra gli argini di torbido cristallo.
Sulle sue sponde il polline rizzava
un tappeto di stami turbolenti
e le sillabe della primavera
tutte dal mare l'aria commoveva.
E il nocciolo dell'Araucania
inalberava falò e grappoli
fino a dove la pioggia scivolava
sulla compagine della purezza.
Ogni cosa era intrecciata d'aromi,
imbevuta di luce verde e piovosa,
e ogni sterpeto dall'odore amaro
era un ramo profondo dell'inverno
o una sperduta creazione marina
piena ancora d'oceanica rugiada.
Su dai burroni sorgevano
torri d'uccelli e penne e un forte
vento di solitudine sonora,
mentre nell'intimità inzuppata,
tra le chiome increspate della felce
gigante, la topa-topa fiorita
era un gran rosario di baci gialli.
IV – Sorgono gli uomini
LAGGIÙ germinavano i Toqui.
E da quelle nere umidità,
da quella pioggia fermentata
entro la coppa dei vulcani
spuntarono gli augusti petti,
le chiare frecce vegetali,
i denti di pietra selvaggia,
i piedi di punte senza scampo,
la glaciale unità dell'acqua.
Fu Arauco un utero freddo,
fatto di ferite, schiacciato
dall'oltraggio, concepito
in mezzo alle ispide spine,
lacerato nei ghiacciai,
e tutelato dai serpenti.
Così la terra estrasse l'uomo.
E crebbe come una fortezza.
Nacque dal sangue aggredito.
Accumulò la sua chioma
come un piccolo puma rosso
e i suoi occhi di pietra dura
brillavano dalla materia
come implacabili fulgori
sprizzati dall'inseguimento.
V – Toqui Caupolicán
NEL CEPPO segreto del raulí
crebbe Caupolicán, torso e tormenta,
e quando egli diresse il suo popolo
contro le armi dell'invasore,
si mosse l'albero,
l'ostinato albero della patria.
Gli invasori videro il fogliame
agitarsi in mezzo alla nebbia verde,
videro gli spessi rami e la veste
d'innumerevoli foglie e minacce,
e farsi popolo il tronco terrestre,
e dal suolo spuntare le radici.
Seppero che l'ora era arrivata
nel quadrante della vita e della morte.
Altri alberi con lui accorsero.
Tutta la razza delle fronde rosse,
tutte le trecce del dolore silvestre,
tutti i nodi dell'odio nel legname.
Caupolicán il suo volto di liane
alza contro l'invasore sperduto:
non è la dipinta piuma regale,
non il trono di piante profumate,
non la splendente collana del sacerdote,
non il guanto né il principe dorato:
è un viso del bosco,
un mascherone d'acacie abbattute,
una figura rotta dalla pioggia,
una testa avvolta di convolvoli.
Di Caupolicán, il Toqui, è lo sguardo
profondo, da universo di montagne,
gli occhi implacabili della terra,
e le guance del titano son muri
scalati da raggi e da radici.
VI - La guerra patria
L'ARAUCANIA soffocò il canto
della rosa nella brocca, recise
i fili
al telaio della sposa d'argento.
Scese l'illustre Machi la sua scala,
e, nei fiumi dispersi, nell'argilla,
sotto l'alte fronde irsute
delle araucarie guerriere,
creò lo strepito delle campane
seppellite. La madre della guerra
saltò le pietre dolci del ruscello,
riunì la famiglia del pescatore,
e lo sposo contadino le pietre
baciò prima che andassero a ferire.
Dietro il volto di foresta del Toqui,
Arauco ammassava la sua difesa:
erano occhi e lance, moltitudini
tutte dense di silenzio e minaccia,
cinture incancellabili, superbe
mani brune, pugni raggruppati.
Dietro all'alto Toqui, la montagna,
e, lassù, innumerevole, Arauco.
Arauco era il chiasso dell'acqua errante.
Arauco era il silenzio tenebroso.
Il messaggero, nella mano mozzata,
raccoglieva le gocce di Arauco.
Arauco fu l'ondata della guerra,
e Arauco gli incendi della notte.
Tutto ferveva dietro il Toqui augusto,
e quando avanzò, furono tenebre,
sabbie, terre, foreste,
fuochi unanimi, uragani,
e comparse fosforiche di puma.
VII - Messo in croce
MA Caupolicán giunse alla tortura.
Conficcato nella lancia del supplizio,
entrò nella morte lenta degli alberi.
Arauco ripiegò il suo verde assalto,
tra le ombre fu scosso da un brivido,
infilò la testa nella terra,
si rinserrò con le sue pene.
Il Toqui dormiva nella morte.
Un rumore di ferro veniva
dall'accampamento, una corona
di grasse risate straniere,
e verso le foreste in lutto
solo la notte palpitava.
Non era il dolore, né il morso
del vulcano aperto nelle viscere,
era solo un sogno del bosco,
l'albero che si dissanguava.
Nei precordi della mia patria
entrava la punta assassina
per ferire le sacre terre.
Il sangue bruciante cadeva
di silenzio in silenzio, in basso,
laggiù dove sta la semente
in attesa della primavera.
Più al fondo cadeva quel sangue.
Verso le radici cadeva.
Verso i defunti cadeva.
Verso quelli che sarebbero nati.
VIII – Lautaro (1550)
IL SANGUE tocca un filone di quarzo.
La pietra cresce ove cade la goccia.
Così nasce Lautaro dalla terra.
IX – Educazione del capo
ERA LAUTARO una freccia sottile.
Elastico e azzurro fu nostro padre.
La sua prima età fu solo silenzio.
La sua adolescenza fu dominio.
La giovinezza un vento governato.
Si preparò come una lunga lancia.
Abituò i piedi alle cascate.
Educò la testa in mezzo alle spine.
Ripeté le imprese del guanaco.
Abitò nelle tane della neve.
Indagò il cibo delle aquile.
Sgraffignò i segreti del dirupo.
Trattò con i petali del fuoco.
S'allattò di primavera fredda.
Si scottò entro le gole infernali.
Fu cacciatore tra i feroci alati.
Si tinsero le sue mani di vittorie.
Decifrò le aggressioni della notte.
Sopportò le frane dello zolfo.
E fu velocità, luce improvvisa.
Assunse le lentezze dell'autunno.
Lavorò negli invisibili antri.
Dormì tra le lenzuola del ghiacciaio.
Imitò la condotta delle frecce.
Bevve il sangue agreste nei sentieri.
Carpì alle onde il loro tesoro.
Divenne minaccia come un tetro Iddio.
Mangiò in ogni cucina del popolo.
Imparò l'alfabeto del baleno.
Fiutò le ceneri sparpagliate.
S'avvolse il cuore di nere pelli.
Lesse nel filo a spirale del fumo.
Si costruì con fibre taciturne.
S'unse come l'anima dell'oliva.
Si fece vetro di cruda trasparenza.
Andò a scuola del vento d'uragano.
Si combattè fino a placarsi il sangue.
Solo allora fu degno del suo popolo.
X – Lautaro in mezzo agli invasori
ENTRÒ in casa di Valdivia.
Lo accompagnò come la luce.
Dormì coperto di pugnali.
Vide versare il proprio sangue,
maciullare i propri occhi,
e nelle greppie addormentato
accumulò la sua potenza.
Non gli si muoveva un capello
mentre osservava le torture:
guardava al di là dell'aria
verso la sua stirpe dilaniata.
Vegliò ai piedi di Valdivia.
Udì il suo sogno carnivoro
crescere nella notte buia
come una colonna implacabile.
Indovinò tutti quei sogni.
Poteva alzare la barba bionda
del capitano addormentato,
tagliargli il sonno nella gola,
ma apprese — vegliando le ombre
la legge notturna delle ore.
Marciò di giorno, accarezzando
i cavalli dall'umida pelle,
che entravano nella sua patria.
Riuscì a capire quei cavalli.
Marciò con gli ermetici dèi.
Poté intuire le armature.
Fu testimone alle battaglie,
mentre irrompeva, passo a passo,
nel fuoco dell'Araucania.
XI – Lautaro contro il Centauro (1554)
ATTACCÒ allora Lautaro un'onda sull'altra.
Disciplinò le ombre araucane:
anzi lo stesso coltello di Castiglia
ficcò in pieno petto alla massa scarlatta,
Quel giorno fu seminata la guerriglia
sotto tutte le ali della selva,
di pietra in pietra, e di guado in guado,
di sentinella dietro i copihues,
e in agguato sotto alle rocce.
Valdivia volle ripiegare.
Era tardi.
Arrivò Lautaro in veste di lampo.
Andò avanti il Conquistatore angosciato.
S'aprì il passo nell'umida boscaglia
del tramonto australe.
Arrivò Lautaro,
in un nero galoppo di cavalli.
La fatica e la morte guidavano
le truppe di Valdivia tra il fogliame.
S'appressavano le lance di Lautaro.
In mezzo ai morti e alle foglie passava
come in un tunnel Pedro de Valdivia.
Nelle tenebre arrivava Lautaro.
Valdivia pensò all'Estremadura
sassosa, all'olio d'oro, alle cucine,
ai gelsomini lasciati oltre il mare.
E riconobbe l'urlo di Lautaro.
Le pecore, le rozze masserie,
i muri bianchi, le sere di casa.
Sopraggiunse la notte di Lautaro.
I suoi capitani traballavano,
ebbri di sangue, notte e pioggia al ritorno.
Palpitavano i dardi di Lautaro.
Di crollo in crollo la compagnia
ormai dissanguata si ritirava.
Già si toccava il petto di Lautaro.
Valdivia vide venire la luce,
l'alba, la vita, il mare.
Era Lautaro.
XII – Il cuore di Pedro de Valdivia
PORTAMMO Valdivia sotto l'albero.
Era un azzurro di pioggia, il mattino
con fredde fibre di sole sfilacciato.
Tutta la maestà e il tuono
giacevano turbolenti
sopra un mucchio d'acciaio ferito.
La magnolia innalzava il suo linguaggio
e un fulgore di lucciola bagnata
su tutto lo sfarzoso suo reame.
Portammo tela e brocca, e tessuti
rozzi come le trecce coniugali,
gemme come mandorle della luna,
e tamburi che con luce di cuoio
riempirono tutta l'Araucania.
Colmammo le anfore di dolcezza
e ballammo percuotendo le zolle
fatte di nostra stessa oscura stirpe.
Poi colpimmo il volto dell'avversario.
E poi tagliammo il valoroso collo.
Che bello fu il sangue del carnefice
che spartimmo come una melagrana,
mentre bruciava, tuttora vivente.
Poi, nel petto conficcammo una lancia
e il cuore alato simile a un uccello
noi consegnammo all'albero araucano.
E un suono di sangue salì alle fronde.
Allora, dalla terra
fatta dei nostri corpi, nacque il canto
della guerra, del sole, dei raccolti,
e volò all'imponenza dei vulcani.
E noi spartimmo il cuore sanguinante.
Io affondai i denti in quella corolla
per adempiere il rito della terra:
«Dammi il tuo gelo, malvagio straniero.
Dammi il tuo coraggio di gran tigre.
Dammi col tuo sangue la tua furia.
Dammi la tua morte perché mi segua
e trasmetta ai tuoi lo spavento.
Dammi la guerra che hai penato.
Dammi il tuo cavallo e i tuoi occhi.
Dammi le tenebre contorte.
Dammi la madre del granturco.
Dammi la lingua del cavallo.
Dammi la patria senza spine.
Dammi la pace trionfale.
Dammi l'aria dove respira
la magnolia, fiorita signora».
XIII – La guerra interminabile
E POI, terra e oceani, città,
navi e libri, già sapete la storia
che dal territorio scontroso
come una pietra sbattuta
riempì di petali azzurri
le profondità del tempo.
Tre secoli ebbe a lottare
la razza guerriera del rovere,
trecento anni la folgore
d'Arauco colmò di ceneri
le caverne imperiali.
Tre secoli caddero a morte
gli scamiciati del capitano,
trecento anni disertarono
gli aratri e gli alveari,
trecento anni flagellarono
ogni nome dell'invasore,
tre secoli fecero la pelle
alle aquile assalitrici,
trecento anni seppellirono,
come la bocca dell'oceano,
tetti, ossa ed armature,
torri e titoli dorati.
Fino agli speroni iracondi,
dalle chitarre inghirlandate
venne un galoppo di cavalli
e una bufera di cenere.
Le navi tornarono all'aspro
territorio, nacquero spighe,
e crebbero occhi spagnoli
nell'impero della pioggia,
ma Arauco strappò le tegole,
macinò le pietre, abbatté
i muraglioni e le viti,
le volontà e gli abiti.
Ecco come cadono in terra
gli ostinati figli dell'odio,
i Villagra, Mendoza, Reinoso,
Reyes, Morales e Alderete
rotolarono sino al fondo
bianco delle Americhe glaciali.
E la notte del tempo solenne
cadde Imperial, cadde Santiago,
cadde Villarrica sulla neve,
rotolò nel fiume Valdivia,
e alla fine il regno fluviale
del Bío-Bío si arrestò
sopra i secoli del sangue
per fondare la libertà
sulle spiagge dissanguate.
XIV
(INTERMEZZO)
La colonia copre le nostre terre (1)
Quando la spada ebbe tregua ed i figli
della dura Spagna, come fantasmi,
inviarono al distratto monarca
dai nuovi regni e dalle selve, al trono,
montagne di carta piene di grida:
dopo che nel vicolo di Toledo
o nell'ansa del Guadalquivir
tutta la storia passò di mano in mano,
e la discendenza cenciosa
degli spettrali conquistatori
superò l'imboccatura dei porti,
e gli ultimi caduti furono posti
nelle bare e portati in processione
nelle chiese costruite con sangue,
giunse la legge nel mondo dei fiumi
e arrivò il mercante con la sua borsa.
S'offuscò la distesa mattutina,
e vesti e ragnatele diffusero
l'oscurità, la tentazione e il fuoco
del diavolo fin dentro le dimore.
Una candela la vasta America
piena di bufere e di arnie illuminò,
e per secoli l'uomo a voce bassa
parlò, tossì e trottò per le viuzze,
si segnò e corse appresso al centesimo.
Giunse il creolo nelle vie del mondo,
allampanato, a pulire i canali,
a sospirar d'amore tra le croci,
a cercare l'occulto
sentiero della vita
sotto il tavolo della sacrestia.
E la città fermentò nello sperma
della cera, sotto le nere vesti,
e con i tritumi delle candele
essa fabbricò pomi infernali.
L'America, l'alto tronco del mogano,
fu a quel tempo un crepuscolo di piaghe,
un lazzaretto inondato d'ombre,
e, nell'antico ambito del fresco,
si sviluppò l'ossequio dell'infame.
L'oro inalberò sopra le pustole
fiori massicci, edere silenti,
edifici d'ombra inabissata.
Una donna andava raccogliendo pus,
e un bicchiere di quella sostanza
bevve in onore del cielo ogni giorno,
mentre nelle miniere del dorato
Messico la fame danzava,
e il cuore andino del Perù
piangeva dolcemente
di freddo sotto gli stracci.
Nelle ombre del giorno tenebroso
il mercante eresse il suo regno
appena illuminato dal rogo
in cui l'eretico, tutto contorto,
divenuto scintilla, riceveva
la sua piccola sorsata di Cristo.
Il giorno dopo le signore,
rassettandosi le crinoline,
parlavano del corpo forsennato,
sferzato e divorato dal fuoco,
mentre l'alguacil esaminava
la minuscola macchia del bruciato:
grasso, cenere e sangue,
che i cani stavano leccando.
XV – Le fattorie (2)
La terra andava da un signore all'altro
di doblone in doblone, sconosciuta,
materia di visioni e di conventi,
finché tutta l'azzurra geografia
si spartì in fattorie ed encomiendas.
Per tutto quello spazio morto andava
la piaga del meticcio e lo staffile
del nuovo colono e del negriero.
Il creolo era un esangue fantasma
che raccoglieva le briciole,
finché con quelle, unite insieme,
comprava un piccolo titolo
dipinto a lettere dorate.
E in mezzo al tetro carnevale
usciva vestito da conte,
fiero tra gli altri mendicanti,
con un bastoncino d'argento.
XVI - I nuovi proprietari (3)
Cosi il tempo stagnò nella cisterna.
L'uomo schiacciato nei vuoti crocicchi,
inchiostro del tribunale, macigno
del castello, popolò di bocche
l'ermetica città americana.
Quando tutto fu ormai pace e concordia,
ospedale e viceré, quando Arellano,
Rojas, Topia, Castillo, Núñez, Pérez,
Rosales, López, Jorquera, Bermúdez,
gli ultimi soldati di Castiglia,
invecchiarono nel retro dell'Audiencia,
caddero morti sotto gli scartafacci,
finirono coi pidocchi nella tomba,
dove filarono il sogno
delle imperiali cantine, quando
il topo era l'unico pericolo
delle terre incrudelite,
spuntò il Biscaglino con un sacco,
l'Errázuriz con le sue scarpe di corda,
Femández Larraín a vender candele,
l'Aldunate con i foderami,
e l'Eyzaguirre, re della calzetta.
Vennero tutti come gente affamata,
sfuggendo alle frustate e ai gendarmi.
E ben presto, di camicia in camicia,
cacciarono il Conquistador
e fondarono il dominio
del grande magazzino coloniale.
E allora misero su superbia
acquistata al mercato nero.
Si aggiudicarono
fattorie, scudisci, schiavi,
catechismi, commissariati,
ceppi, casupole, bordelli,
e tutto questo lo chiamarono
sacra cultura occidentale.
XVII – Comuneros di Socorro (1781)
Fu Manuela Beltrán (quando distrusse i bandi
dell'oppressore, e gridò «A mone i despoti»)
colei che i nuovi cereali
propagò sulla nostra terra.
Fu nella Nueva Granada, nella città
di Socorro. I Comuneros
scossero il Vicereame
in un'eclissi precorritrice.
S'unirono contro i monopoli,
contro gli usurpati privilegi,
e levarono alto il quaderno
delle rivendicazioni legali.
S'unirono con armi e pietre,
milizie e donne, il popolo,
ordine e furore, marciando
su Bogotá e la sua casta.
Venne allora l'Arcivescovo.
«Avrete tutti i vostri diritti,
in nome d'Iddio lo prometto».
Il popolo si adunò in piazza.
E l'Arcivescovo celebrò
una messa e un giuramento.
Egli era pace con giustizia.
«Mettete da parte le armi.
Ognuno a casa sua», dichiarò.
I Comuneros consegnarono
le armi. E a Bogotá
festeggiarono l'Arcivescovo,
celebrarono il suo tradimento,
lo spergiuro nell'infida messa,
e negarono pane e diritti.
Essi fucilarono i capi,
mandarono in giro nei villaggi
le loro teste da poco tagliate,
con benedizioni del Prelato
e danze nel Vicereame.
I primi, i più gravidi semi
scaraventati sul paese,
voi rimarrete, o cieche statue,
covando nella notte avversa
l'insurrezione delle spighe.
XVIII – Tupac Amaru (1781)
CONDORCANQUI Tupac Amaru,
saggio signore, giusto padre,
vedesti sorgere a Tungasuca
la primavera desolata
dai terrazzamenti andini,
e con essa sale e disgrazia,
ingiustizie e tribolazioni.
Signore Inca, padre cacicco,
il tuo sguardo tutto serbava
come un cofano calcinato
dall'amore e dalla tristezza.
L'indio ti mostrò la sua schiena
nella quale i nuovi morsi
spiccavano sulle cicatrici
di altri passati castighi,
ed era una e un'altra schiena,
tutte le montagne agitate
dalle cascate del singhiozzo
Era un singhiozzo e un altro ancora.
Finché tu armasti la giornata
di popoli color di terra,
raccogliesti nel tuo calice
il pianto e induristi i sentieri.
Sopraggiunse il padre dei monti,
le esplosioni aprirono strade,
e verso i villaggi umiliati
accorse il padre della battaglia.
Gettarono la coperta alla polvere,
s'unirono i vecchi coltelli,
e la buccina di mare
richiamò i contatti perduti.
Contro la pietra cruenta,
contro l'inerzia sfortunata,
contro il metallo delle catene.
Ma divisero il tuo popolo
e contro il fratello spinsero
il fratello, fino a che caddero
le pietre della tua fortezza.
Legarono le tue membra stanche
a quattro cavalli focosi
e squartarono la luce
dell'implacabile aurora.
Tupac Amaru, sole sconfitto,
dalla tua gloria lacerata
sorge, come il sole dal mare,
una luce mai più veduta.
I profondi villaggi della creta,
i telai sacrificati,
le umide case di sabbia
dicono in silenzio: «Tupac»,
ed è Tupac una semente;
dicono in silenzio: «Tupac»,
e Tupac permane nel solco;
dicono in silenzio: «Tupac»,
e nella terra germina Tupac.
XIX – America insorta (1800)
LA NOSTRA terra, ampia terra, solitudini,
s'affollò di rumori, braccia, bocche.
Una taciuta sillaba bruciava,
componendo la rosa clandestina,
finché tremarono le praterie
coperte di metalli e di galoppi.
Dura fu la verità come un aratro.
Ruppe la terra, stabilì l'impegno,
tuffò le sue propagande germinali,
nacque nella segreta primavera.
Fu ammutolito il suo fiore, respinta
la sua unione di luce, combattuto
il suo lievito collettivo
e il suo bacio alle bandiere nascoste,
ma essa si levò, travolse i muri,
e rimosse le prigioni dal suolo.
Il popolo oscuro fu il suo calice,
accolse la sostanza tormentata,
la propagò ai confini dei mari,
la pestò entro indomabili mortai.
Essa uscì con le pagine sferzate
e con la primavera sulla strada.
Ora di mezzodì, ora di ieri,
ora d'oggi di nuovo, ora attesa
tra il minuto morto e quello che spunta,
nella spinosa età della menzogna.
Patria, tu nascesti dai taglialegna,
da figli imbattezzati, da falegnami,
da quanti diedero, come un uccello
strano, una goccia di sangue alato,
e oggi rinascerai aspramente
da dove il traditore e il carceriere
ti credono per sempre sprofondata.
Come allora nascerai dal popolo.
Dal carbone uscirai, dalla rugiada.
Oggi verrai a bussare alle porte
con mani maltrattate, con frammenti
d'anima superstite, con grappoli
di sguardi che la morte non ha spento,
con attrezzi di rivolta, nascosti
come armi sotto gli stracci.
XX – Bemardo O'Higgins Riquelme (1810)
O'HIGGINS, per glorificarti
in penombra va illuminata la stanza.
In penombra nel sud in autunno,
con infinito tremore di pioppi.
Mezzo patriarca e huaso, tu sei Cile,
tu sei un poncho di provincia, un bambino
che non conosce ancora il proprio nome,
un bimbo ferrigno e timido a scuola,
un giovinetto mesto di provincia.
A Santiago stai male, ti guardano
l'abito nero che ti sta un po' lungo,
e, infilandoti la sciarpa, la bandiera
della patria che per noi forgiasti,
aveva odore d'erba mattutina
per il tuo petto di statua campestre.
Giovane, il professore Inverno
ti esercitò alla pioggia,
e nella Università delle vie di Londra
nebbia e povertà t'assegnarono i loro titoli;
là un povero elegante, incendio errante
della nostra libertà,
ti diede consigli d'aquila prudente
e t'imbarcò nella Storia.
«Come si chiama lei?», ridevano
i caballeros di Santiago:
figlio d'amore, d'una notte d'inverno,
la tua condizione di trovatello
ti costruì con agreste calcina,
con severità di casa o di legname
lavorato nel Sud, definitivo.
Tutto cambia il tempo, tutto meno il tuo viso.
Tu sei, O'Higgins, un orologio invariabile
con una sola ora sul candido quadrante:
l'ora del Cile, l'unico minuto .
che dura e resta nell'orario rosso
della dignità combattente.
Così sempre sarai sia tra i mobili
di palissandro e le figlie di Santiago,
sia a Rancagua, circondato dalla morte e dagli spari.
Tu sei la stessa solida immagine
di chi non ha padre ma ha una patria,
di chi non ha sposa ma ha quella
terra con fiori d'arancio
che ti conquisterà l'artiglieria.
Ti vedo in Perù a scrivere lettere.
Non c'è eguale proscritto, maggiore esilio.
Esule è con te tutta la provincia.
Il Cile s'illuminò come un salone
quando tu non c'eri. Nello sperpero,
un minuetto di ricchi rimpiazza
la tua norma d'ascetico soldato,
e la patria acquistata dal tuo sangue
senza di te fu retta come un ballo
che dalla via osserva il popolo affamato.
Tu non potevi entrare nella festa
con sudore, sangue e polvere di Rancagua.
Sarebbe stato di cattivo gusto
per i caballeros della capitale.
Sarebbe entrata assieme a te la strada,
un odore di sudore e cavalli,
l'odore della patria a primavera.
Tu non potevi stare a quel ballo.
La tua festa fu un castello di spari.
Il tuo ballo scapigliato è la battaglia.
Tua fine di festa fu l'urto dello scacco,
la sfortuna che t'aspetta a Mendoza
dove la patria vien portata a braccia.
Adesso guarda laggiù sulla carta,
verso la sottile cinta del Cile
e schiera sulla neve i soldatini,
giovani pensierosi sulla sabbia,
zappatori che brillano e si spengono.
Sì, chiudi gli occhi, dormi, sogna un poco
il tuo unico sogno, che ritorna
solitario al tuo cuore: una bandiera
tricolore nel Sud, mentre cadono
la pioggia, il sole agreste sulla patria,
gli spari del tuo popolo in rivolta
e due o tre parole tue, pronunciate
quando era strettamente necessario.
Se sogni, oggi il tuo sogno è realizzato.
Sognalo, per lo meno, nella tomba!
Ignora il resto, poiché, come prima,
finite le battaglie vittoriose,
ballano i señoritos a Palazzo
e il medesimo volto affamato
sta a guardare dall'ombra delle vie.
Ma la tua costanza abbiamo ereditato,
il tuo inalterabile cuore muto,
il tuo invincibile senso paterno,
e tu, in mezzo alla valanga accecante
degli ussari del passato, fra le snelle
uniformi azzurre e dorate,
tu sei oggi con noi, tu sei nostro,
padre del popolo, immutabile soldato.
XXI - San Martín (1810)
TANTO ho viaggiato, San Martín, da un posto all'altro,
che ho trascurato il tuo abito e i tuoi speroni;
sapevo che una volta, percorrendo le strade
aperte al mio ritorno, agli estremi
della cordigliera, nella purezza
dell'intemperie che tu ci hai lasciato,
ci saremmo incontrati un giorno o l'altro.
Non è facile orientarsi tra i nodi
del ceibo, tra tante radici,
tra i sentieri ravvisare il tuo viso,
tra gli uccelli distinguere il tuo sguardo,
e nell'aria scoprire la tua vita.
Tu sei la terra che ci hai dato, un ramo
di cedro che colpisce col suo aroma,
che non sappiamo dove sta, da dove
viene il suo odore di patria nei campi.
Ti galoppiamo, San Martín, usciamo
a far l'alba percorrendo il tuo corpo,
respiriamo ettari di tua ombra,
facciamo il fuoco sulla tua statura.
Tu sei il più vasto di tutti gli eroi.
Altri andarono di tavola in tavola,
da un crocevia a un turbine,
tu andasti costruito di confini:
di tè già vedemmo la geografia,
la pianura finale, il territorio.
E quanto più il tempo dissemina
come acqua eterna le zolle
del rancore, gli affilati
rinvenimenti del rogo,
tanto più terreno abbracci, più semi
della tua calma riempiono i colli,
più ampiezza trasmetti alla primavera.
L'uomo che crea è subito il fumo
di quanto creò, nessuno rinasce
dal suo stesso braciere consumato:
del suo umiliarsi egli fece esistenza,
e quando non ebbe che polvere cadde.
Tu nella morte occupasti più spazio.
La tua morte fu un silenzio di granaio.
Passò la tua vita, ed altre vite,
si aprirono porte, s'alzarono muri
e alla semina fu portata la spiga.
San Martín, altri capitani
brillano più di tè, portano tralci
ricamati con sale fosforescente,
altri parlano simili a cascate;
ma nessuno è come te, vestito
di terra e solitudine, di neve e trifoglio.
Ti troviamo ritornando dal fiume,
ti salutiamo al modo contadino
della Tucumania fiorita,
e per le strade, a cavallo
t'incontriamo mentre corri e sollevi
i tuoi vestiti, padre polveroso.
Oggi il sole e la luna, il vento grande
maturano la stirpe, la semplice
tua creazione: la tua verità
era fatta di terra, impasto arenoso,
salda come pane, lamina fresca ,
di creta e cereali, pampa pura.
E sei così anche oggi, luna e galoppo,
bivacco di soldati, intemperie,
dove stiamo di nuovo a guerreggiare,
a marciare tra villaggi e pianure,
ad affermare il tuo terrestre vero,
a seminare il tuo germe spazioso,
e dare al vento le pagine del grano.
Così sia, e non sia con noi la pace
fino a che, terminate le battaglie,
noi potremo rientrare nel tuo corpo,
e riposi la misura che cogliemmo
nella tua ampiezza di pace feconda.
XXII – Mina (1817)
MINA, tu dai versanti montagnosi
giungesti, come un filo d'acqua dura.
La chiara Spagna, la Spagna trasparente,
ti partorì nei dolori, indomabile,
e oggi tu hai l'asprezza luminosa
dell'acqua torrenziale di montagna.
A lungo, nei secoli e nelle terre,
ombra e fulgore sulla tua culla contesero,
unghie rampanti scannavano
la limpidezza del popolo,
e gli antichi falconieri,
dai loro torrioni ecclesiastici,
spiavano il pane, negavano
l'accesso al fiume dei poveri.
Sempre però nella torre spietata,
apristi, o Spagna, un varco
al diamante ribelle e alla sua stirpe
di luce che agonizza e che rinasce.
Non invano lo stendardo di Castiglia
ha il colore del vento comunero,
non invano nelle tue valli di granito
corre la luce azzurra di Garcilaso,
non invano a Córdoba, tra doppieri
sacerdotali, Góngora dissemina
i suoi vassoi di pietre preziose
tutti imperlati di gelo.
Spagna, tra i tuoi artigli
di crudele antichità, il tuo popolo puro
della tortura ha scosso le radici,
ha pagato i tributi feudali
con l'invincibile sangue versato,
e in te la luce, come l'ombra, è vecchia,
sciupata in divoranti cicatrici.
Accanto alla pace del muratore,
percorsa dal respiro delle querce,
accanto alle sorgenti stellate
in cui risplendono sillabe e nastri,
sulla tua età, come un cupo tremore,
vive sulle sue scale il girifalco.
Fame e dolore furono la selce
delle tue sabbie ancestrali
e un sordo tumulto, intrecciato
alle radici dei tuoi popoli,
diede alla libertà del mondo
un'eternità di baleni,
di canti e di guerriglieri.
Le basse terre di Navarra
serbarono l'ultimo raggio.
Mina strappò dal precipizio
la collana dei suoi guerriglieri:
dai villaggi devastati,
dalle popolazioni notturne
egli estrasse il fuoco, alimentò
la resistenza incendiaria,
valicò fonti nevose,
attaccò con rapide svolte,
balzò dalle gole montane,
spuntò dalle panetterie.
Lo seppellirono in prigioni,
e all'alto vento della sierra
tornò, tumultuosa e sonora,
la sua irremovibile sorgente.
In America lo porta il vento
della libertà spagnola,
e di nuovo attraversa boschi
e fertilizza praterie
il suo cuore inesauribile.
Nella lotta e nella terra nostra
si dissanguarono i suoi cristalli,
combattendo per la libertà
indivisibile e proscritta.
Nel Messico imbrigliarono l'acqua
dei versanti spagnoli.
E rimase immobile e muta
la sua copiosa trasparenza.
XXIII – Mirando muore nella nebbia (1816)
SE ENTRATE in Europa a sera con cappello
a cilindro nel giardino adornato
da più di un autunno accanto al marmo
della fonte mentre cadono foglie
di sbrindellato oro sull'Impero
e se la porta staglia un'immagine
sopra la notte di San Pietroburgo
tremulano i sonagli della slitta
e uno nel deserto bianco uno
lo stesso passo la stessa domanda
se tu esci dalla porta fiorita
d'Europa un cavaliere abito ombra
intelligenza segno cordone d'oro
Libertà Eguaglianza guarda la sua fronte
in mezzo all'artiglieria che tuona
e nelle Isole il tappeto lo conosce
che riceve oceani Lei passi Prego
Quante imbarcazioni Poi la nebbia
che segue passo passo la sua giornata
se nelle cavità di logge librerie
c'è qualcuno guanto o spada con la mappa
con la cartella pullulante piena
di popolazioni di navi d'aria
se a Trinidad verso la costa il fumo
di una battaglia e un'altra il mare ancora
e un'altra volta le scale di Bay Street l'atmosfera
che lo riceve impenetrabile
come una compatta polpa di mela
e ancora questa mano patrizia questo guanto
guerriero tinto d'azzurro nell'anticamera
e lunghe strade e guerre e giardini
la sconfitta nelle sue labbra altro sale
altro sale e altro aceto bruciante
se a Cadice attaccato al muro
dalla rozza catena il suo pensiero il freddo
orrore della spada la prigionia il tempo
se scendete nei sotterranei fra i topi
e le pareti lebbrose un altro chiavistello
in un feretro d'impiccato il vecchio viso
dove è morta affogata una parola
una parola il nostro nome la terra
dove volevano dirigersi i suoi passi
la libertà per il suo fuoco errante
lo calano con le corde nell'umida
terra nemica nessuno saluta fa freddo
fa un freddo di tomba sull'Europa.
XXIV
EPISODIO
José Miguel Carrera (1810)
DICESTI Libertà prima d'ogni altro,
che già il sussurro andava tra le pietre,
umiliato e nascosto nei cortili.
Dicesti Libertà prima d'ogni altro.
Liberasti il figlio dello schiavo.
Come ombre giravano i mercanti
a vender sangue di mari stranieri.
Liberasti il figlio dello schiavo.
Tu fondasti la prima stamperia.
La lettera giunse al popolo ignaro,
la notizia segreta aprì le labbra.
Tu fondasti la prima stamperia.
Impiantasti la scuola nel convento.
Retrocede l'enorme ragnatela
e lo scrigno delle odiose decime.
Impiantasti la scuola nel convento.
CORO
Si sappia della tua fiera condotta,
Signore scintillante ed agguerrito.
Si sappia ciò ch'è caduto, brillando,
dal tuo rapido volo sulla patria.
Volo selvaggio, cuore di porpora.
Si conoscano le chiavi sfrenate
che t'aprivano gli usci della notte.
Verde cavaliere, raggio furioso.
Si sappia che tu ami a mani piene,
e che diffondi luce vorticosa.
Grappolo d'un tronco straripante.
Di te si conosca il cuore vagante,
l'immediato lampo e il diurno fuoco.
Ferro iracondo, petalo patrizio.
Si conosca il fulmine di minaccia
con cui spezzi le cupole vigliacche.
Torre di tempesta, ramo d'acacia.
Si conosca la tua solerte spada,
la tua base di forza e meteora.
Di tè si sappia la svelta grandezza
e si sappia l'invincibile grazia.
EPISODIO
Egli va pei mari, tra lingue,
vestiti ed uccelli stranieri,
porta navi liberatrici,
scrive fuoco, governa nubi,
sventra il sole e i soldati,
scontra la nebbia a Baltimora
e si sciupa di porta in porta;
uomini e crediti l'invadono,
tutte le onde lo accompagnano.
Presso il mare di Montevideo,
nella sua dimora esiliata,
apre una stamperia e stampa bombe.
Verso il Cile si muove il dardo
del suo comando di rivolta,
arde la furia cristallina
che lo guida, e così dirige
la cavalcata del riscatto
in groppa alle cicloniche criniere
della sua irruente agonia.
I suoi fratelli sbaragliati
lo invocano dal muraglione
della vendetta. Il suo sangue
dipinge come una fiammata
sopra i mattoni di Mendoza
il suo tragico trono vuoto.
Scuote la pace planetaria
della pampa al pari di un cerchio
di lucciole demoniache.
Egli sferza le cittadelle
con l'urlo di tutte le tribù.
Conficca teste prigioniere
nell'uragano delle lance.
Il suo poncho scatenato
lampeggia nella gran fumata
e nella morte dei cavalli.
Giovane Pueyrredón, non dire
del desolato brivido
della sua fine, non tormentarti
con la notte dell'abbandono,
quando espongono a Mendoza
l'avorio della sua maschera,
la solitudine della sua agonia.
CORO
Patria, difendilo nel tuo manto,
raccogli quest'amore vagante:
non farlo precipitare al fondo
della tua tenebrosa disgrazia:
innalza a te questo splendore,
questo indimenticabile faro,
ritrai queste briglie frenetiche,
chiama questa palpebra stellata,
serba per le tue tele orgogliose
la matassa di questo sangue.
Patria, raccogli questa corsa,
la luce, la goccia straziata,
questo cristallo agonizzante,
questo vulcanico anello.
Patria, galoppa e difendilo,
galoppa, corri, corri, corri.
ESODO
Lo portano alle mura di Mendoza,
all'albero crudele, alla pendice
del più recente sangue, al solitario
supplizio, alla fredda fine della stella.
Avanza per le strade non finite,
per rovi o per muretti sdentati,
per pioppi che gli gettano oro morto,
circondato del suo inutile orgoglio
come di una tunica cenciosa
a cui si attacca polvere di morte.
Pensa alla sua dinastia dissanguata,
alla luna iniziale sui roveri
irti di graffi dell'infanzia,
alla scuola spagnola ed allo scudo
rosso e virile della milizia ispana,
alla sua tribù assassinata,
alle dolci nozze tra le zagare,
all'esilio, alle lotte per il mondo,
a O'Higgins enigma militante
e a Javiera che ignora i lontani
giardini di Santiago.
Mendoza insulta la sua stirpe negra,
colpisce la sua dignità sconfitta,
e, nella pioggia di pietre, egli sale
verso la morte.
Mai uomo ebbe
una fine più esatta. Dalle dure
cariche in battaglia, tra bestie e vento,
a questa viuzza ove sanguinarono
tutti quelli del suo sangue.
Ogni scalino
del patibolo lo adatta al suo fato.
Nessuno ormai può ostinarsi nell'ira.
La vendetta, l'amore chiudono gli usci.
Le strade hanno intercettato il viandante.
E quando lo fucilano, e appena
dai suoi panni di principe del popolo
compare il sangue, è sangue che conosce
la terra infame, sangue che è arrivato
dove doveva arrivare, al fondo
dei tini assetati che aspettavano
le uve sconfitte della sua morte.
Scrutò verso la neve della patria.
Tutto era nebbia nelle ispide alture.
Vide i fucili il cui ferro
aveva creato il suo amore in frana,
si sentì senza radici, viandante
del fumo, nella guerra solitaria,
e cadde avvolto tra polvere e sangue
come tra due braccia di bandiera.
CORO
Ussaro sfortunato, gemma ardente,
rovo acceso nella patria nevosa.
Piangete per lui, piangete, donne,
finché il vostro pianto bagni la terra,
la terra da lui amata, idolatrata.
Piangete, bruschi guerrieri del Cile,
abituati a onde e a montagne,
questo vuoto è simile a un ghiacciaio,
questa morte è il mare che ci flagella.
Non chiedete perché: nessuno direbbe
la verità squarciata dagli spari.
Non domandate chi è stato: nessuno
arresta il fiorire della primavera,
nessuno ha ucciso la rosa del fratello.
Serbiamo ira, dolore e lacrime,
e riempiamo il vuoto desolato:
il falò della notte ci ricordi
la luce delle stelle decedute.
Sorella, conserva il sacro rancore.
Alla vittoria del popolo occorre
la voce del tuo affetto triturato.
Distendete manti sulla sua assenza
perché egli possa — freddo e seppellito
col suo silenzio aiutare la patria.
Ben più d'una vita fu la sua vita.
Cercò l'integrità come una fiamma.
La morte andò con lui fino a lasciarlo
per sempre tutto intero e consumato.
ANTISTROFA
Conservi il dolente alloro la sua estrema sostanza d'inverno.
Alla sua corona di spine portiamo terra raggiante,
fili di razza araucana proteggano la funebre luna,
foglie di boldo fragrante addolciscano la pace della sua tomba,
neve nutrita nelle acque immense e oscure del Cile,
piante ch'egli amò, melissa raccolta in tazze di creta silvestre,
aspre piante predilette dal giallo centauro,
neri grappoli colmi d'elettrico autunno sul mondo,
occhi bruni che bruciarono sotto i suoi baci terrestri.
Levi la patria i suoi uccelli, le sue ali ingiuste, le sue palpebre rosse,
voli verso l'ussaro ferito la voce del queltehue sull'acqua,
la loica sanguini la sua macchia d'aroma scarlatto pagando tributo
a chi ha sparso col volo la notte nuziale della patria
e il condor sospeso nelle immutabili altezze coroni di penne
sanguigne
il petto assopito, il fuoco che giace sugli scalini della
cordigliera,
rompa il soldato la rosa furiosa schiacciata sul muro annebbiato,
balzi il campagnolo sul cavallo dai neri finimenti e dal muso di spuma,
ritorni allo schiavo dei campi la sua pace di radici, il suo scudo in lutto,
sollevi il meccanico la sua pallida torre tessuta con stagno notturno:
il popolo che nasce nella culla intrecciata di vimini e mani
d'eroe,
il popolo che sorge dai neri mattoni di miniere e dalle bocche dello zolfo,
il popolo sollevi il martirio e l'urna e avvolga la memoria
nuda
con la sua ferroviaria grandezza e la sua eterna bilancia di pietre e ferite
fino a che la terra fragrante non offra copihues bagnati e libri
aperti,
al fanciullo invincibile, alla raffica insigne, al tenero temibile e aspro
soldato.
Ed essa serbi il suo nome nel duro dominio del popolo in lotta,
come il nome di una nave resiste alla battaglia sul mare:
la patria nella sua prua lo iscriva e il lampo lo baci
perché tale è stata la sua sostanza libera, sottile e ardente.
XXV
CUECA
Manuel Rodriguez
PARE, Signora, dicono,
madre, mia madre, dissero,
che l'acqua e il vento videro,
videro il guerrigliero.
Vita Sarà magari un'ombra,
sarà o non sarà,
forse è solo il vento
là, sulla neve, là:
là, sulla neve, sì,
mamma, non vedi?,
a gran galoppo viene,
Manuel Rodriguez!
Ecco viene il guerrigliero,
da quel sentiero.
CUECA
Passione Partendo da Melipilla,
correndo per Talagante,
traversando San Fernando,
svegliandosi a Pomaire.
Passando da Rancagua,
da San Rosendo,
da Cauquenes, da Chena,
là, da Nacimiento, là:
là, da Nacimiento, sì,
fin da Chiñigue,
da ogni parte viene
Manuel Rodriguez.
Un fiore dagli in mano.
Con lui restiamo.
CUECA
E morte Spenga il suono la chitarra
poiché la patria è in lutto.
Il nostro paese è nero.
Hanno ucciso il guerrigliero.
A Til-Til gli assassini
l'hanno ammazzato,
sanguina la sua spalla
là, sulla strada, là:
là, sulla strada, sì.
Ah, che mestizia:
proprio lui, nostro sangue,
nostra letizia!
Tutta la terra è in pianto.
Fate silenzio!
XXVI
(I)
Artigas
ARTIGAS cresceva tra i cespugli, e tempestoso fu il
suo passaggio perché nelle praterie il galoppo che cresceva
da pietra o campana
riuscì a scuotere l'inclemenza del terreno brullo come ripetuta scintilla,
riuscì ad accumulare il colore celestiale diffondendo gli zoccoli sonori
fino a che nacque una bandiera inzuppata nella rugiada uruguayana.
(II)
Uruguay, Uruguay, s'uruguayano i canti del fiume uruguayo,
gli uccelli turpiales, la tortora dalla voce ferita, la torre del tuono
uruguayo
proclamano il grido celeste che dice Uruguay al vento
e se la cascata rimbomba e ripete il galoppo dei tristi cavalieri
che verso la frontiera raccolgono gli ultimi frammenti della loro vittoriosa
sconfitta
s'estende all'unisono il nome d'un uccello puro,
la luce di violino che battezza la patria violenta.
(III)
Oh Artigas, soldato della campagna in crescita, quando per tutta la
truppa bastava
il tuo poncho seminato da costellazioni che tu conoscevi,
fino a che il sangue corrompe e redime l'aurora, e si destano i tuoi
uomini
marciando oppressi dai polverosi rami del giorno.
Oh padre costante del transito, capo del percorso, centauro
del polverone.
(IV)
Passarono i giorni d'un secolo e proseguirono le ore dietro il tuo
esilio:
dietro la selva impigliata da mille ragnatele di ferro:
dietro il silenzio dove solo cadevano le frutta marce sui
pantani,
le foglie, la pioggia scatenata, la musica dell'urutaú,
i passi scalzi dei paraguayani che entravano e uscivano nel sole
dell'ombra,
la treccia della frusta, i ceppi, i corpi rosicchiati dagli scarabei:
un pesante chiavistello s'interpose ad allontanare il colore della selva
e il livido crepuscolo chiudeva con i suoi cerchi
gli occhi di Artigas che cercano nella sua disdetta la luce uruguayana.
(V)
« Amara fatica l'esilio» scrisse quel fratello dell'anima mia
e così il frattempo d'America cadde come una palpebra oscura
sopra lo sguardo di Artigas, cavaliere del brivido,
vessato nell'immobile sguardo di vetro di un despota, in un regno
deserto.
(VI)
L'America tua tremava con dolori sacrificali:
gli Oribe, gli Alvear, i Carrera correvano ignudi verso l'olocausto:
morivano, nascevano, cadevano: gli occhi del cieco uccidevano: la
voce dei muti
parlava. I morti, trovarono finalmente partito,
finalmente conobbero il loro ruolo patrizio nella morte.
E tutti quegli insanguinati seppero di appartenere
alla stessa schiera: la terra non ha avversari.
(VII)
Uruguay è parola d'uccello, o linguaggio dell'acqua,
è sillaba d'una cascata, è strazio di cose cristalline,
Uruguay è la voce della frutta nella primavera fragrante,
è un bacio fluviale dei boschi e la maschera azzurra dell'Atlantico.
Uruguay è panni stesi nell'oro d'un giorno di vento,
è il pane sulla mensa d'America, la purezza del pane sulla mensa.
(VIII)
E se Pablo Neruda, il cronista di tutte le cose ti doveva,
Uruguay, questo canto,
questo canto, questo racconto, questa briciola di spiga, questo Artigas,
non ho mancato ai miei doveri né accettato gli scrupoli dell'intransigente:
ho atteso un'ora quieta, ho spiato un'ora inquieta, ho raccolto le
erbe del fiume,
ho immerso il mio capo nella tua sabbia e nell'argento dei tuoi pesci,
nella chiara amicizia dei tuoi figli, nei tuoi scomposti mercati,
mi sono purificato fino a sentirmi debitore del tuo odore e del tuo amore.
E forse sta scritto il rumore che il tuo amore e il tuo odore m'hanno
consegnato in queste parole oscure, che lascio in memoria del tuo capitano
luminoso.
XXVII
Guayaquil (1822)
QUANDO entrò San Martín, un che di notturno,
di cuoio, d'ombra, di strada impalpabile,
entrò nella sala.
Bolívar aspettava.
Bolívar fiutò ciò che arrivava.
Egli era aereo, svelto, metallico,
tutto velocità, scienza del volo,
la sua discreta persona tremava
là, nella sala immobilizzata
nell'oscurità della storia.
Veniva dalle altezze indicibili,
dall'atmosfera costellata,
e il suo esercito avanzava
travolgendo notte e distanza,
capitano d'un corpo invisibile,
della neve che lo seguiva.
La lampada tremò, la porta
dietro a San Martín trattenne
la notte, i suoi latrati e un suono
flebile d'estuario.
Le parole dischiusero un sentiero
che andava e veniva in loro stessi.
Quei due corpi si parlavano,
si respingevano, si nascondevano,
s'isolavano e si sfuggivano.
San Martín portava dal Sud
una sfilza di cifre grige,
la solitudine dei finimenti
infaticabili, i cavalli
che percuotono il suolo e s'uniscono
nella loro fortezza arenaria.
Entrarono con lui i duri
mulattieri del Cile, un lento
esercito ferruginoso,
lo spazio preparatorio,
le bandiere con dei nomi
invecchiati nella pampa.
Ciò che dissero cadde da un corpo all'altro
nel silenzio, nel profondo intervallo.
Non erano parole, ma la cupa
emanazione delle terre avverse,
della pietra umana che tocca
un altro metallo inaccessibile.
Le parole tornarono al loro posto.
Ognuno, davanti ai suoi occhi
vedeva le proprie bandiere.
Uno, il tempo con fiori accecanti,
l'altro, il passato consunto,
e i brandelli della truppa.
Presso Bolívar una mano bianca
l'aspettava, lo salutava,
raccoglieva il suo ardente incitamento,
e stendeva il lino sopra il talamo.
San Martín non tradiva la prateria.
Il suo sogno era un galoppo,
una rete di briglie e pericoli.
La sua libertà una pampa unanime.
Un ordine cereale il suo trionfo.
Bolívar costruiva un sogno,
un'ignorata dimensione, un fuoco
di velocità persistente,
così incomunicabile, da renderlo
prigioniero, chiuso nella sua essenza.
Caddero le parole, e poi il silenzio.
Ancora s'aprì la porta, ancora tutta
la notte americana, l'ampio fiume
di mille labbra palpitò un istante.
San Martín ritornò da quella notte
verso le solitudini, verso il grano.
Bolivar restò ancora solo.
XXVIII
Sucre
SUCRE è nelle alte terre e sovrasta
il profilo giallo delle montagne,
Hidalgo cade, Morelos raccoglie
il suono, il tremito di una campana
seminato nella terra e nel sangue.
Páez percorre le strade
spartendo l'aria conquistata,
cade la rugiada a Cundinamarca
sulla fraternità delle ferite,
il popolo insorge inquieto
dalla latitudine alla segreta
cellula, emerge un mondo
di saluti e di galoppi,
nasce in ogni minuto una bandiera
come un fiore anticipato:
bandiere fatte di fazzoletti
insanguinati e di liberi scritti,
bandiere trascinate nella polvere
delle strade, fatte a pezzi
dalla cavalleria, bucate
da detonazioni e da lampi.
Le bandiere
Le nostre bandiere di quel tempo
fragrante, cucite appena,
appena nate, segrete
come un profondo amore, d'improvviso
accese al vento azzurro
dell'amato esplosivo.
America, vasta culla, spazio
di stella, melagrana matura,
d'un tratto la tua geografia
si colmò d'api, di sussurri
trasportati dai mattoni
e dalle pietre, di mano in mano
la strada s'infittì di vesti
come un alveare stordito.
Nella notte degli spari
la danza brillava negli occhi,
la zagara alle camicie
saliva simile a un'arancia,
baci d'addio, baci di farina,
l'amore ancorava baci,
e la guerra per le strade
con la sua chitarra cantava.
XXIX
Castro Alves del Brasile
Castro Alves del Brasile, per chi hai cantato?
Per il fiore hai cantato? Per l'acqua
la cui bellezza dice parole alle pietre?
Hai cantato per gli occhi, per il profilo scolpito
di colei che hai amato allora? Per la primavera?
Sì, ma quei petali non avevano rugiada,
quelle acque nere non avevano parole,
quegli occhi avevano visto la morte,
ancora bruciavano i tormenti dietro l'amore,
la primavera era ancora spruzzata di sangue.
- Ho cantato per gli schiavi: essi sui bastimenti
come il grappolo oscuro dell'albero dell'ira
avevano viaggiato, e nel porto s'era dissanguato il naviglio
lasciandoci il peso d'un sangue derubato.
- Ho cantato in quei giorni contro l'inferno,
contro le affilate lingue della cupidigia,
contro l'oro inzuppato nel martirio,
contro la mano che impugnava la frusta,
contro i caporioni delle tenebre.
- Ogni rosa aveva un morto alle radici,
La luce, la notte, il cielo coprivano di pianto,
gli occhi si distoglievano dalle mani ferite
e la mia voce era l'unica che riempiva il silenzio.
- Volli che nell'uomo ci salvassimo,
credevo che la strada passasse per l'uomo,
e che da lì doveva uscire il destino.
Cantai per quelli che non avevano voce.
La mia voce bussò alle porte finora sbarrate
perché, combattendo, la Libertà potesse entrare.
Castro Alves del Brasile, oggi che il tuo libro puro
torna a nascere per la libera terra,
lascia che io, poeta della nostra povera America,
incoroni la tua testa con l'alloro del popolo.
La tua voce s'è unita all'eterna e alta voce degli uomini.
Bene hai cantato. Come si deve cantare hai cantato.
XXX
Toussaint L'Ouverture
HAITI, dalla sua dolcezza arruffata,
estrae petali patetici,
diligenza di giardini, edifici
della grandezza, e il mare
cantilena come un avo oscuro
la sua antica dignità di pelle e spazio.
Toussaint L'Ouverture annoda
la sovranità vegetale,
la maestà incatenata,
la sorda voce dei tamburi
e attacca, sbarra il passo, sale,
ordina, espelle e sfida
come un monarca naturale,
finché cade nella tenebrosa
rete e lo portano sui mari
umiliato e calpestato
come il ritorno della sua stirpe,
gettato alla morte segreta
delle stive e delle cantine.
Ma nell'Isola ardono le rupi,
parlano i rami reconditi,
si trasmettono le speranze,
sorgono le mura dei bastioni.
La libertà è bosco tuo:
o fratello oscuro, conserva
la tua memoria di dolori,
e la tua magica spuma
serbino gli eroi del passato.
XXXI
Morazán (1842)
ALTA è la notte e Morazán sta all'erta.
E oggi, ieri, domani? Lo sai tu.
Fascia centrale, strettoia d'America
che a gradi hanno creato i colpi azzurri
di due mari, sollevando in bilico
cordigliere e piume di smeraldo:
territorio, unità, sottile dea
nata nella battaglia della spuma.
Figli e perversi poi ti demoliscono,
su di te si spargono le bestiacce
e una tenaglia ti sradica il sonno
e un pugnale col tuo sangue ti spruzza
mentre la tua bandiera va in brandelli.
Alta è la notte e Morazán sta all'erta.
Ecco arriva la tigre che alza un'ascia.
Vengono a divorarti le viscere
e a dividere la stella.
Vengono,
piccola America odorosa,
ad inchiodarti in croce, a scorticarti,
a prostrare il metallo del tuo stendardo.
Alta è la notte e Morazán sta all'erta.
Gli invasori ti empirono la casa,
e ti spartirono come frutta morta,
e altri ti stamparono sulla schiena
i denti d'una stirpe sanguinaria,
e altri ti predarono nei porti
caricando di sangue i tuoi dolori.
È oggi, ieri, domani? Lo sai tu.
Fratelli, è l'alba. (E Morazán sta all'erta.)
XXXII
Viaggio attraverso la notte di Juárez
JUÀREZ, se raccogliessimo
l'intimo strato, la materia
delle profondità, se scavando toccassimo
il profondo metallo delle repubbliche,
questa unità sarebbe tua struttura,
tua serena bontà, tua salda mano.
Chi guarda la tua marsina,
la tua parca maniera, il tuo silenzio,
il tuo volto di terra americana,
se non è di qui, se non è nato in queste
pianure, nella creta montagnosa
dei nostri deserti, non può capire.
Ti parleranno e vedranno una petraia.
Ti passeranno come si passa un fiume.
Daranno la mano a un albero, a un sarmento,
a un ombroso sentiero della terra.
Per noi tu sei pane e sei macigno,
forno e prodotto della stirpe oscura.
Il tuo volto si creò nel nostro fango.
La tua maestà è mia zona nevosa,
i tuoi occhi il vasellame sepolto.
Gli altri avranno l'atomo e la goccia
d'elettrico lampo, di brace inquieta:
tu sei il muro fatto col nostro sangue,
la tua dirittura impenetrabile
stilla dall'aspra nostra geologia.
Tu non hai nulla da esprimere all'aria,
al vento d'oro che viene da lungi,
lo dica allora la terra distratta,
il lievito, la calce, il minerale.
Visitai le mura di Querétaro,
toccai ogni masso della collina,
la distanza, cicatrice e cratere,
i cactus dalle branche spinose:
nessuno là resiste, è fuggito il fantasma,
nessuno s'è addormentato nell'asprezza:
esistono solo la luce, gli aculei
dello sterpeto, e una presenza pura:
Juárez, la tua pace di notte ferrea,
giustiziera, decisiva e stellata.
XXXIII
Il vento sopra Lincoln
TALORA il vento del Sud scivola
sulla sepoltura di Lincoln recando
voci e frammenti di città e di alberi
nulla accade sulla sua tomba e le lettere non si muovono
il marmo si consuma con la lentezza di secoli
l'antico cavaliere più non vive
non c'è più il buco della sua vecchia camicia
le fibre si sono impastate di tempo e polvere umana
oh che vita esemplare dice una trepidante
signora della Virginia una scuola che canta
più di una scuola canta pensando ad altre cose
ma il vento del Sud emanazione di terre
e di strade talvolta indugia sulla tomba
la sua trasparenza è un moderno giornale
sordi rancori giungono e lamenti come quelli
che il sonno immobile e vincitore stendeva
sotto i piedi sporchi di fango che erano passati
cantando e trascinando tanta fatica e sangue
perché proprio questa mattina torna sul marmo l'odio
l'odio del Sud bianco verso il vecchio addormentato
i negri nelle chiese stanno soli con Dio
col Dio come lo pensano nelle piazze
nei treni il mondo è pieno di certe scritte
che dividono il cielo l'acqua l'aria
oh che vita perfetta dice la delicata
signorina e in Georgia uccidono a bastonate
ogni settimana un giovane negro
mentre Paul Robeson canta come la terra
come le origini del mare e della vita
canta sopra la crudeltà e sui cartelli
della coca-cola canta per altri fratelli
da un mondo a un mondo in mezzo alle pene
canta per quelli che nascono e verranno
perché l'uomo senta e arresti la sua frusta
la mano crudele la mano che Lincoln avrebbe abbattuto
la mano che riaffiora come una bianca vipera
il vento passa il vento sopra la tomba e porta
discorsi parole brani di giuramenti porta
qualcosa che piange sopra il marmo come una pioggia fina
d'antichi dimenticati insepolti dolori
il Klan ha ucciso un barbaro dopo averlo perseguitato
appeso ha il povero negro che urlava e l'ha bruciato
bruciato vivo e sforacchiato di spari
sotto i cappucci bianchi i ricchi rotariani
non sanno nulla così credono che siano soltanto dei boia
codardi sanguinari detriti del denaro
con la croce di Caino tornano
a lavarsi le mani a pregare la domenica
telefonano al Senato vantando le loro imprese
di tutto questo non sa nulla il morto d'Illinois
perché il vento di oggi parla un linguaggio
di schiavitù di furia di catena
e dietro le pietre del suo sepolcro l'uomo più non esiste
è un misero pulviscolo di vittoria
di vittoria distrutta dopo il morto trionfo
non solo la camicia dell'uomo s'è consunta
non solo il buco della sua morte ci ammazza
ma la primavera ripetuta e il passare del tempo
che rode il vincitore e il suo canto vigliacco
muore il valore di ieri nuovamente si dispiegano
le furiose bandiere del malvagio
qualcuno canta presso la tomba è un coro
di piccole scolare voci acerbe
che s'alzano e non sfiorano la polvere esterna
che passano e non arrivano giù al taglialegna addormentato
alla vittoria morta sotto gl'inchini e le cerimonie
mentre beffardo e vagabondo il vento del Sud sorride.
XXXIV
Martí (1890)
CUBA, fiore spumoso, effervescente
giglio scarlatto, pianta di gelsomini,
duro è scoprire sotto la rete di fiori
il tuo cupo carbone martoriato,
l'antica ruga che lasciò la morte,
la cicatrice coperta di spuma.
Ma dentro di te simile a una chiara
geometria di neve germogliata,
dove s'aprono le ultime cortecce,
giace Martí come una mandorla pura.
Sta nel fondo circolare dell'aria,
sta nel centro azzurro del territorio,
e riluce come una goccia d'acqua
la sua assopita purezza di seme.
È di vetro la notte che lo copre.
Pianto e dolore, d'un tratto, gocce amare
traversano la terra fino al recinto
dell'infinita chiarità assopita.
Cala a volte il popolo le radici
per entro la notte sino a toccare
l'acqua quieta nel suo riposto manto.
Talvolta varca il furioso rancore
mentre calpesta aree seminate
e cade un morto nel calice del popolo.
Talvolta torna la frusta sepolta
a fischiare nell'aria della cupola
e una goccia di sangue come un petalo
cade in terra e discende nel silenzio.
Tutto giunge al fulgore immacolato.
E minuscoli tremori bussano
alle porte di vetro del clandestino.
Ogni lacrima entra nel suo corso.
Ogni fuoco scuote la sua struttura.
E così dalla prostrata fortezza,
dal copioso germoglio occultato
escono i combattenti dell'isola.
Hanno tutti un'origine precisa.
Nascono da una fonte cristallina.
XXXV
Balmaceda del Cile (1891)
È ARRIVATO da Londra Mister North.
È un magnate del nitrato.
Prima lavorò nella pampa,
un periodo, come bracciante,
ma si rese conto e se ne andò.
Ora torna, avvolto in sterline.
Porta due cavallini arabi
e una piccola locomotiva
tutta d'oro. Sono i regali
per il Presidente, un certo
José Manuel Balmaceda.
«You are very clever, Mr. North».
Rubén Darío entra in questa casa,
in questa Presidenza quando vuole.
Una bottiglia di cognac lo aspetta.
Il giovane Minotauro, avvolto in nebbia
di fiumi, penetrato di suoni,
sale la grande scala che sarà
tanto ardua a salire per Mr. North.
Il Presidente è tornato da poco
dal desolato Nord del Salnitro;
là disse: «Questa terra, questa ricchezza
sarà del Cile, questa materia bianca
io la tramuterò in scuole, in strade,
in pane per il mio popolo».
Adesso, tra le carte, nel palazzo,
il suo fine aspetto, il suo intenso sguardo
è rivolto ai deserti del salnitro.
Il suo nobile viso non sorride.
La testa, di pallida grazia,
possiede l'antico stampo d'un morto,
d'un vecchio progenitore della patria.
Tutto il suo essere è solenne esame.
Qualcosa turba, come fredda raffica,
la sua pace, il suo moto di pensiero.
Rifiutò i cavalli, la macchinetta d'oro
di Mister North. Senza vederli li rispedì
al proprietario, al potente straniero.
Mosse appena la disdegnosa mano.
«Adesso, Mister North, non posso
consegnarle queste concessioni,
non posso legare il mio paese
ai misteri della City».
Mister North s'installa nel Club.
Cento whisky vanno al suo tavolo,
cento pranzi per avvocati,
per il Parlamento, e champagne
per i Tradicionalistas.
Corrono agenti verso il Nord,
i fili vanno, vengono e tornano.
Le dolci lire sterline
tessono come ragni d'oro
una tela inglese, legittima,
per la mia gente, un abito su misura
di sangue, spari e miseria.
«You are very clever, Mr. North».
L'ombra già assedia Balmaceda.
E il giorno fissato lo insultano,
i nobili lo deridono,
lo minacciano in Parlamento,
lo sferzano e lo calunniano.
Danno battaglia, e lo vincono.
Ma non basta: occorre deviare
la storia. Le vigne più ricche
sono «sacrificate» e l'alcool
empie la notte miserabile.
I giovanottini eleganti
segnano le porte e un'orda
assalta le cose, rovescia
i pianoforti dai balconi.
Un aristocratico picnic
con cadaveri nel canale
e champagne francese al Club.
«You are very clever, Mr. North».
L'Ambasciata argentina aprì
le sue porte al Presidente.
E quella sera scrive con la solita
fermezza di mano affilata,
l'ombra entra nei grandi occhi
come un'oscura farfalla
di profondità sofferta.
E la maestà della sua fronte
sorge dal mondo solitario,
dalla piccola stanza,
e illumina la notte buia.
Egli scrive il nitido nome,
le lettere dal lungo tratto
della sua dottrina tradita.
Stringe il revolver nella mano.
Guarda attraverso la finestra
un ultimo pezzo di patria,
pensando a tutto il lungo corpo
del Cile, già rabbuiato
come una pagina notturna.
Viaggia, e, senza vedere, i suoi occhi,
come dai vetri d'un treno,
percorrono rapidi campi,
borgate, torri, rive sommerse,
povertà, sofferenze, stracci.
Egli sognò un sogno preciso,
volle trasformare il paesaggio
straziato, il corpo consumato
del popolo, volle difenderlo.
Ormai è tardi, sente spari
isolati, le grida trionfanti,
le selvagge scorrerie, le urla
dell'» aristocrazia», ode
l'ultimo suono, il gran silenzio,
e con esso, piegato, entra nella morte.
XXXVI
A Emiliano Zapata, con musica di Tata Nacho
QUANDO sulla terra crebbero
le pene, e i desolati pruneti
furono l'eredità dei contadini;
e come un tempo, le rapaci
barbe rituali, e le fruste,
allora, fiore e fuoco al galoppo...
Un po' sbronza io vo
alla capitale
s'impennò nell'aurora transitoria
la terra tutta scossa dai coltelli,
il peón dalle sue amare stamberghe
cadde come una pannocchia sgranata
sulla solitudine vertiginosa.
vo a chiedere al padrone
che m'ha fatto chiamare
Allora Zapata fu terra e aurora.
In tutto l'orizzonte compariva
l'enorme folla del suo seme armato.
In un assalto d'acqua e di frontiere
la ferrea sorgente di Coahuila,
e le stellari pietre di Sonora:
tutto accorse al suo passo temerario,
al suo agreste ciclone di zoccoli.
se lui parte dal rancho
ben presto tornerà
Dividi il pane, la terra:
ti seguo.
Rinuncio alle mie palpebre celesti.
Me ne vo, Zapata, con la rugiada
delle cavallerie mattutine,
entro uno sparo, da dietro i cactus
fino alle case dai muri rosati.
...nastri pei tuoi capelli
non pianger il tuo Pancho...
La luna dorme sopra i finimenti.
La morte ammonticchiata e suddivisa
riposa coi soldati di Zapata.
Il sonno nasconde sotto ai bastioni
della pesante notte il suo destino,
il suo oscuro lenzuolo incubatore.
Il falò raccoglie l'aria ridesta:
grasso, sudore, esplosioni notturne.
... un po' sbronza io vo
per dimenticarmi...
Patria domandiamo per l'umiliato.
Il tuo coltello spartisce il patrimonio,
mentre spari e corsieri atterriscono
le pene, la barba del carnefice.
Con un fucile la terra è divisa.
Non aspettare, peón polveroso,
dopo il tuo sudore luce completa
e alle tue ginocchia il cielo a parcelle.
Sollevati e galoppa con Zapata!
...La volli portar via
ma lei mi disse no...
Messico, rude agricoltura, cara
terra tra oscura gente suddivisa:
dalle spade del mais sono balzati
al sole i tuoi sudati centurioni.
Dalla neve del Sud vengo a cantarti.
Lascia ch'io galoppi sul tuo destino
e mi riempia di spari e d'aratri.
...Se dovrà piangere
perché tornare?...
XXXVII
Sandino (1926)
ACCADDE quando nella nostra terra
le croci rimasero sepolte,
si consumarono, divennero
cose inutili, professionali.
Venne il dollaro dai denti aggressivi
a mordere territorio
nella gola pastorale d'America.
Afferrò Panama con dure fauci,
nella terra fresca affondò i canini,
sguazzò nel fango, nel whisky, nel sangue,
e un Presidente in marsina giurò:
«Sia con noi la corruzione
quotidiana».
Poi, arrivò l'acciaio
e il canale separò le dimore,
qua i padroni, e là i servitori.
Corsero verso il Nicaragua.
Calarono, vestiti di bianco,
sparando dollari e fucilate.
Ma laggiù spuntò un capitano
che disse: «No, qui non metterai
le tue concessioni e bottiglie».
Gli promisero un bel ritratto
da Presidente, con guanti,
una sciarpa di traverso e scarpe
di vernice nuove e fiammanti.
Sandino si tolse gli stivali,
s'immerse nei tremuli pantani,
s'infilò la sciarpa bagnata
della libertà nella selva,
e, colpo su colpo, rispose
ai «portatori di civiltà».
La furia nordamericana
fu indicibile: informati
ambasciatori convinsero
tutto il mondo che il loro amore
era il Nicaragua, e che un giorno
l'ordine doveva pur entrare
in quelle viscere sonnolente.
Sandino impiccò gli intrusi.
Gli eroi di Wall Street
furon divorati dai pantani,
una folgore li uccideva,
più di un machete l'inseguiva,
una corda li risvegliava
come un serpente nella notte,
e penzolanti da un albero
erano pian piano trascinati
da coleotteri azzurri
e da rampicanti voraci.
Sandino stava nel silenzio,
stava nella Plaza del Puebio,
dovunque stava Sandino,
per ammazzare americani,
per giustiziare invasori.
E quando arrivò l'aviazione,
l'offensiva degli eserciti
corazzati, la pressione
di forze preponderanti,
Sandino, con i suoi guerriglieri,
come uno spettro della selva,
era un albero che si torceva,
una tartaruga che dormiva,
o un fiume che scivolava.
Ma albero, tartaruga, corrente
furono morte vendicatrice,
furono sistemi della selva,
mortali sintomi di ragno.
(Nel 1948
un partigiano
di Grecia, colonna di Sparta,
fu l'urna di luce attaccata
dai mercenari del dollaro.
Dalle montagne gettò fuoco
sopra i polipi di Chicago,
e, come Sandino, l'eroe
del Nicaragua, fu chiamato
«bandito delle montagne».)
Però quando fuoco e sangue
e dollari non distrussero
la torre altera di Sandino,
i guerrieri di Wall Street
fecero la pace, invitarono
il guerrigliero a celebrarla,
e un traditore comprato di fresco
gli scaricò addosso il fucile.
Costui si chiama Somoza. E oggi
ancora regna sul Nicaragua:
i trenta dollari son cresciuti
e hanno ingrossato la sua pancia.
Questa è la storia di Sandino,
capitano del Nicaragua,
incarnazione straziante
della nostra terra tradita,
spezzettata ed assaltata,
martoriata e saccheggiata.
XXXVIII
(1)
Verso Recabarren
LA TERRA, il metallo della terra, la compatta
bellezza, la pace ferruginosa
che diverrà lancia, lampada o anello,
materia pura, azione
del tempo, salvezza
della terra nuda.
Il minerale fu come una stella
sprofondata e sepolta.
A colpi di pianeta, grammo a grammo,
nascosta fu la luce.
Un'aspra cappa, e argilla e sabbia
ricopersero il tuo emisfero.
Ma io amai il tuo sale, la tua superficie.
La tua lacrima, la palpebra, la statua.
Entro i carati di dura purezza
cantò la mano mia: all'egloga
nuziale dello smeraldo fui chiamato,
e nel cavo del ferro misi un giorno il mio viso
fino a emanare abisso, resistenza e sviluppo.
Io però non sapevo nulla.
Il ferro, il rame, i sali lo sapevano.
Ogni petalo d'oro venne sradicato con sangue.
Ogni metallo contiene un soldato.
(2)
Il rame
Io giunsi al rame, a Chuquicamata.
Era sera sulle cordigliere.
L'aria era simile a una coppa
fredda, di secca trasparenza.
Son vissuto su molte navi,
ma nella notte del deserto
l'immensa miniera splendeva
come un bastimento che accechi
con la rugiada abbagliante
di quelle montagne notturne.
Io chiusi gli occhi: sonno e ombra,
come uccelli giganteschi,
mi coprivano di grosse penne;
A fatica, di balzo in balzo,
mentre l'automobile ballava,
l'obliqua stella, il penetrante
pianeta, come una lancia,
mi gettavano un raggio gelido
di fuoco freddo, di minaccia.
(3)
La notte a Chuquicamata
Era alta notte già, notte profonda,
come cavità interna di campana.
E davanti ai miei occhi vidi i muri implacabili,
il rame versato sulla piramide.
Era verde il sangue di quelle terre.
Alta su fino ai pianeti grondanti
era la grandiosità notturna e verde.
A goccia a goccia un latte di
turchese,
un'aurora di pietra
venne costruita dall'uomo.
Ed essa ardeva nell'immensità,
nella stellata terra aperta
di tutta la notte sabbiosa.
Passo a passo, allora, l'ombra
mi portò
per mano verso il Sindacato.
Era il mese di luglio,
in Cile, nella stagione fredda.
Con i miei passi, da molti giorni
(o secoli) (o soltanto mesi
di rame, di pietra e pietra e pietra,
cioè d'inferno nel tempo:
dall'infinito sostenuto
da una mano sulfurea),
andavano altri passi e piedi
che solo il rame conosceva.
Era una folla sporca d'unto,
fame e stracci, solitudini,
che scavava le gallerie.
Quella notte non vidi sfilare
la sua ferita innumerevole
sull'orlo amaro della miniera.
Ma io sorsi da quei tormenti.
Le vertebre del rame erano umide,
svelate a colpi di sudore
nell'infinita luce dell'aria andina.
Per estrarre le ossa minerali
della statua sepolta dai secoli,
l'uomo costruì le gallerie
d'un teatro deserto.
Eppure la sostanza dura,
la pietra nella sua forma, la vittoria
del rame scomparve e lasciò un cratere
d'ordinato vulcano, come se quella
statua, stella verde,
fosse stata strappata dal petto di un dio ferrigno
lasciando un pallido buco, scavato sul monte.
(4)
I cileni
Tutto questo fu la tua mano.
La tua mano fu l'unghia
del compatriota minerale, del «paria»
oppresso, del calpestato
materiale umano, dell'ometto coperto di stracci.
La tua mano fu come la geografia:
scavò questo cratere di buio verde,
fondò un pianeta di pietra oceanica.
Essa andò in mezzo ai cantieri
maneggiando le pale rotte
e depositando esplosivi
dappertutto, come fossero
uova di gallina assordante.
Si tratta d'un cratere remoto:
anche dalla luna piena
si vedrebbe la sua profondità
creata a forza di mani da un tale
Rodríguez, un tale Carrasco,
un tale Díaz Iturrieta,
un tale Abarca, un tale Gumersindo,
e da un tale cileno di nome Mille.
Questa immensità, a forza d'unghie,
lo straziato cileno, un giorno
e un altro giorno, un altro inverno,
a forza di polsi, di sveltezza,
nella lenta atmosfera dei monti,
la raccolse dalla calcina,
la fissò in mezzo alle regioni.
(5)
L'eroe
Non fu solo fermezza tumultuosa
di molte dita, non fu solo la pala,
non solo il braccio, i fianchi e il peso
di tutto l'uomo e della sua energia:
furono dolore, incertezza e furia
che scavarono il centimetro
di monte calcareo, cercando
le vene verdi della stella,
l'estremità fosforescenti
delle comete sprofondate.
Dall'uomo consunto nel suo abisso
nacquero i sali insanguinati.
E infatti il Reinaldo aggressivo,
cercapietre, l'infinito
Sepúlveda, tuo figlio, nipote
di tua zia Eduviges Rojas,
è lui l'eroe che arde, che fende
la cordigliera minerale.
Fu così che per conoscere,
per entrare come all'uterina
originalità dei visceri,
in terra e vita cominciai a vincermi:
al punto d'affondare in uomo, in acqua
di lacrime come stalattiti,
di povero sangue sparso a fiotti,
di sudore caduto nella polvere.
(6)
Mestieri
Più lungi, altre volte, con Lafferte
entrammo nel Tarapacá,
da Iquique azzurro e ascetico,
lungo i confini della sabbia.
Elías mi mostrò i picconi
degli scavatori: ogni dito
dell'uomo s'era affondato
nel legno: ed erano corrosi
dall'attrito d'ogni polpastrello.
La pressione di quelle mani aveva sciolto
la materia dura dei picconi,
e avevano così aperto i corridoi
di terra e pietra, metallo e acido,
queste unghie amare, questi
anneriti centurioni
con mani che rompono pianeti,
e innalzano al ciclo i sali,
dicendo come nel racconto
della storia celeste: «Questo
è il primo giorno della terra».
Così colui che nessuno vide prima
(prima di quel giorno originario),
il prototipo del piccone,
si rizzò sopra le cortecce
dell'inferno: le dominò
con le sue mani ardenti,
aprì le foglie della terra,
e apparve in tuta turchina
il capitano dai denti bianchi,
il conquistatore del salnitro.
(7)
Il deserto
II duro mezzodì delle grandi sabbie
è scoccato:
il mondo è nudo,
ampio, sterile e netto fino alle ultime
frontiere di sabbia:
ascoltate il suono fragile
del sale vivo, unico nelle saline:
il sole spezza i suoi vetri nella vuota estensione
ed entra in agonia la terra col rumore
secco e strozzato del sale che geme.
(8)
(NOTTURNO)
Vieni al circuito del deserto,
all'alta aerea notte della pampa,
al cerchio notturno, spazi ed astri,
dove la zona del Tamarugal racchiude
tutto il silenzio sperduto nel tempo.
Mille anni di silenzio in un calice
d'azzurro calcareo, di distanza e luna,
la nuda geografia solcano della notte.
Io t'amo, pura terra, come tante
cose ho amato diverse:
il fiore, la strada, l'abbondanza, il rito.
Io t’amo, sorella pura dell’oceano.
Per me fu ardua questa scuola vuota
dove non c’era l’uomo, né il muro, né la pianta
per appoggiarmi a qualcosa.
Io ero solo.
Era pianura a solitudine la vita.
Era questo il petto virile del mondo.
E amai il sistema nella tua forma retta,
l’estesa precisione del tuo vuoto.
(9)
L'altipiano
Sull'altipiano l'uomo viveva
mordendo la terra, annientato.
Andai diretto nella tana,
misi le mani fra i pidocchi,
camminai lungo le rotaie
fino all'aurora desolata,
dormii sulle tavole dure,
scesi dal lavoro a sera,
mi bruciarono il fumo e lo iodio,
strinsi la mano dell'uomo,
chiacchierai con la donnetta,
dentro casa, fra le galline,
in mezzo a stracci, nell'odore
della miseria divampante.
E quando riunii i tanti
dolori, quando tanto sangue
raccolsi nel cavo dell'anima,
vidi arrivare dallo spazio puro
della pampa inconcepibile
un uomo fatto della stessa sabbia,
un volto immobile e disteso,
un abito con un largo corpo,
e con gli occhi socchiusi
come due fari indimabili.
Recabarren era il suo nome.
XXXIX
Recabarren (1921)
IL SUO NOME era Recabarren.
Bonaccione, massiccio, enorme,
limpido sguardo, fronte ferma,
l'ampia sua figura copriva,
come la sabbia numerosa,
i giacimenti della forza.
E nella pampa americana
(fiumi diramati, chiara neve,
fenditure ferruginose),
guardate il Cile con la sua infranta
biologia, come una fronda
lacerata, come un braccio
le cui fibre sono state disperse
dal traffico delle bufere.
Sulle distese muscolari
dei metalli e del nitrato,
sull'atletica grandezza
del rame da poco estratto,
vive il piccolo abitante
ammassato nel disordine,
con un contratto sbrigativo,
pieno di bambini cenciosi,
sparsi per i luoghi deserti
della superficie salata.
Ecco il cileno, fermato
da disoccupazione o morte.
Ecco il durissimo cileno
che sopravvive alle sue opere
o è seppellito dal sale.
Là giunse con i suoi opuscoli
questo capitano del popolo.
Prese l'offeso solitario,
che, avvolgendo di panni stracciati
i suoi figli pieni di fame,
accettava le ingiustizie
più inasprite e gli disse:
«Unisci la tua a un'altra voce»,
«Unisci la tua a un'altra mano».
E corse le zone infelici
del salnitro, riempì la pampa
della sua investitura paterna
e nel suo invisibile recesso
fu visto da tutti i minatori.
Accorse ogni povero frustato,
giunse via via ogni lamento:
entrarono come fantasmi
con pallida voce spezzata
e uscirono dalle sue mani
con una nuova dignità.
In tutta la pampa si riseppe.
Ed egli girò l'intera patria
creando un popolo, e i cuori
lacerati sollevando.
I suoi giornali appena stampati
entrarono nelle gallerie
del carbone, salirono al rame,
e il popolo baciò le colonne
che la voce dei derelitti
per la prima volta recavano.
Organizzò le solitudini.
Portò i libri e i canti
sino alle mura del terrore,
unì protesta a protesta,
e lo schiavo senza voce e bocca,
la sconfinata sofferenza,
ebbe nome, si chiamò Popolo,
Proletariato, Sindacato,
acquistò presenza e persona.
E quest'abitante trasformato,
che si costruì nella lotta,
questo organismo valoroso,
quest'implacabile tentativo,
questo metallo inalterabile,
quest'unità dei dolori,
questa cittadella dell'uomo,
questa strada verso il domani,
questa cordigliera infinita,
questa primavera germinale,
questo armamento dei poveri,
sgorgò da quelle sofferenze,
dal più profondo della patria,
dal più duro e più tribolato,
dal più elevato e più eterno
e si chiamò Partito.
Partito
Comunista.
Questo fu il suo nome.
E grande la lotta. Piombarono
come avvoltoi i padroni dell'oro.
Combatterono con la calunnia.
«Questo Partito Comunista
è pagato dalla Bolivia,
dal Perù, dagli stranieri».
Piombarono sulle stamperie
acquistate goccia a goccia
col sudore dei militanti,
le assaltarono, le ruppero,
le bruciarono, e dispersero
la tipografia del popolo.
Perseguitarono Recabarren.
Gli negarono entrata e passaggio.
Ma egli riunì la sua semente
nei pozzi vuoti della miniera
e fu difesa la fortezza.
Allora, gli uomini d'affari
nordamericani e inglesi,
i loro avvocati, senatori,
deputati e presidenti,
versarono sangue sulla sabbia,
circondarono, incatenarono,
ammazzarono la nostra razza,
la forza profonda del Cile,
lasciarono lungo i sentieri
dell'immensa pampa gialla
croci d'operai fucilati,
cadaveri ammonticchiati
nei solchi dei deserti sabbiosi.
Un giorno a Iquique, sulla costa,
fecero venire gli uomini
che chiedevano scuola e pane.
E là, confusi, rinserrati
in un patio, li schierarono
alla morte.
Con sibilanti
mitragliatrici, con fucili
tatticamente collocati,
spararono sull'informe massa
degli operai addormentati.
Il sangue riempì come un fiume
la pallida sabbia di Iquique,
e ancora è là il sangue versato,
e sopra gli anni arde ancora,
come una corolla implacabile.
Sopravvisse però la resistenza.
La luce organizzata dalle mani
di Recabarren, le bandiere rosse
dalle miniere andarono ai villaggi,
entrarono nelle città e nei solchi,
girarono con ruote ferroviarie,
assunsero le basi del cemento,
invasero casali, strade, piazze,
fabbriche annerite dalla polvere,
piaghe coperte dalla primavera:
tutto cantò e lottò per vincere
nell'unità del tempo che fa l'alba.
Quanto è passato da quel giorno.
Quanto sangue sopra il sangue,
quante lotte sopra la terra.
Ore di splendida conquista,
trionfi estorti goccia a goccia,
strade amare e sbaragliate,
zone buie come gallerie,
tradimenti che parevano
tagliare la vita con la lama,
repressioni armate d'odio,
celebrate militarmente.
Sembrava sprofondare la terra.
Eppure la lotta continua.
Messaggio (1949)
Recabarren, in questi giorni
di persecuzione, nell'angoscia
dei miei fratelli confinati,
combattuti da un traditore,
e con la patria avvolta nell'odio,
ferita dalla tirannia,
ricordo la lotta terribile
delle tue prigioni, dei tuoi primi
passi, la tua solitudine
di bastione irriducibile,
e quando, usciti dall'altipiano,
un uomo e un altro vennero a te
per raccogliere l'impasto
dell'umile pane difeso
dall'unità del popolo insigne.
Padre del Cile
Recabarren, figlio del Cile,
padre del Cile, padre nostro,
nella tua linea e costruzione
formata fra terre e torture
nasce l'energia dei giorni
che porteranno la vittoria.
Tu sei la patria, pampa e popolo,
arena, argilla, scuola, casa,
risurrezione, pugno, offensiva,
ordine, sfilata, assalto, grano,
lotta, grandezza, resistenza.
Recabarren, sotto il tuo sguardo
giuriamo di lavare le aperte
mutilazioni della patria.
Ti giuriamo che la libertà
innalzerà il suo fiore nudo
sulla terra disonorata.
Giuriamo di seguire il tuo cammino
fino alla vittoria del popolo.
XL
Prestes del Brasile (1949)
BRASILE augusto, quanto amore vorrei
per distendermi nel tuo grembo,
per avvolgermi nelle tue foglie immense,
nello sviluppo vegetale, nel vivo
detrito di smeraldi: e spiarti,
Brasile, dai fiumi
sacerdotali che ti nutrono,
ballare nei terrados alla luce
della luna fluviale, e dividermi
fra i tuoi inabitati territori
vedendo uscire dal fango la nascita
di grosse bestie circondate
da metallici uccelli bianchi.
Quante insenature mi offriresti!
Entrare ancora nell'alfandega,
girare per i quartieri, fiutare
il tuo strano rito, scendere
nei tuoi centri circolatori,
nel tuo cuore generoso.
E invece non posso.
Una volta, a Bahia, le donne
del quartiere dei dolori,
dell'antico mercato degli schiavi
(dove oggi la nuova schiavitù, la fame,
gli stracci, le malattie vivono,
come prima, sul medesimo suolo),
mi diedero dei fiori e una lettera,
alcune parole affettuose e fiori.
Non posso separare la mia voce da ciò che soffre.
So quanto d'invisibile verità
m'offrirebbero le tue spaziose
riviere naturali.
So che il fiore segreto, l'agitata
folla di farfalle,
tutti i fertili fermenti
dell'esistenze e dei boschi
m'aspettano con la loro teoria
d'interminabili umidori,
ma io non posso, non posso,
posso solo strappare al tuo silenzio
un'altra volta la voce del popolo,
innalzarla come la penna
più sfolgorante della selva,
tenerla accanto a me e amarla
finché canti dalle mie labbra.
Per questo vedo Prestes che cammina
verso la libertà, verso le porte
che in te, Brasile, sembrano serrate,
sbarrate al dolore, impenetrabili.
Vedo Prestes, la sua colonna che vince
la fame, attraversare le foreste,
diretta in Bolivia, perseguitata
dal tiranno dagli occhi pallidi.
E quand'egli ritorna al suo popolo,
quando suona le campane di lotta,
l'imprigionano, e consegnano
la sua compagna al fosco boia
di Germania.
(Poeta, tu cerchi nel tuo libro
gli antichi dolori di Grecia,
i mondi incatenati
dalle antiche maledizioni,
corri con palpebre commosse
sopra le torture inventate,
e non vedi alla tua stessa porta
gli oceani che flagellano
l'oscuro petto del popolo.)
Nel martirio nasce sua figlia.
Ma subito ella scompare
sotto l'ascia, nel gas, ingoiata
dagli acquitrini micidiali
della Gestapo.
Oh, supplizio
del prigioniero! Oh, indicibili
patimenti separati
del nostro capitano ferito!
(Poeta, cancella dal tuo libro
Prometeo e la sua catena.
Il vecchio mito non raggiunge
tanta grandezza calcinata,
tanta tragedia spaventosa.)
Undici anni tengono Prestes
dietro le sbarre di ferro,
nel silenzio della morte,
senza osare assassinarlo.
Più nulla sa di lui il suo popolo.
La tirannia cancella il nome
di Prestes nel suo mondo tetro.
E undici anni fu il suo nome muto.
Visse quel nome come un albero
in mezzo a tutto il suo popolo,
riverito ed aspettato.
Finché un giorno la libertà
venne a cercarlo nel carcere,
e uscì di nuovo alla luce,
amato, vincitore e generoso,
spogliato di tutto l'odio
che era caduto sul suo capo.
Ricordo che nel 1945
mi trovai con lui a San Paolo.
(Fragile e ferma la sua figura,
pallido come l'avorio
esumato dalla cisterna,
fino come la purezza
dell'aria nelle solitudini,
puro come la grandezza
custodita dal dolore.)
Per la prima volta egli parlava
al suo popolo, a Pacaembù.
Il grande stadio pullulava
di centomila cuori rossi
in attesa di vederlo e toccarlo.
Arrivò in un'indicibile
onda di canto e d'affetto,
centomila fazzoletti urlavano
come un bosco il loro benvenuto.
Egli guardò con occhi profondi,
accanto a me, mentre parlavo.
XLI
Detto a Pacaembù (Brasile, 1945)
QUANTE cose vorrei dirvi oggi, brasiliani,
quante storie, lotte, delusioni, vittorie
che ho portato per anni nel cuore per narrarvele,
pensieri
e saluti. Saluti dalle nevi andine,
saluti dall'Oceano Pacifico, parole che m'han detto
di passaggio operai, minatori, muratori, tutti
gli abitanti della mia lontana patria.
Che m'ha detto la neve, la nube, la bandiera?
Quale segreto m'ha confidato il marinaio?
Quali parole m'ha detto la bambina che mi porse alcune spighe?
Un messaggio essi avevano: Saluta Prestes.
Cercalo, mi dicevano, nella selva o nel fiume.
Schiudi la sua prigione, cerca la sua cella, chiama.
E se non ti fanno parlare con lui, guardalo fino a stancarti
e domani raccontaci quello che hai visto.
Oggi sono fiero di vederlo circondato
da un mare di cuori vittoriosi.
Poi dirò al Cile: L'ho salutato nell'aria
delle bandiere spiegate del suo popolo.
Ricordo, anni fa, a Parigi, una sera
che parlai alla folla, ero venuto a chiedere aiuti
per la Spagna Repubblicana, per il popolo nella sua lotta.
La Spagna era piena di rovine e di gloria.
I francesi ascoltavano il mio appello in silenzio.
Chiesi loro aiuto a nome di tutto ciò che esiste
e dissi: I nuovi eroi, quelli che in Spagna
lottano, muoiono,
Modesto, Líster, Pasionaria, Lorca,
son figli degli eroi d'America, son fratelli
di Bolívar, di O'Higgins, di San Martín, di Prestes.
E quando pronunciai il nome di Prestes fu come un
rumore immenso
nell'aria di Francia: Parigi lo salutava.
Vecchi operai con gli occhi umidi
guardavano verso il fondo del Brasile e verso la Spagna.
E voglio raccontarvi anche un'altra breve storia.
Presso le grandi miniere del carbone, che penetrano
sotto il mare,
in Cile, nel freddo porto di Talcahuano,
giunse una volta, tempo fa, un mercantile sovietico.
(Il Cile non aveva ancora stabilito rapporti
con l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Per questo la sciocca polizia
proibì ai marinai russi discendere,
e ai cileni di salire a bordo.)
Quando cadde la notte
vennero a migliala i minatori, dalle grandi
miniere,
uomini, donne, bambini, e dalle colline
con le loro piccole lanterne da miniera,
tutta la notte fecero segnali, accendendo e spegnendo,
in direzione della nave che veniva dai porti sovietici.
Quella notte buia ebbe le sue stelle:
le stelle umane, le lanterne del popolo.
Anche oggi, da tutti gli angoli
della nostra America, dal Messico libero, dal Perù
assetato,
da Cuba, dall'Argentina popolosa,
dall'Uruguay, rifugio di fratelli esiliati,
il popolo ti saluta, Prestes, con le sue piccole luci
nelle quali brillano le alte speranze dell'uomo.
Per questo m'hanno mandato attraverso l'aria d'America,
perché ti guardassi e poi raccontassi loro
come tu eri, che cosa diceva il loro capitano tenuto a tacere
per tanti anni duri di solitudine e d'ombra.
Dirò loro che tu non serbi odio.
Che vuoi solo che la tua patria viva.
E che la libertà cresca nel fondo
del Brasile come un albero eterno.
Io vorrei narrarti, Brasile, molte cose taciute,
portate in questi anni tra la pelle e l'anima,
sangue, dolori, successi, ciò che devono dirsi
i poeti e il popolo: sarà un'altra volta, un giorno.
Oggi chiedo un gran silenzio di vulcani e di fiumi.
Un gran silenzio chiedo di terre e di uomini.
Chiedo silenzio all’America dalle nevi alla pampa.
Silenzio: La parola del Capitano del Popolo.
Silenzio: Il Brasile parlerà dalla sua bocca.
XLII
Ancora i tiranni
Di NUOVO la persecuzione
oggi dilaga nel Brasile,
lo insegue la fredda ingordigia
dei mercanti di schiavi:
da Wall Street hanno ordinato
ai satelliti porcini
di conficcare i canini
nelle ferite del popolo,
ed è cominciata la caccia
in Cile, in Brasile, in tutte
le nostre Americhe distrutte
da mercanti e da carnefici.
La mia gente nascose i miei passi,
coprì i miei versi con le sue mani,
mi tenne lontano dalla morte,
e in Brasile la porta infinita
del popolo chiude le strade
dove Prestes, ancora una volta,
respinge e ricaccia il malvagio.
Per te si salvi. Brasile,
il tuo capitano doloroso;
e tu non debba domani, Brasile,
ricomporre la sua effigie
fibra per fibra, dal suo ricordo,
per elevarla in pietra austera,
senza prima avergli lasciato
godere in mezzo al tuo cuore
la libertà che egli può ancora,
ancora conquistarti, Brasile.
XLIII
Verrà il giorno
LIBERATORI in questo crepuscolo
d'America, nella oscurità
spopolata della mattina,
vi consegno la lista infinita
dei miei popoli, la gioia
d'ogni ora della lotta.
Ussari azzurri, caduti
nella profondità del tempo,
soldati sulle cui bandiere
da poco cucite albeggia,
soldati d'oggi, comunisti,
combattenti e diretti eredi
dei torrenti metallurgici,
ascoltate la mia voce nata
sui ghiacciai, innalzata
sulla fiamma quotidiana
per solo dovere d'amore:
siamo la stessa terra, lo stesso
popolo perseguitato,
la stessa lotta cinge alla vita
la nostra America:
Avete visto
nelle sere l'oscura spelonca
del fratello?
Avete attraversato
la sua vita tenebrosa?
Oh, il cuore sperduto
del popolo abbandonato e sommerso!
Qualcuno che raccolse la pace dell'eroe
se la conservò nella cantina, qualcuno
rubò i frutti del raccolto insanguinato
e spezzettò la geografia
creando ostili frontiere,
zone di desolata ombra cieca.
Raccogliete dalle terre il palpito
confuso del dolore, le solitudini,
il grano dei poderi dilaniati:
qualcosa nasce sotto le bandiere:
la voce antica di nuovo ci chiama.
Calate alle radici minerali,
e alle cime del metallo deserto,
toccate la lotta dell'uomo in terra,
attraverso il martirio che rovina
le mani destinate alla luce.
Non rinunciate al giorno che v'offrono
i morti che lottarono. Ogni spiga
nasce da un chicco affidato alla terra,
e, come il grano, il popolo infinito
unisce radici, accumula spighe,
e in mezzo alla tormenta scatenata
sale alla chiarità dell'universo.
V
LA TERRA TRADITA
Forse, forse l'oblio sopra la terra come una cappa
può incrementare lo sviluppo e alimentare la vita
(chissà), come l'humus oscuro nel bosco.
Forse, forse l'uomo come un fabbro ricorre
alla brace, ai colpi del ferro sopra il ferro,
senza entrare nelle cieche città del carbone,
senza chiudere gli occhi, senza precipitare
in lunghi abissi, acque, minerali, disastri.
Forse, ma il mio fiotto è un altro, il mio cibo è diverso:
i miei occhi non sono venuti a mordere oblio:
le mie labbra s'aprono su tutto il tempo, e tutto il tempo,
non solo una parte di esso, mi ha consumato le mani.
Per questo ti parlerò di quelle pene che vorrei allontanare,
ti costringerò a vivere ancora una volta fra quelle bruciature,
non per soffermarci come in una stazione, alla partenza,
e neppure per battere la fronte contro la terra,
né per riempirci il cuore d'acqua salata,
ma per camminare sapendo, per toccare l'onestà
con decisioni infinitamente gravide di significato,
perché il rigore sia una condizione della gioia,
perché in tal modo possiamo essere invincibili.
I
I carnefici
FULVA e squamosa America, coinvolta
allo sviluppo vegetale, all'asta
issata nel pantano:
tu nutristi figli terribili
con velenoso latte di serpente,
e torride culle incubarono
e ricopersero di fango giallo
una progenie inferocita.
Il gatto e la scorpiona fornicarono
nella patria selvatica.
Fuggì la luce di ramo in ramo,
ma non destò l'addormentato.
Odorava di canna la coperta,
erano caduti i machetes
nel punto più scontroso della siesta,
e sull'insegna spelacchiata
delle osterie il bracciante scalzo
sputava la sua spavalda
e illusa indipendenza.
Il dottor Francia
II Paraná nelle zone intricate,
umide, palpitanti d'altri fiumi
dove la rete dell'acqua, Yabebiri,
Acaray, Igurey, gioie gemelle
tinte di quebracho, circondate
dalle spesse fronde del coppale,
scorre verso le lenzuola atlantiche
trascinandosi dietro il delirio
del nazaret violaceo, le radici
del curupay nel suo sogno sabbioso.
Dalla calda fanghiglia, dai troni
dello yacaré divoratore, attraverso
la pestilenza silvestre,
passò il dottor Rodriguez de Francia,
diretto al gran seggio del Paraguay.
E visse tra i rosoni
delle rosate costruzioni in pietra
come una statua sordida e cesarea
coperta dai veli del sinistro ragno.
Solitaria grandezza nel salone
pieno di specchi, spauracchio
nero sopra la felpa rossa
e per i topi atterriti nella notte.
Falsa colonna, perversa
accademia, agnosticismo
da re lebbroso, circondato
dalle distese delle piantagioni,
sempre a bere numeri platonici
sulla forca del condannato,
a contare triangoli di stelle,
a misurare codici stellari,
e a guatare l'aranciato
imbrunire del Paraguay
con un orologio sull'agonia
del fucilato nella sua finestra,
con una mano sul catenaccio
del crepuscolo ammanettato,
Rosas (1829-1849)
Gli studi sullo scrittoio,
gli occhi sopra lo sperone
del firmamento, sui capovolti
cristalli della geometria,
mentre il sangue intestinale
dell'uomo ucciso a calci di fucile
colava lungo i gradini,
succhiato da verdi sciami
di mosche che scintillavano.
Chiuse il Paraguay come un nido
della propria maestà, legò con corde
tortura e fango alle frontiere.
E quando nelle vie passa
la sua figura, gli indios volgono
lo sguardo verso i muri:
la sua ombra scivola e lascia
due pareti di brividi.
E quando la morte visita
il dottor Francia, questi è muto,
immobile, chiuso in se stesso,
solo nel suo covo, trattenuto
dalle corde della paralisi,
così muore solo, senza nessuno
nella sua stanza: perché nessuno
osa toccare la porta del padrone.
E legato dai suoi serpenti,
la lingua impedita, cotto nel suo midollo,
agonizza e muore perduto
nella solitudine del Palazzo,
mentre la notte, assestata
come una cattedra, divora
i nefandi capitelli
tutti spruzzati dal martirio.
Arduo è vedere nel fondo della terra
(non del tempo che alza la sua cappa trasparente
illuminando l'alta sintesi della rugiada),
ma la terra, spessa di farine e di rancori,
magazzino indurito di morti e di metalli,
non mi lascia guardare nei suoi abissi
dove l'intricata solitudine mi scaccia.
Ma parlerò con loro, con i miei, che un giorno
vennero alla mia bandiera, quando nel suo ordito
la purezza era stella di cristallo.
Sarmiento, Alberdi, Oro, Del Carril:
la mia patria pura, poi disonorata,
serbò per voi la luce
della sua metallica strettezza
e tra poveri e agricoli mattoni
gli esuli e proscritti pensieri
s'ordirono di dura miniera,
e aculei di zucchero vignaiolo.
Li sparse il Cile nella sua fortezza,
gli diede il sale del suo cerchio marino,
e propagò i semi dell'esilio.
E frattanto il galoppo nella pianura.
La vera si spezzò sopra le fibre
della chioma celeste,
e la pampa morse le ferrature
delle bestie madide e frenetiche.
Pugnali, sghignazzate di pannocchia
sopra il martirio. Luna incoronata
da fiume a fiume sopra la bianchezza
con un pennacchio d'ombra indicibile!
E saccheggiata a calci di fucile
l'Argentina nei vapori dell'alba,
ferita a sangue e alla follia, svuotata,
e cavalcata da rudi campieri!
Di vigne rosse fosti processione,
una maschera, un tremore sigillato,
e ti sostituirono nell'aria
con una mano tragica di cera.
Uscì da te una notte, corridoi,
lastre di pietra annerita, scalee
dove ogni suono sprofondò, crocicchi
di carnevale, con morti e buffoni,
e un silenzio di palpebre che cade
Sopra tutti gli occhi della notte.
Dove fuggirono i tuoi grani spumosi?
Il tuo garbo agreste, la tua bocca estesa,
tutto ciò che si muove nelle tue corde
per cantare, il tuo cuoio trepidante
di gran tamburo, di stella sconfinata,
ammutirono sotto l'implacabile
solitudine della cupola chiusa.
Pianeta, latitudine, potente chiarezza,
ai tuoi bordi, nella cinta di neve spartita
si raccolse il silenzio notturno che arrivava
a cavallo d'un mare vorticoso,
e onda su onda l'acqua nuda raccontava,
il vento grigio tremando scatenava sabbia,
e la notte ci feriva col suo pianto di steppa.
Ma il popolo e il grano si mescolarono: e allora
s'allisciò la testa terrestre, si pettinarono
le fibre interrate della luce, l'agonia
provò le porte libere, distrutte dal vento,
e dal polverone delle strade, a una a una,
le dignità sommerse, le scuole, le intelligenze,
i volti, dalla polvere uscirono e s'alzarono
fino a diventare unità stellate,
statue della luce, pure praterie.
Ecuador
Spara, Tunguragua, olio rosso,
Sangay cospargi miele
ardente sopra la neve,
Imbabura dalle tue alte
chiese nevose getta
pesci e piante, rami duri,
dell'infinito inaccessibile,
e verso le lande, ramata
luna, edificazione crepitante,
lascia cadere le tue cicatrici
come vene sopra l'Antisana,
nella rugosa solitudine
di Pumachaca, nella solfurica
solennità di Pambamarca,
vulcano e luna, freddo e quarzo,
fiamme glaciali, movimento
di catastrofi, vaporoso
e flagellato patrimonio.
Ecuador, Ecuador, coda violetta
d'un astro assente, nella variopinta
folla di popoli che ti coprono
con infinita pelle di frutteria,
s'aggira la morte col suo imbuto,
arde la febbre nei poveri borghi,
e la fame è un aratro
d'aspre punte nella terra,
e la misericordia ti colpisce
il petto con tonache e conventi,
come una malattia inumidita
nelle fermentazioni delle lacrime.
García Moreno
Da lì sorse il tiranno.
García Moreno è il suo nome.
Sciacallo guantato, paziente
pipistrello di sacrestia,
raccoglie cenere e tortura
nel suo cappello di seta,
e ficca le unghie nel sangue
dei fiumi equatoriali.
I piccoli piedi infilati
negli scarpini di vernice,
con segni di croce, incerato
sui tappeti dell'altare,
le code del frac immerse
in acque di processione,
egli balla nel delitto
tra spoglie di fucilati,
squarcia il petto dei morti,
ne porta in giro le ossa
volando sulle bare, vestito
con piume di malaugurio.
Nei paesi d'indios, il sangue
si versa ovunque, la paura
e ombre in tutte le vie
(sotto le campane c'è paura
che suona e sale nella notte),
e pesano su Quito le grosse
pareti dei monasteri,
ritte, immote, impenetrabili.
Tutto dorme con i rosoni
d'oro ossidato nelle cornici,
gli angeli dormono appesi
ai loro sacri attaccapanni,
tutto dorme come un velo
sacerdotale, tutto soffre
sotto la notte membranosa.
Ma non dorme la ferocia.
La ferocia dai baffi bianchi
va in giro con guanti e grinfie
e inchioda oscuri cuori
sull'inferriata del potere.
Finché un giorno entra la luce
come un pugnale nel Palazzo,
apre il panciotto e affonda un raggio
nello sparato immacolato.
Così uscì ancora dal Palazzo
García Morene volando
a ispezionare i sepolcri,
tenacemente funebre,
ma questa volta cadde al fondo
dei massacri, finché si fermò,
tra le vittime anonime,
nell'umidità dell'obitorio.
I mostri d'America
Centro America infestata dai gufi,
unta d'acri sudori, prima d'entrare
nel tuo gelsomino bruciato
considerami fibra del tuo naviglio,
ala dei tuoi legni combattuti
dalla spuma gemella,
ed empimi di sconvolgente aroma
polline e piuma del tuo albero,
sponde germinali delle tue acque,
linee arricciate del tuo nido.
Ma i mostri infami uccidono i metalli
della rinascita, chiudono le porte
e rendono tetra la dimora
degli uccelli affascinanti.
Estrada Viene magari Estrada, piccoletto,
nella sua marsina d'antico nano
e tra una tosse e l'altra i muri
del Guatemala fermentano
continuamente irrigati
da lacrime e da orine.
Ubico Oppure è Ubico che, pei sentieri,
attraversa le caserme
in motocicletta, freddo
come una pietra, mascherone
della gerarchia del terrore.
Gómez Gómez, cuore del Venezuela,
sommerge lentamente volti,
intelligenze, nel suo gorgo.
L'uomo cade di notte là dentro
agitando le braccia, coprendosi
il viso ai colpi crudeli,
ed è ingoiato da pantani,
sprofonda in cave sotterranee,
riappare in strade lontane
scavando gravato di ferro,
fino a morire squartato,
dissipato, distrutto.
Machado A Cuba Machado sferzò l’Iisola
con macchine, importò torture
fabbricate negli Stati Uniti,
sibilarono le mitragliatrici
distruggendo l'esuberante verde,
il nettare marino di Cuba,
e lo studente appena ferito
veniva gettato nell'acqua
dove i pescecani compivano
l'opera del benemerito.
Fino in Messico arrivò la mano
dell'assassino, che abbatté Mella
come un discobolo sanguinante
in mezzo alla via delittuosa
mentre l'Isola bruciava, azzurra,
piena di fogli di lotteria
e d'ipoteche sullo zucchero.
Melgarejo Tra le sue pareti la Bolivia
muore come un fiore rarefatto:
s'impettiscono sulle monture
i generali sconfitti
e rompono il cielo a pistolettate.
Maschera di Melgarejo,
bestia ubriaca, saliva e schiuma
di minerali a tradimento,
barba d'infamia, barba d'orrore
sopra le montagne dell'odio,
barba trascinata nel delirio,
barba macchiata di coaguli,
barba scoperta negli incubi
della cancrena, barba errante
galoppata dai bovari,
prodiga d'adulteri nei saloni,
mentre l'indio e la sua soma corrono
l'ultimo lenzuolo d'ossigeno
al piccolo trotto nei corridoi
dissanguati della miseria.
Bolivia (22 marzo 1865)
Belzu ha vinto. È notte. La Paz brucia
con gli ultimi spari. Polvere secca
e ballo triste verso la montagna
salgono intrecciati con alcool lunare
e orrenda porpora ancora stillante.
Melgarejo è caduto, la sua testa
batte contro il filo minerale
della vetta insanguinata,
i cordoni dorati, la casacca
tessuta in oro, la camicia
rotta inzuppata di sudore perverso,
giacciono presso i resti del cavallo
e le cervella dell'ultimo fucilato.
E Belzu a Corte, in mezzo ai guanti
e agli stiffelius, riceve sorrisi,
si spartisce il dominio dell'oscuro
popolo sul monte alcolizzato,
i nuovi favoriti scivolano
nei saloni lustrati a cera
e le luci di lacrime e lampade
cadono sul velluto scomposto
da qualche vampa isolata.
In mezzo alla folla passa
Melgarejo, tempestoso spettro
appena sostenuto dalla furia.
Spia il luogo che già era suo,
la massa rintontita, il grido
dilacerato, il fuoco del rogo
alto sopra i monti, la finestra
del nuovo vincitore.
La sua vita .
(brano di forza cieca e melodramma
errante tra crateri e altipiani,
sogno di reggimento, ove le uniformi
si riversano su terre indifese
con spade di cartone, ma con ferite
che insudiciano, con morte reale
e gente sgozzata, le piazze dei borghi,
lasciando dietro il coro mascherato
e i discorsi dell'Eminentissimo,
sterco di cavalli, seta, sangue,
e i morti di turno, rigidi e pesti,
scorsi dal crepitio assordante
della fucileria vorticosa)
è caduta nel fondo della polvere,
nel più fondo del disprezzo e del vuoto,
e di una imprecisa morte inondata
d'umiliazione, e però dalla sconfitta
come un toro superbo trae le fauci,
da zampate alle metalliche arene
e spinge il bestiale passo vacillante
il minotauro boliviano alla volta
delle sale dell'oro clamoroso.
In mezzo alla folla s'avvia tagliando
la massa senza nome, s'arrampica
pesantemente sul trono usurpato,
e assalta il capo vincitore. Crolla
Belzu, lordo lo sparato, rotto il vetro
che cade spargendo luce liquida,
bucherellato il petto per l'eterno,
mentre l'assalitore solitario
bufalo insanguinato dall'incendio
al balcone appoggia la sua figura,
gridando: «E morto Belzu», «Chi vive?»,
«Rispondete». E dalla piazza
rauco un grido di terra, un grido nero
di panico e d'orrore, risponde: «Viva,
sì, Melgarejo, viva Melgarejo»,
ed è la stessa folla del morto, quella
che festeggiò il cadavere quasi esangue
sulle scale del Palazzo: «Evviva»,
grida il fantoccio colossale, che copre
tutto il balcone con panni strappati,
fango d'accampamento e sangue sporco.
Martínez (1932) Martínez, il ciarlatano
del Salvador, spaccia flaconi
di medicine multicolori,
che i ministri ricevono
con inchini e salamelecchi.
Lo stregoncino vegetariano
vive e fa ricette a Palazzo
mentre la fame tormentosa
ulula in mezzo ai canneti.
Martínez allora decreta:
e in pochi giorni ventimila
contadini assassinati
marciscono nei villaggi
che Martínez manda a incendiare
con ordinanze d'igiene.
Di nuovo a Palazzo, torna
ai suoi sciroppi, e riceve
le rapide felicitazioni
dell'Ambasciatore statunitense.
«Ora è al sicuro - gli dice -
la cultura occidentale,
il cristianesimo dell'occidente
ed anche i buoni affari,
le concessioni di banane
e i controlli doganali».
E bevono insieme un lungo
calice di champagne, mentre cade
la pioggia calda sui putridi
cumuli dell'ossario.
Le satrapie Trujillo, Somoza, Carías,
fino ad oggi, fino a quest'amaro
mese di settembre
dell'anno 1948,
con Moriñigo (o Natalicio)
nel Paraguay, iene voraci
della nostra storia, roditori
delle bandiere conquistate
con tanto sangue e tanto fuoco,
appozzati nelle loro proprietà,
depredatori infernali,
satrapi mille volte venduti
e venditori, aizzati
dai lupi di New York.
Macchine affamate di dollari,
macchiate nel sacrificio
dei loro popoli martirizzati,
mercanti prostituiti
del pane e dell'aria d'America,
carnefici fangosi, branco
di capoccia postribolari,
senz'altra legge che la tortura
e la fame sferzante del popolo.
Dottori «honoris causa»
della Columbia University,
con la toga sopra le fauci
e sopra il coltello, feroci
transumanti del Waldorf Astoria
e delle celle maledette
dove marciscono gli anni
eterni del carcerato.
Piccoli avvoltoi ricevuti
da Mr. Truman, carichi
d'orologi, decorati
con «Loyalty», dissanguatori
di patrie, c'è uno solo
peggio di voi, c'è uno solo e questo
l'ha dato un giorno il mio paese
per la disdetta del mio popolo.
II
Le oligarchie
NON ERANO ancora asciutte le bandiere,
ancora non dormivano i soldati
quando la libertà cambiò vestito,
si trasformò in tenuta:
dalle terre da poco seminate
spuntò una casta, una combutta
di nuovi ricchi con stemma,
con polizia e prigioni.
Tracciarono una linea nera:
«Di qua noi, porfiristi
del Messico, caballeros
del Cile, bellimbusti
del Jockey Club di Buenos Aires,
agghindati filibustieri
dell'Uruguay, zerbinotti
dell'Ecuador, señoritos
clericali d'ogni paese».
«E di là voi, plebei, meticci,
paria del Messico, gauchos,
assiepati dentro porcili,
poveracci, vagabondi,
straccioni, pidocchiosi, canaglia,
miserabili, disgraziati,
sudici, oziosi, popolo».
Tutto si costruì su quella linea.
L'Arcivescovo battezzò quel muro
ed espresse sferzanti anatemi
contro il ribelle che rifiutava
la divisione di casta.
Per mano del boia bruciarono
i libri di Bilbao.
Il poliziotto
vigilò la muraglia, e l'affamato
che si avvicinò ai marmi sacri
fu preso a bastonate sulla testa,
fu legato ai suoi ceppi campestri
o a pedate fu fatto soldato.
Si sentirono tranquilli e sicuri.
Il popolo se ne andò per vie e campi
a vivere ammucchiato, senza finestre,
senza terra, senza camicia,
senza scuole e senza pane.
Nella nostra America vaga un fantasma
nutrito di detriti, illetterato,
errante, e uguale in ogni nostra zona,
uscito dalle carceri fangose,
confinato nei sobborghi e profugo,
marcato dal temibile compatriota
pieno di abiti, ordini e distintivi.
In Messico proprio per lui crearono
il pulque, in Cile
vino infesto di color violetto,
lo avvelenarono, gli raschiarono
l'anima brandello per brandello,
gli negarono il libro e la luce,
finché cadde polverizzato,
ridotto alle soffitte dalla tisi,
e allora non ebbe esequie
liturgiche: la sua cerimonia
fu di metterlo nudo tra altre
carogne che non hanno nome.
Promulgazione della Legge dell'Imbuto
Essi si dichiararono patrioti.
Si decorarono nei club
e s'accinsero a scrivere la storia.
I Parlamenti si riempirono
di fasto, ed essi si spartirono
subito la terra, la legge,
le vie migliori, l'aria,
le scarpe, l'Università.
La loro straordinaria iniziativa
fu lo Stato, eretto su questa
forma: la rigida impostura.
Ne discussero, come sempre,
con solennità e banchetti,
prima nei circoli agrari,
con militari e avvocati.
E alla fine portarono al Congresso
la Legge suprema, la famosa,
la rispettata, l'intangibile
Legge dell'Imbuto.
E fu approvata.
Per il ricco la buona tavola.
L'immondizie per i poveri.
Il denaro per i ricchi.
Per i poveri il lavoro.
Per i ricchi la bella casa.
Il tugurio per i poveri.
L'immunità per il ladro in grande.
Il carcere a chi ruba un pane.
Parigi, Parigi per i figli di papà
Il povero in miniera, nel deserto.
Il signor Rodríguez de la Crota
parlò in Senato con voce
melliflua ed elegante.
«Questa legge stabilisce
la gerarchla obbligatoria
e soprattutto i principi
della Cristianità.
Ed era
necessaria come l'acqua.
Solo i comunisti, venuti,
com'è noto, dall'inferno,
osano contestare la norma
dell'Imbuto, saggia e severa.
Ma quest'opposizione asiatica,
sorta tra gli inferiori, è facile
sopprimerla: tutti in carcere,
e in campo di concentramento,
così solo resteremo
noi veri galantuomini,
con i docili yanaconas
del Partito Radicale».
Scoppiarono gli applausi
dai banchi aristocratici:
che eloquenza, com'è spirituale,
che filosofo, che luminare!
E ognuno corse a riempirsi
le tasche nei propri affari,
questi accaparrando il latte,
quello speculando sul fil di ferro,
un altro rubando sullo zucchero
e tutti chiamandosi a gran voce
patrioti, in base al monopolio
del patriottismo, fissato anch'esso
nella Legge dell'Imbuto.
Elezioni a Chimbarongo (1947)
Tempo fa, a Chimbarongo, in Cile,
andai a un'elezione pel Senato.
E vidi come venivano eletti
i pilastri della patria.
Alle undici di mattina
giunsero dai campi i carretti
rimpinzati di braccianti.
Era d'inverno, e bagnati,
sudici, affamati, scalzi,
i servi di Chimbarongo
scendono dai carretti.
Torvi, riarsi, stracciati,
vengono ammucchiati e condotti
con una scheda in mano,
e sorvegliati e pigiati
vanno a prendere la paga,
e ancora una volta ai carretti
in fila come cavalli
li hanno portati.
Più tardi
gli hanno gettato carne e vino
fino a lasciarli bestialmente
avviliti e dimenticati.
Poi ascoltai il discorso
del senatore così eletto:
«Noi, patrioti cristiani,
noi, difensori dell'ordine,
noi, figli dello spirito».
E tremava la sua pancia,
la sua voce di vacca avvinazzata
che sembrava sbattere
come una tromba di mammuth
sulle volte tenebrose
della sibilante preistoria.
La crema
Sinistri, falsi nobilotti
di nostra America, mammiferi
da poco imbalsamati, giovani
sterili, asini cocciuti,
possidenti perniciosi, eroi
delle sbornie nel Circolo,
rapinatori di banca e borsa,
snob d'Argentina, Brasile e Cile,
leggiadre tigri d'ambasciata,
pallide fanciulle del bei mondo,
fiori carnivori, vivai
delle caverne profumate,
rampicanti che succhiano
sangue, escremento e sudore,
liane strangolatrici,
catene di boa feudali.
Mentre tremavano le praterie
con il galoppo di Bolívar,
o di O'Higgins (soldati poveri,
popolo oppresso, eroi senza scarpe),
voi riforniste i ranghi
del re, del pozzo clericale,
del tradimento alle bandiere,
ma quando il vento superbo
del popolo, agitando le lance,
ci lasciò la patria tra le braccia,
veniste fuori a cintare terre,
misurare steccati, accumulare
aree ed anime, collocare
la polizia e gli spacci.
Il popolo tornò dalle guerre,
s'immerse nelle miniere,
nel fondo oscuro dei recinti,
cadde sui solchi pietrosi,
mosse le fabbriche unte di grasso,
procreando nelle case-alveari,
nelle stanzucce gremite,
con altri esseri sventurati.
Naufragò nel vino fino a perdersi,
abbandonato, ed invaso
da un esercito di pidocchi
e di vampiri, circondato
da muri e commissariati,
senza pane, senza musica,
giù nel suo deserto sconquassato
dove Orfeo gli lascia appena
una chitarra per la sua anima
una chitarra che si copre
di nastri e lacerazioni,
e canta al di sopra delle genti
come l'uccello della miseria.
I poeti celesti
Cosa avete fatto gidiani,
intellettualisti, rilkiani,
esoteristi, falsi stregoni
esistenziali, papaveri
surrealisti tutti eccitati
su una tomba, cadaveri
delle mode all'europea,
pallidi vermi del formaggio
capitalista, cosa avete fatto
di fronte al regno dell'angoscia,
a questo oscuro essere umano,
a questa dignità vilipesa,
a questa testa sprofondata
nello stereo, a questa essenza
d'aspre vite calpestate?
Niente, soltanto la fuga:
vendeste detrito ammucchiato,
cercaste capelli celesti,
piante vili, unghie rotte,
«Bellezza pura», «sortilegio»,
opera di poveri atterriti
per distogliere gli occhi,
per imbrogliare le delicate
pupille, per sopravvivere
col piatto dei resti sudici
che v'hanno gettato i signori,
senza veder la pietra in agonia,
senza difendere, senza conquistare,
più ciechi delle corone
del cimitero, quando cade
la pioggia sopra gli immoti
fiori marciti delle tombe.
Gli sfruttatori
Così venne divorata,
negata, sottomessa, graffiata, predata,
giovane America, la tua esistenza.
Dagli alti dirupi della collera
dove il caudillo pestò ceneri
e sorrisi da poco abbattuti,
fino alle maschere patriarcali
dei baffuti signori che al banchetto
dal posto d'onore impartirono
benedizioni a tutti i presenti,
e nascosero i loro veri volti
d'ignota e tetra sazietà,
di torbida concupiscenza
e di bramose cavità:
fauna di freddi maldicenti
della città, tremende tigri,
divoratori di carne umana,
esperti nella persecuzione
del popolo sprofondato nel buio,
abbandonato agli angoli delle vie,
nei sotterranei della terra.
Gli affaristi
Tra i miasmi bovarici
o cartacei o beverecci
visse il prodotto azzurro, il petalo
del marciume superbioso.
Fu il «siútico» cileno, il Raúl
Aldunatillo (conquistatore
di riviste con mani altrui,
con mani assassine d'indios),
il Tenente triviale, il Maggiore
Affare, colui che compra
cultura e si crede colto, compra
sciabola e si crede soldato,
ma non può comprare purezza
e allora sputa come vipera.
Povera America rivenduta
in tutti i mercati del sangue,
dai rampolli non ancora formati
che rispuntano nel salotto
di Santiago, di Minas Geraes
facendo «eleganza», cagneschi
presuntuoselli da «boudoir»,
ruffiani inutili, bastoni
da golf buoni per sepoltura.
Povera America, travestita
da effimeri elegantoni,
falsificatori di volti,
mentre, in basso, il vento nero
ferisce il cuore prostrato
e crolla l'eroe del carbone
verso l'ossario dei poveri,
spazzato dalla pestilenza,
coperto dall'oscurità,
lasciando sette figli affamati
che getteranno sul lastrico.
I favoriti
Dal grosso formaggio violaceo
della tirannia ecco spunta
un altro verme: il favorito.
È il pusillanime sempre pronto,
all'elogio delle mani sporche.
È oratore o giornalista.
Compare d'improvviso a corte,
e mastica con entusiasmo
le deiezioni del sovrano,
elucubrando lungamente
sopra i suoi gesti, intorbidando
l'acqua e pescando i suoi pesci
nella laguna purulenta.
Chiamiamolo Darío Poblete,
o Jorge Delano «Coke».
(È uguale: potrebbe chiamarsi
in altro modo, ci fu anche quando
Machado calunniava Mella,
dopo averlo assassinato.)
Allora Poblete avrebbe scritto
sopra gli «Abietti nemici»
del «Pericle dell'Avana».
Più tardi Poblete baciava
gli zoccoli di Trujillo,
i finimenti di Moriñigo,
l'ano di Gabriel González.
Ieri era uguale, da poco uscito
dal brigantaggio, comprato
per mentire, per nascondere
esecuzioni e saccheggi,
di com'è oggi, che alza la vile
penna sopra le torture
di Pisagua, sopra il dolore
di migliaia d'uomini e donne.
Sempre il tiranno nella nera
nostra geografia martirizzata
trovò un saputello fangoso
che diffondesse la menzogna
e dicesse: Il Serenissimo,
il Costruttore, il Gran Statista
che ci governa, e allungasse
in mezzo all'inchiostro prezzolato
i suoi neri artigli di furfante.
Quando il formaggio è consumato
e il tiranno sprofonda all'inferno,
il Poblete scomparisce,
il Delano «Coke» s'eclissa,
il verme torna nello sterco,
aspettando la ruota infame
che espelle e porta tirannie,
per riapparire sorridente
con un nuovo discorso scritto
per il despota in arrivo.
Per questo, popolo, anzitutto
cerca il verme, sbudellalo,
e fa che il suo liquido schiacciato,
la sua oscura materia viscosa
sia l'ultimo documento,
il commiato d'un inchiostro
che cancelleremo dalla terra.
Gli avvocati del dollaro
Inferno americano, pane nostro
intinto nel veleno, c'è un'altra
lingua nel tuo perfido falò:
è l'avvocato creolo
della compagnia straniera.
È colui che rinsalda i ceppi
della schiavitù nel suo paese,
e disdegnoso va in giro
con la casta dei gerenti,
guardando con aria superiore
le nostre bandiere stracciate.
Quando arrivano da New York
le avanguardie imperiali,
ingegneri, calcolatori,
agrimensori, periti,
e misurano terra conquistata,
stagno, petrolio, banane,
nitrato, rame, manganese,
zucchero, ferro, gomma, terra,
si fa avanti un nano scuro,
con un sorriso tutto giallo,
e consiglia, con gran garbo,
agli invasori recenti:
Non occorre pagar tanto
questi indigeni, sarebbe
sciocco, signori, aumentare
questi solari. Non conviene.
Questi plebei, questi meticci
solo saprebbero ubriacarsi
con tanti soldi. No, per Dio.
Sono primitivi, poco più
che bestie, li conosco bene.
No, non pagateli tanto.
Viene adottato. Gli mettono
una livrea. Veste da «gringo»,
sputa come un «gringo». Balla
come un «gringo», e fa carriera.
Possiede un'auto, whisky, stampa:
lo eleggono giudice e deputato,
lo decorano, ed è Ministro,
ed è ascoltato nel Governo.
Sa lui chi è corruttibile.
Sa lui chi è già corrotto.
Lui lecca, unge, e decora,
elogia, sorride, e minaccia.
E così svuotano nei porti
le repubbliche dissanguate.
Dove abita, chiederete,
questo virus, quest'avvocato,
questo fermento dell'immondizie,
questo duro pidocchio sanguinario,
ingrassato col nostro sangue?
Abita nelle basse zone
equatoriali, nel Brasile,
ma la sua dimora è pure
nel cerchio centrale d'America.
Lo troverete nelle impervie
alture di Chuquicamata.
Dove fiuta ricchezza sale
sui monti, supera gli abissi,
con le ricette del suo codice
per derubare terra nostra.
Lo troverete a Puerto Limón,
a Ciudad Trujillo, a Iquique,
a Caracas, a Maracaibo,
ad Antofagasta, in Honduras,
a imprigionare il nostro fratello,
ad accusare il suo compatriota,
a spogliare peones, aprire
porte di giudici e possidenti,
comprare la stampa, guidare
la polizia, il randello, il fucile,
contro la sua famiglia dimenticata.
Pavoneggiarsi, vestito
in smoking, nei ricevimenti,
inaugurare monumenti
con queste frasi: Signori,
la Patria conta più della vita,
è nostra madre, è nostra terra,
difendiamo l'ordine, fondiamo
nuove caserme, altre prigioni.
E muore glorioso, «il patriota»
senatore, patrizio, eccellenza,
con decorazioni del Papa,
illustre, prospero, temuto,
mentre la tragica progenie
dei nostri morti, che ficcarono
la mano nel rame, grattarono
la terra profonda e severa,
muoiono pestati e dimenticati,
in fretta in fretta riposti
nelle loro casse funerarie:
un nome, un numero sulla croce
che il vento scuote, uccidendo
persino la cifra degli eroi.
Diplomatici (1948)
Se lei nasce stolto in Romania
segue la carriera dello stolto,
se lei nasce stolto ad Avignone
la sua condizione è nota
alle vecchie pietre della Francia,
nelle scuole e tra i ragazzi
irrispettosi delle fattorie.
Ma se lei nasce stolto in Cile
presto la faranno ambasciatore.
Si chiami pure stolto Caio,
stolto Joaquín Fernández, stolto
Tizio del Tale, s'è possibile
si cresca una barbetta a pizzo.
È tutto ciò che le si chiede
per «intavolare negoziati».
Darà poi, saccente, informazioni
sulla sua spettacolare
presentazione di credenziali,
dicendo: Ecc., la carrozza,
ecc.. Sua Eccellenza, ecc;
frasi, ecc., benevole.
Assuma una voce grave e un
tono di vacca protettiva,
si scambi decorazioni
con l'inviato di Trujillo,
mantenga discretamente
una « garçonnière » («Lei sa,
come vanno trattate queste cose
per i Trattati dei Confini»),
trasmetta il fondo del giornale
più pedante, letto l'altrieri
a colazione: con qualche trucco
sarà un « rapporto » coi fiocchi.
Si leghi con quelli che sono «la cresta»
della «società», con gli sciocchi
di quel paese, acquisti quanta
argenteria potrà comprare,
parli negli anniversari
accanto ai cavalli di bronzo,
dicendo: Ehm, i legami,
ecc., ehm, ecc;
ehm, i discendenti,
ecc., la razza, ehm, il puro,
il sacrosanto, ehm, ecc.
E resti tranquillo tranquillo:
lei è un buon diplomatico
del Cile, lei è uno stolto
decorato e prodigioso.
I bordelli
Dalla prosperità nacque il bordello,
al seguito dello stendardo
dei biglietti ammonticchiati:
sentina rispettata
del capitale, stiva della nave
del mio tempo.
Furono i bordelli
meccanizzati nella chioma
di Buenos Aires, carne fresca
esportata per la sciagura
delle città e delle campagne
lontane, dove il denaro
spiò i passi dell'anfora
e imprigionò i convolvoli.
Bordelli campagnoli, la notte,
d'inverno, con i cavalli
alla porta dei villaggi
e le ragazze stordite
che caddero di locanda in locanda
nelle mani dei magnati.
Lenti postriboli provinciali
dove i possidenti del paese
- dittatori della vendemmia -
turbano la notte venerea
con rantoli terrificanti.
Nei cantoni, nascoste,
gregge di puttane, fantasmi
incostanti, passeggere
del treno mortale, v'hanno preso,
già siete nella rete corrotta,
più non potete tornare al mare,
già vi hanno visto e cacciato,
già siete morte nel vuoto
del più vivo della vita,
già potete far scorrere l'ombra
sui muri: da nessun'altra
parte se non verso la morte
vanno questi muri sulla terra.
Processione a Lima (1947)
Erano molti, portavano l'idolo
sopra le spalle, ed era densa
la coda della folla
come uno sbocco di mare
di violacea fosforescenza.
Saltavano e ballavano, levando
gravi mormoni masticati
che s'univano alle fritture
e al tetro rintocco dei tamburi.
Panciotti violetti, scarpe
violette, cappelli violetti
riempivano di macchie livide
i viali come un fiume
di malattie pustolose
che sfociava nelle vetrate
inutili della cattedrale.
Un che d'infinitamente lugubre
come l'incenso, come il fitto
assembramento delle piaghe
feriva gli occhi e si mescolava
alle fiamme afrodisiache
del compresso fiume umano.
Vidi l'obeso latifondista
che sudava sotto la cotta,
e si grattava le grosse gocce
di sacro sperma sulla nuca.
Vidi il cencioso lombrico
delle sterili montagne,
l'indio dal volto sperduto
dietro le anfore, il pastore
dei miti llama, le fanciulle
taglienti delle sagrestie,
gli insegnanti dei villaggi,
con visi azzurri e affamati.
Narcotizzati ballerini
dai camiciotti purpurei,
i negri pestavano i piedi
sopra invisibili tamburi.
E tutto il Perù si batteva
il petto guardando la statua
di una signora azzimata,
colore celeste e rosa,
che navigava sulle teste
nella sua barca caramellata
gonfia d'aria sudaticcia.
La Standard Oil Co.
Quando la trivella s'aprì il passo
verso gli abissi petrosi,
e affondò il suo intestino implacabile
nelle regioni sotterranee,
quando gli anni morti, gli occhi
delle epoche, le radici
delle piante incarcerate
e i sistemi squamosi
si fecero strati dell'acqua,
salì per i tubi il fuoco
scambiato in liquido freddo,
nella dogana delle alture,
all'uscita dal suo mondo
di profondità tenebrosa,
trovò un pallido ingegnere
e un titolo di proprietà.
Anche se le vie del petrolio
s'intrecciano, anche se le vene
cambiano posto silenziose
e muovono il loro dominio
proprio nei ventri della terra,
prima che lo zampillo scuota
il suo gran ramo di paraffina,
ecco che arriva la Standard Oil
con i suoi cartelli e le sue botti,
con i suoi assegni e i suoi fucili,
con i suoi governi e carcerati.
I suoi obesi imperatori
vivono a New York, sono dolci
e sorridenti assassini,
che comprano seta, nylon, sigari,
tirannelli e dittatori.
Comprano paesi, villaggi, mari,
polizie e deputazioni,
lontane regioni nelle quali
i poveri serbano il loro mais
come gli avari l'oro:
la Standard Oil li sveglia,
li mette in uniforme, e gli indica
qual è il fratello nemico,
e il paraguayo fa la sua guerra,
e il boliviano si distrugge
con la mitragliatrice nella selva.
Un presidente assassinato
per una goccia di petrolio,
un'ipoteca di milioni
d'ettari, una fucilazione
rapida in una mattina
mortale di luce, pietrificata,
un nuovo campo di carcerati
sovversivi, in Patagonia,
un tradimento, una sparatoria
sotto la luna del petrolio,
un cambio accorto di ministri
nella capitale, un rumore
come una marea d'olio,
e poi la zampata, e vedrai
come brillano, sopra le nubi,
sopra i mari, nella tua casa
le insegne della Standard Oil
che illuminano i loro regni.
La Anaconda Copper Mining Co.
Nome rattorto di serpente,
fauce insaziabile, mostro verde,
sulle colline aggruppate,
sulla sella rarefatta
del mio paese, sotto la luna
della durezza, scavatrice,
tu apri i crateri lunari
del minerale, le gallerie
del rame vergine, foderato
dalle sue sabbie di granito.
Ho visto bruciare nella notte eterna
di Chuquicamata, sull'alture,
il fuoco dei sacrifici,
la crepitazione straboccarne
del ciclope che divorava
la mano, il peso, la cintura
dei cileni, e li ravvolgeva
sotto le sue vertebre di rame,
li svuotava del sangue tiepido,
ne triturava gli scheletri
e li risputava sopra i monti
dei deserti desolati.
L'aria risuona nell'alture
di Chuquicamata stellata.
Gli scavatori annientano
con mani piccole d'uomo
la resistenza del pianeta,
trepida l'uccello solfureo
delle gole, si ribella
il ferreo freddo del metallo
con le sue ispide cicatrici,
e quando assordano le sirene
la terra ingoia una sfilata
d'uomini minuti che calano
nelle mandibole del cratere.
Sono piccoli capitani,
nipoti miei, figli miei,
e quando rovesciano i lingotti
verso i mari, e si puliscono
la fronte e tornano trepidanti
entro l'ultimo brivido,
il gran serpente li divora,
li rende piccoli, li tritura,
li copre di bava maligna,
li rigetta nelle strade,
li fa uccidere dalla polizia,
li fa marcire a Pisagua,
l'incarcera, li copre di sputi,
compra un Presidente traditore
che l'insulta e li perseguita,
li uccide per fame nelle pianure
della immensità sabbiosa.
E vi è una e un'altra croce contorta
sulle pendici infernali
ed è l'unica legna dispersa
dell'albero della miniera.
La United Fruit Co.
Appena squillò la tromba
tutto era pronto sulla terra,
e Geova divise il mondo
tra Coca-Cola Inc., Anaconda,
Ford Motors, e altre società:
la Compagnia United Fruit
si riservò la parte più succosa,
la costa centrale della mia terra,
la dolce cintura d'America.
Ribattezzò le sue terre
«Repubbliche Banane»,
e sopra i morti assopiti,
sopra gli inquieti eroi
che conquistarono la grandezza,
la libertà e le bandiere,
instaurò l'opera buffa:
alienò antichi diritti,
regalò corone imperiali,
sguainò l'invidia, e richiamò
la dittatura delle mosche,
mosche Trujillo, mosche Tacho,
mosche Carías, mosche Martínez,
mosche Ubico, mosche umide
d'umile sangue e marmellata,
mosche ubriache che ronzano
sopra le tombe popolari,
mosche da circo, sagge mosche
esperte in tirannia.
Tra le mosche sanguinarie
sbarca la Compagnia
stipando di caffè e frutta
le navi che scivolaron via
come vassoi con il tesoro
delle nostre terre sommerse.
Frattanto, entro gli abissi
pieni di zucchero dei porti,
cadevano indios sepolti
dal vapore del mattino:
rotola un corpo, una cosa
senza nome, un numero caduto,
un grappolo di frutta morta
finita nel letamaio.
Le terre e gli uomini
Vecchi latifondisti incrostati
nella terra come ossa
di spaventosi animali,
eredi superstiziosi
dell'encomienda, imperatori
d'una terra oscura, cintata
dall'odio e da siepi di spine.
Entro queste chiuse fu affogato
il polline dell'essere umano,
e il bambino sepolto vivo,
gli si negò pane e alfabeto,
gli si diede il marchio d'affittuario,
e la condanna a vita nel recinto.
Povero peón, sventurato
in mezzo ai rovi, incatenato
alla non esistenza, all'ombra
delle selvagge praterie.
Senza libro tu fosti carne inerme,
e quindi scheletro insensato,
comprato da una vita all'altra,
respinto nella porta bianca
senz'altro amore che una chitarra
straziante nella sua tristezza
e il ballo acceso a mala pena
come una raffica bagnata.
Ma non solo nei campi avvenne
la ferita dell'uomo. Più lungi,
più vicino, più a fondo l'inchiodarono:
nella città, non lontano dal Palazzo,
crebbe nei caseggiati lebbrosi,
pullulanti di lerciume,
con la loro infamante cancrena.
Ho visto negli aspri recessi
di Talcahuano, nel fangoso
ceneraio delle colline,
ribollire i petali immondi
della miseria, il miscuglio
delle anime degradate,
la pustola aperta nell'ombra
del crepuscolo sottomarino,
la cicatrice degli stracci,
e la sostanza invecchiata
dell'uomo irsuto e bastonato.
Sono entrato nelle case tetre
come tane di topi, umide
di salnitro e di sale marcio,
ho visto strisciare esseri
affamati, ombre sdentate
che cercavano di sorridermi
attraverso l'aria maledetta.
M'hanno trafitto i dolori
della mia gente, m'hanno impigliato
il cuore come reticolati:
m'hanno contratto l'anima:
sono uscito a urlare per le strade,
sono uscito a piangere nel fumo,
ho bussato alle porte e m'han ferito
come coltelli spinosi,
ho chiamato i volti impassibili
che prima adorai come stelle
e m'hanno mostrato il vuoto.
Allora mi son fatto soldato:
numero oscuro, reggimento,
ordine di puri combattenti,
sistema dell'intelligenza,
fibra del tempo innumerevole,
albero armato, indistruttibile
cammino dell'uomo sulla terra.
E ho visto quanti eravamo, quanti
erano accanto a me, non erano
nessuno, erano tutti gli uomini,
non avevano volto, erano popolo,
erano metallo, erano strade.
E ho camminato con gli stessi passi
della primavera nel mondo.
I mendicanti
Presso le cattedrali, allacciati
al muro, hanno lì trascinato
piedi, fagotti, sguardi neri,
livide escrescenze di mascheroni,
gavette cenciose di cibo,
e da lì, dalla rigida
santità della pietra,
si son fatti flora stradale, erranti
fiori delle pestilenze legali.
Il parco ha i suoi mendicanti
come i suoi alberi dai rami
e dalle radici torturate:
lo schiavo vive ai piedi del giardino,
fase estrema dell'uomo, ridotto a mondezza,
accettata la sua impura simmetria,
e pronto per la scopa della morte.
La carità lo seppellisce
nel suo buco di terra lebbrosa:
serve d'esempio all'uomo dei miei giorni.
Deve saper calpestare, affondare
la specie nei pantani del disprezzo,
mettere le scarpe sulla fronte
dell'essere con l'uniforme di vinto,
o per lo meno deve collocarlo
tra i prodotti della natura.
Mendicante d'America, figlio
del 1948, nipote
di chiese, io non ti venero,
non voglio ammantare con marmo antico
o barba di re la tua figura incisa,
come già ti giustificano nei libri,
io ti cancellerò con la speranza:
non entrerai nel mio amore organizzato,
non entrerai nel mio petto con i tuoi,
con quelli che crearono sputando
la tua forma degradata,
staccherò la tua argilla dalla terra
finché ti costruiscano i metalli
e tu sorga a brillare come spada.
Gli indios
L'indio fuggì dalla sua pelle al fondo
d'antica immensità da dove un giorno
sorse come le isole: sconfitto,
si tramutò in atmosfera invisibile,
lento s'aprì nella terra, spargendo
il suo segreto segno sulla sabbia.
Colui che sciupò la luna, o pettinò
l'arcana solitudine del mondo,
colui che non passò senza levarsi
in alte rocce coronate d'aria,
o durò come la luce celeste
sotto la vastità del suo albereto,
si consumò e si ridusse un filo,
si tramutò d'un tratto in rughe,
frantumò le sue torri torrenziali,
e ricevette il suo pacco di stracci.
Lo vidi sulle vette calamitate
di Amatitlán, a rodere le sponde
dell'acqua impenetrabile: andai un giorno
sopra la maestosità sconcertante
del monte boliviano, coi suoi resti
d'uccello e radice.
Vidi piangere
Alberti, mio fratello in delirante
poesia, dentro i recinti araucani,
quando lo attorniarono come Ercilla
ed erano, invece che quei rossi dèi,
una violacea catena di morti.
Più lungi, nella rete d'acqua irsuta
della Terra del Fuoco
li vidi salire, oh lupi, arruffati,
sulle sconquassate piroghe,
a mendicare il pane nell'Oceano.
Lì a poco a poco uccisero ogni fibra
dei loro desertici territori,
e il cacciatore d'indios riceveva
sporchi biglietti se portava teste
dei padroni dell'aria, dei signori
della nevosa solitudine antartica.
Quelli che pagarono tali delitti
sono oggi seduti al Parlamento,
registrano le nozze in Presidenza,
vivono con Cardinali e Imprenditori,
e sopra le gole accoltellate
dei padroni del Sud crescono fiori.
Ormai i pennacchi dell'Araucania
sono stati sbaragliati dal vino,
scarniti dagli empori di campagna,
anneriti dagli avvocati al servizio
della spoliazione del loro regno,
e quelli che fucilarono la terra,
quelli che nelle strade custodite
dallo sfolgorante gladiatore
della nostra stessa riva
sono entrati sparando e trafficando,
son stati detti «Pacificatori»
e decorati con molte spalline.
Così fu vinto senz'avvedersene,
e invisibile fu per l'indio il crollo
della sua stirpe: non vide stendardi,
non liberò la freccia insanguinata,
ma venne a poco a poco rosicchiato
da magistrati, ladri, possidenti,
tutti attinsero alla regale dolcezza,
tutti lo attrassero in morbide spire
finché lo gettarono a dissanguarsi
negli ultimi pantani d'America.
E dalle verdi lamine, dal cielo
innumerevole e puro del fogliame,
dall'immortale dimora costruita
con petali pesanti di granito,
fu condotto nella capanna rotta,
nell'arida fogna della miseria.
Dalla sua nudità folgorante,
dorati petti e pallida cintura,
o dai fregi minerali che aggiunsero
alla sua pelle tutta la rugiada,
lo portarono al filo dello straccio,
gli assegnarono pantaloni morti,
e così la sua maestà rattoppata
andò per l'aria del mondo che fu suo.
Fu commessa così questa tortura.
Il fatto fu invisibile come l'arrivo
del traditore, come un tenue cancro,
finché venne annientato il nostro padre,
finché lo ammaestrarono a fantasma,
ed entrò nell'unica porta a lui concessa:
quella d'altri poveri, quella di tutti
i poveri frustati della terra.
I giudici
Né in Nicaragua, o nell'alto Perù,
né lungo la Patagonia, o nelle città,
non hai avuto parola, non hai nulla:
calice di miseria, abbandonato
figlio delle Americhe, non esiste
legge, né giudice che ti protegga
la terra, la casetta col granturco.
Allorché venne la casta dei tuoi,
dei signori tuoi, già dimentichi
del sogno antico d'artigli e coltelli,
giunse la legge a svuotare il tuo cielo,
a strapparti le zolle adorate,
a piantar grane sull'acqua dei fiumi,
a derubarti il regno degli alberi.
Ti fecero ingiunzione, ti misero
timbri sulla camicia, t'imbottirono
il cuore di fogli e carta stampata,
ti seppellirono in freddi decreti,
e quando ti svegliasti alla frontiera
della più precipitosa sventura,
spoglio di tutto, solitario, errante,
t'imprigionarono, ti legarono,
t'ammanettarono perché a nuoto
non uscissi dall'acqua dei poveri,
ma t'affogassi agitandoti invano.
Il giudice benevolo ti legge
l'inciso Quattromila, comma Terzo,
lo stesso usato in tutta
la geografia azzurra già affrancata
da altri ch'eran come te e caddero,
e ti nomina, col suo codicillo
e senza più appello, cane rognoso.
Dice il tuo sangue: come intrecciarono
il ricco e la legge? Con quale ordito
di ferro e zolfo, e come a gradi
caddero i poveri nei tribunali?
Come divenne la terra sì amara
per i suoi poveri figli, aspramente
allattati con pietre e con dolori?
Così avvenne e così lo lascio scritto.
Me l'hanno impresso le vite sulla fronte.
III
I morti della piazza (28 gennaio 1946, Santiago del Cile)
IO NON VENGO a piangere qui dove caddero:
vengo a voi, accorro presso quelli che vivono.
Vengo a te e a me e batto sul tuo petto.
Altri caddero prima. Ricordi? Sì, ricordi.
Altri che ebbero lo stesso nome e cognome.
A San Gregorio, a Lonquimay piovoso,
a Ranquil, seminati dal vento,
a Iquique, sepolti nella sabbia,
in pieno mare e in pieno deserto,
in pieno fumo e in piena pioggia,
dalle pampas agli arcipelaghi
furono assassinati altri uomini,
altri che come te si chiamavano Antonio
e che erano come tè pescatori o fabbri:
carne del Cile, volti
cicatrizzati dal vento,
martirizzati dalla pampa,
firmati dalle sofferenze.
Io trovai lungo i muri della patria,
presso la neve e la sua cristalleria,
dietro il fiume tutto di rami verdi,
sotto il nitrato e sotto la spiga,
una goccia di sangue del mio popolo
e ogni goccia, come il fuoco, ardeva.
Le stragi
Ma allora il sangue occultato
dietro le radici, venne lavato
e negato
(fu così lontano), la pioggia del Sud lo cancellò dalla
terra (così lontano avvenne), il salnitro lo divorò nella pampa:
e la morte del popolo fu come sempre è stata:
come se non fosse morto nessuno e nulla,
come se fossero pietre a cadere
sopra la terra, o acqua sopra l'acqua.
Da Nord a Sud, dove triturarono
o bruciarono i morti,
furono nelle tenebre sepolti,
o nella notte bruciate in silenzio,
ammucchiate in un pozzo di miniera,
o sputate nel mare le loro ossa:
nessuno sa dove essi stanno ora,
non hanno tomba, sono disperse
nelle radici della patria
le loro dita martirizzate:
i loro cuori fucilati:
il sorriso dei cileni:
i valorosi della pampa:
i capitani del silenzio.
Nessuno sa dove seppellirono
gli assassini questi corpi,
ma essi usciranno dalla terra
a ricuperare il sangue caduto
per la resurrezione del popolo.
In mezzo alla piazza avvenne questo delitto.
Non nascose un cespuglio il sangue puro
del popolo, né l'ingoiò la sabbia della pampa.
Nessuno occultò questo delitto.
Questo delitto avvenne in mezzo alla patria.
Gli uomini del nitrato
Io ero nel salnitro, con gli oscuri eroi,
con chi estrae neve fertilizzante e fine
dalla corteccia dura del pianeta,
e strinsi con orgoglio le loro mani di terra.
Essi mi dissero: "Guarda,
fratello, come viviamo,
qui alla "Humberstone", qui alla "Mapocho",
alla “Riceventura”, alla “Palma”,
al “Pan de Azúcar”, e al “piojillo”.
E mi mostrarono le loro razioni
di miserabili alimenti,
l'impiantito di terra nelle case,
il sole, la polvere, le cimici,
e la solitudine immensa.
Io vidi il lavoro degli scavatori,
che lasciano stampata, nel manico
di legno della pala,
tutta l'impronta delle loro mani.
Io sentii una voce che veniva
giù dal fondo stretto del pozzo,
come da un utero infernale,
e poi di là vidi spuntare
una creatura senza volto,
una maschera polverosa
di sudore, di sangue e polvere.
E quella mi disse: "Dovunque vai,
parla pure di questi tormenti,
parla, fratello, del tuo fratello
che vive là sotto, nell'inferno".
La morte
Qui, popolo, volesti dare la mano
al perseguitato operaio della pampa, e l'uomo,
l'uomo chiamasti, la donna, il bambino,
ora è un anno, in questa Piazza.
E qui cadde il tuo sangue
Nel centro della patria fu versato,
davanti al palazzo, al centro della via,
perché lo vedesse tutto il mondo
e nessuno potesse cancellarlo,
e là rimasero le macchie rosse
come pianeti implacabili.
Fu quando mani e mani di cileni
distesero le dita sulla pampa,
e unità, a pieno cuore,
avrebbero espresso le loro parole:
fu quando andavi, popolo, a cantare
una vecchia canzone di pianto,
di speranza e di dolore:
venne allora la mano del boia
e bagnò di sangue la piazza!
Come nascono le bandiere
Finora son così le nostre bandiere.
II popolo le ricamò col suo affetto,
ne cucì i pezzi con la sua sofferenza.
La stella vi piantò con mano ardente.
E tagliò, da camicia o firmamento,
l'azzurro per la stella della patria.
E il rosso già nasceva goccia a goccia.
Li chiamo A uno a uno, gli parlerò questa sera.
A uno a uno, tornate alla memoria,
questa sera, in questa piazza.
Manuel Antonio Lóez,
compagno.
Lisboa Calderón,
altri ti tradirono, noi continuiamo la tua opera.
Alejandro Gutiérrez,
lo stendardo che cadde con te
ora si leva su tutta la terra.
César Tapia,
il tuo cuore è su queste bandiere,
palpita oggi al vento della piazza.
Filomeno Chávez,
non strinsi mai la tua mano, ma sta qui la tua mano:
è una mano pura che la morte non uccide.
Ramona Parra, giovane
stella lucente,
Ramona Parra, fragile eroina,
Ramona Parra, fiore insanguinato,
amica nostra, cuore valoroso,
ragazza esemplare, partigiana d'oro:
giuriamo sul tuo nome di continuare questa lotta
perché così fiorisca il tuo sangue sparso.
I nemici
Portarono qui i fucili carichi
e ordinarono la strage spietata:
trovarono qui un popolo che cantava,
un popolo raccolto per dovere e per amore,
e l'esile fanciulla cadde con la sua bandiera,
e il giovane sorridente rotolò accanto a lei ferito,
e lo stupore del popolo vide cadere i morti
con furia e con dolore.
Allora, sul posto
dove essi caddero assassinati,
si chinarono le bandiere per bagnarsi di sangue
e per rialzarsi poi di fronte agli assassini.
Per questi morti, i nostri morti,
chiedo castigo.
Per quelli che di sangue cosparsero la patria,
chiedo castigo.
Per il carnefice che comandò questa morte,
chiedo castigo.
Per il traditore che salì al potere sul delitto,
chiedo castigo.
Per colui che diede l'ordine dell'agonia,
chiedo castigo.
Per quelli che difesero questo delitto,
chiedo castigo.
Non voglio che mi diano la mano
intinta nel nostro sangue.
Chiedo castigo.
Non li voglio come ambasciatori,
e neppure a casa loro tranquilli,
li voglio vedere qui giudicati,
in questa piazza, in questo luogo.
Voglio castigo.
Sono qui
Devo chiamarli come se ancora fossero qui.
Fratelli: sappiate che la nostra lotta
continuerà sulla terra.
Continuerà nelle fabbriche, nei campi,
nelle strade e nelle cave di salnitro.
Nel cratere del rame verde e rosso,
nel carbone e nel suo orribile antro.
La nostra lotta sarà in ogni luogo,
e nel nostro cuore queste bandiere
che furono presenti alla vostra morte,
che si bagnarono del vostro sangue,
si moltiplicheranno come le foglie
dell'infinita primavera.
Sempre
Pur se i passi solcheranno per mill'anni questo luogo,
non cancelleranno il sangue di quelli che qui caddero.
E non si estinguerà l'ora in cui voi cadeste,
anche se mille voci attraverseranno questo silenzio.
La pioggia bagnerà le pietre della piazza,
ma non spegnerà i vostri nomi di fuoco.
Mille notti cadranno con le loro buie ali, senza
Distruggere il giorno che queste morti attendono.
Il giorno che in tutto il mondo noi aspettiamo
in tanti, il giorno finale dei patimenti.
Un giorno di giustizia conquistato nella lotta,
e voi, fratelli caduti, nel vostro silenzio,
sarete con noi in questo vasto giorno
della lotta finale, in questo giorno immenso.
IV
Cronaca del 1948 (America)
Mal anno, anno di topi, anno impuro!
Alta e metallica è la tua linea
sulle sponde dell'oceano
e dell'aria, come un reticolato
di tempeste e di tensione.
Ma, America, tu sei anche
notturna, azzurra e pantanosa:
palude e cielo, un'agonia
di cuori calpestati
come nere arance infrante
nel tuo silenzio di stiva.
Paraguay
Paraguay senza più freni!
A che è servita la luna pura
che illuminava le carte
della geometria dorata?
A che è servito il pensiero
ereditato dalle colonne
e dai numeri solenni?
A questo buco ottenebrato
di sangue marcito, a
questo fegato equinoziale
lacerato dalla morte.
A Morinigo che regna,
seduto sopra le prigioni
nella sua pozza di paraffina,
mentre le penne scarlatte
dei colibrì elettrici
volano e folgorano sopra
i poveri morti della selva.
Mal anno, anno di rose sfibrate,
anno di carabine, guarda, e sotto gli occhi
non t'accechi
l'alluminio dell'aereo, la musica
della sua velocità secca e sonora:
guarda il tuo pane, la tua terra, la tua folla sfinita,
la tua stirpe annientata!
La vedi questa valle
verde e cenere, dall'alto del cielo?
Pallida agricoltura, miniere
a brandelli, silenzio e pianto
come il grano che cade
e rinasce
in una eternità perversa.
Brasile
Brasile, il Dutra, lo spaventoso
pavone delle terre calde,
ingrassato dagli amari
rami dell'aria velenosa:
rospo delle nere paludi
della nostra luna americana:
bottoni dorati e occhietti
di topo grigio paonazzo:
oh, Signore, dagli intestini
della nostra povera madre affamata,
da tanti sogni e da tanti risplendenti
liberatori, da tanto
sudore sopra i buchi
della miniera, da tanta e tanta
solitudine nelle piantagioni,
America, tu innalzi d'un tratto
alla tua purezza planetaria
un Dutra cavato dal fondo
dei tuoi rettili, della tua sorda
profondità e preistoria.
E così fu!
Muratori
del Brasile, bussate alle frontiere,
pescatori, piangete di notte
sulle acque litorali,
mentre Dutra, con i suoi piccoli
occhi di porco selvatico,
rompe con l'ascia la tipografia,
brucia i libri sulle piazze,
imprigiona, perseguita e fustiga
fino a che cala il silenzio
sulla nostra notte tenebrosa.
Cuba
A Cuba si commettono assassini!
Hanno già chiuso Jesús Menéndez
in una bara appena comprata.
Sorse, come un re, dal popolo,
e andò scrutando le radici,
fermando i passanti,
battendo sul petto ai dormienti,
determinando le epoche,
sanando le anime rotte,
e sollevando lo zucchero
dai canneti insanguinati,
il sudore che marcisce le pietre,
e chiedendo nelle cucine
povere: chi sei?, cosa mangi?,
qui toccando un braccio, qui una ferita,
e accumulando questi silenzi
in una sola voce, la rauca
voce spezzata di Cuba.
Lo ha assassinato un capitano
o un generale da quattro soldi:
in un treno gli disse: vieni,
e alla schiena gli fece fuoco
quel pidocchio, perché tacesse
la rauca voce dei canneti.
America Centrale
Mal anno, vedi tu oltre la folta.
ombra dei tanti cespugli la cinta
della nostra geografia?
Un'onda infrange
come un favo le sue api azzurre
contro la costa, e volano i riflessi
del doppio mare sulla terra angusta...
Terra sottile come una frusta,
torrida come una tortura,
il tuo passo in Honduras, il tuo sangue
a Santo Domingo, di notte,
i tuoi occhi dal Nicaragua
mi toccano, mi chiamano, m'invocano,
e lungo la terra americana
busso alle porte per parlare,
tocco le lingue incatenate,
sollevo le tende, e affondo
la mano nel sangue:
Oh dolori
della terra mia, oh rantoli
del gran silenzio decretato,
oh popoli di lunga agonia,
oh cintura di tutti i singhiozzi!
Puerto Rico
Mr. Truman giunge all'isola
di Puerto Rico,
viene all'acqua
azzurra dei nostri mari puri
per lavarsi le dita insanguinate.
Ha da poco ordinato la morte
di duecento giovani greci,
le sue mitragliatrici vanno
alla perfezione,
ogni giorno
dietro suo ordine le teste
doriche - uva e oliva -,
occhi del mare antico, petali
della corolla corinzia,
cadono nella polvere greca.
Gli assassini
alzano la coppa
dolce di Cipro
con gli esperti nordamericani,
in mezzo a grosse risate,
e con i baffi grondanti
d'olio fritto e sangue greco.
Truman alle nostre acque arriva
per lavarsi le mani rosse
del sangue lontano. Intanto,
decreta, predica e sorride
all'Università, nella sua lingua,
chiude la bocca spagnola,
spegne la luce delle parole
che là circolarono come
un fiume di stirpe cristallina
e comanda: "Morte alla tua lingua,
Puerto Rico".
Grecia
(Il sangue greco
gronda a quest'ora. Fa giorno
sulle colline.
È un semplice
ruscello tra polvere e pietre:
i pastori pestano il sangue
d'altri pastori:
è un semplice
filo sottile che discende
dai monti fino al mare,
fino al mare che conosce e canta.)
...Alla tua terra, al tuo mare volgi gli occhi,
guarda, il candore dell'acqua e delle nevi
australi, costruisce il sole le uve,
brilla il deserto, il mare del Cile sorge
con la sua linea battuta...
Sono a Lota le fonde miniere
del carbone: è un gelido porto
del grave inverno australe, la pioggia
cade e cade sui tetti, ali
di gabbiani colore di nebbia,
e sotto il mare cupo l'uomo
scava e scava il recinto nero.
La vita dell'uomo è oscura
come il carbone, notte cenciosa,
misero pane, duro giorno.
Io per il mondo a lungo ho vagato,
ma per le strade o per le città
non ho mai veduto
maltrattare tanto gli uomini.
Dormono in dodici in una stanza.
Le case hanno tetti composti
di rimasugli senza nome:
frammenti di latta, pietre,
cartoni e carte bagnate.
Bambini e cani, nella nebbia
umida della stagione fredda,
si raggruppano per scaldarsi al fuoco
della povera vita che un giorno
sarà di nuovo fame e buio.
I tormenti
Ancora uno sciopero, le paghe
non bastano, le donne piangono
nelle cucine, i minatori
saldano a una a una le mani
e le sofferenze.
Scioperano
quelli che hanno scavato sotto il mare,
ricurvi nell'umida cava,
e hanno estratto con sangue e forza
la zolla nera delle miniere.
Stavolta son venuti i soldati.
La notte gli hanno demolito le case,
li hanno condotti in miniera
come in carcere, strappandogli
la povera farina messa da parte,
il chicco di riso dei figli.
Poi, picchiando sulle pareti,
li esiliarono, li umiliarono,
li rinchiusero, marcandoli
come animali, e nelle strade,
in un esodo di dolori,
i capitani del carbone
videro i loro figli cacciati,
le loro mogli oltraggiate
e i minatori a centinaia
trasferiti e incarcerati,
in Patagonia, nel freddo antartico,
o nei deserti di Pisagua.
Il traditore
E su tutte queste sventure
un tiranno che sorrideva
sputando sopra le speranze
dei minatori traditi.
Ogni popolo ha i suoi dolori,
ogni lotta ha i suoi tormenti,
ma volete venirmi a dire
se tra tutti i sanguinari,
se tra tutti gli scatenati
despoti, coronati d'odio,
con scettri di frusta verdi,
uno ci fu come quello del Cile?
Questo ha tradito e calpestato
le sue promesse e i suoi sorrisi,
dello schifo ha fatto il suo scettro,
e ha danzato sui dolori
del suo povero popolo ingiuriato.
E quando nelle prigioni piene
grazie ai suoi sleali decreti
s'accumularono occhi neri
d'umiliati e di offesi,
egli ballava a Viña del Mar
contornato di coppe e gioielli.
Ma gli occhi neri guardano
attraverso la notte nera.
E tu che hai fatto? Non la tua parola
venne pel fratello delle miniere,
per il dolore di tutti i traditi,
non giunse a te la sillaba di fuoco
per gridare e difendere il tuo popolo?
Io accuso
Accusai allora chi aveva
strangolato la speranza,
gridai verso ogni parte d'America
e posi il suo nome nel fondo
del disonore.
Delitti allora
mi rinfacciarono, la muta
dei venduti e dei prezzolati:
i "segretari di governo",
i poliziotti scrissero
col catrame il loro denso insulto
contro di me, ma anche i muri
guardavano quando i traditori
scrivevano a grandi caratteri
il mio nome, e la notte cassava,
con le sue mani innumerevoli,
mani del popolo e della notte,
l'ignominia che vanamente
vogliono gettare sul mio canto.
Andarono di notte a bruciare
la mia casa (ora il fuoco marca
il nome di chi li mandava),
e i giudici s'unirono tutti
per condannarmi, ricercandomi
per crucifiggere le mie parole
e punire queste verità.
Chiusero le cordigliere
del Cile perché non partissi
a dire ciò che qui accade,
e quando il Messico aprì le porte
per ricevermi e proteggermi,
Torres Bodet, misero poeta,
ordinò che mi si consegnasse
ai carcerieri furiosi.
Ma la mia parola è viva
e il mio libero cuore accusa.
Che avverrà, che avverrà? Nella notte
di Pisagua, il carcere, le catene,
il silenzio e la patria umiliata,
e quest'anno ingrato, di topi ciechi,
quest'anno ingrato d'ira e rancori,
cosa avverrà, domandi, mi domandi?
Il popolo vittorioso
II mio cuore è qui, in questa lotta.
La mia gente vincerà. Tutte le genti
una a una vinceranno.
Queste pene
si spremeranno come fazzoletti
per asciugarsi di tante lacrime
sparse sui pozzi e sulle tombe del deserto,
sopra i gradini del martirio umano.
Ma è vicino il tempo vittorioso.
Che serva l'odio perché non tremino
le mani del castigo,
e che l'ora
giunga precisa nell'istante puro,
e empia il popolo le vie vuote
con le sue fresche e ferme dimensioni.
Sta qui, per quell'ora, la mia dolcezza.
La conoscete. Non ho altra bandiera.
V
Gonzalez Videla il traditore del Cile (Epilogo) 1949
DALLE ANTICHE cordigliere sortirono i carnefici,
come ossa, come spine americane nell'irsuto
dorso
d'una genealogia di catastrofi: furono piantati,
incarniti nella miseria delle nostre popolazioni.
Ogni giorno il sangue macchiò i loro alamari.
Dalle cordigliere come bestiacce ossute
furon procreati dalla nostra argilla nera.
Quelli furono i sauri-tigre, i dinasti
glaciali,
da poco usciti dalle nostre caverne e dalle nostre
sconfitte.
Così disseppellirono i mascellari di Gómez
sotto le strade macchiate da cinquant'anni di
nostro sangue.
La bestia oscurava le terre con le sue costole
quando dopo le esecuzioni si arricciava i baffi
accanto all'Ambasciatore Nordamericano che gli serviva il tè.
I mostri avvilirono, ma non furono vili.
Ora
nell'angolo che la luce ha riservato alla purezza,
nella nevosa patria bianca d'Araucania,
un traditore sorride sopra un trono marcito.
Nella mia patria presiede la viltà.
E González Videla il topo che dimena
il suo pelame cosparso di sterco e di sangue
sopra la terra mia che ha venduto. Ogni giorno
estrae dalle sue tasche le monete rubate
e pensa se domani venderà territorio o sangue.
Tutto egli ha tradito.
Come un topo è salito sulle spalle del popolo
e da lì, rosicchiando la bandiera sacra
del mio paese, dimena la coda roditrice
dicendo al possidente, allo straniero, padrone
del sottosuolo cileno: "Bevete tutto il sangue
di questo popolo, io sono il maggiordomo
dei supplizi".
Triste pagliaccio, miserabile
mescolanza di scimmia e topo, la cui coda
pettinano a Wall Street con pomata d'oro,
non passeranno i giorni e tu cadrai dall'albero
e sarai solamente quel mucchio d'immondizie
che all'angolo il passante schiverà con cura!
Fu così. Il tradimento è stato Governo del Cile.
Un traditore ha lasciato il suo nome nella nostra storia.
Giuda, ostentando denti di teschio,
ha venduto mio fratello,
ha avvelenato il mio paese,
ha fondato Pisagua, ha demolito la nostra stella,
ha sputato sui colori d'una bandiera pura.
Gabriel González Videla. Qui lascio il suo nome,
perché quando il tempo avrà cancellato
l'ignominia, quando la mia patria pulirà
il suo volto illuminato dal grano e dalla neve,
più tardi, coloro che qui cercheranno l'eredità
che in queste linee lascio come una brace verde
trovino anche il nome del traditore che portò
il calice d'agonia respinto dal mio popolo.
Mio popolo, popolo mio, solleva il tuo destino!
Rompi la prigione, apri i muri che ti rinchiudono!
Schiaccia il passo torvo del topo che comanda
dalla sua reggia: alza le tue lance all'aurora,
e lascia che nel più alto la tua stella irata
baleni e illumini le strade dell'America.
VI
AMERICA, NON INVOCO IL TUO NOME INVANO
I
Dall'alto (1942)
TUTTO IL PERCORSO, l'aria
indefinibile, la luna dei crateri,
l'arida luna sparsa
sopra le cicatrici,
il calcareo foro della tunica rotta,
il diramarsi di vene congelate, il panico del quarzo,
del grano, dell'aurora,
le chiavi distese sulle rocce segrete,
la linea terrorizzante
del Sud frantumato,
il solfato addormentato nella sua dimensione
di lunga geografia,
e le disposizioni del turchese
che girano attorno alla luce spezzata,
all'acre ramo in eterno fiorito,
alla spaziosa notte di boscaglia.
II
Un assassino dorme
LA CINTURA macchiata dal vino
quando il dio delle taverne
calpesta i bicchieri rotti e scompiglia
la luce dell'aurora scatenata:
la rosa inumidita nel singhiozzo
della piccola prostituta, il vento dei giorni febbrili
che entra dalla finestra senza vetri
dove l'uomo vendicato dorme con le scarpe
in un odore amaro di pistole,
in un colore azzurro d'occhi spersi.
III
Sulla costa
A SANTOS, tra l'odore agrodolce dei banani,
che, come un fiume d'oro tenero, aperto sulla schiena,
lascia sulle rive la stupida saliva
del paradiso sgangherato,
e un clamore ferreo d'ombre, d'acqua e locomotiva,
una corrente di sudore e di piume,
qualcosa che scende e scorre dal fondo delle foglie ardenti
come da un'ascella palpitante:
una crisi di voli, una remota
spuma.
IV
Inverno nel Sud, a cavallo
Ho attraversato la corteccia mille
volte investita dagli assalti australi:
ho sentito la nuca del cavallo addormentarsi
sotto la pietra fredda della notte del Sud,
rabbrividire nella bussola del monte senza foglie.
salire sulla pallida guancia che si forma:
io conosco la fine del galoppo nella nebbia,
gli stracci del povero viandante:
e per me non v'è dio se non la sabbia oscura,
il dorso interminabile della pietra e della notte,
il giorno insocievole
con un accadimento
di brutti panni, d'anima straziata.
V
I delitti
FORSE tu delle notti buie hai percorso
il grido con pugnale, l'orma sopra il sangue:
il solitario filo della nostra croce mille volte
calpestata,
il fracasso dei colpi sulla porta silenziosa,
l'abisso o il fulmine che ha ingoiato l'assassino
quando latrano i cani e l'implacabile polizia
piomba sulla gente addormentata
a torcere duramente i fili della lacrima
strappandoli alla palpebra atterrita.
VI
Giovinezza
UN PROFUMO come un'acre spada
di susine lungo una strada,
i baci dello zucchero tra i denti,
le gocce vitali che scivolano tra le dita,
la dolce polpa erotica,
le aie, i pagliai, gli eccitanti
luoghi segreti delle case grandi,
i materassi addormentati nel passato, l'aspra valle verde
guardata dall'alto, dal vetro nascosto:
tutta l'adolescenza che si bagna e brucia
come una lanterna rovesciata nella pioggia.
VII
I climi
IN AUTUNNO cadono dal pioppo
le alte frecce, il rinnovato oblio:
sprofondano i piedi nella sua coltre pura:
il freddo delle foglie irritate
è una spessa scaturigine d'oro,
e uno splendore di espinas colloca vicino al ciclo
i secchi candelabri di statura irsuta,
e il giaguaro giallo, tra le unghie,
fiuta una goccia viva.
VIII
Varadero a Cuba
FULGORE del Varadero lì dalla costa elettrica
quando, frantumandosi, riceve sull'anca
le Antille, il maggior colpo di lucciola e d'acqua,
l'infinito folgorante del fosforo e della luna,
l'intenso cadavere del turchese morto:
e il pescatore oscuro estrae dai metalli
un'ispida coda di violetti marini.
IX
I dittatori
È RIMASTO un odore tra i canneti:
dittatori una mescolanza di sangue e corpo, un penetrante
petalo nauseabondo.
Tra le palme di cocco, le tombe sono piene
di ossa demolite, di rantoli soffocati.
Il raffinato satrapo discorre
con coppe, colli e cordoni d'oro.
La piccola reggia brilla come un orologio
e le rapide risate inguantate
attraversano a volte i corridoi
e s'uniscono alle voci defunte
e alle bocche azzurre da pochissimo sepolte.
Il pianto è nascosto come una pianta
il cui seme cade incessante al suolo
e fa crescere senza luce le sue grandi foglie cieche.
L'odio si è formato scaglia su scaglia,
colpo su colpo, nell'acqua atroce del pantano,
con un muso pieno di melma e di silenzio.
X
America Centrale
CHE LUNA come una calotta insanguinata,
che ramificazione di fruste,
che luce orrenda di palpebra strappata
ti fanno gemere senza voce, senza moto,
infrangono la tua pena senza voce, senza bocca:
oh cintura centrale, oh paradiso
di piaghe implacabili.
Di notte e giorno vedo le torture,
di giorno e notte vedo l'incatenato,
il biondo, il negro, l'indio
che scrivono con mani pestate e fosforescenti
sulle interminabili pareti della notte.
XI
Fame nel Sud
VEDO il singhiozzo nel carbone di Lota
e la rugosa ombra del cileno umiliato
picconare l'amara vena delle viscere, morire,
vivere, nascere nella dura cenere
già curvo, prostrato, come se il mondo
cominciasse così e così finisse
tra polvere nera, tra fiamme,
e solo potesse accadere
la tosse in inverno, o il passaggio d'un cavallo
nell'acqua nera, là dove è caduta
una foglia di eucaliptus come un coltello morto.
XII
Patagonia
LE FOCHE stanno partorendo
nella profondità delle zone gelide,
nelle grotte crepuscolari che plasmano
gli ultimi musi dell'oceano,
le vacche della Patagonia
si staccano dal giorno
come un tumulto, come un vapore pesante
che solleva nel freddo la sua calda colonna
verso le solitudini.
Tu sei deserta, America, come una campana:
piena dentro d'un canto che non s'innalza,
il pastore, l'uomo delle pianure, il pescatore
non hanno una mano, né un orecchio, né un piano,
né una guancia davvicino: la luna li sorveglia,
l'estensione l'ingrandisce, la notte li spia,
e un vecchio giorno lento come gli altri nasce.
XIII
Una rosa
VEDO una rosa presso l'acqua, una piccola coppa
di palpebre vermiglie,
sostenuta in alto da un suono aereo:
una luce di foglie verdi tocca le sorgenti
e trasfigura il bosco con esseri solitari
dai piedi trasparenti:
l'aria è popolata di chiari vestimenti
e l'albero fonda la sua maestà addormentata.
XIV
Vita e morte d'una farfalla
VOLA la farfalla di Muzo nella tempesta:
tutti i fili equinoziali,
la pasta gelida degli smeraldi,
tutto vola nel baleno,
s'agitano gli ultimi effetti dell'aria
e allora una pioggia di stami verdi
e il polline spaventato dello smeraldo sale:
i suoi grandi velluti d'umida fragranza
cadono sulle sponde azzurre del ciclone,
s'uniscono ai terrestri lieviti caduti,
ritornano alla patria delle foglie.
XV
L'uomo sepolto nella pampa
SE DI TANGO in tango io riuscissi
a segnare il paesaggio, le praterie,
se, già addormentato,
mentre dalla mia bocca esce il cereale selvaggio,
io udissi nelle pianure
un tuono di cavalli,
una furiosa tempesta di zoccoli
passare sopra le mie dita sepolte,
bacerei senza labbra il seme
e attaccherei ad esso le vestigia
dei miei occhi
per vedere il galoppo che amò la mia turbolenza:
uccidimi, vidalita,
uccidimi e che la mia sostanza si sparga
come il rauco metallo delle chitarre.
XVI
Operai del mare
A VALPARAÌSO, gli operai del mare
m'invitarono: erano piccoli e duri,
e i loro visi bruciati erano la geografia
dell'Oceano Pacifico: erano una corrente
dentro le immense acque, un'onda muscolare,
un ramo d'ali marine nella tempesta.
Era bello vederli come piccoli dèi poveri,
seminudi, malnutriti, era bello
vederli lottare e palpitare con altri uomini al di là
dell'oceano,
con altri uomini d'altri porti miserabili, e udirli,
era lo stesso linguaggio di spagnoli e cinesi,
il linguaggio di Baltimora e di Kronstadt,
e quando cantarono «L'Internazionale» cantai con loro:
mi saliva dal cuore un inno, volli dirgli:
« Fratelli »,
ma ottenni solo tenerezza che mi si faceva canto
e che andava col loro canto dalla mia bocca fino al mare.
Essi mi riconoscevano, m'abbracciavano con i loro
potenti sguardi
senza dirmi nulla, guardandomi e cantando.
XVII
Un fiume
IO VOGLIO andare lungo il Papaloapán
come tante volte per il terroso specchio,
a toccare con le unghie l'acqua poderosa:
voglio andare fino alle matrici, fino all'ordito
delle sue originarie fronde di cristallo:
andare, bagnarmi la fronte, affondare nella segreta
confusione della rugiada
la pelle, la sete, il sogno.
L'alesa che esce dall'acqua
come un violino d'argento,
e sulle sponde i fiori atmosferici
e le ali immobili
in un caldo di spazio protetto
da spade azzurre.
XVIII
America
IO SONO, sono avvolto
da madreselva e deserto, da sciacallo e scintilla,
dal profumo incatenato dei gigli:
io sono, sono avvolto
da giorni, da mesi, da acque che io solo conosco,
da unghie, da pesci, da mesi che io solo definisco,
io sono, sono avvolto
dalla sottile spuma combattente
del litorale fitto di campane.
La camicia scarlatta del vulcano e dell'indio,
la strada, che sollevò il piede nudo tra le foglie
e le spine fra le radici,
viene ai miei piedi di notte perché io la percorra.
Il sangue cupo come in un autunno
sparso sulla terra,
il temibile stendardo della morte nella foresta,
i passi invasori che vanno scomparendo, il grido
dei guerrieri, il crepuscolo delle lance assopite,
l'interrotto sonno dei soldati, i grandi
fiumi dove la pace del caimano sguazza,
le tue nuove città di sindaci imprevisti,
il coro degli uccelli di natura indomabile,
nel putrido giorno della selva, il fulgore
tutelare della lucciola,
quando nel tuo ventre esisto, nella tua serata
turrita, nel tuo riposo, nell'utero dei tuoi parti,
nel terremoto, nel diavolo dei contadini, nella
cenere
che cade dai ghiacciai, nello spazio,
nello spazio puro, circolare, inafferrabile,
negli artigli insanguinati dei condor, nella pace
umiliata
del Guatemala, nei negri,
nelle banchine di Trinidad, nella Guayra:
tutto è notte mia, tutto
è giorno mio, tutto
è aria mia, tutto
è ciò che vivo, soffro, sollevo e sento in agonia.
America, né di notte
né di luce son fatte le sillabe che canto.
Di terra è la materia conquistata
dal fulgore e dal pane della mia vittoria,
e non è sogno il mio sogno, ma terra.
Io dormo avvolto di spaziosa argilla
e dalle mani mi sgorga mentre vivo
una sorgente di ubertose terre.
E non è vino ciò che bevo ma terra,
terra nascosta, terra di mia bocca,
terra di agricoltura con rugiada,
tempesta di legumi luminosi,
stirpe cereale, magazzino d'oro.
XIX
America, non invoco il tuo nome invano
AMERICA, non invoco il tuo nome invano.
Quando costringo al mio cuore la spada,
quando sopporto nell'anima questo stillicidio,
quando dalle finestre
un nuovo giorno tuo mi compenetra,
sono e sto nella luce che mi crea,
vivo nell'ombra che mi determina,
dormo e mi sveglio nella tua aurora essenziale:
dolce come le uve, e terribile,
portatore di zucchero e castigo,
impregnato di sperma di tua specie,
allattato col sangue di tua stirpe.
VII
CANTO GENERALE DEL CILE
Eternità
Scrivo per una terra appena asciugata, ancora
fresca di fiori, polline e calcina,
scrivo per crateri che nelle cupole di gesso
replicano il loro sferico vuoto presso la neve pura,
ho subito da dire la mia su ciò che reca
il vapore ferruginoso appena uscito dall'abisso,
parlo per le praterie che non sanno altro nome
che la piccola campanula del lichene o lo stame
riarso
o l'acre macchia dove la cavalla brucia,
Da dove vengo, se non da queste recenti, azzurre
materie che s'aggrovigliano o s'increspano o s'escludono
o si spargono a gridi o si spandono sonnambule,
o s'arrampicano e formano il baluardo dell'albero,
o s'inabissano e avvincono la cellula del rame,
o balzano sul ramo dei fiumi, o soccombono
nella stirpe sepolta del carbone, o risplendono
nelle verdi oscurità dell'uva?
Nelle notti dormo come i fiumi, qualcosa
percorrendo senza tregua, rompendo, sopravanzando
la notte natatoria, sollevando le ore
verso la luce, palpando le segrete
immagini che la calce ha esiliato, risalendo nel
bronzo
fino alle cateratte da poco disciplinate, e in una strada
di fiumi tocco ciò che diffonde solamente
la rosa mai nata, l'emisfero inabissato.
La terra è una cattedrale di pallide palpebre,
eternamente unite e accumulate
in un ciclone di segmenti, in un sale di cupole,
in un colore finale d'autunno perdonato.
Voi non avete, non avete mai toccato nel cammino
ciò che la nuda stalattite produce,
la festa tra le lampade glaciali,
il grande freddo delle foglie nere,
non siete entrati con me nelle film
che la terra ha nascosto,
non avete dopo morti risalito
grano a grano le scale della sabbia
fino a dove le corone di rugiada
coprono di nuovo una rosa aperta,
voi non potete esistere senza spegnervi
con gli abiti usati della felicità.
Ma io sono il nembo metallico, l'anello
incatenato a spazi, a nuvole e a terreni,
colui che tocca precipitate e ammutolite acque,
e torna a sfidare l'infinita intemperie.
I
Inno e ritorno (1939)
PATRIA, patria mia, a te rendo il mio sangue.
Ma t'imploro, come implora la madre il figlio
pieno di pianto.
Accogli
questa cieca chitarra
e questa fronte sperduta.
Partii a cercarti figli sulla terra,
partii a soccorrere caduti col tuo nome di neve,
partii a costruire una casa col tuo legno puro,
partii a recare la tua stella agli eroi feriti.
Adesso voglio dormire nella tua sostanza.
Dammi la tua chiara notte di corde penetranti,
la tua notte di nave, la tua stellata statura.
Patria mia: voglio cambiare d'ombra.
Patria mia: voglio mutare di rosa.
Voglio allacciare il braccio alla tua esile vita
e sedermi sulle tue pietre calcinate dal mare,
per fermare il grano e osservarlo all'interno.
Io sceglierò la sottile flora del nitrato,
filerò lo stame glaciale della campana,
e guardando alla tua illustre e solitaria spuma
un ramo litorale tesserò alla tua bellezza.
Patria, patria mia,
tutta accerchiata d'acqua combattente
e di neve combattuta,
in tè s'unisce l'aquila allo zolfo,
e nella tua antartica mano d'ermellino e zaffiro
una goccia di pura luce umana
risplende e incendia il cielo nemico.
Serba la tua luce, oh patria, mantieni
la tua tenace spiga di speranza
in mezzo alla paurosa aria cieca.
Nella tua remota terra è caduta tutta quest'ardua luce,
questa fatalità degli uomini,
che ti spinge a difendere un fiore misterioso,
solo, nell'immensità dell'America addormentata.
Il
Voglio tornare nel Sud (1941)
MALATO a Veracruz, ricordo un giorno
del Sud, la mia terra, un giorno d'argento
come un rapido pesce nell'acqua del cielo.
Loncoche, Lonquimay, Carahue, dall'alto
seminati, avvolti di silenzio e di radici,
assisi nei loro troni di cuoio e di legno.
Il Sud è un cavallo gettato a picco,
incoronato d'alberi lenti e di rugiada,
quando alza il verde muso cadono le gocce,
l'ombra della sua coda bagna il grande arcipelago
e nel suo intestino cresce il carbone adorato.
Mai più, dimmi, ombra, mai più, dimmi, mano,
mai più, dimmi, piede, porta, gamba, battaglia,
scompiglierai la selva, la strada, la spiga,
la nebbia, il freddo, e quello che, azzurro, formava
ciascuno dei tuoi passi di continuo consumati?
Cielo, lasciami andare un giorno di stella in stella
pestando luce ed esplosivo, distruggendo il mio sangue
fino a giungere al nido della pioggia!
Voglio andare
dietro il legname, giù lungo il fragrante
fiume Toltén, voglio uscire dalle segherie,
entrare nelle cantine con i piedi inzuppati,
farmi guidare dalla luce del nocciolo elettrico,
sdraiarmi vicino all'escremento delle vacche,
morire e rivivere mordendo grano.
Oceano, portami
un giorno del Sud, un giorno aggrappato alle tue onde,
un giorno d'albero madido, porta un vento
azzurro polare alla mia fredda bandiera!
III
Melanconia nei pressi di Orizaba (1942)
CHE COSA c'è per te nel Sud, se non un fiume, una notte,
alcune foglie che l'aria fredda svela
e sparge fino a coprire le sponde del cielo?
Davvero sfocia dall'arcipelago disfatto
la chioma dell'amore come altra neve o acqua,
come altro moto sotterraneo del fuoco
e ancora una volta aspetta nei capannoni,
dove le foglie cadono tante volte
tremando, divorate da questa bocca densa,
e il brillare della pioggia chiude il suo rampicante
dalla riunione dei grani segreti
fino al fogliame colmo di gocce e di campane?
Lassù la primavera ha una voce bagnata
che ronza nelle orecchie del cavallo addormentato
e poi cade sull'oro del grano triturato
e poi fa affiorare un dito trasparente nell'uva.
Che cosa c'è che t'aspetta, dove, senza corridoi,
senza muri, ti chiama il Sud?
Come l'uomo delle pianure tu odi nella tua mano
la coppa della terra, con l'orecchio posato sulle radici:
da lontano un vento d'emisfero pauroso,
il galoppo nella brina dei carabinieri:
dove l'ago cuce con acqua fina il tempo
e la sua sminuzzata cucitura si distrugge:
che cosa c'è per te nella notte dal fianco selvaggio
che urla con la bocca tutta piena d'azzurro?
C'è forse un giorno bloccato, mentre un'acacia
conficca nel vecchio giorno il suo aculeo degradato
e la sua antica bandiera nuziale si straccia.
Chi ha conservato un giorno di bosco nero, chi
ha aspettato ore di pietra, chi circonda
l'eredità oltraggiata dal tempo, chi fugge
senza scomparire nel centro dell'aria?
Un giorno, un giorno pieno di foglie disperate,
un giorno, una luce rotta dal freddo zaffiro,
un silenzio di ieri preservato nel vuoto
di ieri, nella riserva del territorio assente.
Amo la tua intricata chioma di cuoio,
la tua antartica bellezza d'intemperie e di cenere,
il tuo doloroso peso di cielo combattente:
amo il volo dell'aria del giorno in cui mi aspetti,
so che non cambia il bacio della terra, e non cambia,
so che non cade la foglia dell'albero, e non cade:
so che lo stesso lampo arresta i suoi metalli
e la notte derelitta è la stessa notte,
ma è la mia notte, ma è la mia pianta, l'acqua
delle lacrime glaciali che conoscono i miei capelli.
Possa io diventare ciò che m'aspettavo ieri nell'uomo:
ciò che in alloro, cenere, quantità, speranza,
propaga la sua palpebra nel sangue,
nel sangue che popola la cucina e il bosco,
le fabbriche che il ferro copre di nere piume,
le miniere perforate dal sudore sulfurico.
Non solo l'aria acuta del vegetale m'attende:
non solo il tuono sopra lo splendore nevoso:
lacrime e fame come due brividi
scalano il campanile della patria e rintoccano:
è così che nel pieno del fragrante cielo,
è così che quando ottobre esplode, e scorre
la primavera antartica sopra il fulgore del vino,
c'è un lamento e un altro e un altro lamento e ancora un altro
fino a che essi superano neve, rame, strade, navi,
e passano attraverso la notte e la terra
sino alla mia dissanguata gola che li ode.
Popolo mio, che cosa dici? Marinaio,
peón, sindaco, operaio del salnitro, mi ascolti?
Io ti sento, fratello defunto, fratello vivo, ti sento,
ciò che tu desideravi, ciò che hai sepolto, tutto,
il sangue che nella sabbia e nel mare versavi,
il cuore maltrattato che resiste e spaventa.
Che cosa c'è per te nel Sud? La pioggia dove cade?
E dagli interstizi, quali morti ha sferzato?
I miei morti, quelli del Sud, gli eroi solitari,
il pane disperso dalla collera amara,
il lungo lutto, la fame, la durezza e la morte,
le foglie su di loro son cadute, le foglie,
la luna sul petto del soldato, la luna,
il vicolo del poveraccio, e il silenzio
dell'uomo in ogni parte, come un minerale duro
la cui vena di freddo raggela la luce del mio cuore
prima di costruire la campana nelle altitudini.
Patria piena di germi, non mi chiamare, non posso
dormire senza il tuo sguardo di cristallo e tenebre.
Il tuo rauco grido d'acque ed esseri mi scuote
e vago nel sonno al bordo della tua spuma solenne
fino all'ultima isola della tua azzurra cintura.
Mi chiami dolcemente come una fidanzata povera.
La tua lunga luce d'acciaio m'abbaglia e mi cerca
come una spada piena di radici.
Patria, terra stimabile, luce consunta che arde:
come il carbone dentro il fuoco precipita
il tuo sale temibile, la tua ombra ignuda.
Possa io essere ciò che ieri m'aspettavo, e domani
resistere in un pugno di polvere e farfalle.
IV
Oceano
SE IL TUO FANTASMA è nudo e verde,
se la tua mela smisurata, se
tra le tenebre la tua mazurca, dov'è
la tua origine?
Notte
più dolce della notte,
sale
madre, sale sanguigno, curva madre dell'acqua,
pianeta percorso dalla spuma e dal midollo:
titanica dolcezza di stellare longitudine:
notte con una sola onda nella mano:
tempesta contro l'aquila marina,
cieca sotto le mani del solfato insondabile:
stiva in tanta notte sprofondata,
corolla fredda tutta invasione e rumore,
cattedrale sepolta a colpi sulla stella.
C'è il cavallo ferito che percorre l'età
della tua riva, tramutato in fuoco glaciale,
c'è l'abete rosso trasformato in piumaggio
e disfatto nelle tue mani d'atroce cristalleria,
e l'incessante rosa combattuta nelle isole
e il diadema d'acqua e luna da te fondato.
Patria mia, alla tua terra
tutto questo cielo buio!
Tutta questa frutta universale, tutta questa
delirante corona!
Per te questa coppa di spume dove il fulmine
si perde come un albatros cieco, e dove il sole del Sud
guardando la tua condizione sacra s'innalza.
V
Arte sellaio.
È PER ME questa sella disegnata
come rosa pesante in cuoio e argento,
molle di fondo, liscia e duratura.
È una mano ogni ritaglio, è una vita
ogni cucitura, e in essa vive
l'unità delle vite forestali,
una catena d'occhi e di cavalli.
I grani d'avena l'hanno formata,
e dura l'hanno resa siepi e acqua,
gli ha dato orgoglio il raccolto opulento,
metallo e marocchini lavorati:
e così da potenza e da sventure
nelle praterie uscì questo trono.
Arte vasaria
Goffa colomba, salvadanaio d'argilla,
sul tuo dorso di lutto un segno appena,
un che per decifrarti. Popolo mio,
come, con le tue pene sulle spalle,
bastonato e vinto, come hai pian piano
accumulato scienza disadorna?
Prodigio nero, magica materia
da dita cieche innalzata alla luce,
minima statua in cui il più segreto
della terra ci dischiude i suoi linguaggi,
anfora di Pomaire nel cui bacio
terra e pelle s'uniscono, infinite
forme del fango, luce delle giare,
la forma d'una mano che fu mia,
il passo d'un'ombra che mi chiama,
siete riunione di sogni nascosti,
ceramica, infrangibile colomba!
Telai
Voi sapete che lì la neve sorveglia
le valli, o meglio
la primavera buia del Sud, gli uccelli neri
nel cui petto solo una goccia di sangue
è venuta a tremare, la bruma
d'un gran inverno dalle ali distese,
così è il territorio, e il suo profumo
sale da fiori poveri, travolti
dal peso del rame e delle cordigliere.
E là il telaio, cercando filo a filo,
ha ricostruito il fiore, alzato la piuma
al suo regno scarlatto, intrecciando
azzurri e zafferani, la matassa
del fuoco e della sua gialla potenza,
la stirpe del lampo color violetto,
il verde sabbioso del ramarro.
Mani del popolo mio sui telai,
mani povere che tessono, una a una,
le piume di stella che mancarono
alla tua pelle, Patria color oscuro,
sostituendo fibra a fibra il cielo
perché l'uomo canti i propri amori
e galoppi illuminando i cereali!
VI
Inondazioni
I POVERI vivono in basso aspettando che il fiume
si sollevi di notte e se li porti al mare.
Ho visto piccole culle galleggiare, brani
di case, sedie, e una collera solenne
d'acque livide in cui si confondono ciclo e
terrore.
Solo è per te, povero, per tua moglie e il tuo seminato,
per il tuo cane e i tuoi arnesi, perché tu apprenda il
mestiere di pitocco.
L'acqua non sale fino alle case dei signori
e i loro colletti bianchi volano diretti dalle lavanderie.
Mangia questo fango travolgente e queste rovine che
nuotano, con i tuoi morti che vagano dolcemente
verso il mare, tra i poveri tavoli e gli alberi perduti
che mostrano di balzo in balzo le loro radici.
Terremoto
Mi svegliai quando la terra dei sogni mi venne a mancare
sotto il letto.
Una colonna cieca di cenere vacillava nel mezzo
della notte,
ti domando: sono morto?
Dammi la mano in questo sconquasso del pianeta
mentre la cicatrice del cielo livido si tramuta in stella.
Ahimè, però ricordo: dove stanno? dove stanno?
Perché ribolle la terra e si riempie di morte?
Oh maschere sotto le case travolte, sorrisi
che non raggiunsero il terrore, esseri distrutti
sotto le travi, coperti dalla notte.
E oggi ti svegli, oh giorno azzurro, vestito
a festa, con la tua coda d'oro
sopra il mare estinto delle macerie, igneo,
alla ricerca del volto perduto degli insepolti.
VII
Atacama
VOCE insopportabile, disseminato
sale, sostituita
cenere, ramo nero
sulla cui estrema perla appare la luna
cieca, lungo gallerie abbrunate di rame.
Quale materiale, che vuoto cigno
affonda nella sabbia il suo contrastato nudo
e rassoda la sua luce liquida e lenta?
Che dura folgore rompe il suo smeraldo
in mezzo alle sue pietre indomabili
fino a cagliare il sale sperduto?
Terra, terra
sopra il mare, sopra l'aria, sopra il galoppo
dell'amazzone piena di coralli:
magazzino ammassato dove il grano
dorme nella trepida radice della campana:
oh madre dell'oceano, produttrice
del cieco diaspro e della silice dorata:
sulla tua pura pelle di pane, lungi dal
bosco, solamente le tue linee di mistero,
solamente la tua fronte di sabbia,
solamente le notti e i giorni dell'uomo,
ma presso la sete del cardo, laddove
una carta sepolta e dimenticata, una pietra
segna le profonde culle della spada e della
coppa, indica gli addormentati piedi del calcio.
VIII
Tocopilla
AL SUD, al nord di Tocopilla, sabbia,
calce caduta, la chiatta, le assi
rotte, il ferro ritorto.
Chi ha unito al segno puro del pianeta,
dorato e cotto, sogno, sale ed esplosivo,
l'arnese frantumato e l'immondizia?
Chi ha lasciato il tetto sfondato, i muri
diroccati, con un mazzo
di fogli calpestati?
Cupa luce dell'uomo in te esiliato,
che sempre torna alla conca della tua luna calcarea,
da poco accolto dalla tua sabbia letale!
Gabbiano rarefatto dei lavori, aringa,
procellaria inanellata,
frutti, figli voi stessi della palamite cruenta
e della tempesta, avete visto il cileno?
Avete visto l'umano, tra la duplice linea del freddo
e delle acque, sotto la dentatura
della linea di terra, là nel golfo?
Pidocchi, pidocchi ardenti che attaccano il sale,
pidocchi, pidocchi di costa, popolazioni, minatori,
da una cicatrice del deserto all'altra,
contro la costa della luna, fuori!,
a pestare il marchio freddo senz'età.
Al di là dei piedi del pellicano, quando
né acqua né pane né ombra toccano la dura tappa,
l'esercizio del salnitro compare
o la statua del rame decide la sua statura.
È tutto come stelle seppellite,
come punte amare, come infernali
fiori
bianchi, nevosi di luce tremula
o verde e nero ramo di pesanti splendori.
Non serve lì la penna, ma la mano rotta
dell'oscuro cileno, lì non serve il dubbio.
Solo il sangue. Solo questo duro colpo
che dentro la vena ricerca l'uomo.
Entro la vena, nella miniera, nelle forate caverne
senz'acqua e senz'alloro.
Oh piccoli
compatrioti bruciati da questa luce più acre
del bagno della morte, eroi oscurati
dall'aurora del sale sulla terra,
dove fate il vostro nido, figli erranti?
Chi vi ha visto tra le fibre spezzate
dei porti desertici?
Sotto
la nebbia di salamoia,
o dietro la costa metallica,
o magari o magari,
sotto il deserto già, sotto
la sua parola di polvere
per sempre!
Cile, Metallo e Cielo,
e voi, cileni,
semente, fratelli tenaci,
tutto è disposto in ordine e silenzio
come la permanenza delle pietre.
IX
Peumo
SPEZZAI una foglia lastricata della macchia: un dolce
aroma dagli orli tagliati
mi toccò come un'ala profonda che volasse
dalla terra, dal lontano, dal mai.
Peumo, allora vidi il tuo fogliame, la tua verdura
minuziosa, increspata, coprire con i suoi impulsi
il tuo tronco terrestre e la tua ampiezza odorosa.
Pensai come sei tutta la mia terra: il mio vessillo
deve avere aroma di peumo al dispiegarsi,
un odore di frontiere che d'improvviso
entrano in te con tutta la patria nella sua corrente.
Peumo puro, fragranza d'anni e chiome
al vento, alla pioggia, sotto la curvatura
della montagna, con un rumore d'acqua che scende
fino alle nostre radici, oh amore, oh tempo agreste
il cui profumo può nascere, sciogliersi
da una foglia e riempirci sino a farci versare
la terra, come antiche brocche sepolte!
Quilas
Tra le foglie ritte che non sanno sorridere
tu nascondi il tuo vivaio di lance clandestine.
Tu non hai dimenticato. Quando passo pel
tuo fogliame mormora la durezza, e si destano
parole che feriscono, sillabe che allattano
spine. Tu non dimentichi. Eri calcina bagnata
di sangue, eri colonna della casa e della guerra,
eri bandiera, tetto per la mia madre araucana,
spada del guerriero silvestre, araucania
irta di fiori che hanno ferito e ucciso.
Aspramente nascondi le lance che fabbrichi
e che conosce il vento della regione selvaggia,
la pioggia, l'aquila dei boschi bruciati,
e il furtivo abitante da poco espropriato.
Può darsi, può darsi: non dire a nessuno il tuo segreto.
Conserva per me una lancia silvestre, o il legno
d'una freccia. Neanche io ho dimenticato.
Drimis Winterei
Piante senza nome, foglie
e corde montagnose,
rami intessuti d'aria verde, fili
da poco ricamati, uncini di metalli oscuri,
innumerevole flora coronaria
dell'umidità, del vasto vapore, dell'acqua immensa.
E tra tutte le forme che cercò quest'intreccio di rami,
tra queste foglie il cui stampo intatto
equilibrò nella pioggia il suo prodigio,
oh albero, tu ti sei svegliato come un tuono
e nelle tue fronde popolate da tutto il verde
come un uccello s'è addormentato l'inverno.
X
Zone incolte
FRONTIERA abbandonata! Linea folle
in cui il fuoco e il cardo inferocito
formano strati d'elettrico azzurro.
Pietre percosse dalle
punte del rame, strade
di silenzio materiale, rami sprofondati
nel sale delle pietre.
Io sono qui, sono qui,
bocca umana affidata al passo pallido
d'un tempo indugiato come coppa o fianco,
presidio centrale d'acqua senza uscita,
albero di corporeo fiore rovesciato,
unicamente sorda e brusca arena.
Patria mia, terrestre e cieca come
aculei nati dalla sabbia, per te tutta
la fondazione del mio cuore, per te le perpetue
palpebre del mio sangue, per te di ritorno
il mio piatto di rosolacci.
Dammi di notte, in mezzo alle piante terrestri,
l'ostica rosa di rugiada che dorme nella tua bandiera,
dammi di luna o terra il tuo pane cosparso
del tuo temibile sangue oscuro;
sotto la tua luce di sabbia
non vi sono morti, ma solo larghi cicli di sale,
azzurri rami di misterioso metallo morto.
XI
Chercanes
MI PIACEREBBE non vedervi diffidenti: è estate,
l'acqua m'ha irrorato e fatto crescere
un desiderio come un ramo, il mio canto mi sostiene
come un tronco rugoso, con nette cicatrici.
Minuscoli, adorati, posatevi sulla mia testa.
Annidate nelle mie spalle dove cammina
il fulgore d'un ramarro, nei miei pensieri
su cui sono cadute tante foglie,
o piccoli cerchi della dolcezza, granelli
d'alato cereale, ovetti pennuti,
forme purissime dove l'occhio
sicuro dirige volo e vita,
qui, annidate nel mio orecchio, diffidenti
e minuscoli: aiutatemi:
voglio essere ogni giorno più uccello.
Loica
Accanto a me, sanguigna, ma assente.
Con la tua maschera crudele e i tuoi occhi guerrieri,
fra le zolle, saltando da un tesoro
a un altro, nella pienezza pura e selvaggia.
Dimmi: come mai fra tutte,
fra tutta l'anonima schiera annidata
nelle nostre macchie che la pioggia
ha tinto dei suoi lamenti, come mai
il tuo pettorale solo raccoglie tutto il rosso del mondo?
Ahi, tu sei spruzzata dall'estate color carminio,
sei entrata nella grotta del polline scarlatto
e la tua macchia raccoglie tutto il fuoco.
E questo sguardo più che il firmamento,
più che la notte nevosa nel suo baluardo andino
quando apre il ventaglio d'ogni giorno, niente
lo trattiene: solo il tuo arbusto spinoso
che continua a bruciare senza incendiare la terra.
Chucao
Nel freddo fogliame moltiplicato, d'un tratto sorge
la voce del chucao come se nessuno esistesse
tranne che questo grido di tutta la solitudine assommata,
tranne che questa voce di tutti gli alberi inzuppati.
È passata la voce trepida e oscura sul mio cavallo,
più lenta e più profonda d'un volo: mi fermai,
dove stavo? Che giorni erano questi?
Tutto ciò che vissi mentre galoppavo in quelle
stagioni perdute, il mondo della pioggia
sulle finestre, il puma che girava
nell'intemperie con due punte di fuoco sanguinario,
e il mare dei canali, tra gallerie verdi
di impregnata bellezza, la solitudine, il bacio
di quella che amai più giovane sotto i noccioli,
tutto sorse d'un tratto quando nella selva il grido
del chucao sfrecciò con le sue umide sillabe.
XII
Botanica
IL SANGUINARIO litre e il benefico boldo
disseminano il loro stile
in irritanti baci di smeraldo animale
o in antologie d'acqua oscura tra le pietre.
Il chupón impianta sulla cima dell'albero
la sua nivea dentatura
e il nocciolo selvatico costruisce il suo castello
di pagine e di gocce.
L'artemisia e la chépica circondano
gli occhi dell'origano
e l'alloro radioso della frontiera
profuma i più lontani distretti.
Quila e quelenquelén delle mattine.
Linguaggio freddo delle fucsie,
che percorre le pietre tricolori
gridando con la spuma «Evviva il Cile»!
Il ditale d'oro attende
le dita della neve
e il tempo gira senza il matrimonio
che unirebbe gli angeli del fuoco e dello zucchero.
La magica magnolia
lava alla pioggia le sue fronde razziali,
e precipita i suoi verdi lingotti
sotto l'acqua vegetale del Sud.
Il dolce braccio dell'olmo
con ettari di fiori
solleva le gocce del copihue rosso
a conoscere il sole delle chitarre.
L'agreste delgadilla
e il celestiale puleggio
ballano nei prati con la giovane rugiada
armata or ora dal fiume Toltén.
L'indecifrabile doca
decapita la sua porpora sulla sabbia
e dirige i suoi triangoli marini
verso le secche lune litorali.
Il brunito rosolaccio,
lampo e ferita, dardo e bocca,
sopra il bruciante grano
posa la sua punteggiatura scarlatta.
La patagua tutta evidenza
celebra i suoi morti
e intesse le sue famiglie
di copiose sorgenti e medaglie fluviali.
Il paico sistema lampade
nel clima del Sud, derelitto,
quando sopraggiunge la notte
del mare che mai non riposa.
Il rovere dorme solo,
tutto verticale, povero, morsicchiato,
e tutto decisivo nella pura prateria
con il suo abito di poveraccio maltrattato
e la sua testa piena di stelle solenni.
XIII
Araucaria
TUTTO l'inverno, tutta la battaglia,
tutti i nidi del bagnato ferro,
nella tua costanza solcata dall'aria,
nella tua città silvestre s'innalzano.
Il carcere rinnegato delle pietre,
i fili sommersi della espina,
fanno della tua puntuta chioma
uno stendardo d'ombre minerali.
Irsuto pianto, eternità dell'acqua,
monte di squame, lampo di ferrature,
la tua straziata casa è costruita
con petali di pura geologia.
L'alto inverno bacia la tua armatura
e ti copre di labbra distrutte:
la primavera di violento aroma
rompe la sua rete sulla tua statua implacabile:
e il grave autunno spera inutilmente
di sparger d'oro la tua mole verde.
XIV
Tomas Lago
ALTRI si sono coricati tra le pagine
dormendo
come insetti elzeviriani, e si sono contesi
tra loro certi libri da poco stampati
come al calcio, a goal di saggezza.
Noi abbiamo allora cantato nella primavera,
nei pressi dei fiumi che trascinano pietre dalle Ande,
e ce ne stavamo allacciati alle nostre donne, succhiando
più d'un favo di miele, divorando persino lo zolfo del
mondo. Non solo questo ma molto di più: abbiamo
condiviso la vita con umili amici che amiamo,
e che ci hanno insegnato con le date del vino
l'onesto alfabeto della terra, il riposo
di quelli che hanno saputo dalla durezza
uscire cantando. Oh giorni che insieme
visitammo la grotta e i tuguri,
distruggemmo le ragnatele, e viaggiammo
nei confini del Sud sotto la notte
e il suo impasto agitato:
tutto era fiore e patria fugace,
tutto era pioggia e materiale del fumo.
Che larga strada abbiamo percorso, solo fermandoci
nelle locande, e volgendo l'attenzione
a un estremo crepuscolo, a una pietra,
a una parete scritta col carbone, a un gruppo
di carbonai che in breve tempo
ci insegnarono tutte le canzoni dell'inverno.
Ma non solo il bruco cambiava pelle,
alle nostre finestre, bagnato di cellulosa,
ogni volta più celestiale nel suo ruolo religioso,
ma anche lo scontroso, l'iracondo, il vaccaro
che ci voleva derubare con due pistole al petto,
e ci minacciava di far fuori le nostre madri
e d'impegnare i nostri averi
(e chiamava tutto ciò eroismo e altre cose ancora).
Li lasciammo passare guardandoli, non poterono
cavarci una crosta, né darci un batticuore,
e se ne andarono ciascuno alla sua tomba,
di giornali europei o di pesos boliviani.
Le nostre luci sono sempre accese, e ardono
più forti della carta e dei banditi.
Rubén Azócar
Verso le isole!, dicemmo. Erano giorni di speranza
ed eravamo sorretti da alberi illustri:
nulla ci sembrava lontano, tutto si poteva agganciare
da un momento all'altro nella luce che emanavamo.
Arrivammo con scarpe di cuoio grosso: pioveva,
pioveva sulle isole, e così si conservava il territorio
come una mano verde, come un guanto
le cui dita galleggiavano
in mezzo a rosse alghe.
Riempimmo di tabacco l'arcipelago, fumavamo
fino a sera nell'Hotel Nilsson, e sparavamo
ostriche fresche verso tutti i punti cardinali.
La città aveva un edificio religioso
dalle cui porte grandi, nel pomeriggio inanimato,
usciva come un lungo coleottero una nera
sfilata di sottane sotto la triste pioggia:
noi avevamo gustato tutti i borgogna, e riempivamo
la carta con i segni d'un dolore geroglifico.
Io scappai improvvisamente: ma per molti anni, lontano,
in altri climi che arricchirono le mie passioni,
ricordai le barche sotto la pioggia, con te,
che là rimanevi perché le tue grandi sopracciglia
affondassero le loro radici bagnate nelle isole.
Juvencio Valle
Juvencio, nessuno conosce come te e me il segreto
del bosco di Boroa: nessuno
conosce certi sentieri di terra arrossata
sui quali si desta la luce del nocciolo.
Quando la gente non ci ode non sa
che ascoltiamo la pioggia su alberi e tetti
di zinco, e che amiamo ancora la telegrafista,
quella, quella ragazza che come noi
conosce il grido soffocato delle locomotive
d'inverno, nelle remote regioni.
Solo tu, silenzioso,
sei entrato nell'aroma che la pioggia abbatte,
hai stimolato la crescita dorata della flora,
hai raccolto il gelsomino prima che nascesse.
Il fango triste, di fronte agli empori,
il fango triturato dalle pesanti carrette
come la nera argilla di certe sofferenze,
è, chi meglio di te lo sa?, sparso
dietro alla profonda primavera.
Ed anche
abbiamo in segreto altri tesori:
foglie che come lingue scarlatte
coprono la terra, e pietre levigate
dalla corrente, pietre dei fiumi.
Diego Muñoz
Non solo ci siamo difesi, come sembra, con scoperte
e segni distesi su carta tempestosa,
ma abbiamo anche corretto, come capitani,
la via maligna a forza di pugni,
e poi tra fisarmoniche abbiamo innalzato
il cuore con acque e sartiami.
Marinaio, hai già riportato dai tuoi porti,
da Guayaquil, odori di frutta polverosa,
e da tutta la terra un sole d'acciaio
che t'ha fatto spargere vittoriose spade.
Oggi sopra i carboni della patria è giunta
un'ora - dolori e amore - che condividiamo,
e dal mare soverchia la tua voce il filo
d'una fraternità più vasta della terra.
XV
Cavaliere sotto la pioggia
ACQUE fondamentali, pareti d'acqua, trifoglio
e avena contrastata,
cordami già uniti alla rete d'una notte
umida, grondante, selvaggiamente filata,
goccia lacerante ripetuta in lamento,
ira diagonale che taglia cielo.
Galoppano i cavalli dal profumo inzuppato,
sotto l'acqua, sferzando l'acqua, intercettandola
con le loro fronde rosse di pelo, pietra e acqua:
e il vapore accompagna come un latte impazzito
l'acqua già più aspra con fugaci colombe.
Non c'è giorno ma solo fondi scrosci
del clima duro, del verde movimento
e le zampe allacciano veloce terra e tempo
in mezzo all'odore bestiale di cavallo con pioggia.
Coperte, gualdrappe di pelle, finimenti
riuniti e chiusi in cupe granate
sulle ardenti groppe di zolfo che percuotono
la selva e la spalancano.
Avanti, avanti, avanti,
avanti, avanti, avanti, avanti, sempre avantiiiiii;
i cavalieri travolgono la pioggia, i cavalieri
passano sotto gli amari noccioli, la pioggia
ritorce in tremuli raggi il suo grano sempiterno.
Ecco c'è luce nell'acqua, un lampo confuso
sparso sulla foglia, e dallo stesso tonfo del galoppo
scatta un'acqua senza volo, ferita dalla terra.
Umide briglie, volta di folti rami,
passi di passi, vegetale notturno
di stelle rotte come gelo o luna, cavallo
ciclonico coperto di dardi come gelido spettro,
pieno di nuove mani nate nella furia,
mela martellante circondata dal terrore
e dal suo grande regno di pauroso stendardo.
XVI
Mari del Cile
IN LONTANE regioni
i tuoi piedi di spuma, la tua diffusa sponda
bagnai di pianto esiliato e folle.
Oggi alla tua bocca, alla tua fronte vengo.
Non al corallo sanguinario, né all'arsa stella,
né alle incandescenti e rovesciate acque
affidai il deferente segreto, o la sillaba.
Conservai la tua voce infuriata, un petalo
di sabbia tutelare
fra i mobili e gli abiti vecchi.
Una polvere di campane, una madida rosa.
E molte volte era proprio l'acqua
d'Arauco, l'acqua dura:
ma io custodivo la mia sommersa pietra
e in essa il palpitante suono della tua ombra.
Oh mare del Cile, oh acqua
alta e cintata come acuta fiamma,
pressione e sonno e unghie di zaffiro,
oh terremoto di sale e di leoni!
Pendio, origine, costa
del pianeta, le tue palpebre
spalancano il meriggio della terra
assaltando l'azzurro delle stelle.
Il sale e il movimento da te si spiccano
e diramano oceano alle grotte dell'uomo
finché al di là delle isole il tuo peso
infrange e spande un mazzo di sostanze totali.
Mare del deserto nord, mare che picchia il rame
e spinge la spuma verso la mano
dell'arcigno abitante solitario,
fra pellicani, rocce di freddo sole e stereo,
costa bruciata al passaggio d'un'alba inumana!
Mare di Valparaíso, onda
di luce solitaria e notturna,
finestra dell'oceano
a cui s'affaccia
la statua del mio paese
che guarda con occhi ancora ciechi.
Mare del Sud, mare, oceano,
mare, luna misteriosa,
a Imperial spaventevole di querce,
a Chiloé rafforzato nel sangue,
e da Magallanes fino alla frontiera
tutto il sibilo del sale, tutta la luna folle,
e lo sfrenato cavallo stellare del gelo.
XVII
Ode d'inverno al fiume Mapocho
Sì, OH, vaga neve,
sì, tremante in pieno fiore di neve,
palpebra boreale, gelido raggio breve:
chi, chi t'ha chiamato verso la cinerea valle,
chi, chi t'ha trascinato dal becco dell'aquila
fin dove le tue acque pure toccano
i violenti stracci della mia patria?
Fiume, perché trasponi
acqua fredda e segreta,
acqua che l'alba dura delle pietre
conservò nel suo duomo inaccessibile,
fino ai piedi feriti della mia gente?
Torna, torna alla tua coppa di neve, fiume amaro,
torna, torna alla tua coppa di spaziose brine,
sprofonda la tua argentea radice nell'origine segreta,
o precipita e infrangiti in altro mare senza pianto!
Fiume Mapocho, quando giunge la notte
e come nera statua là distesa
dorme sotto i tuoi ponti con un nero grappolo
di teste percosse dal freddo e dalla fame
come da due enormi aquile, oh fiume,
oh aspro fiume partorito dalla neve,
perché non t'alzi come fantasma immenso
o come nuova croce di stelle per i dimenticati?
No, la tua cruda cenere adesso corre
assieme al singhiozzo gettato nell'acqua nera,
assieme alla manica rotta che il vento indurito
fa tremare sotto le foglie di ferro.
Fiume Mapocho, dove porti
penne di gelo ferite per sempre,
davvero sulla tua livida sponda
il fiore selvaggio nascerà sempre morso dai pidocchi
e la tua lingua di freddo raschierà le guance
della mia patria nuda?
Oh, mai questo avvenga,
mai, e mai una goccia della tua spuma nera
salti dalla melma al fiore del fuoco
e mai si disperda il seme dell'uomo.
VIII
LA TERRA SI CHIANA JUAN
I
Cristóbal Mirando (Spalatore, Tocopilla)
T'HO CONOSCIUTO, Cristóbal, sulle lance
del golfo, quando il salnitro
discende verso il mare, nel bruciante
vestimento d'un giorno di novembre.
Ricordo quell'estatico atteggiarsi,
le alture di metallo, l'acqua cheta.
E solo l'uomo delle lance, umido
di sudore, a rimestare neve.
Neve dei nitrati, distribuita
sulle spalle del dolore, e gettata
nella cieca pancia dei bastimenti.
E là gli spalatori, eroi d'un'alba
intaccata dagli acidi e soggetta
ai destini della morte, costanti,
a ricevere il nitrato copioso.
Cristóbal, è per te questo ricordo.
Per i compagni della spalatura,
nel cui petto penetrano gli acidi
e tutte le emanazioni assassine,
gonfiando come aquile annientate
i cuori, finché l'uomo precipita,
finché l'uomo rotola nelle strade,
verso le croci rotte della pampa.
Altro non dico, Cristóbal, ed ora
questo foglio che ti ricorda è per tutti,
battellieri del golfo, e per l'uomo
annerito delle navi: i miei occhi
sono con voi in questo tragitto
e il mio animo è una pala che s'alza
caricando e scaricando sangue e neve,
accanto a voi, esistenze del deserto.
II
Jesùs Gutiérrez (del Movimento agrarista)
A MONTERREY morì mio padre,
Genovevo Gutiérrez. S'era unito
a Zapata. Di notte i cavalli
vicino a casa, il fumo
dei federali, gli spari al vento,
l'uragano che sorge dal granturco,
portai il fucile da un punto all'altro,
dalle terre di Sonora,
a tratti dormivamo, fiumi e boschi
passando, a cavallo,
in mezzo ai morti, per difendere
la terra del povero, fagioli,
frittata, chitarra, e si andava
sino ai confini, eravamo polvere,
i signori ci stanavano,
finché da ogni pietra
sorgevano i nostri fucili.
Ecco la mia casa, la mia scarsa
terra, il certificato
firmato dal mio generale
Cárdenas, i tacchini,
gli anatroccoli nella laguna,
ormai più non si combatte,
mio padre è restato a Monterrey
e qui appesa alla parete,
vicino alla porta, la cartuccera,
il fucile pronto, il cavallo pronto,
per la terra, pel nostro pane,
domani chissà ancora al galoppo,
se il mio generale lo decide.
III
Luis Cortés (di Tocopilla)
COMPAGNO, io mi chiamo Luis Cortés.
Quando ci fu la repressione, mi presero
a Tocopilla. Mi schiaffarono a Pisagua.
Voi sapete, compagno, che cos'è.
Parecchi s'ammalarono, alcuni
impazzirono. E il peggior campo
di concentramento di González
Videla. Vidi morire Ángel Veas,
di cuore, una mattina. Fu tremendo
vederlo morire in questa sabbia assassina,
cinti di reticolati, dopo una vita
generosa. Quando mi sentii malato,
anch'io di cuore, mi trasferirono
a Garitaya. Non la conoscete, compagno.
E lassù in alto, ai confini con la Bolivia.
Un posto desolato, a cinquemila metri.
C'è un'acqua salmastra da bere, peggio
dell'acqua del mare, e piena di pidocchi
come vermi rosa, che pullulano.
Fa freddo e sembra che il cielo, sopra
la solitudine, dovesse caderci addosso,
addosso al mio cuore che più non reggeva.
Gli stessi carabinieri ebbero compassione,
e contro l'ordine di farci morire
visto che non mandavano neanche una barella,
mi legarono a un mulo e scendemmo dai monti:
26 ore camminò il mulo, e il mio corpo
era a pezzi, compagno, tra la cordigliera senza strade
e il cuore malato, eccomi qui, e con tutti
gli acciacchi, non so quanto ancora vivrò,
ma questo sta a voi, compagno, non voglio chieder nulla,
dite voi che cosa fa al popolo quel dannato,
a noi che l'abbiamo portato lassù dove ride
col riso da iena sopra i nostri dolori,
voi, compagno, ditelo, ditelo, non importa la mia morte
o le nostre sofferenze perché la lotta è lunga,
ma si sappiano tutti questi patimenti,
si conoscano, compagno, non lo dimenticate.
IV
Olegario Sepúlveda (Calzolaio, Talcahuano)
OLEGARIO SEPÚLVEDA mi chiamo.
Faccio il calzolaio, e sono zoppo
dal tempo del gran terremoto.
Sul casamento un pezzo di collina
e il mondo sopra la mia gamba.
Là gridai per due giorni,
ma la bocca mi si riempì di terra,
gridai sempre più fioco
fino a che m'addormentai per morire.
Fu un gran silenzio il terremoto,
il terrore sulle colline,
le lavandaie piangevano,
una montagna di polvere
seppellì le parole.
Qui mi vede con questa suola
di fronte al mare, unica cosa pura,
le onde non dovrebbero
arrivare azzurre alla mia porta.
Talcahuano, le tue scale sporche,
i tuoi portici di miseria,
sulle colline acqua fradicia,
legni rotti, grotte nere
dove il cileno uccide e muore.
(Oh, dolori del filo ininterrotto
della miseria, lebbra del mondo,
sobborgo dei morti, cancrena
accusatrice e velenosa!
Siete mai arrivati dal tetro
Pacifico, di notte, nel porto?
Avete toccato tra le pustole
la mano del bimbo, la rosa
schizzata di sale e d'orina?
Avete sollevato gli occhi
su per le scale contorte?
Avete visto la mendicante
come un fil di ferro nella mondezza
tremare, alzare le ginocchia
e guardare dal fondo dove
non ci sono più lacrime ne odio?)
Faccio il calzolaio a Talcahuano.
Sepúlveda: di fronte al molo grande.
Quando vuole son qui: noi poveri,
signore, non chiudiamo mai la porta.
V
Arturo Carrión (Marinaio, Iquique)
GIUGNO 1948. Cara Rosaura, eccomi
qui, a Iquique, carcerato, mandami una camicia
e il tabacco. Non so
fino a quando durerà questa storia.
Quando m'imbarcai sul «Glenfoster»
pensai a te, ti scrissi da Cadice,
là fucilavano a man bassa, poi fu
più triste ad Atene, quella mattina
nel carcere uccisero a fucilate
ben duecentosettantatre ragazzi:
il sangue colava giù lungo il muro,
vedemmo uscire gli ufficiali greci
coi capi nordamericani, che ridevano:
il sangue del popolo gli piace,
ma c'era come un fumo nero
per la città, nascosto era il pianto, il dolore, il lutto:
ti comprai cartoline in serie, e là
conobbi un compatriota cileno,
che ha un piccolo ristorante, mi disse
vanno male le cose, c'è tanto odio,
meglio fu poi in Ungheria,
i contadini hanno la terra,
distribuiscono libri; a New York
trovai la tua lettera, ma qui
tutti gli dan sotto a colpire il poveraccio,
e io, come sai, vecchio marinaio,
solo perché sono del sindacato,
mi tirarono fuori di coperta
e subito mi rivolsero un sacco
di stupide domande, m'arrestarono;
la polizia è da tutte le parti,
e ovunque pianto, pure nella pampa;
fino a quando si andrà avanti così,
lutti si chiedono, e oggi è una botta
e domani un'altra per il povero,
dicono che a Pisagua son duemila,
io domando che succede nel mondo,
ma non è consentito far domande,
così dice la polizia: ricordati il tabacco,
parla con Rojas
se non è già dentro, non piangere,
il mondo ha già fin troppe
lacrime, ci vuole un'altra cosa
e qui ti dico a presto, t'abbraccia
e ti bacia tuo marito che t'ama,
Arturo Carrión Cornejo, carcere
d'Iquique.
VI
Abraham Jesús Brito (Poeta popolare)
JESÚS BRITO si chiama, Jesús Parrón o popolo,
e andò spargendo acqua dagli occhi,
e dalle mani andò mettendo radici,
finché lo piantarono di nuovo dove stava
prima d'essere, prima che affiorasse
dal territorio, fra povere pietre.
E fu, tra miniera e marinaio, uccello
nodoso, patriarcale sellaio
dalla corteccia dolce della patria terribile:
quando più fredda era, più azzurra la trovava;
quando più dura la terra, più luna gli ispirava:
quanta più fame, e tanto più cantava.
E tutto il mondo ferroviario apriva
con la sua chiave e la sua lira sarmentosa,
e nella spuma della patria andava
carico di pacchettini stellati,
lui, albero del rame, già irrigava
ogni piccolo trifoglio spumato,
lo spaventoso delitto, l'incendio,
e la rama dei fiumi tutelari.
La sua voce era quella dei rauchi gridi
spersi nella notte dei rapimenti,
egli recava campane torrenziali
raccolte di notte nel suo cappello,
e raccattava nel suo logoro sacco
le straripanti lacrime del popolo.
Andava per gli arenosi cunicoli,
per la fonda vastità del salnitro,
per le aspre colline Iitorali
costruendo la romanza chiodo a chiodo,
a coppo a coppo elevando il verso:
lasciandovi le macchie delle mani
e le gronde della ortografia.
Brito, lungo i muri della capitale,
in mezzo a tutto il rumore dei caffè,
andavi come un albero vagante
cercando terra con i piedi profondi,
finché andasti a mettere radici,
e a farti pietra, zolla e miniera,
Brito, la tua maestà fu percossa
come un tamburo di maestoso cuoio
ed era una monarchia all'intemperie
il tuo dominio d'albereto e popolo.
Albero errante, ora le tue radici
cantano sotto la terra, e nel silenzio.
Un poco più profondo sei tu ora.
Ora la terra hai per te, e il tempo.
VII
Antonino Bemales (Pescatore, Colombia)
IL FIUME Magdalena scorre come la luna,
lento sul pianeta di foglie verdi,
un uccello rosso strilla, ronza il suono
di vecchie nere ali, e le sponde
tingono il passaggio d'acque e acque.
Il fiume è tutto, tutta la vita è fiume,
e Antonino Bernales era fiume.
Pescatore, carpentiere, rematore,
ago da rete, chiodo per gli scafi,
martello e canto: tutto era Antonino
mentre il Magdalena come la luna lenta
muoveva la corrente delle vite del fiume.
Più in su, a Bogotà, fiamme, incendi,
sangue, si sente dire, non è ben chiaro,
Gaytán è morto. Come uno sciacallo
tra le foglie la risata di Laureano
attizza le fiammate, un tremito
di popolo come un gran brivido
percorre il Magdalena.
È Antonino Bernales il colpevole.
Non s'è mosso dalla piccola capanna.
Ha trascorso nel sonno quei giorni.
Ma gli avvocati l'hanno decretato,
ed Enrique Santos esige sangue.
Tutti si uniscono sotto le marsine.
Antonino Bernales è caduto
assassinato dalla vendetta,
è caduto aprendo le braccia al fiume,
tornando al suo fiume come all'acqua madre.
Il Magdalena porta al mare il suo corpo
e dal mare ad altri fiumi, ad altre acque
e ad altri mari e ad altri piccoli fiumi
girando attorno alla terra.
E ancora
entra nel Magdalena, sono i margini
che ama, apre le braccia d'acqua rossa,
passa tra ombre, passa tra luce densa,
e ancora prende la sua strada d'acqua.
Antonino Bernales, nessuno può
scorgerti nel letto del fiume, io sì, io ti ricordo
e sento trasportare il tuo nome
che non può morire e avvolge la terra,
un nome appena, fra i nomi, popolo.
Vili
Margarita Naranjo (Compagnia del salnitro «Maria Elena», Antofagasta)
SONO morta. Sono della Maria Elena.
Tutta la mia vita l'ho vissuta nella pampa.
Abbiamo dato il sangue per la Compagnia
statunitense, prima i miei genitori, poi i fratelli.
Non c'era sciopero, niente, ma ci accerchiarono.
Era notte, arrivò tutto l'Esercito,
andavano di casa in casa a svegliare la gente,
e la portavano al campo di concentramento.
Speravo che non ci avrebbero preso.
Mio marito ha lavorato tanto per la Compagnia,
e per il Presidente, è stato il più bravo
a ottenere i voti di qui, è amato da tutti,
nessuno ha niente contro di lui, egli lotta
per i suoi ideali, è puro e onorato
come pochi. Allora vennero alla nostra porta,
agli ordini del Colonnello Urízar,
e lo tirarono fuori mezzo nudo e a spinte
lo gettarono nel camion che partì nella notte,
verso Pisagua, verso l'oscurità. Allora
mi parve di non poter più respirare, mi parve
che la terra mi mancasse sotto i piedi,
è tanto il tradimento, tanta l'ingiustizia,
che mi salì in gola come un pianto strozzato
che non mi lasciò vivere. Mi portarono da mangiare
le compagne, ma dissi: «Non mangerò finché non tornerà».
Al terzo giorno si rivolsero al signor Urízar,
che si fece una grossa risata, spedirono
telegrammi su telegrammi a cui il tiranno di Santiago
non rispose. Mi lasciai dormire e morire,
senza mangiare, strinsi i denti per non prendere
neppure la minestra o l'acqua. No, non tornò,
e a poco a poco mi spensi, e mi seppellirono:
qui, nel cimitero della fabbrica di salnitro,
c'era quel pomeriggio un vento di sabbia,
piangevano i vecchi e le donne e cantavano
i canti che tante volte ho cantato con loro.
Se avessi potuto, avrei guardato per vedere
se c'era Antonio, mio marito, ma no, non c'era,
non lo lasciarono venire neppure alla mia morte:
ora, sono qui morta, nel cimitero della pampa,
non c'è che solitudine attorno a me, che più non esisto,
che senza di lui più non esisterò, senza di lui.
IX
José Cruz Achachalla (Minatore, Bolivia)
SISSIGNORE, José Cruz Achachalla,
della Sierra de Granito, a sud di Oruro.
Là deve ancora vivere
mia madre Rosalia:
lavora con certi signori,
a cui lava i panni.
Pativamo la fame, capitano,
e quelli con una bacchetta
picchiavano mia madre tutti i giorni.
Per questo mi son fatto minatore.
Scappai per le alte montagne,
una foglietta di coca, signore,
poche frasche sulla testa
e giù a camminare, a camminare.
Gli avvoltoi mi seguivano dal cielo,
e io pensavo: sono migliori
dei signori bianchi d'Oruro,
e così andai fino al territorio
delle miniere.
Sono già passati
quarant'anni, io ero allora
un ragazzo affamato. I minatori
mi raccolsero. Come apprendista,
lavorai nelle oscure gallerie,
unghia su unghia contro la terra,
e raccolsi lo stagno nascosto.
Non so dove e non so come
escono i lingotti argentati:
viviamo male, le case rotte,
e ancora la fame, signore,
e quando
ci riuniamo, capitano,
per avere un «peso» in più di salario,
il vento rosso, il bastone, il fuoco,
la polizia ci picchiava,
e qui sono, dunque, capitano,
licenziato dal lavoro,
dite voi dove posso andare,
nessuno mi conosce a Oruro,
sono vecchio come le pietre,
non posso più attraversare i monti,
che vado a fare nelle strade,
e qui rimango, a questo punto,
mi seppelliscono nello stagno,
solo lo stagno mi conosce.
José Cruz Achachalla, sì,
è inutile che muovi più i piedi,
fin qui sei arrivato, fin qui,
Achachalla, fin qui sei arrivato.
X
Eufrosino Ramirez (Casa Verde, Chuquicamata)
DOVEVAMO prendere le lastre calde
del rame con le mani, e depositarle
sulla pala meccanica. Uscivano quasi ardenti,
pesavano come il mondo, e noi estenuati
trasportavamo le lamine del minerale, a volte
qualcuna ti cadeva sul piede e lo fracassava,
o sulla mano e ti lasciava un moncherino.
Vennero i gringos e dissero: «Portatele
più in fretta, e andrete prima a casa».
A mala pena, per andarcene prima,
accorciammo i tempi. Ma quelli insistettero:
«Ora lavorate meno, e prenderete meno».
E ci fu sciopero alla Casa Verde, dieci settimane
di sciopero, e quando tornammo al lavoro,
bastò un pretesto: dove hai i tuoi arnesi?,
mi gettarono in mezzo alla strada. Guardi queste mani,
sono soltanto calli che mi ha prodotto il rame,
e mi senta il cuore, non le sembra
che mi sobbalza?, il rame te lo maciulla,
e ora posso andare a stento da un posto all'altro,
affamato, a chiedere lavoro e non lo trovo:
pare che mi vedano ricurvo, come se portassi dentro
le foglie invisibili del rame che m'uccidono.
XI
Juan Figueroa (Casa dello Iodio «Maria Elena», Antofagasta)
LEI è Neruda? Avanti, compagno.
Sì, sono della Casa dello Iodio,
non ne restano altri vivi. Resisto.
So che non sono vivo, che m'aspetta
la terra della pampa. Sono quattr'ore
al giorno, nella Casa dello Iodio.
Viene da certi tubi, esce come una massa,
come una gomma violacea. Lo passiamo
da un mastello all'altro, lo avvolgiamo
come una creatura. E frattanto
l'acido ci corrode, e ci scava,
penetrando dagli occhi e dalla bocca,
dalla pelle o dalle unghie.
Dalla Casa dello Iodio non s'esce
cantando, compagno. E se domandiamo
che ci diano altri «pesos» di salario
per i figlioli che non hanno scarpe,
dicono: «Mosca vi comanda», compagno,
e dichiarano lo stato d'assedio,
e ci circondano come bestie e ci picchiano,
perché son così, compagno, questi figli di puttana!
Ed eccomi qui, sono ormai l'ultimo:
dove sta Sánchez?, dove sta Rodríguez?
Marciti sotto la polvere di Polvillo.
Alla fine la morte gli ha dato ciò che volevamo:
i loro volti hanno maschere di iodio.
XII
Il mastro Huerta (della miniera «La Despreciada», Antofagasta)
QUANDO, signore, lei andrà al Nord,
vada alla miniera «La Despreciada»,
e là domandi del mastro Huerta.
Da lontano non vedrà nulla,
vedrà solo grigi arenili.
Poi, vedrà le strutture,
la teleferica, i mucchi di detriti.
Le fatiche, le sofferenze
non si vedono, sono sotto terra,
là si muovono, schiacciano uomini,
oppure riposano, distese,
e si trasformano in silenzio.
Era «picano» il mastro Huerta.
Altezza 1,95.
I «picanos» sono quelli che rompono
il terreno in forte discesa,
quando la vena si sprofonda.
500 metri sotto il suolo,
con l'acqua fino alla cintola,
il «picano» non fa che scavare.
Non esce da quell'inferno
che ogni quarantott'ore,
quando le perforatrici
nella roccia, nell'oscurità,
nel fango, lasciano la polpa
entro cui passa la miniera.
Il mastro Huerta, gran «picano»,
sembrava che riempisse il pozzo
con le sue spalle. Entrava
cantando come un condottiero.
Usciva tutto graffiato, giallo,
incurvato, smunto, e i suoi occhi
avevano lo sguardo d'un morto.
Poi si trascinò per la miniera.
Non poté più scendere nel pozzo.
L'antimonio l'aveva mangiato dentro.
Divenne magro da far paura.
E non poteva più camminare.
Aveva le gambe punzecchiate
come da spilli, e poiché era
cosi alto sembrava
un fantasma affamato
e, lei sa, implorante senza implorare.
Non aveva ancora trent'anni.
Mi domando dove sta sepolto.
Nessuno lo potrà mai dire,
perché la sabbia e il vento abbattono
e poi ricoprono le croci.
È lassù, a «La Despreciada»,
dove ha lavorato, il mastro Huerta.
XIII
Amador Cea (Coronel, Cile, 1949)
POICHÉ avevano arrestato mio padre
e passò il Presidente da noi eletto
e disse che siamo tutti liberi, chiesi che lasciassero
libero il mio vecchio.
Mi portarono via e mi picchiarono un giorno intero.
Non conosco nessuno in caserma. Non so, non posso
neppure ricordare le loro facce. Era la polizia.
Quando perdevo conoscenza, mi gettavano
acqua addosso e continuavano a picchiarmi.
A sera, prima d'uscire, mi trascinarono
in una stanza da bagno e mi ficcarono
la testa dentro la tazza del cesso
piena d'escrementi. Soffocavo.
«E adesso chiedi la libertà al Presidente,
che ti manda questo regalo», mi dicevano.
Sono carico di botte, e questa costola me l'hanno rotta.
Ma dentro sono come prima, compagn.
A noi ci rompono solo con la morte.
XIV
Benilda Varala (Concepción, Città Universitaria, Cile, 1949)
PREPARAI il mangiare ai miei bambini e uscii.
Volli entrare a Lota per vedere mio marito.
Come tutti sanno, là comanda la polizia
e nessuno può entrare senza suo permesso.
Non gli piacque il mio viso. Erano gli ordini
di González Videla, prima di fare i suoi discorsi,
far paura alla nostra gente. E così fu: m'afferrarono,
mi spogliarono, mi gettarono a terra a botte.
Perdetti i sensi. Mi risvegliai stesa al suolo
nuda, con un lenzuolo bagnato sopra
il corpo insanguinato. Riconobbi un carnefice:
si chiama Vìctor Molina quel bandito.
Appena apersi gli occhi, ripresero a colpirmi
con bastoni di gomma. Ho tutto il corpo livido
di sangue, e non riesco a muovermi.
Erano cinque, e tutti e cinque mi picchiavano
come se fossi un sacco. E questo durò sei ore.
Se non sono morta è per potervi dire, compagni:
dobbiamo lottare ancor più, finché scompaiano
questi carnefici dalla faccia della terra.
E perché i popoli sappiano che cosa valgono
i loro discorsi all'ONU sopra la «libertà»,
mentre i banditi uccidono a bastonate le donne
nei sotterranei, senza che nessuno lo sappia.
Qui non è successo nulla, diranno, e Don Enrique
Molina ci parlerà del trionfo dello «spirito».
Ma non sarà sempre così.
Un fantasma percorre il mondo, e possono
cominciare di nuovo
a picchiare nelle cantine: pagheranno i loro delitti-.
XV
Calero raccoglitore di banane (Costarica, 1940)
NON TI CONOSCO. Nelle pagine di Fallas ho letto la tua vita,
gigante oscuro, ragazzo maltrattato, stracciato ed errabondo.
Da quelle pagine s'effondono il tuo riso e le canzoni
nelle piantagioni, tra il fango scuro, la pioggia e il sudore.
Che vita quella dei nostri, che gioie spezzate,
che forze distrutte dal cibo infame,
che canti prostrati dalle case a pezzi,
che possibilità dell'uomo disfatte dall'uomo!
Ma cambieremo la terra. Non andrà la tua ombra allegra
di pozza in pozza verso la morte ignuda.
Cambieremo, unendo la tua mano alla mia,
la notte che ti ricopre con la sua verde vota.
(Le mani dei morti che son caduti
sono saldate con queste e altre mani
di costruttori, come il picco andino
con l'abisso del suo ferro sepolto.)
Cambieremo la vita perché la tua stirpe
sopravviva e crei la sua luce organizzata.
XVI
Catrastofe a Sewell
SÁNcHEZ, Reyes, Ramírez, Núñez, Álvarez.
Questi nomi sono come le fondamenta del Cile.
Il popolo è il fondamento della patria.
Se li fate morire, la patria crollerà,
si dissanguerà fino a restare vuota.
Ocampo ci ha detto: ogni minuto
c'è un ferito e ogni ora un morto.
Ogni minuto ed ogni ora il nostro
sangue si versa, ed il Cile muore.
Oggi è il fumo dell'incendio, ieri è stato il grisù,
l'altro ieri la frana, domani il mare o il freddo,
la macchina o la fame, l'imprevidenza o l'acido.
Ma là dove muore il marinaio,
là dove muore l'uomo della pampa,
là dove come a Sewell sono morti,
di tutto, delle macchine e dei vetri,
dei ferri e dei fogli c'è stata cura,
e non dell'uomo, della donna, del bimbo.
Non è il gas: è l'avidità che uccide a Sewell.
Questo rubinetto di Sewell, chiuso perché neppure una
goccia d'acqua scenda per il povero caffè dei minatori,
ecco il delitto, il fuoco non ha colpa.
Da ogni parte al popolo son chiusi i rubinetti
perché l'acqua della vita non si diffonda.
Ma la fame e il freddo e il fuoco che divora
la nostra razza, il fiore, la base del Cile,
gli stracci, la casa miserabile,
questo non si raziona, ce n'è sempre abbastanza
perché a ogni minuto ci sia un ferito
e a ogni ora un morto.
Noi non abbiamo dèi a cui ricorrere.
Le povere madri vestite di nero
avranno pregato piangendo tutto il loro pianto.
Noi non preghiamo.
Stalin ha detto: «II nostro miglior tesoro
è l'uomo»,
le fondamenta, il popolo.
Stalin innalza, spazza, costruisce, fortifica,
conserva, osserva, protegge, alimenta,
ma punisce anche.
E questo è ciò che volevo dirvi, compagni:
ora ci vuole il castigo.
Deve finire questo crollo umano,
questo salasso della patria amata,
questo sangue che sgorga dal cuore del popolo
a ogni minuto, questa morte
d'ogni ora.
Io mi chiamo come loro, come quelli che son morti.
Io sono anche Ramírez, Muñoz, Pérez, Fernández.
Mi chiamo Álvarez, Núñez, Tapia, López, Contreras.
Sono parente di tutti quelli che muoiono, sono popolo,
e per questo sangue che cade sono in lutto.
Compatrioti, fratelli morti, di Sewell, morti
del Cile, operai, fratelli, compagni,
oggi che siete muti, saremo noi a parlare.
Perché il vostro sacrificio ci aiuti
a costruire una patria severa
che sappia fiorire e castigare.
XVII
La terra si chiama Juan
DIETRO i liberatori c'era Juan che lavorava,
pescava e combatteva, nel suo lavoro di
falegname o nella sua fradicia miniera.
Le sue mani hanno arato la terra e misurato
le strade.
Le sue ossa sono dovunque.
Eppure vive. È tornato dalla terra. È nato.
È nato nuovamente come una pianta eterna.
Tutta la notte impura cercò di sprofondarlo
e oggi egli consolida nell'alba le labbra indomabili.
Lo legarono, e ora è tenace soldato.
Lo picchiarono, e conserva una salute di quercia.
Gli tagliarono le mani, e con quelle oggi colpisce.
Lo seppellirono, e viene a cantare con noi.
Juan, tua è la porta e la strada.
La terra
è tua, popolo, la verità è rinata
con te, dal tuo sangue.
Non sono riusciti a sterminarti. Le tue radici,
albero d'umanità,
albero d'eternità,
oggi sono difese dall'acciaio,
oggi sono difese dalla tua stessa grandezza
nella patria sovietica, blindata
contro i morsi del lupo agonizzante.
Popolo, dalla sofferenza è nato l'ordine.
Dall'ordine la tua bandiera di vittoria è nata.
Innalzala con tutte le mani che sono cadute,
difendila con tutte le mani che s'allacciano:
e che avanzi verso la lotta finale, verso la stella
l'unità dei tuoi volti invincibili.
IX
SI DESTI IL TAGLIALEGNA
... E tu Cafarnao, che fino ai
cieli ti sei innalzata, fino agli
inferi sarai sprofondata...
SAN LUCA, X, 15
I
Si desti il taglialegna (1948)
A OVEST del Colorado River
c'è un luogo che amo.
Là mi sento chiamato con tutto quanto
in me trascorre palpitando,
con quanto sono stato e sono,
con quanto io sostengo.
Alte rocce rosse vi sono: l'aria
selvaggia di mille mani
ne fece edificate strutture:
cieco lo scarlatto sgorgò dagli abissi
e in esse divenne rame, fuoco e forza.
America, tesa come pelle di bufalo,
aerea e chiara notte del galoppo,
là, verso le montagne stellate,
io bevo alla tua coppa di verde rugiada.
Sì, lungo l'aspra Arizona e il Wisconsin nodoso,
fino a Milwaukee issata contro il vento e la neve,
o attraverso gli infocati pantani di West Palm,
presso le pinete di Tacoma, nel denso
odore d'acciaio dei tuoi boschi,
andai terra madre calpestando,
azzurre foglie, sassi di cascata,
uragani con fremiti come d'intera musica,
fiumi con litanie di monasteri,
anatre e mele, terre e acque,
e un'infinita quiete perché nasca il grano.
Là, nella mia pietra centrale, potei tendere all'aria
occhi, orecchi, mani, fino a udire
libri, locomotive, neve, lotte,
fabbriche, tombe, vegetali, passi,
e da Manhattan la luna sulle navi,
il canto della macchina che fila,
il cucchiaio di ferro che divora terra,
la perforatrice col suo colpo di condor,
e tutto ciò che taglia, schiaccia, scorre, cuce:
nascere e ripetersi di ruote e di esseri.
Amo la piccola casa del farmer. Le puerpere
dormono
come in un aroma di sciroppo al tamarindo, le lenzuola
appena stirate. Arde
il fuoco in mille case circondate di cipolle.
(Gli uomini quando cantano presso il fiume
hanno una voce roca come le pietre del fondo:
il tabacco spuntò dalle sue larghe foglie
e come un genio del focolare venne in queste case.)
Entrate nel Missouri, guardate il cacio e la farina,
le tavole odorose, rosse come violini,
l'uomo che naviga nell'orzo,
il puledro azzurro appena domato fiuta
fragranze di pane e d'erba medica:
campane, papaveri, fucine,
mentre negli sconquassati cinema silvestri
l'amore schiude il suo sorriso
sopra il sogno nato dalla terra.
È la tua pace che amiamo, non la tua maschera
Non è bello il tuo viso di guerriero.
Tu sei bella e vasta, Nordamerica.
Da umile culla provieni come una lavandaia,
presso i tuoi fiumi, bianca.
Costruita nell'ignoto,
è una pace d'alveare la tua dolcezza.
Amiamo il tuo uomo con le mani rosse
di fango dell'Oregon, il ragazzo negro
che ti recò la musica sgorgata
nella sua regione d'avorio: amiamo
la tua città, la tua sostanza,
la tua luce, i tuoi congegni, l'energia
del West, il pacifico
miele d'arnia e di villaggio,
il gigantesco giovane sul trattore,
l'avena che ereditasti
da Jefferson, la rumorosa ruota
che misura il tuo terrestre oceano,
il fumo d'una fabbrica e il bacio
numero mille d'una nuova colonia:
il tuo sangue contadino noi amiamo:
la tua mano popolare unta d'olio.
Sotto la notte delle praterie, ormai è tanto tempo,
riposano sulla pelle di bufalo in un severo
silenzio di sillabe, il canto
di ciò ch'io fui prima di essere, di ciò che noi fummo.
Melville è un abete marino, dai suoi rami
nasce una curva di carena, un braccio
di legno e di nave. Whitman innumerevole
come i cereali, Poe nella sua matematica
oscurità, Dreiser, Wolfe,
recenti ferite della nostra stessa assenza,
e Lockridge ultimo, tutti legati agli abissi,
e tanti altri, tutti legati all'ombra:
su di essi s'accende la stessa aurora dell'emisfero
e di loro è fatto ciò che noi siamo.
Poderosi fanciulli, capitani ciechi,
talora atterriti da avvenimenti e fronde,
dalla gioia e dal dolore interrotti,
sotto le praterie attraversate dal traffico,
quanti morti nelle pianure mai prima solcate:
innocenti torturati, profeti stampati di fresco,
sulla pelle di bufalo delle praterie.
Dalla Francia, da Okinawa, dagli atolli
di Leyte (Norman Mailer lo ha descritto),
dall'aria infuriata e dalle onde,
sono tornati quasi tutti i ragazzi.
Quasi tutti... Amara e verde fu la storia
di fango e di sudore: non ascoltarono
abbastanza il canto delle scogliere,
e non toccarono mai, forse solo per morire nelle isole, le
corone
di fulgore e fragranza:
sangue e sterco
l'inseguirono, sudiciume e topi,
e uno stracco e desolato cuore che lottava.
Eppure ormai sono tornati,
voi li avete accolti
nell'ampio spazio delle aperte distese
ed essi (quelli che sono tornati) si sono chiusi
come una corolla di petali anonimi e infiniti
per poi rinascere e dimenticare.
II
MA in più hanno trovato
un ospite nella casa,
o vennero con occhi nuovi (o erano stati ciechi prima),
o gli ispidi rami lacerarono le loro palpebre,
o nuove cose ci sono nelle terre d'America.
Quei negri che con te combatterono,
duri e sorridenti, guardateli:
Hanno piantato una croce
che brucia davanti alle loro case,
hanno impiccato e arso il tuo fratello di sangue:
prima ne avevano fatto un combattente, oggi gli negano
parola e decisione; di notte
si riuniscono i boia
incappucciati, con la croce e la frusta.
(Ben altro
si sentiva dire oltremare combattendo.)
Un ospite inatteso
come un vecchio polipo corroso,
immenso, avviluppante,
s'insediò nella tua casa, mio povero soldato;
i giornali stillano l'antico veleno, coltivato a Berlino.
I rotocalchi (Times, Newsweek, ecc.) sono diventati
fogli gialli di delazione: Hearst,
che cantò un canto d'amore ai nazisti, sorride
e aguzza le grinfie, perché ripartiate
verso le scogliere o le steppe
a combattere per questo ospite che t'occupa la casa.
E non ti danno tregua: vogliono continuare a vendere
acciaio e proiettili, preparano altro esplosivo
che bisogna smerciare presto, prima che venga
nuovo esplosivo e cada in nuove mani.
Da ogni parte i padroni insediati
nella tua dimora allungano le falangi:
amano la Spagna nera e t'offrono una coppa di sangue
(un fucilato, cento fucilati): il cocktail Marshall.
Scegliete giovane sangue: contadini
di Cina, prigionieri
di Spagna,
sangue e sudore di Cuba zuccherifera,
lacrime di donne
delle miniere di rame e di carbone in Cile,
poi sbattetelo con energia,
come un colpo di garrote
e non dimenticate pozzetti di ghiaccio e alcune gocce
del canto Difendiamo la cultura cristiana.
È amaro questo miscuglio?
Ti abituerai, caro soldato, a berlo.
Da qualsiasi parte nel mondo, alla luce della luna,
o la mattina, nell'albergo di lusso,
chieda, signore, questa bevanda che rinforza e rinfresca
e la paghi con un buon biglietto
che porta impressa l'immagine di Washington.
Hai anche scoperto tornando che Charles Chaplin,
l'ultimo padre della tenerezza nel mondo,
deve scappare, e che gli scrittori (Howard Fast e altri),
gli scienziati e gli artisti
del tuo paese
debbono essere processati per un-american
pensieri
davanti a un tribunale di mercanti arricchiti dalla
guerra.
Fino alle ultime frontiere del mondo giunge il terrore.
Mia zia legge queste notizie spaventata,
e tutti gli occhi della terra guardano
questi tribunali di vergogna e di vendetta.
Sono le corti dei Babbitt sanguinari,
degli schiavisti, degli assassini di Lincoin, .
sono le nuove inquisizioni ora innalzate
non dalla croce (anche allora era orribile e inspiegabile),
ma dall'oro rotondo che risuona
sui tavoli di postriboli e di banche
e che diritto non ha di giudicare.
A Bogotà si riunirono Moriñigo, Trujillo,
González Videla, Somoza, Dutra, e applaudirono.
Tu, giovane americano, non li conosci: sono
i tetri vampiri dei nostri cieli, e amara
è l'ombra delle loro ali:
carcere,
martirio, morte, odio: sì, le terre
del Sud, con petrolio e nitrato,
concepirono mostri.
Di notte, nel Cile, a Lota,
nell'umile e fradicia casa dei minatori,
piomba l'ordine del carnefice. I figli
si destano piangendo.
Mille di loro
sono in prigione e pensano.
Nel Paraguay
l'ombra fitta della foresta nasconde
le ossa del patriota assassinato, uno sparo
riecheggia
nella fosforescenza dell'estate.
Lì la verità
è morta.
Perché non intervengono,
a difesa dell'Occidente, a San Domingo, Mister
Vandenberg,
Mister Armour, Mister Marshall e Mister Hearst?
Perché nel Nicaragua il Signor Presidente,
svegliato di notte, torturato, dovette
fuggire per poi morire in esilio?
(Ma banane ci sono da difendere laggiù, non libertà,
e per questo basta Somoza.)
Queste grandi
idee vittoriose in Grecia
e in Cina fanno da sostegno
a governi macchiati come immonde stuoie.
Oh, povero soldato!
III
ANCH'IO America, molto oltre le tue terre procedo,
e laggiù alzo la mia casa errante, volo, passo,
canto e discorro attraverso i giorni.
E in Asia, nell'URSS, negli Urali mi soffermo
e distendo la mia anima imbevuta di solitudini e resina.
Amo tutto ciò che a colpi d'amore e di lotta
nelle grandi estensioni l'uomo ha creato.
L'antica notte dei pini
e il silenzio come un'alta colonna
circondano ancora la mia casa sugli Urali.
Grano e acciaio qui sono sbocciati
dalla mano dell'uomo, dal suo petto.
E un canto di martelli rallegra il bosco antico
come un nuovo fenomeno azzurro.
Da qui osservo vaste regioni umane,
geografia di bambini e di donne, amore,
fabbriche e canzoni, scuole
che come violacciocche brillano nella foresta
dove fino a ieri dimorava la volpe selvatica.
Da questo punto la mia mano sulla carta abbraccia
il verde delle praterie, il fumo
di mille officine, gli aromi
tessili, la meraviglia
dell'energia dominata.
La sera faccio ritorno
lungo nuove strade da poco tracciate
ed entro nelle cucine
dove bollono i cavoli e dove nasce
una nuova sorgente per il mondo.
Anche qui tornano i ragazzi,
ma diversi milioni rimasero laggiù,
appesi a ganci, penzolanti dalle forche,
bruciati entro forni speciali,
distrutti al punto da non lasciare di sé
che il nome nel ricordo.
Anche le popolazioni furono assassinate:
assassinata fu la terra sovietica:
si confusero milioni di vetri e di ossa,
di vacche e di fabbriche, e persino la primavera
scomparve ingoiata dalla guerra.
E tuttavia tornarono i ragazzi,
e l'amore per la patria costruita
s'era in loro mescolato a tanto sangue
che patria dicono con le vene,
che Unione Sovietica cantano col sangue.
Alta era la voce dei conquistatori
di Prussia e di Berlino quando tornarono
perché rinascessero le città,
gli animali e la primavera.
Walt Whitman, alza la tua barba d'erba,
guarda con me da questo bosco,
da queste montagne profumate.
Che cosa vedi laggiù, Walt Whitman?
Vedo, mi dice il mio fratello profondo,
vedo come lavorano le officine,
nella città che i morti rammentano,
nella capitale pura,
nella splendente Stalingrado.
Vedo dalla distesa combattuta,
dalla sofferenza e dall'incendio
nascere nell'umidità del mattino
un trattore che cigolando va per le pianure.
Dammi la tua voce e il peso del tuo petto sepolto,
Walt Whitman, e le gravi
radici del tuo volto
per cantare queste ricostruzioni!
Insieme cantiamo ciò che sorge
da tutte le pene, e che sgorga
dal gran silenzio, dalla severa
vittoria:
Stalingrado, si leva la tua voce d'acciaio,
solaio per solaio la speranza rinasce
come una casa collettiva,
e c'è un fremito di nuovo che va avanti
insegnando,
cantando
e costruendo.
Sì, dal sangue sorge Stalingrado
come un'orchestra d'acqua, di pietra e ferro
e il pane rinasce nelle panetterie,
la primavera nelle scuole;
essa innalza nuove impalcature, nuovi alberi,
mentre palpita il vecchio e ferreo Volga.
Questi libri
in casse ancora fresche di pino e di cedro,
stanno riuniti sopra la tomba
dei morti carnefici:
questi teatri eretti sulle rovine
coprono resistenza e martirio:
libri chiari come monumenti:
un libro sopra ogni eroe,
sopra ogni millimetro di morte,
sopra ogni petalo di questa gloria immutabile.
Unione Sovietica, se insieme raccogliessimo
tutto il sangue che hai versato nella lotta,
tutto quello che hai dato, come una madre, al mondo
perché la libertà agonizzante riavesse vita,
un nuovo oceano noi avremmo,
di tutti il più grande,
di tutti il più profondo,
come tutti i fiumi palpitante,
attivo come il fuoco dei vulcani araucani.
Affonda in questo mare la tua mano,
uomo di tutte le terre,
e sollevala poi per annegarvi
chi dimenticò, chi offese,
chi mentì e calunniò,
chi si unì ai cento botoli
del letamaio d'Occidente
per insultare il tuo sangue, Madre dei liberi!
Qui, dall'aria fragrante dei pini degli Urali
osservo la biblioteca che nasce
nel cuore della Russia,
il laboratorio dove opera
il silenzio, osservo i treni che trasportano
legna e canti verso le nuove città,
e da questa pace balsamica, come da un nuovo petto,
sorge un palpito: alla steppa
fanno ritorno colombe e ragazze,
e agitano il loro candore,
gli aranceti si popolano d'oro:
e ora il mercato,
ogni mattina presto,
ha un nuovo aroma,
un nuovo aroma che viene dalle alte terre
dove il martirio fu più grande:
gli ingegneri fanno vibrare di numeri
la mappa delle pianure
e gli acquedotti si torcono come lunghi serpenti
sulle terre del nuovo inverno vaporoso.
In ire stanze del vecchio Cremlino
vive un uomo che si chiama Stalin.
Tardi si spegne la luce della sua finestra.
Il mondo e il suo paese non gli lasciano riposo.
Altri eroi hanno creato una patria,
egli non solo ha concorso a concepire la sua,
ma pure a costruirla,
a difenderla.
Il suo immenso paese è quindi parte del suo essere
ed egli non ha riposo perché il paese non ha riposo.
Già la neve e i proiettili
lo videro andare incontro ai vecchi banditi
che volevano (come oggi) far rivivere
il knut e la miseria, l'angoscia degli schiavi,
l'assopito dolore di milioni di poveri.
Si oppose a quelli che, come Wrangel e Denikin,
I venivano spediti dall'Occidente a «difendere la
cultura».
E là quei paladini dei carnefici
ci lasciarono la pelle, e nell'ampio territorio
dell'URSS, Stalin lavorò notte e giorno.
Ma più tardi, in un'ondata di piombo,
vennero i tedeschi messi all'ingrasso da Chamberlain.
Lungo tutte le vaste frontiere,
in tutte le ritirate e le avanzate, dovunque Stalin li affrontò
e sino a Berlino, uragano di popoli, giunsero i suoi figli
e spaziosa recarono la pace di Russia.
Molotov e Voroscilov
sono là, li vedo,
sono là con gli altri, con gli alti generali,
loro, gli indomiti.
Fermi come querce sotto la neve.
Nessuno di loro possiede palazzi.
Nessuno ha per sé schiere di servi.
Nessuno si è arricchito in guerra
vendendo sangue.
Nessuno va a far la ruota, come un pavone,
a Rio de Janeiro o a Bogotá
per dare ordini ai piccoli satrapi macchiati di torture:
nessuno di loro ha duecento vestiti,
nessuno dispone d'azioni in fabbriche
d'armi,
e tutti, invece,
hanno investito azioni
nella gioia e nella costruzione
del vasto paese dove risuona l'alba
dischiusa nella notte della morte.
Essi hanno detto «compagno» al mondo.
E del falegname hanno fatto un re.
Per questa cruna non passerà un cammello.
Puliti furono i villaggi.
Divisa la terra.
Nobilitato lo schiavo.
Eliminato il mendicante.
Annientati i crudeli.
E luce fu fatta nella spaziosa notte.
Per questo, a te, ragazza dell'Arkansas, oppure
a te giovane dorato di West Point, o meglio
a te meccanico di Detroit, ovvero
a te scaricatore del vecchio porto di New Orleans,
a tutti parlo e dico: procedi sicuro,
apri il tuo orecchio all'ampio mondo umano.
Chi a te ora si rivolge
non è uno degli elegantoni dello State Department,
né uno dei feroci padroni dell'acciaio,
ma un poeta dell'estremo Sud d'America,
figlio d'un ferroviere della Patagonia,
americano come l'aria delle Ande,
esule oggi da una patria dove
carcere, tormenti e angosce governano su tutto,
mentre rame e petrolio lentamente
oro diventano per alcuni re stranieri.
Tu non sei
l'idolo che in una mano regge l'oro
e nell'altra la bomba.
Tu sei
ciò ch'io sono, che fui, ciò che dobbiamo
proteggere, la fraterna sostanza sotterranea
di un'America purissima, gente
semplice dei sentieri e delle vie.
Mio fratello Juan vende scarpe
come tuo fratello John,
mia sorella Juana sbuccia patate
come tua cugina Jane,
e il mio sangue è di minatori e marinai
come il tuo sangue, Peter.
Apriremo insieme, tu e io, tutte le porte
perché l'aria degli Urali attraversi
la cortina d'inchiostro,
diremo insieme, tu e io, al pazzo furioso:
«My dear guy, fin qui sei arrivato, ora fermati»,
qui la terra ci appartiene
perché più non si senta il sibilo
della mitragliatrice ma solamente
un canto, un canto ancora, e un altro canto.
IV
MA se tu armi i tuoi eserciti, Nordamerica,
per distruggere questa frontiera pura
e per mandare il beccaio di Chicago
a dirigere la musica e l'ordine
che amiamo,
noi sorgeremo dalle pietre e dall'aria
per morderti:
noi sorgeremo dall'ultima finestra
per rovesciarti addosso fuoco:
noi sorgeremo dalle acque più profonde
per inchiodarti con spine:
noi sorgeremo dal solco perché il seme
possa colpirti come un pugno colombiano,
noi sorgeremo per negarti pane e acqua,
noi sorgeremo per bruciarti nell'inferno.
Non posare quindi il tuo piede, soldato,
sulla dolce Francia, poiché lì noi staremo
affinché le verdi vigne diano aceto
e le ragazze povere ti mostrino il luogo
dov'è ancora caldo il sangue tedesco.
Non scalare i monti brulli di Spagna
perché ogni pietra diverrà di fuoco,
e per mill'anni laggiù combatteranno i prodi:
non ti perdere in mezzo agli oliveti perché mai
rimetterai piede a Oklahoma, e non entrare
in Grecia, che persino il sangue che oggi
versi
sgorgherà dalla terra per fermarvi.
Non venite a pescare a Tocopilla
perché il pescespada riconoscerà i vostri flagelli
e l'oscuro minatore d'Araucania
cercherà le antiche frecce spietate
che attendono, sepolte, nuovi conquistatori.
Non vi fidate del gaucho che canta la sua vidalita,
né dell'operaio dei frigoriferi.
Essi saranno dovunque, occhi e pugni,
come i venezolani che vi fanno la posta
con una bottiglia di petrolio in una mano e una chitarra
nell'altra.
E non entrare, non entrare neppure nel Nicaragua.
Sandino dormirà nella selva fino a quel giorno,
il suo fucile s'è coperto di liane e di pioggia,
il suo volto non ha più palpebre,
ma le ferite con cui l'avete ucciso sono vive
come le mani di Portorico che aspettano
la luce delle lame.
Implacabile a voi sarà il mondo.
E non solo le isole saranno spopolate, ma anche l'aria
che ormai conosce le parole a lei care.
Non arrischiarti a chiedere carne umana
all'alto Perù: nella nebbia corrosa dei monumenti
il dolce avo della nostra stirpe affila
contro di te le sue spade di ametista,
e la roca conchiglia di guerra chiama a raccolta
per le valli i guerrieri, i figli di Amaru
armati di fionda. E non cercare nelle cordigliere messicane
uomini che vengano a combattere l'aurora:
i fucili di Zapata non dormono,
sono bene oliati e puntano alle terre del Texas.
Non entrare a Cuba, che dal bagliore del mare,
dai faticati campi di canne da zucchero
un solo duro sguardo c'è che ti aspetta
e un solo grido, uccidere o morire.
Non toccare
la terra dei partigiani, la rumorosa
Italia: non andare oltre le file dei soldati in
jacket
che tieni a vivere a Roma, non andare oltre San Pietro:
più in là i rozzi santi dei villaggi,
i santi marini della pesca
amano il grande paese della steppa
dove di nuovo è sbocciato il mondo.
Non avvicinarti
a ponti di Bulgaria: non ti lasceranno il passo;
nei fiumi di Romania getteremo
sangue bollente che brucerà gli invasori:
Don salutare il contadino che ora conosce
la tomba dei padroni feudali, e sta all'erta
con il suo aratro e il suo fucile: non lo guardare
Perché t'avvamperà come una stella.
Non sbarcare
in Cina: non ci sarà più Ciang il Mercenario
circondato dalla sua putrida corte di mandarini:
e vi aspetterà una selva di falci contadine
e un vulcano d'esplosivi e di spari.
In altre guerre s'usarono fossati d'acqua
e poi lunghissimi reticolati, irti di punte e aculei,
ma questo fossato è più grande, quest'acque più fonde,
questi reticolati più duri di tutti i metalli.
Sono un atomo e un altro del metallo umano,
sono l'uno e i mille nodi di vite e vite umane:
sono gli antichi dolori dei popoli,
di tutte le remote valli e contrade,
di tutte le bandiere e di tutte le navi,
di tutte le grotte dove vissero ammassati,
di tutte le reti che affrontarono la tempesta,
di tutte le aspre rughe della terra,
di tutte le infernali caldaie soffocanti,
di tutti i telai e di tutte le fornaci,
di tutte le locomotive sperdute o riunite.
Questo reticolato gira mille volte intorno al mondo:
sembra che sia diviso, oppure esiliato,
ma d'un tratto s'uniscono le sue calamite
fino a riempire la terra.
Eppure ancora,
ancora più in là, raggianti e decisi,
duri come l'acciaio, e sorridenti,
pronti a cantare o a combattere
vi aspettano
uomini e donne della tundra e della taiga,
guerrieri del Volga che già vinsero la morte,
bambini di Stalingrado, giganti d'Ucraina,
tutta una grande e alta parete di pietra e di sangue,
di ferro e canti, di coraggio e speranza.
Se toccherete quel muro cadrete
inceneriti come il carbone delle fabbriche,
i sorrisi di Rochester diverranno tenebre,
ben presto sparsi all'aria delle steppe,
ben presto sepolti per sempre nella neve.
Verranno i combattenti: da quelli di Pietro il Grande
ai nuovi eroi che hanno stupito il mondo,
e le loro medaglie saranno freddi proiettili
che fischieranno senza tregua per tutta
l'ampia terra che oggi è fatta d'allegria.
E dal laboratorio coperto di convolvoli
uscirà anche l'atomo scatenato
verso le vostre città orgogliose.
V
MA nulla di tutto questo accada.
Si desti il Taglialegna.
Venga Abraham con la sua ascia
e col suo piatto di legno
a mangiare con i contadini.
La sua testa di corteccia,
i suoi occhi visti sulle travi,
sulle rughe delle querce,
tornino a guardare il mondo,
sovrastando il fogliame,
più in alto delle sequoias.
Entri pure nelle farmacie,
prenda un autobus per Tampa,
addenti una mela gialla,
vada in un cinema, e parli
con tutta la gente semplice.
Si desti il Taglialegna.
Venga Abraham, e gonfi
il suo vecchio lievito la terra
dorata e verde d'Illinois,
e alzi l'ascia fra il suo popolo
contro i nuovi schiavisti,
contro la frusta dello schiavo,
contro il veleno della stampa,
contro la merce di sangue
ch'essi vogliono vendere.
Marcino alfine insieme,
sorridendo e cantando,
il giovane bianco, il giovane negro,
contro le mura dell'oro,
contro il fabbricante d'odio,
contro il mercante del loro sangue,
cantando, sorridendo, trionfando.
Si desti il Taglialegna.
VI
PACE per i tramonti che verranno,
pace per il ponte, pace per il vino,
pace per le parole che m'inseguono
e mi sorgono nel sangue intrecciando
di terra e di amori l'antico canto,
pace per la città nella mattina
allorché il pane si sveglia, pace
per il Mississippi, fiume delle radici:
pace per la camicia del fratello,
pace sul libro come un timbro d'aria,
pace per il grande colcos di Kiev,
pace per le ceneri di questi morti
e di quest'altri, pace per il ferro
nero di Brooklyn, pace per il postino
che va di casa in casa come il giorno,
pace per il coreografo che grida
con un megafono verso i caprifogli,
pace per la mia mano destra,
che soltanto vuol scrivere Rosario:
pace per il boliviano taciturno
come un blocco di stagno, pace
perché tu possa sposarti, pace
per tutte le segherie del Bío-Bío,
pace per il cuore lacerato
della Spagna guerrigliera:
pace per il piccolo Museo del Wyoming
dove la cosa più dolce
è un cuscino con un cuore ricamato,
pace per il fornaio e i suoi amori
e pace per la farina: pace
per tutto il grano che deve nascere,
per ogni amore che cercherà ombra di foglie,
pace per tutti quelli che vivono: pace
per tutte le terre e tutte le acque.
Io a questo punto vi saluto, torno
alla mia casa, dentro i miei sogni,
torno in Patagonia là dove
il vento scuote le stalle
e spruzza gelo l'oceano.
Sono soltanto un poeta: vi amo tutti,
vado errante per il mondo che amo:
al mio paese mettono in carcere i minatori
e i poliziotti comandano sui giudici.
Ma io amo perfino le radici
del mio piccolo paese freddo.
Se dovessi mille volte morire
là voglio morire:
se dovessi mille volte nascere
là voglio nascere,
accanto all'albero selvaggio dell'araucaria,
dinnanzi ai venti marini del sud,
presso le campane comprate di recente.
Nessuno pensi a me.
Pensiamo insieme a tutta la terra,
battendo con amore sulla mensa.
Non voglio che il sangue torni
a bagnare il pane, i fagioli,
la musica: voglio che venga con me
il minatore, la fanciulla,
l'avvocato, il marinaio,
il fabbricante di bambole;
entrino con me in un cinema ed escano
a bere con me il vino più rosso.
Io non vengo a risolvere nulla.
Io sono venuto qui per cantare
e per sentirti cantare con me.
X
IL FUGGITIVO
Il fuggitivo (1948)
PER l'alta notte, per la vita intera,
di lacrima in foglio, di panno in panno,
sono andato in questi giorni nebbiosi.
Sono stato il fuggiasco della polizia:
e nell'ora di cristallo, nel folto
di stelle solitarie,
ho attraversato città, boschi,
valichi e fattorie,
dalla porta d'un essere umano all'altro,
dalla mano d'un essere a un altro, a un altro ancora.
Severa è la notte, ma l'uomo
ha disposto i suoi fraterni segnali,
e alla cieca lungo strade e ombre
sono giunto alla porta illuminata,
al breve punto di stella ch'era mio,
al pezzetto di pane che nel bosco i lupi
non avevano ancora divorato.
Una volta, in una casa, tra i campi,
arrivai di notte, là nessuno
prima di quella notte avevo visto,
né immaginato quelle esistenze.
Le loro azioni, le loro ore
erano nuove alla mia conoscenza.
Entrai, erano cinque in famiglia:
tutti come in una notte d'incendio
s'erano alzati.
Strinsi una mano
e un'altra mano, vidi un viso e un altro viso,
che nulla mi dicevano: erano porte
che prima non vedevo nella strada,
occhi che non conoscevano il mio viso,
e nell'alta notte, appena
accolto, m'adagiai alla stanchezza,
a dormire l'angoscia del mio paese.
Mentre il sonno arrivava,
l'eco innumerevole della terra
con i suoi rauchi latrati e le sue fibre
di solitudine, continuava la notte,
e io pensavo: «Dove mi trovo? Chi
sono costoro? Perché mi proteggono?
Perché, non avendomi mai veduto,
m'aprono la porta e difendono il mio canto?».
E nessuno rispondeva,
solo un rumore di notte sfogliata,
un tessuto di grilli in costruzione:
la notte intera pareva
tremare appena nel fogliame.
Terra notturna, alla mia finestra
arrivavi con le tue labbra,
perché io dormissi dolcemente
come cadendo su migliaia di foglie,
di stagione in stagione, di nido in nido,
di ramo in ramo, sino a rimanere
d'improvviso addormentato
come un morto sulle tue radici.
II
ERA l'autunno delle uve.
Fremeva il pergolato copioso.
I grappoli bianchi, velati,
erano dolci dita brinate,
e le uve nere empivano
le piccole poppe turgide
d'un segreto fiume sferico.
Il padrone di casa, artigiano
dal viso magro, mi leggeva
il pallido libro terrestre
dei giorni crepuscolari.
La sua bontà conosceva il frutto,
il ramo principale e l'arte
del potare che lascia all'albero
la sua nuda forma di coppa.
Con i cavalli discorreva
come fossero immensi fanciulli:
i cinque gatti e i cani di casa
gli venivano sempre dietro,
i primi inarcati e lenti,
gli altri correndo come pazzi
sotto i peschi infreddoliti.
Egli conosceva ogni ramo,
ogni cicatrice degli alberi,
e la sua antica voce mi spiegava,
mentre accarezzava i cavalli.
III
E DI NUOVO alla notte accorsi. Mentre
percorrevo la città, la notte andina,
la notte diffusa aprì la sua rosa
sul mio vestito.
Era inverno nel Sud.
La neve era salita
sul suo alto piedistallo, e il freddo
bruciava con mille punte gelate.
Il fiume Mapocho era neve nera.
E io fra strada e strada di silenzio,
nell’inquinata città del tiranno.
Ahimè, ero come il silenzio stesso
osservare quanto amore e amore
cadeva giù dai miei occhi al mio petto.
Perché l'una e l'altra via e l'arcata
della notte nevosa, e la notturna
solitudine dei vivi, e la mia gente
sommersa, oscura, nel suo borgo di morti,
tutto, l'ultima finestra
col suo ramoscello di luce falsa,
l'addensato corallo nero
di dimore e altre dimore, il vento
mai consumato della mia terra,
tutto era mio, tutto
nel silenzio verso di me tendeva
una bocca d'amore piena di baci.
IV
UNA giovane coppia aprì una porta
che pure prima ignoravo.
Lei era
dorata come il mese di giugno,
e lui un ingegnere d'alto sguardo.
Da quel momento con loro pane e vino
condivisi,
a poco a poco entrai
nella loro intimità sconosciuta.
Mi dissero: «Eravamo
separati,
il nostro dissenso era ormai eterno:
oggi siamo uniti per accoglierti,
oggi ti aspettiamo insieme».
Là, nella piccola
casa riuniti,
costruimmo silenziosa fortezza.
Mantenni il silenzio anche nel sogno.
Mi trovavo nel palmo
stesso della città, sentivo quasi
i passi del Traditore, accanto ai muri
che mi racchiudevano, udivo
le voci luride dei carcerieri,
le loro sghignazzate da banditi,
le loro sillabe d'ubriaconi
messi lì tra le pallottole
nella cintura della patria mia.
La mia pelle silenziosa era quasi
sfiorata dai rutti degli Holger e Poblete,
i loro passi, strascicati, quasi
toccavano il mio cuore e le sue fiamme:
essi mandavano i miei alla tortura,
io serbavo la mia salute di spada.
E ancora, nella notte, addio, Irene,
addio Andrés, addio nuovo amico,
addio impalcature, addio stelle,
addio forse edificio incompiuto
che davanti alla mia finestra sembrava
popolarsi di fantasmi lineari.
Addio punto infimo del monte
che accoglievo nei miei occhi ogni sera,
addio luce verde al neon che apriva
con il suo lampo ogni nuova notte.
V
ANCORA, un'altra notte, andai lontano.
Tutta la cordigliera della costa,
l'ampio bordo sul mare Pacifico,
e poi, in mezzo a tante vie tortuose,
vicoli e viuzze, Valparaíso.
Entrai in una casa di marinai.
La madre mi aspettava.
«L'ho saputo solo ieri - mi disse -; mio figlio
m'ha chiamato, ed il nome di Neruda
è stato come un brivido.
Ma gli ho detto: figlio mio, che comodità
possiamo offrirgli?». «È uno di noi,
povera gente - lui mi rispose -,
lui non deride e non disprezza
la nostra misera vita, ma l'esalta
e la difende». «Allora io: va bene,
d'ora in poi questa sarà casa sua».
Nessuno mi conosceva in quella casa.
Guardai la linda tovaglia, la brocca
d'acqua pura come quelle esistenze
che dal fondo della notte come ali
di cristallo mi venivano incontro.
Andai alla finestra: Valparaíso apriva le sue mille palpebre
trepidanti, l'aria
del mare notturno mi entrò nella bocca,
le luci delle colline, il tremore
della luna marittima sull'acqua,
l'oscurità come una monarchia
adornata di diamanti verdi,
tutta la nuova quiete che la vita
mi consegnava.
Guardai: la tavola era apparecchiata,
il pane, la salvietta, il vino, l'acqua,
e una fragranza di terra e tenerezza
inumidì i miei occhi di soldato.
Presso quella finestra di Valparaíso
trascorsi giorni e notti.
I marinai della mia nuova casa
ogni giorno cercavano
una nave per partire.
Più volte
venivano imbrogliati.
L'«Atomena»
non poteva imbarcarli, il «Sultana»
neppure. Mi spiegarono:
loro passavano la regalia
a questo e a quel capoccia. Ma altri
versavano di più.
Tutto era marcio
come nel Palazzo di Santiago.
Qui si trattava d'ungere le tasche
del caposquadra, o del segretario,
non eran grandi come le tasche
del Presidente, ma rosicchiavano
lo scheletro dei poveracci.
Triste repubblica frustata
come una cagna dai briganti,
essa ululava sola nelle strade,
bastonata dalla polizia.
Triste nazione «gonzalizzata»,
scaraventata dagli imbroglioni
nel vomito del delatore,
venduta nei logori crocicchi,
messa all'incanto e smantellata.
Triste repubblica nelle mani
di chi ha venduto sua figlia
e ha consegnato la sua patria
ferita, muta e ammanettata.
Tornavano i due marinai
e andavano a caricarsi sulle spalle
sacchi, banane, commestibili,
rimpiangendo il sale delle onde,
il pane marino e l'alto cielo.
Nel mio giorno solitario il mare
s'allontanava: guardavo allora
la fiamma vitale dei colli,
ogni casa sospesa nell'erta,
il palpito di Valparaíso:
le alture urbane straripanti
di vite, le porte dipinte
di turchese, scarlatto e rosa,
le scalinate rotte, sdentate,
i grappoli di misere porte,
le abitazioni sgangherate,
la nebbia e il fumo che stendono
reti di sale sulle cose,
gli alberi che si aggrappano
disperati alle fenditure,
i panni appesi sulle braccia
delle casupole inumane,
il roco sibilo improvviso
figlio delle imbarcazioni,
il rumore della salamoia,
della nebbia, la voce del mare,
fatta di tonfi e di sussurri,
tutto questo m'avvolgeva il corpo
come un nuovo vestito terrestre,
e io abitai la bruma sovrastante,
l'alto villaggio dei poveri.
VI
FINESTRA dei colli! Valparaíso, specchio di stagno freddo,
rotto qua e là da grida di pietre popolari!
Osserva con me dal mio nascondiglio
il porto grigio tempestato di barche,
acqua lunare appena tremolante,
immobili depositi del ferro.
In altro tempo remoto,
Valparaíso, il tuo mare fu affollato
delle sottili navi dell'orgoglio,
i Cinque Alberi con sussurro di grano,
i disseminatori del salnitro,
coloro che dagli oceani nuziali
vennero a te, a riempirti i magazzini.
Alti velieri del giorno marino,
crociati mercantili, stendardi
gonfiati dalla notte marinata,
e con voi l'ebano e il purissimo
candore dell'avorio, e gli aromi
del caffè e della notte in altra luna,
Valparaíso, alla tua pace rischiosa
giunsero involgendoti di profumo.
Tremava il «Potosí» coi suoi nitrati
avanzando sul mare, pesce e dardo,
turgore azzurro, balena delicata,
verso altri neri porti della terra.
Quanta notte del Sud sopra le vele
arrotolate, sopra i capezzoli
eretti della maschera di prua,
quando sopra la Dama della nave,
volto di quegli scafi dondolanti,
tutta la notte di Valparaíso,
notte australe del mondo, discendeva.
VII
ERA l'alba del salnitro nella pampa.
Palpitava il pianeta del concime
fino a riempire il Cile come una nave
di nevose stive.
Oggi guardo quant'è rimasto di quelli
che passarono senza lasciare traccia
sulle sabbie del Pacifico.
Guardate ciò ch'io guardo,
il feroce detrito
che lasciò nella gola del mio paese,
come un collare di pus, la pioggia d'oro.
Possa accompagnarti, o viandante,
questo sguardo immobile che trafigge,
legato al cielo di Valparaíso.
Vive il cileno
fra immondizie e vento sferzante, oscuro
figlio della dura Patria.
Vetri frantumati, tetti squarciati,
muri smantellati, calce lebbrosa,
porta interrata, impiantito di fango,
mal adagiato al profilo
del suolo.
Valparaíso, rosa immonda,
pestilenziale sarcofago marino!
Non ferirmi con le tue vie di spine,
con la tua corona d'aspre viuzze,
non farmi vedere il bambino offeso
dalla tua miseria di mortale pantano!
In te mi duole il mio popolo,
tutta la mia patria americana,
tutto ciò che hanno rosicchiato dalle tue ossa
lasciandoti attorniata dalla spuma
come una miserabile dea infranta,
sul cui dolce seno squarciato
orinano i cani affamati.
VIII
AMO Valparaíso, ciò che racchiudi,
e ciò che irradii, sposa dell'oceano,
anche al di là della tua sorda aureola.
Amo la luce violenta con cui accogli
il marinaio nella notte del mare,
e allora tu sei - rosa di zagare -
luminosa e nuda, fuoco e nebbia.
Nessuno venga con losco martello
a colpire ciò che amo, o difenderti:
solo il mio essere per i tuoi segreti:
solo la mia voce per i tuoi aperti
filari di rugiada, per le tue scale
dove la maternità salmastra
del mare ti bacia, solo le mie labbra
sulla tua corona fredda di sirena,
alzata nell'aria delle colline,
oceanico amore, Valparaíso.
Regina di tutte le coste del mondo,
autentica centrale d'onde e navi,
tu sei in me come la luna o come
il corso del vento nell'albereto.
Amo i tuoi vicoli delittuosi,
la tua luna di pugnale sui colli,
e nelle tue piazze la gente di mare
che veste d'azzurro la primavera.
È ora che si sappia, porto mio,
che ho tutti i diritti
di scrivere di te il bene e il male
e che io sono come le luci amare
che illuminano le bottiglie infrante.
IX
Ho PERCORSO i celebrati mari,
lo stame nuziale d'ogni isola,
sono il più marinaio della carta
e sono andato, andato, andato
fino all'ultima spuma,
ma il tuo penetrante amore marino
è rimasto impresso in me come in nessuno.
Tu sei la montagnosa
testa principale
del grande oceano,
e sulla tua celeste groppa di centaura
i tuoi sobborghi sfoggiano le tinte
rosse e azzurre dei negozi di balocchi.
Entreresti in una boccia marinara
con le tue piccole case e il «Latorre»
come un ferro da stiro grigio in un lenzuolo
se non fosse che la grande bufera
del più immenso mare,
il colpo verde
delle raffiche glaciali, il martirio
dei tuoi terreni sconvolti, l'orrore
sotterraneo, il moto ondoso
di tutto il mare contro la tua torcia,
ti hanno fatto maestà di pietra cupa,
ciclopica chiesa della spuma.
Ti dichiaro il mio amore, Valparaíso,
e tornerò a vivere al tuo crocicchio,
quando tu ed io saremo liberi
di nuovo, tu nel tuo trono di mare
e vento, ed io nelle mie umide
terre filosofali. Vedremo come sorge
la libertà fra il mare e la neve.
Valparaíso, Regina sola, sola
nella solitudine del solitario
Sud dell'Oceano,
ho guardato ogni gialla
roccia delle tue alture,
ho tastato il tuo polso torrenziale, le tue mani
da portuale mi diedero l'abbraccio
che il mio cuore ti chiese nell'ora notturna
e ricordo quando regnavi nel fulgore
di fuoco azzurro che il tuo regno sparge.
Non c'è altra pari a te sopra la sabbia,
Albacora del Sud, Regina d'acqua.
X
COSÌ, di notte in notte,
in quella lunga ora, quando il buio
sprofonda su tutto il lido cileno,
fuggitivo passai di porta in porta.
Altre umili case, altre mani
in ogni ruga della Patria stavano
ad aspettare i miei passi.
Passasti
mille volte per quella porta che non ti disse nulla,
per quel muro senza tinta, per quelle
finestre con fiori appassiti.
Era per me il mistero:
esso per me palpitava;
era nelle zone del carbone,
bagnate dai tormenti,
era nei porti della costa
presso l'arcipelago antartico,
era forse, ascolta, in quella
strada sonora, in mezzo alla musica
del meriggio delle vie,
o a quella finestra presso il parco
che nessuno distinse dalle altre
finestre, e che m'attendeva
con un piatto di minestra pura
ed il cuore sopra la tavola.
Tutte le porte erano mie,
tutti dissero: «È mio fratello,
portalo in questa povera casa»,
mentre il mio paese si tingeva
di tante pene
come un tino d'amaro vino.
Venne il piccolo stagnaio,
la madre di quelle ragazze,
il contadino sgraziato,
l'uomo che faceva il sapone,
la dolce scrittrice, il giovane
attaccato come un insetto
all'ufficio desolato,
vennero e sulla loro porta
c'era un segno segreto, una chiave
difesa come una torre
perché io entrassi d'improvviso,
di notte, di sera o di giorno,
e senza conoscere nessuno
dicessi: «Fratello, già sai chi sono,
credo che tu mi aspettavi».
XI
CHE ne puoi tu, maledetto, contro l'aria?
Che ne puoi tu, maledetto, contro tutto
ciò che fiorisce e sorge e tace e guarda,
e m'attende e ti giudica?
Maledetto, con i tuoi tradimenti
sta quanto hai comprato, e che devi
ogni tanto innaffiare di monete.
Maledetto, tu puoi
confinare, arrestare e torturare,
e in tutta fretta pagare all'istante,
prima che il venduto possa pentirsi,
potrai a stento dormire
circondato di fucili mercenari,
mentre nel grembo del mio paese
io vivo, fuggiasco della notte!
Che triste è il tuo piccolo ed effimero
trionfo! Mentre Aragon, Ehrenburg,
Éluard, i poeti
di Parigi, i valenti
scrittori
del Venezuela e altri, altri, altri
sono con me,
tu, maledetto,
stai fra Escanilla e Cuevas,
Peluchoneaux e Poblete!
Io su scale che il mio popolo sostiene,
in grotte che il mio popolo nasconde,
sulla mia patria e la sua ala di colomba
dormo, sogno e abbatto le tue frontiere.
XII
A TUTTI, a voi tutti,
esseri silenziosi della notte
che mi prendeste per mano nel buio, a voi,
lampade
della luce immortale, linee di stella,
pane delle esistenze, fratelli segreti,
a tutti, a voi tutti,
dico: non c'è grazie che basti,
nulla potrà riempire le coppe
della purezza,
nulla può contenere
tutto il sole sulle bandiere
della primavera invincibile,
come le vostre tacite dignità.
Penso
soltanto
che forse sono stato degno di tanta
semplicità, di fiore così puro,
che forse io sono voi, appunto quella
briciola di terra, farina e canto,
quell'impasto naturale che sa bene
di dove nasce e a che cosa appartiene.
Non sono una campana tanto remota,
né un cristallo sepolto tanto profondo
che tu non possa intendere, sono solo
popolo, porta occulta, pane oscuro,
e quando tu mi ricevi, te stesso
ricevi, quell'ospite
più volte percosso
e più volte
rinato.
A tutti, a tutti,
a quanti non conosco, a quanti non hanno
mai udito questo nome, a quanti
vivono lungo i nostri lunghi fiumi,
ai piedi dei vulcani, alla solforica
ombra del rame, a pescatori e contadini,
a indios azzurri sulle sponde
di laghi scintillanti come vetri,
al calzolaio che interroga quest'ora
inchiodando il cuoio con antiche mani,
a te, a chi senza saperlo m'ha atteso,
io appartengo e m'assimilo e canto.
XIII
ARENA americana, solenne
piantagione, rossa cordigliera
figli, fratelli sgranati
dalle antiche tempeste,
riuniamo tutto il grano vivo
prima che torni alla terra,
e che il nuovo granturco che nasce
abbia udito le tue parole
e le ripeta e si ripetano.
E si cantino di giorno e notte,
si mordano e si divorino,
e si propaghino per la terra,
e diventino, a un tratto, silenzio,
penetrino sotto le pietre,
scovino le porte della notte,
e ancora tornino a nascere,
a suddividersi, a comportarsi
come il pane, come la speranza,
come l'aria delle navi.
Il granturco ti reca il mio canto,
sgorgato dalle radici
del mio popolo, per nascere,
per costruire, per cantare,
e per essere di nuovo seme
più numeroso nella bufera.
Qui stanno le mie mani sperdute.
Sono invisibili, ma tu
le vedi attraverso la notte,
attraverso il vento invisibile.
Dammi le tue mani, io le vedo
sopra le crude sabbie
della nostra notte americana,
e scelgo la tua e la tua,
questa e quell'altra mano,
quella che s'alza a lottare
e quella che ancora sarà seminata.
Non mi sento solo nella notte,
nell'oscurità della terra.
Sono popolo, popolo infinito.
Ho nella voce la forza pura
per attraversare il silenzio
e germinare nelle tenebre.
Morte, martirio, ombra, gelo,
coprono subito la semente.
E sembra sepolto il popolo.
Ma il granturco torna alla terra.
Hanno valicato il silenzio
le sue implacabili rosse mani.
E noi dalla morte rinasciamo.
XI
I FIORI DI PUNITAQUI
I
La valle delle pietre (1946)
OGGI, 25 aprile, è caduta,
sopra i campi di Ovalle,
la pioggia, tanto attesa, l'acqua del 1946.
In questo primo giovedì bagnato, un giorno di vapore
costruisce sopra i colli il suo grigio di ferriera.
È questo il giovedì delle piccole sementi
che nei loro sacchetti han serbato i contadini affamati:
oggi in gran fretta bucheranno la terra e in essa
lasceranno cadere i granelli di verde vita.
Proprio ieri ho risalito il Rio Hurtado:
verso la sorgente, tra gli aspri colli puntigliosi,
irti di spine, perché il grande cactus andino
qui domina come un feroce candelabro.
E sopra le sue spine steppose come una veste
scarlatta, o come una macchia di terribile incendio celeste,
come sangue d'un corpo trascinato su migliaia
d'aculei,
il quintral ha acceso le sue lampade cruente.
Le rocce sono immense borse coagulate
nell'era del fuoco, sacchi ciechi di pietra
che rotolarono fino a fondersi in queste
implacabili statue che sorvegliano la valle.
Il fiume reca un dolce e agonico rumore
d'ultime acque tra la verdescura
moltitudine di fogliame, mentre i pioppi
lascian cadere a gocce il loro giallo sottile.
È l'autunno del Norie Chico, il ritardato autunno.
Qui più che altrove la luce palpebra sul grappolo.
Come una farfalla, il trasparente sole
si trattiene più a lungo fino a cagliare l'uva,
e sulla valle brillano i festoni di moscato.
II
Fratello Pablo
MA oggi i contadini vengono a trovarmi:
«Fratello,
non c'è acqua, fratello Pablo, non c'è acqua, non è
piovuto.
E la scarsa corrente
del fiume
per sette giorni va, per sette giorni si secca.
Le nostre vacche son morte su per la cordigliera.
E la siccità comincia a mietere bambini.
Sui monti tanti non hanno da mangiare.
Fratello Pablo, devi parlare al Ministro».
(Sì, il fratello Pablo parlerà al Ministro, ma essi non
sanno
come m'accolgono
quelle ignobili poltrone di cuoio
e il tavolo ministeriale, pulito
e sfregato dalla saliva adulatrice.)
Mentirà il Ministro, si laverà le mani,
e il bestiame del povero comunero,
con l'asino e il cane, lungo le rocce sfilacciate,
cadrà, di fame in fame, sempre più in basso.
III
La fame e l'ira
ADDIO, addio al tuo podere, all'ombra
che hai conquistato, al ramo
trasparente, alla terra consacrata,
addio al bue, addio all'acqua avara,
addio ai versanti, alla musica
che non venne con la pioggia, alla cintura
pallida dell'alba secca e petrosa.
Juan Ovalle, la mano t'ho dato, mano senz'acqua,
mano di pietra, mano di muro e di secca.
E t'ho detto: maledici la pecora grigia,
le più aspre stelle, la luna come un livido cardo,
il ramoscello infranto delle labbra nuziali,
ma non toccare l'uomo, non spargere ancora l'uomo
ferendolo nelle vene, non tingere ancora la sabbia,
non incendiare ancora la valle con l'albero
delle cadute fronde arteriali.
Juan Ovalle, non uccidere. E la tua
mano mi rispose: «Queste terre
vogliono uccidere, chiedono di notte
vendetta, e l'antica aria d'ambra
nella amarezza è aria di veleno,
e la chitarra è simile ad un'anca
di delitto, e il vento è come un coltello».
IV
Gli tolgono la terra
PERCHÉ dietro la siccità e la valle,
dietro il fiume e la foglia sottile,
all'agguato della zolla e del raccolto,
sta il ladro di terre.
Guarda quell'albero di porpora sonante,
contempla il suo stendardo tinto in rosso,
e dietro la sua stirpe mattutina,
sta il ladro di terre.
Senti come il sale della scogliera
il vento di cristallo in mezzo ai noci,
ma sopra l'azzurro d'ogni giornata
sta il ladro di terre.
Avverti fra gli strati germinali
pulsare il grano nel suo dardo dorato,
ma tra il pane e l'uomo c'è una maschera:
quella del ladro di terre.
V
Verso i minerali
Poi verso le alte pietre
di sale e d'oro, verso la sepolta
repubblica dei metalli
io salii:
erano i dolci muri dove
una pietra s'unisce all'altra,
con un bacio di fango scuro.
Un bacio tra pietra e pietra
per le strade tutelari,
un bacio di terra e terra
tra le grandi uve rosse,
e come un dente accanto a un altro dente
la dentatura della terra,
le pircas di materia pura,
quelle che recano l'interminabile
bacio delle pietre del fiume
alle mille labbra della strada.
Saliamo dall’agricoltura all’oro.
Ecco qui le alte pietre focaie.
Il peso della mano è come un uccello.
Un uomo, un uccello, un'essenza d'aria,
di tenacia, di volo, d'agonia,
forse una palpebra, ma una battaglia.
E di lì nella trasversale culla dell'oro,
a Punitaqui, fronte a fronte,
con i taciti operai della leva,
del piccone, della pala, vieni tu,
Pedro, con la tua pace di cuoio,
vieni, Ramírez, con le tue bruciate
mani che hanno scandagliato l'utero
dei chiusi mondi minerari,
salve a voi: nelle scalinate,
nei calcarei sotterranei
dell'oro, più giù nelle sue matrici,
sono rimasti i vostri arnesi
digitali marcati dal fuoco.
VI
I fiori di Punitaqui
DURA era lì la patria come prima.
Era un sale perduto l'oro,
era
un pesce incandescente e nella zolla iraconda
il suo piccolo istante triturato
nasceva pian piano dalle unghie insanguinate.
Là nell'alba come un mandorlo freddo,
sotto i denti delle cordigliere,
il cuore perfora il suo buco, .
cerca, tocca, soffre, risale, e nell'altura
più essenziale, più planetaria arriva
con la maglietta stracciata.
Fratello dal cuore bruciacchiato,
posami nella mano questa giornata,
e scendiamo ancora negli strati addormentati,
dove la tua mano come una tenaglia
afferrò l'oro vivo che voleva volare
ancora più nel profondo, ancora più in basso.
E là con alcuni fiori
le donne del posto, le cilene di lassù,
le minerali figlie della miniera,
un mazzo con alcuni fiori
di Punitaqui, qualche fiore rosso,
dei gerani, poveri fiori
di quella dura terra, nelle mie mani
depositarono come se l'avessero trovati nella più fonda
miniera, come se quei fiori figli dell'acqua rossa
risalissero dal fondo sepolto dell'uomo.
Presi le loro mani e i loro fiori,
terra frantumata e minerale,
profumo di petali profondi e di dolori.
E nel guardarli seppi da dove venivano
fino all'aspra solitudine dell'oro;
e mi mostrarono come gocce di sangue
le loro vite disperse.
Erano nella loro povertà
la cittadella fiorita, il mazzo
della dolcezza e suo metallo remoto.
Fiori di Punitaqui, arterie, vite,
accanto al mio letto, di notte, il vostro aroma
s'innalza e mi guida nei più sotterranei
corridoi del cordoglio,
sulle alture bucate, sulla neve, e di nuovo
nelle radici dove solo arrivano le lacrime.
Fiori, fiori delle altitudini,
fiori di miniera e di pietra, fiori
di Punitaqui, figli
dell'amaro sottosuolo: mai dimenticati,
in me vivi rimaneste, creando
la purezza immortale, una corolla
di pietra che non muore.
VII
L'oro
EBBE l'oro quel giorno di purezza.
Prima di riaffondare la sua struttura
nella sudicia fine che l'attende,
da poco giunto, da poco staccato
dalla solenne statua della terra,
fu depurato dal fuoco, ed avvolto
dal sudore e dalle mani dell'uomo.
Qui il popolo diede congedo all'oro.
E terrestre era il suo contatto, puro
come madre grigia dello smeraldo.
Proprio uguale era la mano sudata
che raccolse il lingotto aggrovigliato,
al primo ceppo di terra ridotta
dall'infinita vastità del tempo,
al colore terricolo dei semi,
al suolo vigoroso di segreti,
alla terra che elabora i grappoli.
Terre dell'oro senza macchia, umani
materiali, metallo immacolato
del popolo, verginee miniere,
che si sfiorano cieche nell'immane
crocicchio delle strade rispettive:
l'uomo resterà a morder polvere,
e sarà per sempre terra petrosa,
e l'oro salirà sopra il suo sangue
sino a ferire e regnare sul ferito.
VIII
La strada dell'oro
ENTRATE, signore, comprate patria e terreni,
dimore, ostriche, benedizioni,
tutto al vostro arrivo qui si vende.
Non v'è torre che non cada al vostro esplosivo,
non v'è presidenza che rifiuti nulla,
non v'è rete che non serbi tesoro.
Poiché siamo «liberi» come il vento,
potete comprare il vento, la cascata,
e sulle distese di cellulosa
preparare le opinioni corrotte,
o raccogliere amore senz'arbitrio,
spodestato nel lino mercenario.
L'oro ha mutato abito assumendo
forme di straccio, di logora carta,
freddi fili di lama invisibile, cinte di dita
attorcigliate.
Nel suo nuovo castello, alla donzella
recò il padre d'aperta dentatura
il piatto di biglietti
che la bella divorò, e là nel suolo
se li contese a forza di sorrisi.
Diede egli al Vescovo l'investitura
dei secoli dell'oro, aprì la porta
dei giudici, ebbe cura dei tappeti,
fece tremar la notte nel bordelli,
e corse con i suoi capelli al vento.
(Io ho vissuto l'età in cui regnava.
Ho visto consumato putridume,
piramidi di sterco sovrastati
dall'onore: strappare e riportare al trono
cesari della pioggia purulenta,
convinti del peso che mettevano
sulle bilance, rigidi
burattini di morte, calcinati
da una cenere dura e divorante.)
IX
Lo sciopero
ANDAI più in là dell'oro: nello sciopero.
Là perdurava il filo delicato
che gli esseri riunisce, lì la cinta pura
dell'uomo viva restava.
La morte li mordeva,
l'oro tendeva aspri denti e veleno
contro il loro, ma il popolo pose
le sue pietre focaie sulla porta,
fu zolla solidale che lasciava
scorrere la lotta e la tenerezza
come due acque parallele,
fili
delle radici, onde della stirpe.
Ravvisai lo sciopero nelle braccia
che, incrociate, trascurano l'insonnia
e in una pausa trepida di lotta
vidi per prima volta l'unica cosa viva!
L'unità delle vite degli uomini.
Nella cucina della resistenza
con poveri focolari, negli occhi
delle donne, nelle mani preclare
che con impaccio si protendevano
verso l'ozio d'un giorno
come in un mare azzurro sconosciuto,
nella fraternità del pane scarso,
nell'inviolabile riunione, in tutti
i germi di pietra che sorgevano,
in quella melagrana valorosa
formata col sale dei derelitti,
trovai infine la fondazione perduta,
la remota città della dolcezza.
X
Il poeta
DAPPRIMA per la vita vagai, in mezzo
a un amore dolente: e conservai
una piccola pagina di quarzo
che mi confisse gli occhi nella vita.
Comprai bontà, visitai il mercato
della cupidigia, aspirai le acque
più sorde dell'invidia, l'inumana
ostilità d'esseri e di maschere.
Vissi un mondo di pantano marino
dove il fiore, il giglio, d'improvviso,
m'ingoiava in un tremito di spuma,
e dove posi il piede la mia anima
scivolò verso i denti dell'abisso.
Nacque così la mia poesia, appena
riscattata dalle ortiche, impugnata
sulla solitudine come un castigo,
o, per sotterrarlo, chiuse nel parco
della lascivia il più segreto fiore.
Così isolato come l'acqua oscura
che vive nelle fonde gallerie,
corsi di mano in mano, all'isolarsi
d'ogni essere, all'odio quotidiano.
Seppi che così vivevano, coprendo
la metà degli esseri, come pesci
del più strano mare, e nelle fangose
immensità io incontrai la morte.
La mone che apriva porte e sentieri.
La mone che scivolava sui muri.
XI
La morte nel mondo
LA MORTE comandava, e raccoglieva
in contrade e sepolcri il suo tributo:
l'uomo con un pugnale o un portafoglio,
a mezzogiorno o a luce notturna,
desiderava uccidere, e uccideva,
seppelliva le persone e le fronde,
assassinava e divorava morti.
Preparava le sue reti, spremeva
e dissanguava, usciva di mattina
già pronto a fiutar sangue della caccia,
e al ritorno del suo trionfo era avvolto
da frammenti di morte e d'abbandono;
e allora uccidendosi seppelliva
con cerimonia funebre i suoi passi.
Le dimore dei vivi erano morte.
Macerie, tetti in rovina, orinali,
vicoli vermicolari, caverne
piene di pianto umano accumulato.
— Così devi vivere — era il decreto.
— Marcisci nel tuo elemento — disse il Capo.
— Tu sei immondo — argomentò la Chiesa.
— Distenditi nel fango — ti dissero.
E alcuni armarono la cenere
perché essa governasse e decidesse»
mentre il fiore dell'uomo dava colpi
contro i muri che gli avevano creato.
Il cimitero ebbe fasto e pietra.
Silenzio per tutti e grave presenza
di vegetali alti e affilati.
E infine sei qui, infine ci lasci
un vuoto al centro della selva amara,
rimani infine teso tra pareti
che non trapasserai. E ogni giorno
i fiori come un fiume di profumo
si sono riuniti al fiume dei morti.
I fiori che la vita non toccava
caddero sopra il vuoto che lasciasti.
XII
L'uomo
Qui incontrai l'amore. Nacque nella sabbia,
crebbe senza voce, toccò le selci
della durezza e resiste alla morte.
Qui l'uomo era vita che raccoglieva
l'intatta luce, il mare superstite,
e attaccava e cantava e combatteva
con la stessa coesione dei metalli.
E qui i cimiteri erano terra
appena sollevata, croci rotte,
e sopra i loro legni liquefatti
s'avvicinavano i venti sabbiosi.
XIII
Lo sciopero
STRANA era la fabbrica inattiva.
Un silenzio nelle sale, una distanza
tra la macchina e l'uomo, come un filo
tagliato in mezzo a due pianeti, un vuoto
delle mani dell'uomo a consumare
il tempo costruendo, e poi i nudi
spazi senza lavoro e senza suono.
Appena l'uomo abbandonò le tane
della turbina, e quando distaccò
le sue braccia dal fuoco e si spensero
le viscere del forno, e tolse gli occhi
dalla ruota e la luce vorticosa
si fermò nel suo cerchio invisibile,
di tutte le potenze poderose,
dei circoli puri dell'energia,
della forza spaventosa rimase
un mucchio d'inutili acciai, e l'aria
vedova nelle sale senza uomo,
e dell'olio il solitario sentore.
Nulla esisteva senza quel frammento
maltrattato, senza Ramírez,
senza l'uomo dagli abiti stracciati.
Là giaceva la pelle dei motori,
in potenza morta accumulata,
come neri cetacei giù nel fondo
pestilenziale d'un mare immobile,
o montagne crollate d'improvviso
nella solitudine dei pianeti.
XIV
Il popolo
PORTAVA il popolo le sue bandiere rosse
e tra la gente sulle pietre che calcava
io mi trovai, nel giorno strepitoso
e sulle alte canzoni della lotta.
Vidi passo a passo le sue conquiste.
Sola strada era la resistenza,
mentre isolati eran brani rotti
d'una stella, senza bocca né spicco.
Cosi nell'unità fatta in silenzio,
erano il fuoco, il canto invincibile,
il lento passo umano sulla terra,
trasformato in profondità e battaglie.
Erano dignità che combatteva
gli antichi soprusi, e risvegliava
a sistema l'ordine delle vite,
che bussavano alle porte per prender posto
nella sala principale con le bandiere.
XV
La lettera
Così fu. E cosi sarà. Nei monti
calcarei, e sulle sponde
del fumo, nelle piccole officine,
vi è un messaggio scritto sulle pareti
e il popolo, solo lui, può vederlo.
Le sue lettere tenui sono sorte
da sudore e silenzio. Stanno scritte.
Nell'andare, popolo, l'hai impastate
e stanno sulla notte come il fuoco
fiammeggiante e nascosto dell'aurora.
Entra, popolo, nei margini del giorno.
Marcia come un esercito, riunito,
e batti la terra con i tuoi passi
con identica cadenza sonora.
Sia uniforme la tua marcia come
è uniforme il sudore nella lotta,
uniforme il sangue polveroso
del popolo fucilato nelle strade.
Su questa chiarezza potrà nascere
la fattoria, la città, la miniera,
e su questa unità pari alla terra
fecondatrice e ferma s'è impiantata
la stabilità creativa, ed il germe
della nuova città buona alla vita.
Luce dei gremi maltrattati, patria
formata da mani metallurgiche,
ordine creato dai pescatori
come un ramo del mare, muri armati
dal copioso esercito degli edili,
scuole cereali, ed armature
di costruzioni armate dall'uomo.
Pace esiliata che ritorni, pane
distribuito, aurora, sortilegio
dell'amore terreno, edificato
sopra i quattro venti del pianeta.
XII
I FIUMI DEL CANTO
I
Lettera a Miguel Otero Silva, a Caracas (1949)
UN VIANDANTE m'ha portato la tua lettera scritta
con parole invisibili, sul suo abito, nei suoi occhi.
Come sei allegro, Miguel, come siamo allegri!
Ormai non resta in questo mondo di ulcere stuccate
altro che noi, illimitatamente allegri.
Vedo passare il corvo e non mi può far male.
Tu guardi lo scorpione e pulisci la tua chitarra.
Viviamo tra le belve, cantando, e quando tocchiamo
un uomo, la materia di qualcuno in cui credevamo,
e questi crolla come un budino marcio,
tu nel tuo patrimonio venezolano raccogli
ciò che si può salvare, mentre io difendo
la brace della vita.
Che gioia, Miguel!
Tu mi domandi dove sono? Ti racconterò
- dando solo pochi dettagli utili al Governo -
che in questa costa piena di pietre selvagge
s'uniscono mare e campagna, onde e pini,
aquile e procellarie, spume e praterie.
Hai visto davvicino e per tutto il giorno
come volano gli uccelli del mare? Sembra
che portino le lettere del mondo a destinazione.
Passano i pellicani come battelli del vento,
altri uccelli che volano come frecce e recano
i messaggi dei re defunti, dei principi
sepolti con fili di turchese nelle coste andine,
e i gabbiani fatti di candore rotondo,
che dimenticano continuamente i propri messaggi.
Com'è azzurra la vita, Miguel, quando abbiamo riposto
in essa
amore e lotta, parole che sono il pane e il vino,
parole che loro non possono ancora disonorare,
perché noi usciamo sulla via con fucile e
canzoni.
Con noi si sentono perduti, Miguel.
Che possono farci se non ucciderci, e anche così
fanno un cattivo affare: possono soltanto
cercare d'affittare un appartamento davanti al nostro e seguirci
per imparare a ridere e a piangere come noi.
Quando io scrivevo versi d'amore, che mi sgorgavano
da ogni parte, e morivo di tristezza,
errante, abbandonato, rodendo l'alfabeto,
mi dicevano: «Come sei grande, o Teocrito!»
Io non sono Teocrito: presi la vita com'era,
mi posi di fronte ad essa, la baciai fino a vincerla,
e poi me ne andai lungo i sentieri delle miniere
a vedere come vivevano altri uomini.
E quando uscii con le mani tinte d'immondizie e
dolori,
le sollevai e le rivelai sulle corde d'oro,
e dissi: «Non posso accettare il delitto».
Tossicchiarono, si mostrarono assai contrari, mi tolsero il saluto,
cessarono di chiamarmi Teocrito, e finirono
coll'insultarmi e mandarmi tutta la polizia ad arrestarmi,
perché non continuavo a occuparmi solo di
questioni metafisiche.
Ma io avevo conquistato l'allegria.
Da allora mi sono innalzato a leggere le lettere
che portano gli uccelli del mare da tanto lontano,
lettere che arrivano bagnate, messaggi che a poco
a poco
traduco con lentezza e sicurezza: sono
meticoloso
come un ingegnere in questo strano mestiere.
E m'affaccio d'improvviso alla finestra. È un quadrato
di trasparenza, è pura la distanza
di erbe e di rocce, e così posso lavorare
tra le cose che amo: onde, pietre, api,
con una inebriante felicità marina.
Ma a nessuno piace la nostra gioia, e a te hanno
assegnato
una parte da bonaccione: «Via, non esageri, non se la prenda»,
e a me m'hanno voluto inchiodare nell'insettario, tra le
lacrime
perché queste m'affogassero e loro potessero pronunciare
discorsi sulla mia tomba.
Io ricordo un giorno nella pampa sabbiosa
del salnitro, vi erano cinquecento uomini
in sciopero. Era il pomeriggio rovente
di Tarapacá. E quando i volti avevano raccolto
tutta la sabbia e il dissanguato sole secco del deserto,
io vidi arrivare al mio cuore, come una coppa che odio,
la vecchia melanconia. In quell'ora di crisi,
nella desolazione delle falde del salnitro, in quel debole minuto
della lotta in cui avremmo potuto essere battuti,
una bambina piccola e pallida, venuta dalle miniere,
disse con voce ferma in cui s'univano il cristallo e l'acciaio,
una tua poesia, una vecchia tua poesia che circola tra gli occhi
corrugati
di tutti gli operai e lavoratori della mia patria, dell'America.
E quel brano del tuo canto rifulse d'improvviso
nella mia bocca come un fiore purpureo
e scese nel mio sangue, colmandolo di nuovo
d'una gioia straripante nata dal tuo canto.
Ed io pensai non solo a te, ma al tuo Venezuela amaro.
Anni fa, vidi uno studente che aveva nelle caviglie
Il segno delle catene che un generale gli aveva imposto,
e mi raccontò come gli incatenati lavoravano nelle strade
e nelle prigioni dove la gente si perdeva. Perché così è stata la nostra
America:
una pianura con fiumi voraci e costellazioni
di farfalle (in alcuni posti, gli smeraldi sono grossi
come mele),
ma sempre nel corso della notte e dei fiumi
vi sono caviglie che sanguinano, prima nei pressi del petrolio,
e oggi nei pressi del nitrato, a Pisagua, dove un despota infame
ha sepolto il fiore della mia patria perché muoia e lui possa
commerciare con le ossa.
Per questo tu canti, per questo, perché l'America disonorata e ferita
faccia fremere le sue farfalle e raccolga i suoi smeraldi
senza lo spaventoso sangue del castigo, coagulato
nelle mani dei carnefici e dei mercanti.
Ho compreso come saresti allegro, presso l'Orinoco cantando,
sicuramente, oppure comprando vino per la tua casa,
occupando il tuo posto nella lotta e nella gioia,
largo di spalle, come sono i poeti di questi tempi
- con abiti chiari e scarpe da viaggio -.
Da allora ho pensato che una volta t'avrei scritto,
e quando Guillén arrivò, tutto pieno di storie tue
che gli staccavano da tutti i suoi vestiti
e che sotto i castagni della mia casa si sparsero,
mi dissi: «Adesso», ma neppure allora cominciai a scriverti.
Oggi però è stato troppo: davanti alla mia finestra
non è passato solo un uccello marino, ma migliaia,
e ho raccolto le lettere che nessuno legge e che quelli recano
lungo le rive del mondo, fino a perderle.
E allora in ognuna leggevo parole tue
ed erano come quelle che io scrivo e sogno e canto,
e allora ho deciso di spedirti questa lettera, che qui concludo
per guardare dalla finestra il mondo che ci appartiene.
II
A Rafael Alberti (Puerto de Santa María, Spagna)
RAFAEL, prima di arrivare in Spagna mi venne
incontro
la tua poesia, rosa letterale, grappolo smussato,
ed essa è stata fino ad ora per me non un ricordo
ma una luce odorosa, emanazione d'un mondo.
Alla tua terra asciugata da crudeltà recasti
la rugiada smarrita con il tempo,
e a te abbracciata si desta la Spagna,
di nuovo coronata di perle mattutine.
Ricorderai ciò che portavo: sogni macerati
da acidi implacabili, residenze
in acque già esiliate, ed in silenzi
da cui emergevano amare radici
come bastoni bruciati nel bosco.
Come posso, Rafael, scordare quei tempi?
Giunsi al tuo paese come chi cade
in una luna di pietre, dovunque trovando
aquile di brughiera, spine secche,
ma lì la tua voce, o marinaio,
mi dava il benvenuto, la fragranza
della violacciocca, il miele dei frutti di mare.
E la tua poesia era sulla tavola, nuda.
Le pinete del Sud, le razze dell'uva
hanno dato resine al tuo diamante tagliato,
e al contatto di così bel nitore, molta ombra
che portai con me al mondo, si disfece.
Architettura creata alla luce, come i petali,
attraverso i tuoi versi d'inebriante aroma,
vidi l'acqua d'un tempo, la neve ereditaria;
a te più che a nessuno debbo la Spagna.
Con le tue dita toccai alveari e lande,
conobbi le rive consumate dal popolo
come da un oceano, ed i gradini
dove la poesia ha fatto esplodere
tutti i suoi vestimenti di zaffiro.
Tu sai che solo il fratello può insegnare. E in quella
ora non solo ciò tu m'insegnasti,
non solo l'estinta gloria della nostra stirpe,
ma anche l'onestà del tuo destino,
e quando ancora una volta giunse il sangue in Spagna,
difesi il patrimonio del popolo ch'era mio.
Tu sai bene, tutti sanno bene queste cose.
Io voglio solamente stare con te,
ed oggi che ti manca la metà della vita,
la tua terra, a cui hai più diritto d'un albero,
oggi che, per le disgrazie della patria, non solo
il lutto di colui che amiamo, ma la tua assenza
coprono il retaggio dell'ulivo in pasto ai lupi,
ti voglio dare, oh se potessi, grande fratello,
la strepitosa gioia che tu mi desti allora.
Tra noi due la poesia
si tocca come pelle celeste,
e con te mi piace cogliere un grappolo,
questo tralcio, quella radice delle tenebre.
L'invidia che apre porte tra gli esseri
non potè aprire né la tua porta né la mia.
È bello come quando l'ira del vento
squassa con forza i suoi vestiti fuori
e son con noi il pane, il vino e il fuoco,
lasciar urlare il mercante di furia,
lasciar fischiare chi t'è passato tra i piedi,
e innalzare la coppa piena d'ambra
con tutto il rito della trasparenza.
Qualcuno vuol scordare che tu sei il primo?
Lascialo navigare e troverà il tuo volto.
Qualcuno vuol seppellirci frettolosamente?
Va bene, ma sarà costretto al volo.
Verranno, ma chi può scuotere il raccolto
che con la mano dell'autunno fu innalzato
fino a tingere il mondo col tremito del vino?
Dammi questa coppa, fratello, e ascolta: son circondato
dalla mia America umida e torrenziale, a volte
perdo il silenzio, perdo la corolla notturna,
e mi cinge l'odio, talora il nulla, il vuoto
d'un vuoto, il crepuscolo
d'un cane, d'una rana,
e allora mi duole che tanta terra ci separi,
e voglio venir nella tua casa dove, lo so, mi aspetti,
soltanto per essere buoni come soltanto noi
possiamo essere. Non dobbiamo nulla.
A te sì che ti devono, ed è una patria: attendi.
Tornerai, torneremo. Voglio un giorno con te
andare alle tue rive inebriati d'oro
verso i tuoi porti, porti del Sud che allora non raggiunsi.
Mi mostrerai il mare, dove sardine
e olive si contendono le sabbie,
e quei campi con i tori dagli occhi verdi
che Villalón (un amico che neppure
venne a trovarmi, perché era sepolto)
possedeva, e i tini del jerez, cattedrali
dal fondo cuore gongorino, dove
arde il topazio con pallido fuoco.
Andremo, Rafael, laddove giace
quello che con le sue mani e le tue
la cintura di Spagna sosteneva.
Il morto che non potè morire e che tu conservi,
perché solo la tua esistenza lo difende.
Federico è là, ma sono molti quelli che annientati,
sepolti,
tra le montagne spagnole, caduti
ingiustamente, disseminati,
perduto cereale nelle alture,
sono nostri, e ci riconosciamo nella loro argilla.
Tu vivi perché fosti sempre un dio miracoloso.
Nessuno più di te cercarono, volevano
sbranarti i lupi, infrangere il tuo regno.
Ciascuno voleva essere verme nella tua morte.
Ebbene, si sono sbagliati. Forse è la struttura
del tuo canto, intatta trasparenza,
decisione armata di tuà dolcezza,
solidità, fortezza delicata,
quella che salvò il tuo amore alla terra.
Andrò con te ad assaggiare l'acqua
del Genil, dell'ambito che m'hai dato,
a guardar nell'argento che naviga
le effigi dormienti che formarono
le sillabe azzurre del tuo canto.
Entreremo anche nelle fonderie: adesso
là il metallo dei popoli aspetta
di nascere nei coltelli: passeremo cantando
accanto alle reti rosse che muove il firmamento.
Coltelli, reti, canti cancelleranno i dolori.
La tua gente porterà con le mani bruciate
dall'esplosivo, come alloro delle praterie,
ciò che il tuo amore ha sgranato nella sventura.
Sì, dai nostri esili nasce il fiore, la forma
della patria che il popolo riconquista con tuoni,
e non è un giorno solo quello che elabora
il miele perduto, la verità del sogno,
ma ogni radice che diviene canto
fino a popolare il mondo delle sue foglie.
Tu sei là, non c'è nulla che non muova
la luna diamantina che lasciasti:
la solitudine, il vento nei cantoni,
tutto tocca il tuo puro territorio,
e gli ultimi morti, quelli che cadono
nella prigione, leoni fucilati,
e quelli della guerriglia, capitani
del cuore, stanno inumidendo
la tua stessa investitura cristallina,
il tuo stesso cuore con le loro radici.
N'è passalo di tempo da quei giorni in cui partecipammo
di dolori che lasciarono una ferita radiosa,
il cavallo della guerra che con i suoi zoccoli
travolse il villaggio mandando in pezzi i vetri.
Tutto quello che nacque sotto il tritolo,
tutto quello che t'aspetta per alzare la spiga,
e in questa nascita t'avvolgeranno di nuovo
la tenerezza e il fumo di quei giorni duri.
Vasta è la pelle di Spagna e in essa il tuo sperone .
vive come una spada d'illustre impugnatura,
e non c'è oblio, né inverno che ti cancelli,
fratello folgorante, dalle labbra del popolo.
Così ti parlo, dimenticando forse una parola,
rispondendo infine a lettere che non ricordi,
e che quando il clima dell'Est mi ricoperse
come aroma scarlatto, arrivarono
fino alla mia solitudine.
Possa la tua fronte dorata
trovare in questa lettera un giorno d'altri tempi,
e altri tempi d'un giorno che verrà.
Ti saluto,
oggi, sedici dicembre 1948,
da un luogo d'America dove io canto.
III
A González Carbalho (A Río de la Plata)
QUANDO la notte divorò i suoni umani,
e precipitò
la sua ombra, da linea a linea,
udimmo, nel silenzio accresciuto, al di là degli esseri,
il rumore di fiume di González Carbalho,
la sua acqua profonda e permanente, il suo scorrere che
sembra
immobile come la crescita dell'albero o del tempo.
Questo grande poeta fluviale accompagna il silenzio del mondo,
con sonora austerità, e chi voglia udirlo in mezzo
ai traffici, ponga l'orecchio (come fa nei
boschi o nelle pianure l'esploratore smarrito)
sopra la terra: e anche in mezzo alla via, udrà salire
tra i passi del frastuono, questa poesia: le voci
profonde della terra e dell'acqua.
Allora, sotto la città e il suo scompiglio, sotto le lampade
dalla gonna scarlatta, come il grano che nasce, irrompendo
da ogni latitudine, ecco questo fiume che canta.
Sopra il suo letto, spaventati uccelli
di crepuscolo, gole di rosso tramonto che dividono lo spazio,
foglie purpuree che spiovono.
Tutti gli uomini che osino guardare la solitudine:
quelli che suonino la corda abbandonata, tutti
quelli immensamente puri, e quelli che dalla nave hanno ascoltato
sale, solitudine e notte che s'uniscono,
udranno il coro di González Carbalho sorgere alto e cristallino
dalla sua primavera notturna.
Ne ricordate un altro? Il Principe d'Aquitania: alla sua torre
abolita
sostituì, nell'ora iniziale, l'angolo delle lacrime
che l'uomo millenario travasò coppa su coppa.
E che lo sappia colui che non guardò i volti, il vincitore
o il vinto:
preoccupati dal vento di zaffiro o dal calice amaro:
al di là della via e della via, al di là d'un'ora,
toccate queste tenebre, e proseguiremo insieme.
Allora, nella geografia disordinata delle piccole vite
con inchiostro azzurro: il fiume delle acque che cantano,
fatto di speranza, di sofferenza perduta,
di acqua senz'angoscia che sorge alla vittoria.
Mio fratello ha creato questo fiume:
dal suo alto e sotterraneo canto sono stati costruiti
questi gravi suoni bagnati di silenzio.
Mio fratello è questo fiume che circonda le cose.
Dovunque siate, nella notte, nel giorno, sulla strada,
sopra gli insonni treni delle praterie,
o accanto alla irrorata rosa dell'alba fredda,
oppure
nel mezzo dei vestiti, toccando
il turbine,
cadete in terra, e riceva il vostro viso
questo grande pulsare d'acqua segreta che circola.
Fratello, tu sei il fiume più lungo della terra:
dietro l'orbe risuona la tua voce grave di fiume,
ed io bagno le mani nel tuo petto,
fedele a un tesoro mai interrotto,
fedele alla trasparenza della lacrima solenne,
fedele all'eternità aggredita dell'uomo.
IV
A Silvestre Revueltas, di Messico, per la sua morte. (Oratorio minore)
QUANDO un uomo come Silvestre Revueltas
torna definitivamente alla terra,
vi è un rumore, un'onda
di voce e pianto che prepara e propaga la sua dipartita.
Le piccole radici dicono ai cereali: «E morto
Silvestre»,
e il grano fa ondeggiare il suo nome sui pendii
e più tardi il pane lo sa.
Tutti gli alberi d'America già lo sanno
e anche i fiori gelati della nostra regione artica.
Le gocce d'acqua lo trasmettono,
i fiumi indomabili della
Araucania già sanno la notizia.
Da ghiacciaio a lago, da lago a pianta,
da pianta a fuoco, da fuoco a fumo:
tutto ciò che arde, canta, fiorisce, balla e rivive,
tutto ciò ch'è permanente, alto e profondo nella nostra America
lo accoglie:
uccelli e piani, sogni e suoni, la rete palpitante,
che unisce nell'aria tutti i nostri climi,
trema e trasporta il coro funebre.
Silvestre è morto, Silvestre è entrato nella sua musica totale,
nel suo silenzio sonoro.
Figlio della terra, fanciullo della terra, da oggi entri nel tempo.
Da oggi il tuo nome pieno di musica volerà ogni volta che
rintocchi la tua patria, come per una campana,
con un suono mai udito, con il suono di ciò che fosti, fratello.
Il tuo cuore di cattedrale ci copre in questo istante, come il
firmamento
e il tuo canto grande e grandioso, la tua tenerezza vulcanica,
riempie tutta l'altura come una statua in fiamme.
Perché hai sparso la tua vita? Perché
hai versato
in ogni coppa il tuo sangue? Perché
hai esplorato il mondo
come un angelo cieco, che urtava contro le porte
oscure.
Ah, ma dal tuo nome esce musica
e dalla tua musica, come da un mercato,
escono corone d'alloro fragrante,
e mele di odore e simmetria.
In questo giorno solenne di commiato sei te che salutiamo,
ma tu già non senti,
la tua nobile fronte ci manca ed è come se mancasse
un grande albero in mezzo alla casa dell'uomo.
Ma la luce che vediamo è altra luce da oggi,
la via che attraversiamo è una via nuova,
la mano che tocchiamo da oggi ha la tua forza,
tutte le cose prendono vigore nel tuo riposo,
e la tua purezza salirà dalie pietre
a mostrarci la chiarezza della speranza.
Riposa, fratello, il tuo giorno è terminato,
con la tua anima dolce e potente l'hai riempito
di luce più alta della luce del giorno
e d'un suono azzurro come la voce del cielo.
Tuo fratello e i tuoi amici m'hanno chiesto
che ripeta il tuo nome nell'aria d'America,
che lo conosca il toro della pampa, e la neve,
che lo travolga il mare, e ne parli il vento.
Adesso sono le stelle d'America la tua patria
e da oggi la tua casa senza porte è la Terra.
V
A Miguel Hernández, assassinato nelle carceri di Spagna
GIUNGESTI a me direttamente dal Levante. Mi recavi,
pastore di capre, la tua innocenza rugosa,
la scolastica di vecchie pagine, un odore
di Fray Luis, di zagare, di sterco bruciato
sopra i monti, e sulla tua maschera
l'asprezza cereale dell'avena falciata
e un miele che misurava la terra coi tuoi occhi.
Anche l'usignolo nella tua bocca recavi.
Un usignolo macchiato d'arance, un filo
d'incorruttibile canto, di forza sfogliata.
Ahimè, ragazzo, nella luce sopraggiunsero gli scoppi
e tu, con usignolo e fucile, andavi
sotto la luna e sotto il sole della battaglia.
Tu sai, figlio mio, quanto non potei fare, sai
che per me, di tutta la poesia, tu eri il fuoco azzurro.
Oggi sopra la terra poso il viso e t'ascolto,
t'ascolto, sangue, musica, arnia agonizzante.
Non ho mai visto stirpe più abbagliante della tua,
né radici così tenaci, né mani di soldato,
né ho visto mai nulla di più vivo del tuo cuore
bruciarsi nella porpora della mia stessa bandiera.
Giovane eterno, tu vivi, comunero d'un tempo,
mondato da germogli di grano e primavera,
oscuro e rugoso come il metallo innato,
aspettando il minuto che innalzi la tua armatura.
Non sono solo da quando sei morto. Sono con quelli che ti cercano.
Sono con quelli che un giorno riusciranno a vendicarti.
Riconoscerai il mio passo tra coloro
che s'avventeranno sul petto della Spagna
e schiacceranno Caino perché ci restituisca
i volti sotterrati.
Sappiano quelli che ti uccisero che pagheranno col sangue.
Sappiano quelli che ti torturarono che mi vedranno un giorno.
Sappiano i maledetti che oggi includono il tuo nome
nei loro libri, i Dámasi, i Gerardi, i figli
di cane, complici silenziosi del carnefice,
che non sarà cancellato il tuo martirio, e la tua morte
cadrà su tutta la loro luna di vigliacchi.
E a quelli che t'hanno negato nel loro marcio alloro,
in terra americana, lo spazio che tu occupi
con la fluviale corona del tuo fulmine esangue,
lascia ch'io li ripaghi con disdegnoso oblio
perché m'hanno voluto mutilare con la tua assenza.
Miguel, lontano dalla prigione di Osuna, lontano
dalla crudeltà, Mao Tse-tung porta
la tua poesia lacerata nella lotta
verso la nostra vittoria.
E Praga rumorosa
che costruisce il dolce alveare che cantasti,
l'Ungheria verde ripulisce i suoi granai
e balla presso il fiume che s'è svegliato dal sonno.
E da Varsavia sale la nuda sirena
che costruisce brandendo la sua spada cristallina.
E più in là la terra s'ingigantisce,
la terra,
che ha visitato il tuo canto, e l'acciaio
che ha difeso la tua patria sono al sicuro,
moltiplIcati sopra la costanza
di Stalin e dei suoi figli.
S'avvicina,
la luce alla tua casa.
Miguel di Spagna, stella
di terre devastate, non ti dimentico, figlio mio,
non ti dimentico, figlio mio!
Ma ho imparato la vita
con la tua morte: i miei occhi si sono appena velati,
e ho trovato in me non il pianto
bensì le armi
inesorabili!
Aspettale! Aspettami!
XIII
CORALE DELL’ANNO NUOVO
PER LA PATRIA IN TENEBRE
I
Saluto (1949)
BUON anno, cileni, per la patria in tenebre,
buon anno per tutti, per tutti meno uno,
siamo così pochi, buon anno, compatrioti, fratelli,
uomini, donne, bambini, oggi verso il Cile, a voi
vola la mia voce, batte come un uccello cieco
alla tua finestra, e ti chiama da lungi.
Patria, l'estate copre il tuo corpo dolce e duro.
Le pietre aguzze da cui s'è staccata la neve
per galoppare verso l'oceano con labbra turbolente,
appaiono azzurre e alte come carbone del cielo.
Forse oggi, a quest'ora, porti la verde tunica
che adoro, boschi, acque, e alla cinta il grano.
E presso il mare, amata, patria marina, muovi
il tuo universo iridato di sabbie ed ostriche.
Forse, forse... Chi sono io per toccare da lungi
la tua nave, il tuo profumo? Sono parte di te:
cerchio segreto di legno sorpreso nei tuoi alberi,
crescita muta come il tuo soave zolfo,
stentorea cenere della tua anima sotterranea.
Quando uscii da te, perseguitato, irto
di barba e povertà, senza vestiti, senza carta
per scrivere le parole che sono la mia vita,
senz'altra cosa che un piccolo sacco, portai due libri
e una sezione di espino appena tagliata dall'albero.
(I libri: una geografia
e il Prontuario degli Uccelli del Cile.)
Tutte le notti leggo la tua descrizione, i tuoi fiumi:
essi guidano il mio sonno, il mio esilio, la mia frontiera.
Tocco i tuoi treni, passo la mano sui tuoi capelli,
mi fermo a pensare alla ferruginosa
pelle della tua geografia, abbasso gli occhi
sulla lunare sfera di rughe e di crateri,
e verso il Sud, nel sonno, va il mio silenzio avvolto
nei tuoi ultimi tuoni di sale sgretolato.
Quando mi sveglio (diversa è l'aria, la luce,
diverse la strada, la campagna, le stelle) io tocco
la rotella di espino tuo che mi accompagna,
tagliata a Melipilla da un albero che mi diedero.
E guardo nella corazza dell'espino il tuo nome,
Cile arcigno, patria, cuore di corteccia,
vedo nella sua forma dura come la terra, il volto
di quelli che amo e m'hanno dato la mano come fosse espino,
gli uomini del deserto, del nitrato e del rame.
Il cuore dell'albero spinoso
è un disco liscio come un metallo brunito,
ocre come una macchia di duro sangue secco,
circondato da un arcobaleno solfureo di legno,
e toccando questo puro prodigio della selva
ricordo i suoi fiori ostili e arricciati
quando dalle ghirlande spesse e spinose
ti getta il profumo violento della sua forza.
E così vite e odori del mio paese mi seguono,
vivono con me, accendono la loro tenace fiammata
dentro di me, consumandomi e nascendo.
In altre terre guardano attraverso i miei panni,
mi vedono come una lampada che passa per le vie,
spargendo una luce marina che trafigge le porte:
è la spada accesa che m'hai dato e conservo,
come l'espino, pura, potente, indomabile.
II
Gli uomini di Pisagua
MA la mano che t'accarezza s'arresta
presso il deserto, ai bordi della costa marittima,
in un mondo flagellato dalla morte.
Sei tu, Patria, sei questa, è questo il tuo viso?
Questo martirio, questa corona rossa
di fil di ferri ossidati dall'acque salmastre?
Anche Pisagua è il tuo volto attuale?
Chi t'ha ferito, come hanno trafitto
con un coltello il tuo miele indifeso?
Prima che ogni altro, ad essi il mio saluto,
agli uomini, basamento dei dolori,
alle donne, fronde sparse del mañio,
ai bambini, scuole trasparenti,
che sopra le sabbie di Pisagua
sono stati la patria tribolata,
l'onore intero della terra che amo.
Sarà l'onore sacro di domani
essere stato trascinato sulle tue sabbie,
Pisagua: essere stato d'improvviso
raccolto nella notte del terrore
per ordine d'un vile fellone
ed essere giunto al tuo calcareo inferno
per difendere la dignità dell'uomo.
Non scorderò la morta costa dove
il sudicio morso del mare ostile
muove contro i muri della tortura
e dove a picco s'alzano i bastioni
delle spellate colline infernali:
non scorderò come guardate l'acque
verso il mondo che scorda i vostri volti,
non scorderò quando, con occhi colmi
di luce indagante, volgete il viso
verso le terre pallide del Cile
dominate da lupi e predoni.
Io so che v'hanno gettato il mangiare,
come a cani rognosi, là per terra,
finché adoperaste come piatti
piccoli barattoli vuoti di latta:
so come vi buttarono a dormire
e come in fila accoglieste,
accigliati e dignitosi,
gli immondi fagioli,
che tante volte gettaste nella sabbia.
So come, quando avete ricevuto
panni e cibi che s'erano raccolti
per tutta l'estensione della patria,
avete sentito con orgoglio
che forse, forse soli non eravate.
Valorosi e saldi compatrioti
che date un senso nuovo alla terra:
nella persecuzione v'hanno scelto
perché, in voi, tutto il popolo soffrisse
in quest'esilio di lande sabbiose.
E scelsero l'inferno esaminando
le carte, finché scoprirono
questa carcere salmastra, questi muri
di solitudine e terrificante
angoscia, perché vi schiacciaste la testa
sotto i piedi dell'infimo tiranno.
Ma non ebbero pane per i loro denti:
voi non siete fatti di sterco come il putrido,
bacato traditore: erano false
le loro informazioni, e trovarono
la fermezza metallica del popolo,
il cuore del rame e il suo silenzio.
È il metallo che fonderà la patria
quando il vento del popolo insabbiato
scaccerà il capo dell'immondizia.
Tenaci, tenaci fratelli,
tenaci quando aggrediti di notte
nelle capanne, sospinti, legati
ai polsi con fil di ferro, assonnati
appena sorpresi e stravolti, foste
condotti sopra i camion a Pisagua,
sorvegliati da carcerieri armati.
Poi essi tornarono
e riempirono i camion di famiglie
derelitte, e picchiarono i bambini.
E un pianto di teneri figli appare
ancora nella notte del deserto,
un pianto di mille bocche infantili,
come un coro che cerca il duro vento
per farsi udire e non scordar da noi.
III
Gli eroi
FÉLIX MORALES, Ángel Veas,
assassinati a Pisagua,
felice anno nuovo, fratelli,
sotto la dura terra che amaste,
e che difendeste. Oggi siete
sotto le saline che stridono
nel dire i vostri nomi puri,
sotto le rose dilatate
del salnitro, sotto la sabbia
crudele del deserto infinito.
Felice anno nuovo, fratelli
miei, quanto amore
m’avete insegnato, quanta
vastità di tenerezza
avete abbracciato morendo!
Siete come le isole che nascono
d'un tratto in mezzo all'oceano,
alimentate dallo spazio
e dalla costanza subacquea.
Io ho imparato il mondo da voi:
la purezza, il pane infinito.
Mi mostraste la vita, l'area
del sale, la croce dei poveri.
Incontrai le vite del deserto
come una nave in un mare oscuro
e accanto a me m'avete mostrato
le fatiche dell'uomo, il suolo,
la casa a brandelli, il sibilo
della miseria nelle pianure.
Félix Morales, ti ricordo
mentre dipingevi un ritratto,
alto, fine, agile e giovane
come un nuovo tamarugo
negli assetati spazi della pampa.
Il tuo ciuffo ribelle urtava
la fronte pallida, e dipingevi
il ritratto di un demagogo
per le prossime elezioni.
Ti ricordo che davi vita
alla tua pittura, arrampicato
sulla scala, in una sintesi
della tua dolce giovinezza.
Stavi rifacendo il sorriso
del tuo carnefice su tela,
impastando bianco, dosando,
aggiungendo luce alla bocca
che poi volle la tua agonia.
Ángel, Ángel, Ángel Veas,
operaio della pampa, puro
come il metallo dissepolto,
ormai t'hanno assassinato, e sei
dove hanno voluto che fossi
i padroni del suolo cileno:
sotto le pietre divoratrici
che con le tue mani tante volte
sollevasti verso la grandezza.
Niente è più puro della tua vita.
Solo le palpebre dell'aria.
Solo le madri dell'acqua.
Solo il metallo inaccessibile.
Serberò per la vita intera
l'onore d'avere stretto
la tua nobile mano combattente.
Eri tranquillo, eri legno
educato nella sofferenza
fino ad essere puro arnese.
Ti ricordo quando s'onorava
l'Intendenza d'Iquique con te,
lavoratore, asceta, fratello.
Mancava pane, farina. Allora
ti alzavi prima dell'alba
e con le tue mani spartivi
il pane per tutti. Giammai
ti vidi più grande: eri il pane,
il pane del popolo, aperto
col tuo cuore dentro la terra.
E quando tardi nella giornata
tornavi carico del peso
del giorno di lotta tremenda,
sorridevi come la farina,
entravi nella tua pace
di pane e ancora ti spartivi,
fino a che il sonno raccoglieva
il tuo cuore tutto sgranato.
IV
González Videla
CHI era? Chi è? mi chiedono laddove mi trovo,
in altre terre dove passo, errante.
In Cile non lo chiedono, i pugni al vento,
gli occhi, nelle miniere, si dirigono a un punto,
verso un vizioso traditore che con essi piangeva
quando implorò i loro voti per scalare il trono.
Lo videro questi uomini di Pisagua, i fieri
titani del carbone: versava lacrime,
si strappava i capelli nelle promesse,
abbracciava e baciava i bambini che ora
si puliscono con la sabbia la traccia della sua pustola.
Presso il mio popolo, nella mia terra lo conosciamo.
Dorme il contadino pensando a quando le sue dure mani
potranno stringere il suo collo di cane menzognero,
e il minatore nell'ombra del suo tugurio senza pace
tende la gamba sognando di schiacciare col suo piede
quel pidocchio maligno, degenerato insaziabile.
Sa chi è colui che parla dietro una cortina
di baionette, o dietro animali da fiera,
o dietro i nuovi intrallazzatori,
mai dietro il popolo che lo cerca
per parlare un'ora con lui, un'ultima ora.
Al mio popolo ha strappato la speranza, sorridendo,
e l'ha venduta nelle tenebre al migliore offerente,
e invece di case fresche e libertà, l'hanno ferito,
l'hanno bastonato all'entrata della miniera,
gli hanno imposto un salario dietro un affusto di cannone,
mentre una cricca governava ballando
con denti aguzzi di caimani notturni.
V
Io non ho sofferto
MA tu non hai sofferto? Io non ho sofferto. Io soffro
solo le sofferenze del mio popolo. Io vivo
dentro, dentro la mia patria, cellula
del suo sangue riarso ed infinito.
Non ho più tempo per i miei dolori.
Solo mi fan soffrire queste vite
che a me hanno dato una fiducia pura,
e che un traditore ha precipitato
nel fondo d'un buco morto, da dove
bisogna far rinascere la rosa.
Quando il carnefice fece pressione sui giudici
perché condannassero
il mio cuore, il mio deciso alveare,
il popolo aprì il suo immenso labirinto,
la cantina ove dormono i suoi amori,
e là mi difesero, sorvegliando '
sin l'entrata della luce e dell'aria.
Mi dissero: «Tu a noi ti devi,
sei quello che porrà il marchio freddo
sopra gli sporchi nomi del malvagio».
E solo soffersi di non aver sofferto.
Solo di non aver visto le oscure
prigioni di questo e quel mio fratello,
con tutta la passione come piaga,
e ogni passo rotto a me giungeva,
ogni colpo sulla tua schiena mi colpiva,
ogni goccia di sangue del martirio
scese verso il mio canto sanguinante.
VI
In questo tempo
BUON anno... Oggi tu che hai
la mia terra ai tuoi fianchi, sei felice, fratello.
Io sono il figlio errante di ciò che amo.
Rispondimi, pensa che sono con te
a domandarti, pensa che sono il vento di gennaio,
vento Puelche, vento vecchio delle montagne
che quando apri la porta ti visita
senza entrare, sventolando le sue rapide domande.
Dimmi, sei andato su un campo di grano o d'orzo,
sono dorati? Parlami d'un giorno di prugne.
Lontano dal Cile penso a un giorno rotondo,
violetto, trasparente, di zucchero a grappoli,
e di grani spessi e azzurri che sgocciolano
nella mia bocca le loro coppe colme di delizia.
Dimmi, hai morso oggi la groppa pura
d'una pesca, riempiendoti d'immortale ambrosia,
fino a diventare tu stesso fonte della terra,
frutto e frutto affidati allo splendore del mondo?
VII
Un giorno mi parlarono
PER queste stesse terre straniere io passai
un tempo: il nome della mia patria brillava
come le segrete costellazioni del suo cielo.
L'uomo perseguitato di tutte le latitudini, cieco»
oppresso dalla minaccia e dall'ignominia,
mi toccava le mani, mi diceva «cileno»
con una voce tinta di speranza. Allora
la tua voce aveva l'eco di un inno, erano piccole
le tue mani arenose, o patria, ma poterono
coprire più d'una ferita, e riscattarono
più d'una primavera desolata.
Tu conservi tutta questa speranza,
repressa nella tua pace, sotto la terra,
estesa semente per tutto l'uomo,
resurrezione certa della stella.
VIII
Le voci del Cile
UN TEMPO la voce del Cile fu metallica
voce di libertà, di vento e argento,
riecheggiò un tempo nelle altitudini
del pianeta appena cicatrizzato,
della nostra America aggredita
da roveti e da centauri.
Persino la neve intatta, nella veglia,
scalò il tuo coro di foglie onorate,
il canto d'acque libere dei tuoi fiumi,
e l'azzurra maestà del tuo decoro.
Era Isidoro Errázuriz che spargeva
la sua combattente stella cristallina
sopra popoli oscuri ed asserviti,
era Bilbao con la sua fronte
di piccolo pianeta tumultuoso,
fu Vicuña Mackenna che traeva
la sua infinita e germinale fronda,
carica di segnali e di sementi
per altri popoli cui la finestra
fu sprangata alla luce. Essi entrarono
e accesero il fanale nella notte,
e nell'amaro giorno d'altre genti
furon la luce più alta della neve.
IX
I mentitori
OGGI si chiamano Gajardo, Manuel Trucco,
Hernán Santa Cruz, Enrique Berstein,
Germán Vergara, quelli che - denaro in contanti
dicono di parlare, patria, nel tuo nome sacro
e pretendono di difenderti sommergendo
il tuo lignaggio di leone nelle immondizie.
Nani misturati come pillole
della farmacia del traditore,
topi del bilancio, piccolissimi
bugiardi, ladruncoli
della nostra energia, miserabili
mercenari dalle mani protese
e con lingue di conigli mordaci.
Non sono la mia patria, lo dichiaro
a chi mi voglia udire in queste terre,
non sono l'uomo grande del salnitro,
non sono il sale del popolo chiaro,
non sono le lente mani che creano
il monumento dell'agricoltura,
non sono, non esistono, mentono e parlano
per continuare, senza esistere, a incassare.
X
Saranno nominati
MENTRE scrivo la mano sinistra mi rimprovera.
Mi dice: perché li nomini, che sono, che significano.
Perché non li hai lasciati nel loro anonimo fango
d'inverno, nel fango dove orinano i cavalli?
E la mia mano destra le risponde: «Son nata
per bussare alle porte, per dare colpi,
per illuminare le ultime e recondite ombre
dove s'alimenta il ragno velenoso».
Saranno nominati. Non mi hai concesso, patria,
il dolce privilegio di nominarti
solo nelle tue violacciocche e nella tua spuma,
non m'hai dato la parola, patria, per chiamarti
solo con nomi d'oro, di polline, di fragranza,
per spargere seminando le gocce di rugiada
che cadono dalla tua nera chioma imperiosa:
m'hai dato con il latte e con la carne le sillabe
che nomineranno anche i pallidi vermi
che viaggiano nel tuo ventre,
e incalzano il tuo sangue per depredargli la vita.
XI
I vermi del bosco
QUALCOSA del bosco antico è caduto, forse è stata
la tempesta, che ha purificato crescite e strati,
e sui tronchi caduti hanno fermentato i funghi,
le lumache hanno steso i loro fili nauseabondi,
e il legno morto caduto dalle altezze
s'è riempito di buchi e di larve orrende.
Così è il tuo fianco, o patria, l'infelice
amministrazione d'insetti che popolano le tue ferite,
i grossi trafficanti che masticano filo di ferro,
quelli che dalla Presidenza fanno affari con l'oro, i
vermi che traggono profitto insieme dai trasporti e dalle
pescherie, quelli che ti rodono qualcosa nascosti dal mantello
del traditore che balla la sua samba sfrenata,
il giornalista che imprigiona i suoi compagni,
il sudicio delatore che detta legge,
l'uomo mediocre che s'impadronisce d'una rivista mediocre
con l'oro rubato agli indios della Terra del Fuoco,
l'ammiraglio idiota come un pomodoro, il gringo
che sputa ai suoi vassalli una borsa di dollari.
XII
Patria, ti vogliono spartire
«Lo chiamavano cileno»; dicono di me queste larve.
Vogliono togliermi la patria da sotto i piedi, vogliono
tagliarti per se come un sudicio mazzo di carte
e spartirti fra loro come carne untuosa.
Non li amo. Credono già d'averti, morta,
squartata, e nell'orgia dei loro sporchi intenti
ti spendono come padroni. Non li amo. A me lascia
amarti in terra e popolo, lasciami seguire
il mio sogno entro i tuoi confini di mare e di neve,
lasciami raccogliere tutto il tuo profumo amaro
che in una coppa porto per i sentieri,
ma non posso stare con loro, non mi chiedere
quando tu scuoterai le spalle e loro cadranno a terra
con le loro germinazioni d'animali imputriditi,
non mi chiedere di pensare che sono tuoi figli. Altro
è il sacro legno del mio popolo.
Domani
sarai, stretta nella tua forma angusta d'imbarcazione
fra i tuoi due mari d'oceano e di neve,
la più amata, il pane, la terra, il figlio.
Di giorno il nobile rito del tempo liberato,
di notte l'entità stellata del cielo.
XIII
Ricevono ordini contro il Cile
MA dietro a tutti loro bisogna cercare, c'è qualcosa
dietro i traditori e i topi che ci rosicchiano,
c'è un impero che imbandisce la tavola,
che serve i piatti e le pallottole.
Vogliono fare di te ciò che hanno fatto della Grecia.
I figli di papà greci al banchetto, e piombo
al popolo sulle montagne: bisogna estirpare il volo
della nuova Vittoria di Samotracia, bisogna impiccare,
uccidere, cancellare, affondare il coltello assassino
impugnato a New York, bisogna rompere con fuoco
l'orgoglio dell'uomo che spuntava
da lune le parti come se nascesse
dalla terra irrigata dal sangue.
Bisogna armare Chiang e l'infimo Videla,
bisogna dargli soldi per le prigioni, ali
perché bombardino compatrioti, bisogna dargli
un tozzo di pane, pochi dollari, e loro faranno il resto,
perché loro mentono, corrompono, ballano sopra i morti
e le loro mogli sfoggiano i visoni più cari.
Non importa l'agonia del popolo, di questo martirio
hanno bisogno Ì padroni del rame: importano i fatti:
i generali lasciano l'esercito e servono
come assistenti nello Staff di Chuquicamata,
e sul salnitro comanda il generale «cileno»
e dispone con la sua sciabola quanto devono
chiedere come aumento di salano i figli della pampa.
Così governano dall'alto, secondo la borsa dei dollari,
cos'i riceve ordini il nano traditore,
cosi i generali divengono poliziotti,
cosi imputridisce dal tronco l'albero della patria.
XIV
Rammento il mare
CILENO, sei andato al mare in questi tempi?
Vai laggiù a mio nome, bagnati le mani e sollevale,
e io da altre terre adorerò quelle gocce
che cadono dall'acqua infinita sul tuo viso.
Io conosco, ho vissuto tutta la mia costa,
il grave mare dei Nord, delle zone desertiche,
e persino il peso tempestoso della spuma sulle isole.
Rammento il mare, le coste screpolate e ferrigne
di Coquimbo, le acque altere di Tralca,
le solitarie onde del Sud, che m'hanno creato.
Ricordo a Puerto Montt o nelle isole, di notte,
quando tornavamo lungo la spiaggia, l'imbarcazione in attesa
e i nostri piedi lasciavano nelle orme il fuoco,
le fiamme misteriose di un dio fosforescente.
Ogni passo era un rigagnolo di fosforo.
Noi iscrivevamo di stelle la terra.
E scivolando sul mare la barca agitava
fronde di fuoco marino, di lucciole,
un'onda innumerevole d'occhi che a un tratto
si destavano e tornavano a dormire nei loro abissi.
XV
Non c'è perdono
IO VOGLIO terra, fuoco, pane, zucchero, farina,
mare, libri, patria per tutti, per questo
io vado errando: i giudici del traditore mi perseguitano
e i suoi chiericonzoli cercano, come scimmie
ammaestrate, d'infangare il mio ricordo.
Io sono stato con lui, con colui che governa, all'entrata
della miniera, nel deserto della aurora dimenticata,
io sono stato con lui e ho detto ai miei poveri fratelli:
«Non conserverete più questi lembi dei panni stracciati,
non avrete più questo giorno senza pane, sarete trattati
come dei veri figli della patria». «Adesso
noi distribuiremo la bellezza, e gli occhi
delle donne non piangeranno più pei loro figli».
E quando invece d'amore spartito, nella notte
alla fame e al martirio trascinarono proprio quell'uomo,
quello che lo ascoltò, quello che aveva consegnato
la sua forza e la sua tenerezza d'albero potente,
allora io non rimasi con il piccolo satrapo,
ma con quell'uomo senza nome, col mio popolo.
Io voglio il mio paese per i miei, voglio
una luce uguale sopra la chioma
della mia patria incendiata dal fuoco,
voglio l'amore del giorno e dell'aratro,
voglio cancellare la barriera che con l'odio
essi hanno tracciato per separare il pane dal popolo,
e quello che ha fatto deviare la linea della patria
fino a consegnarla come un carceriere,
in catene, a coloro che pagano per ferirla,
io non lo canterò, ma nemmeno tacerò,
e lascerò il suo numero e il suo nome
inchiodati al muro del disonore.
XVI
Tu lotterai
QUESTO anno nuovo, compatriota, è tuo.
È nato più da te che dal tempo, scegli
il meglio della tua vita e consegnalo alla lotta.
Quest'anno che è caduto come un morto nella tomba
non può riposare con amore e timore.
Quest'anno morto è anno di dolori che accusano.
E quando le sue radici amare, nell'ora
della festa, nella notte, si staccheranno e cadranno
e quando salirà un altro cristallo ignorato nel vuoto
d'un anno che la tua vita riempirà a grado a grado,
dagli la dignità che esige la mia patria,
la tua, questa striscia di vulcani e di vini.
Non sono più cittadino del mio paese: mi scrivono
che il pagliaccio indecente ch'è al governo ha cancellato
con altre migliaia di nomi anche il mio
dalle liste ch'erano la legge della Repubblica.
Il mio nome è cancellato perché io non esista,
perché il torvo avvoltoio delle galere possa votare
e possano votare i bestiali aguzzini addetti
alle bastonate e alle torture nei sotterranei
del governo, perché possano votare ben protetti
i maggiordomi, i caporali, i soci
del mercante che ha venduto la Patria.
Io vado errando, vivo nell'angoscia di star lontano
dal prigioniero e dal fiore, dall'uomo e dalla terra,
ma tu lotterai per cambiare la vita.
Tu lotterai per cancellare la macchia
di sterco sulla carta geografica, tu lotterai di certo
perché la vergogna di questo tempo cessi
e s'aprano le prigioni del popolo e s'innalzino
le ali della vittoria tradita.
XVII
Buon anno per la mia patria in tenebre
SIA questo un buon anno per te, per tutti
gli uomini e le terre, Araucania amata.
Fra te e la mia esistenza c'è questa notte nuova
che ci separa, e boschi e fiumi e strade.
Ma verso di te, piccola patria mia,
come un cavallo oscuro il mio cuore galoppa:
entro nei tuoi deserti di pura geografia,
attraverso le valli verdi dove l'uva accumula
i suoi verdi alcool, il mare dei suoi grappoli.
Entro nei tuoi villaggi di giardino conchiuso,
bianchi come camelie, nell'aspro
odore dei tuoi magazzini, e penetro
come una trave nell'acqua dei fiumi che tremano,
trepidando e cantando con labbra traboccanti.
Ricordo che, lungo le strade, forse di questi tempi,
oppure in autunno, si lasciano sopra le case
le pannocchie dorate del granturco a seccare,
e quante volte, come un bimbo, mi sono sentito
affascinato dall'oro sui tetti dei poveri.
Ti abbraccio e ti saluto. Ora debbo
tornare nel mio nascondiglio. T'abbraccio
senza conoscerti: dimmi chi sei, riconosci
la mia voce nel coro di ciò che sta nascendo?
Tra tutte le cose che ti circondano, non senti
la mia voce, non vedi come ti circonda il mio accento
che emana dalla terra come acqua naturale?
Sono io che abbraccio tutta la dolce superficie,
la cintura fiorita della mia patria, e che ti chiamo
per parlare insieme quando si spenga l'allegria
e per affidarti quest'ora come un fiore racchiuso.
Buon anno nuovo per la mia patria in tenebre.
Andiamo insieme, il mondo è coronato di grano,
l'alto ciclo scorre scivolando e rompendo
le sue alte pietre pure contro la notte: da poco
s'è riempita la nuova coppa con un minuto
che deve unirsi al fiume del tempo che ci porta.
Quest'ora, questa coppa, queste terre sono tue:
conquistale e ascolta come nasce l'aurora.
XIV
IL GRANDE OCEANO
I
Il Grande Oceano
SE DEI TUOI DONI e delle tue distruzioni, Oceano,
alle mie mani
potessi destinare una misura, un frutto, un fermento,
sceglierei la tua quiete distante, le linee del tuo acciaio,
il tuo spazio vegliato dal vento e dalla notte,
e l'energia del tuo bianco linguaggio
che sconquassa e rovescia le colonne
nella sua stessa purezza distrutta.
Non è l'ultima onda col suo peso di sale
quella che stritola coste e produce
la pace di sabbia che attornia il mondo:
è il volume centrale della forza,
la potenza diffusa delle acque,
l'immoto deserto pieno di vite.
Tempo, forse, o immensa coppa stipata
d'ogni movimento, unità pura
non suggellata dalla morte, viscere
verde della totalità bruciante.
Del braccio sommerso che solleva una goccia
non rimane che un bacio del sale. Dei corpi
dell'uomo sulle tue rive un'umida fragranza
di fiore irrorato perdura. La tua energia
sembra sgusciare senz'essere intaccata,
sembra far ritorno alla sua quiete.
L'onda che tu scateni,
arco d'identità, piuma stellata,
quando precipitò fu solo spuma,
e ancora nacque senza consumarsi.
Tutta la tua forza torna a essere origine.
Consegni solo avanzi triturati,
involucri scartati dal tuo carico:
ciò che espulse il moto della tua abbondanza,
e ciò che smise d'essere grappolo.
La tua statua si stende al di là delle onde.
È viva e ordinata come il petto e il manto
d'un solo essere, e i suoi respiri,
issati nella materia della luce,
pianure sollevate dalle onde,
formano la pelle nuda del pianeta.
Te stesso riempi della tua sostanza.
Colmi la curvatura del silenzio.
Col sale e il miele tuo trema la coppa,
la cavità universale dell'acqua,
e, come nel cratere scorticato,
nel vaso scabro, in te non manca nulla:
vuote cime, cicatrici, segnali
che vigilano l'aria mutilata.
Pulsano i tuoi petali contro il mondo,
tremano i tuoi subacquei cereali,
le dolci alghe appendono minacce,
viaggiano e s'addensano le covate,
e al filo delle reti solo emerge
il morto lampeggiare della squama,
un millimetro ferito nel vasto
delle tue totalità cristalline.
II
Le nascite
QUANDO le stelle si tramutarono
in terra e metallo, quando spensero
l'energia e capovolto fu il calice
d'aurore e di carboni, e inabissato
il fuoco nelle sue dimore,
il mare cadde come una goccia ardente
di distanza in distanza, d'ora in ora:
il suo fuoco azzurro si mutò in sfera,
l'aria dei suoi vortici fu campana,
la sua essenza interna tremò nella spuma,
e si elevò nella luce del sale
il fiore della sua vasta autonomia.
Mentre come letargici fanali
dormivano le stelle segregate
l'immota purezza assottigliando,
il mare riempì di sale e di morsi
la sua imponenza, popolò di fiamme
e movimenti l'estensione del giorno,
creò la terra e scatenò la spuma,
lasciò tracce di gomma nei suoi vuoti,
invase di statue tutti gli abissi,
e il sangue si piantò sulle sue sponde.
Stella delle ondate, acqua madre,
madre materia, midollo invincibile,
tremula chiesa eretta nella melma:
la vita in te palpò pietre notturne,
retrocesse quando giunse alla piaga,
avanzò munita di scudi e diademi,
diramò dentature trasparenti,
accumulò la guerra nel suo ventre.
Ciò che formò l'oscurità spezzata
dalla fredda sostanza del baleno
già nella tua vita vive, Oceano.
La terra fece dell'uomo la sua pena.
Congedò bestie, abolì montagne,
esaminò le uova della morte.
Intanto nella tua età sopravvissero
gli arcolai del passato sommerso,
e l'immensità creata conserva
i medesimi smeraldi squamosi,
gli abeti affamati che divorano
con azzurrognole bocche d'anello,
la chioma che inghiotte occhi affogati,
la madrepora d'astri combattenti,
e nella forza oliosa del cetaceo
scivola l'ombra tutto stritolando.
La cattedrale fu eretta senza mani
ma con colpi d'infinita marea,
il sale s'assottigliò come un ago,
divenne lamina d'acqua incubatrice,
e puri esseri, sparsi da poco,
pullularono e intessero le pareti
fino a che come nidi raggruppati
con il grigio abbigliamento della spugna,
scivolò via la tunica scarlatta,
visse l'intera apoteosi gialla,
crebbe il fiore calcareo d'amaranto.
Tutto era essere, sostanza fremente,
petali carnivori che mordevano,
ammassata moltitudine nuda,
pulsazione di piante seminali,
salassatura dell'umide sfere,
perenne vento azzurro che abbatteva
le scoscese frontiere degli esseri.
E così la luce immota fu bocca
e morse le sue violacee gemme.
Fu, Oceano, la forma meno dura,
la traslucida grotta della vita,
la massa esistenziale, sgusciarne
di grappoli, i veli dell'ovaia,
i germinali denti sparpagliati,
le spade del siero mattutino,
gli organi acerbi dell'amplesso:
tutto in te palpitò riempiendo l'acqua
di cavità e di commovimenti.
Così la coppa delle vite ebbe
un aroma turbolento, e radici,
e stellata invasione furono l'onde:
cintura e pienezza sopravvissero,
e gli ospiti dorati della spuma
pennacchio e vastità inalberarono.
E per sempre tremò lungo le rive
la voce del mare, i talami dell'acqua,
la tempestosa pelle distruttrice,
il latte inferocito della stella.
III
I pesci e l’affogato
D'UN TRATTO vidi le regioni folte
d'intensità, di forme acuminate,
bocche come una linea che tagliava,
lampeggiamenti d'argento sommerso,
pesci luttuosi, pesci ogivali,
pesci di firmamento inghirlandato,
pesci con tanti nei risplendenti,
pesci che scorrono come brividi,
bianca velocità, sottili scienze
della circolazione, bocche ovali
della carneficina e dell'aumento.
Leggiadra fu la mano o la cintura
che, circondata da luna fuggente,
vide tremare la gente della pesca,
umido fiume elastico di vite,
incremento di stelle nelle squame,
opale seminale disseminato
nel lenzuolo oscuro dell'oceano.
Vide bruciare le pietre d'argento che mordevano,
gonfaloni di tremulo tesoro,
e sottomise il suo sangue calando
nella profondità divoratrice,
sollevato da bocche che scorrono
nel suo torso con anelli cruenti
fino a che, sgranato e suddiviso
come spiga sanguinante, è uno scudo
della marea, un abito tritato
dalle ametiste, un'eredità ferita
sotto il mare, nell'albero copioso.
IV
Gli uomini e le isole
GLI UOMINI oceanici si destarono, cantavano
le acque nelle isole, di pietra in pietra verde:
le fanciulle tessili attraversavano il recinto
nel quale il fuoco e la pioggia intrecciati
procreavano diademi e tamburi.
La luna melanesia
fu una dura madrepora, i fiori solfurei
venivano dall'oceano, le figlie
della terra tremavano come onde
al vento nuziale delle palme,
e nella carne entrarono i ramponi
a caccia delle vite della spuma.
Canoe dondolate nel giorno deserto,
dalle isole come punti di polline verso
la metallica massa dell'America notturna:
minuscole stelle senza nome, profumate
come sorgenti misteriose, traboccanti
di piume e di coralli, quando
gli occhi oceanici scopersero l'altura
tetra della costa del rame, la scoscesa
torre di neve, e gli uomini d'argilla
videro danzare gli umidi stendardi
e gli agili figli atmosferici
della remota solitudine marina,
giunse il rametto
della zagara sperduta, venne il vento
della magnolia oceanica, la dolcezza
dell'azzurro pungolo sulle anche,
il bacio dell'isole senza metalli,
pure come il miele disordinato,
sonore come lenzuola del ciclo.
V
Rapa Nui
TEPITO-TE-HENÚA, ombelico del mare grande,
officina del mare, estinto diadema.
Dalla tua lava di scorie più in alto
dell'Oceano salì la fronte dell'uomo,
gli occhi screpolati della pietra
misurarono il ciclonico universo,
e fu centrale la mano che innalzava
la pura grandezza delle tue statue.
La tua roccia religiosa fu tagliata
verso tutte le linee dell'Oceano
e le fattezze dell'uomo apparvero
spuntando dal ventre delle isole,
nascendo dai crateri svuotati
con i piedi impigliati nel silenzio.
Fecero da vedette e sbarrarono
il ciclo delle acque che venivano
da tutti gli umidi possedimenti,
e il mare davanti alle maschere
fermò i tempestosi alberi azzurri.
Nessuno, solo i volti abitarono
la cerchia del reame. E taciturno,
come l'ingresso d'un pianeta, era il filo
che avvolgeva la bocca dell'isola.
Così, alla luce dell'abside marina
la favola di pietra decora
l'immensità con le sue medaglie morte,
e i piccoli sovrani, che reggono
tutta questa solitaria monarchia
per la sempiterna età delle spume,
tornano al mare nella notte invisibile,
tornano ai loro sarcofaghi di sale.
Solo il pesce luna morto sulla sabbia.
Solo il tempo che morde i moais.
Solo l'eternità sopra le sabbie
conoscono le parole:
la luce chiusa, il labirinto morto,
le chiavi della coppa inabissata.
VI
I costruttori di statue (Rapa Nui)
IO SONO lo statuario. Non ho
nome.
Non ho volto. Il mio s'è smarrito nel correre
sopra il rovo e nel salire impregnando le pietre.
Esse posseggono il mio volto pietrificato, la grave
solitudine della mia patria, la pelle degli Oceani.
Nulla vogliono dire, null'altro vollero
se non nascere con tutto il loro volume di sabbia,
sopravvivere destinate al tempo silenzioso.
Tu mi domanderai se la statua ove tante
unghie e mani e braccia oscure io venni consumando,
ti riserva una sillaba del cratere, un aroma
antico, preservato da un segno di lava?
Non è così, le statue sono ciò che noi fummo,
siamo noi, la nostra fronte che guardava le onde,
la nostra materia talora interrotta, talora
perpetuata nella pietra a noi somigliante.
Altri furono gli dèi piccoli e maligni,
pesci, uccelli che intrattennero il mattino,
nascondendo le accette, rompendo la statura
dei più alti visi che concepì la pietra.
Fermino gli dèi il conflitto del raccolto ritardato,
se vogliono, e alimentino pure
lo zucchero azzurro del fiore nella danza.
Facciano alzare e abbassare la chiave della farina:
impregnino tutte le lenzuola nuziali
con il polline bagnato che impercettibile balla
entro la rossa primavera dell'uomo,
ma fino a questi muri, a questo cratere, vieni
solo tu, piccolo mortale, scalpellino.
Si consumeranno questa e un'altra carne,
il fiore forse perirà, senz'armatura,
quando, sterile aurora, polvere riarsa, un giorno
verrà la morte alla cintura dell'isola orgogliosa,
e tu, statua, figlia dell'uomo, rimarrai
a guardare con gli occhi vuoti che scaturirono
da una mano e da un'altra d'immortali assenti.
Gratterai la terra fino a che nasca
la fermezza, fino a che cada l'ombra sulle strutture
come sopra un'ape colossale che divora
il suo stesso miele perduto nel tempo infinito.
Le tue mani toccheranno la pietra fino a intagliarla
dandole l'energia solitaria che possa
sopravvivere, senza usare i nomi che non esistono,
e così da una vita a una morte, vincolati
al tempo come una sola mano che ondeggia,
innalziamo la torre calcinata che dorme.
La statua che crebbe sopra la nostra figura.
Guardatele oggi, toccate questa materia, queste labbra
hanno la stessa lingua silenziosa che dorme
nella nostra morte, e questa cicatrice sabbiosa,
che il mare e il tempo come lupi hanno leccato,
erano parte d'un viso che non fu abbattuto,
punto d'un essere, grappolo che ceneri sconfisse.
Così nacquero, furono vite che crearono
la propria cella dura, la propria arnia nella pietra.
E questo sguardo ha più sabbia del tempo.
Più silenzio di tutta la morte nel suo alveare.
Furono il miele d'un grave proposito che abitava
la luce abbagliante che oggi scivola sulla pietra.
VII
La pioggia (Rapa Nui)
NO, non riconosca la Regina
il tuo volto, è più dolce
così, mio amore, lontano dalle effigi, il peso
della tua chioma sulle mie mani: ricordi
l'albero di Mangareva i cui fiori cadevano
sui tuoi capelli? Queste dita non assomigliano
ai petali bianchi: guardali, sono come radici,
sono come steli di pietra sui quali scivola
il ramarro. Non temere, aspettiamo che cada la pioggia,
ignudi,
la pioggia, la stessa che cade sopra Manu Tara.
Ma così come l'acqua indurisce i suoi tratti sulla pietra,
sopra di noi cade portandoci soavemente
verso l'oscurità, più sotto della voragine
di Ranu Raraku. Per questo
non ti scorga né il pescatore né l'anfora. Seppellisci
i tuoi seni di bruciatura gemella nella mia bocca,
e la tua chioma divenga una piccola notte mia,
un'oscurità il cui profumo bagnato mi ricopre.
Di notte sogno che tu ed io siamo due piante
che son cresciute insieme, con radici intrecciate,
e che tu conosci la terra e la pioggia come la mia bocca,
perché di terra e pioggia siamo fatti. A volte
penso che con la morte dormiremo in basso,
nella profondità dei piedi dell'effigie, guardando
l'Oceano che ci ha indotto a costruire ed amare.
Le mie mani non erano ferree quando ti conobbero, le acque
d'altro mare le attraversavano come una rete; adesso
acqua e pietre sorreggono semi e segreti.
Amami addormentata e nuda, che sulla riva
sei come l'isola: il tuo amore confuso, il tuo amore
stupito, nascosto nella cavità dei sogni,
è come il movimento del mare che ci circonda.
E quando anch'io starò per addormentarmi
nel tuo amore, nudo,
lascia la mia mano tra i suoi seni, perché palpiti
all'unisono dei tuoi capezzoli bagnati dalla pioggia.
VIII
Gli oceanici
SENZA altri dèi che il cuoio delle foche imputridite,
onor del mare, yámanas percossi
dalla frusta antartica, alacalufes
di olii e di detriti cosparsi:
tra pareti di cristallo e d'abisso
la piccola canoa si portò dietro,
nell'ira aspra di banchise e pioggia,
l'amore errante dei lupi marini
e le braci del fuoco galleggianti
sopra le ultime acque mortali.
Uomo, se lo sterminio
non calò dai fiumi della neve
né dalla luna indurita
sul vapore glaciale dei ghiacciai,
ma dall'uomo che fin nella sostanza
della neve perduta e delle acque
finali dell'Oceano,
speculò con ossa deportate
fino a spingerti al di là d'ogni cosa,
e oggi al di là di tutto e della neve
e della tempesta sprigionata dal gelo,
va la tua piroga tra il sale selvaggio
e la furiosa solitudine cercando
il rifugio del pane; tu sei, Oceano,
goccia del mare e del suo azzurro in furia,
e il tuo logorato cuore mi chiama
come incredibile fuoco immortale.
Amo la gelida pianta assalita
dall'ululato del vento spumoso,
e, ai piedi delle gole dirupate,
il minuto popolo lucernario
che arde sulle lampade crostacee
dell'acqua dilaniata dal freddo,
e l'antartica aurora nel suo castello
di pallido splendore immaginario.
Amo persino le radici turbolente
delle piante bruciate dall'aurora
di mani trasparenti,
ma verso di te, ombra del mare, figlio
delle piume glaciali, oceanide
stracciato, va quest'onda
nata nelle lacerazioni, diretta
come l'amore ferito sotto il vento.
IX
Antártica
ANTÀRTICA, corona australe, grappolo
di lanterne ghiacciate, cineraria
di gelo distaccata
dalla pelle terrena, chiesa infranta
dalla purezza, nave scatenata
sopra la cattedrale del candore,
olocausto di vetri frantumati,
uragano sfracellato sui muri
della neve notturna,
dammi il tuo duplice seno sconvolto
dalla sovrastante solitudine,
l'alveo del vento atroce nascosto
da tutte le corolle d'ermellino,
da tutte le buccine del naufragio
ed il bianco inabissarsi dei mondi,
o il tuo petto di pace che lava il freddo
come un puro rettangolo di quarzo,
e il non respirato, l'infinita
materia trasparente, l'aria aperta,
la solitudine senza terra e miseria.
Regno del mezzogiorno più severo,
arpa di gelo sussurrata, immota,
nei pressi delle stelle antagoniste.
Tutti i mari sono il tuo mare rotondo.
Tutte le resistenze dell'Oceano
concentrarono in te la trasparenza,
e il sale ti popolò di castelli,
il ghiaccio costruì città innalzate
sopra un ago di cristallo, il vento
percorse il tuo salato parossismo
come una tigre arsa dalla neve.
Le tue cupole figliarono il rischio
dall'alto della nave dei ghiacciai,
e nel tuo deserto dorsale la vita
sta come vigna sotto il mare, ardendo
senza consumarsi, serbando il fuoco
per la primavera della neve.
X
I figli della costa
PARIA del mare, antartici
cani frustati,
yaganes morti sulle cui ossa
ballano i padroni che hanno pagato
a tariffa le superbe cervici
tagliate nette a colpi di coltello.
Changos d'Antofagasta e dell'arida costa,
paria, pidocchi gelati dell'oceano,
nipoti di Rapa, poveri d'Anga-Roa,
lemuri rotti, lebbrosi di Hotu-Iti,
servi delle Galapagos, preziosi
pezzenti degli arcipelaghi,
abiti sfilacciati che al di sotto
della sudicia toppa rivelano
l'orditura della battaglia,
la pelle salata dall'aria, il prode
squarcio d'essere umano, color d'ambra:
alla patria del mare venne l'imbarco,
venne la corda, il sigillo, la trama,
il biglietto con un profilo stinto,
i detriti di bottiglie sul lido,
venne il governatore, il deputato,
e il cuore del mare si fece tasca,
si fece cucitura, iodio, agonia.
Quando vennero a smerciare fu dolce
la prima alba, e le camicie
erano come la neve sul vascello,
e i figli celesti s'incendiarono,
falò e fiore, luna e movimento.
Pidocchi del mare, ora mangiate sterco,
appostate i rimasugli, le scarpe
rotte del marinaio, del mercante,
odorate d'escrementi e di pesce.
Voi siete ormai entrati nel cerchio
da cui uscirete solo per morire.
Non una morte in mare, con acqua e luna,
ma una morte per i confusi buchi
della necrologia, perché ora
se volete scordare, siete perduti.
Prima la morte ebbe territori,
trasmigrazioni, tappe e stagioni,
e poteste salire ballando avvolti
nella rugiada diurna della rosa
o nella rotta del pesce d'argento:
oggi siete morti per sempre: immersi
nello squallido decreto del frate,
e siete solo vermi della terra
che al massimo avvolgeranno la coda
sotto i notariati dell'inferno.
Venite e pullulate sulle sponde
del mare: vi accettiamo ancora,
potete andare benissimo a pescare
purché la nostra Società di Pesca
sia garantita: potete andare
a graffiarvi le costole sui moli,
a caricare sacchi di ceci,
a dormire fra i residui costieri.
Siete in realtà una minaccia, rognosi
diseredati della spuma; è molto
meglio che, se il prete ve lo permette,
entriate sulla nave che v'aspetta,
e che, con pidocchi e tutto, al nulla
vi condurrà, senza bara, addentati
dalle ultime ondate e sventure,
e, a patto che non si paghi, alla morte.
XI
La morte
SQUALI che assomigliano alle alghe,
al navale velluto degli abissi,
e che d'un tratto come strette lune
apparite con lame imporporate:
pinne lubrificate nelle tenebre,
lutto e velocità, navi del timore
a cui ascende come una corolla
il delitto di luce vorticosa,
senza una voce, in una fiamma verde,
nei tagli di coltello d'un baleno.
Pure forme scure che scivolano
sotto l'epidermide del mare,
come l'amore che invade la gola,
come la notte che brilla nelle uve,
come il fulgore del vino nei pugnali:
vaste ombre di cuoio smisurato
come stendardi di minaccia: rami
di braccia, bocche, lingue che avvolgono
di fiore ondeggiante ciò che divorano.
Nella minima goccia della vita
attende un'indecisa primavera
che chiuderà col suo immoto sistema
ciò che tremò quando cadde nel vuoto:
la striscia ultravioletta che svolge
una cinta di fosforo perverso
nella nera agonia dello sperduto,
e l'arazzo dell'affogato coperto
da una selva di lance e di murene
trepidanti e attive come un telaio che tesse
nella profondità divoratrice.
XII
La onda
L'ONDA viene dal fondo, con radici
figlie del firmamento inabissato.
La sua elastica invasione fu creata
dalla pura potenza dell'Oceano:
la sua eternità apparve allagando
i padiglioni del potere profondo
e ogni essere le diede resistenza,
sgranò fuoco freddo alla sua cintura,
fino a che dai rami della forza
sprigionò il suo dominio nevoso.
Proviene come un fiore dalla terra
quando avanzò con risoluto aroma
fino alla maestosità della magnolia,
ma questo fiore del fondo ch'è esploso
reca tutta la luce che fu abolita,
reca tutti i rami che non arsero
e tutta la sorgente del candore.
Così quando le sue palpebre tonde,
la sua massa, le sue coppe, i suoi coralli
gonfiano la pelle del mare e affiora
tutta questa vita d'esseri subacquei:
è l'unità del mare che si crea:
la colonna del mare che s'innalza:
tutte le sue nascite e sconfitte.
La scuola del sale aprì le porte,
volò tutta la luce e colpì il cielo,
crebbe dalla notte fino all'aurora
il lievito del metallo bagnato,
tutto il chiarore divenne corolla,
crebbe il fiore fino a sciupare la pietra,
salì alla morte il fiume della spuma,
s'avventarono le piante procellarie,
straripò la rosa dell'acciaio:
le difese dell'acqua si piegarono
e senza spandersi il mare demolì
la sua torre di brivido e cristallo.
XIII
I porti
ACAPULCO, tagliato come una pietra azzurra,
quando si desta il mare appare alla tua porta
iridato e ricamato come una conchiglia,
e tra le tue rocce passano pesci come lampi
che palpitano gravidi del fulgore marino.
Tu sei la luce completa, senza palpebre, il giorno
ignudo, ondeggiante come un fiore di sabbia,
tra l'infinità estesa dell'acqua
e l'altezza illuminata con lampade d'argilla.
Accanto a te le lagune mi diedero l'amore
del pomeriggio caldo con bestie e manglari,
i nidi come nodi sui rami da dove
il volo degli aironi sollevava la spuma,
e nell'acqua scarlatta come un delitto ferveva
un popolo incarcerato di bocche e di radici.
Topolobambo, tracciato appena sulle rive
della dolce e nuda California marina,
Mazatlán stellato, porto di notte, ascolto
le onde che urtano la tua miseria
e le tue costellazioni, il battito
dei tuoi appassionati coreuti,
il tuo cuore sonnambulo che canta
sotto le reti rosse della luna.
Guayaquil, sillaba di lancia, filo
di stella equatoriale, chiavistello
aperto dell'ombra umida che ondeggia
come una treccia di donna bagnata:
porta di ferro maltrattato
dal sudore amaro
che inzuppa i grappoli,
che sgocciola l'avorio sulle fronde
e scende nella bocca degli uomini
mordendo come un acido marino.
Salii alle rocce di Mollendo, bianche,
arida lucentezza e cicatrici,
cratere il cui crepato continente
tien saldo tra le pietre il suo tesoro,
la ristrettezza dell'uomo rinchiuso
nelle zone spoglie del precipizio,
ombra delle metalliche strettoie,
promontorio ingiallito della morte.
Pisagua, cifra del dolore, sporca
del supplizio, nei tuoi ruderi vuoti,
nelle tue scogliere terrificanti,
nel tuo carcere di pietra e abbandono
si volle schiacciare la pianta umana,
si pretese fare di cuori morti
un tappeto, umiliare la sventura
con marchio rabbioso fino a rompere
la dignità: laggiù, nelle salmastre
viuzze vuote, agitano i manti
i fantasmi della desolazione,
e nelle nude crepature offese
la storia posa come un monumento
battuto dalla spuma solitaria.
Pisagua, nel vuoto delle tue vette,
nell'irata solitudine, la forza
della verità dell'uomo s'innalza
come un nudo e nobile monumento.
Non è solo un uomo, non è solo un sangue
ciò che macchiò la vita nei tuoi pendii,
sono tutti i carnefici attaccati
alla palude ferita, ai supplizi,
alle steppe dell'America in lutto,
e quando si affollarono di catene
le tue desertiche pietre scoscese
non soltanto fu morsa una bandiera,
non fu solo un bandito velenoso,
ma anche la fauna delle acque vili
che ripete i suoi denti nella storia,
che trafigge con mortale coltello
il cuore del popolo sventurato,
che ammanetta la terra che li fece,
e disonora la sabbia dell'aurora.
Oh porti di tanta sabbia, inondati
dal salnitro e dal sale segreto
che depone i dolori sulla patria
e porta via l'oro al dio sconosciuto
che coll'unghie ha raschiato la corteccia
dei nostri dolorosi territori.
Antofagasta, la cui voce remota
sfocia nella luce cristallizzata
e s'accumula in sacchi e in magazzini
e si sparge in aridità mattutina
verso la direzione delle navi.
Rosa riarsa di legno, Iquique,
tra le tue bianche balaustre, presso
i tuoi muri di pino che la luna
del deserto e del mare hanno impregnato,
fu versato il sangue del mio popolo,
fu ammazzata la verità, distrutta
in sanguinaria polpa la speranza:
fu sepolto il delitto nella sabbia
e i rantoli soffocò la distanza.
Tocopilla spettrale, sotto i monti,
sotto la nudità piena di punte
corre la neve secca del nitrato
senza spegner la luce del suo intento
né l'agonia della mano oscura
che rimosse la morte nelle zolle.
Abbandonata costa che respingi
l'acqua affogata dell'amore umano,
nascosto nei tuoi bordi calcarei
come il più gran metallo di vergogna.
Ai tuoi porti scese l'uomo interrato
a veder la luce delle vie vendute,
a disciogliere il suo cuore ispessito,
e a dimenticare lidi e sciagure.
Tu che passi, chi sei, e chi scorre
fra i tuoi occhi dorati, e chi si muove
sopra i cristalli? Tu scendi e sorridi,
apprezzi il silenzio in mezzo ai legnami,
tocchi la luna torbida dei vetri
e nient'altro: l'uomo è stato rinchiuso
già da ombre carnivore e da sbarre,
è già steso nel suo ospedale e dorme
sopra le scogliere dell'esplosivo.
Porti del Sud, che hanno disfogliato
la pioggia dalle foglie di mia fronte;
conifere amare dell'inverno
dalla cui sorgente piena di spille
piovve alle mie pene solitudine.
Porto Saavedra, gelato sui bordi
del fiume Imperial: le foci insabbiate,
il glaciale lamento dei gabbiani
che ai miei occhi sembravano sorgere
come fiori d'arancio tempestosi,
senza che alcuno tubasse tra i rami,
dolcemente ripiegati al mio affetto,
dilacerati dal mare violento
e spruzzati nelle solitudini.
Più tardi la mia strada fu la neve
e nelle case assonnate dello Stretto,
a Punta Arenas, a Porto Natales,
nell'estensione azzurra dell'ululo,
nella sibilante e sfrenata notte
finale della terra, vidi le assi
che resistettero, accesi le lampade
sotto il vento feroce, affondai le mani
nella nuda primavera antartica
e baciai la polvere fredda degli ultimi fiori.
XIV
Le navi
LE NAVI della seta sulla luce portate,
erette nel violetto mattutino,
che incrociano il sole marittimo con rosse insegne
sfilacciate come stami cenciosi,
l'odore caloroso delle casse dorate
che la cannella fece suonare come violini,
e la fredda avidità che sussurrò nei porti
in una tempesta di mani stropicciate,
le benvenute squisitezze verdi
delle giade, e il pallido frumento della seta,
tutto vagò sul mare come un viaggio del vento,
come una danza d'anemoni ormai scomparsi.
Vennero le esili velocità, sottili
arnesi del mare, pesci di stracci,
dorate dal grano, determinate
dalle loro cineree mercanzie,
da pietre che brillarono eccessive
come il fuoco che cade tra le vele,
o ricolme di fiori solforosi
raccolti nei deserti del sale.
Altre caricarono razze, misero
nell'umido delle stive, incatenati,
occhi schiavi che screpolarono di lacrime
il legno massiccio del bastimento.
Piedi appena staccati dall'avorio, tristezze
ammucchiate come frutti pestati,
dolori scorticati come cervi: teste
che dai diamanti dell'estate rotolarono
nel precipizio dello sterco infame.
Navi piene di grano che mossero
sulle onde come sulle pianure
il vento cereale delle spighe:
bastimenti delle balene, irti
di cuori crudeli come ramponi,
lenti per la preda, che spostavano
verso Valparaiso le loro stive,
vele sporche d'unto che vibrarono
ferite dal gelo e dall'olio
fino a colmare le coppe della nave
con il raccolto molle della bestia.
Barche smantellate che passarono
di scossa in scossa nella furia marina
con l'uomo afferrato alle sue memorie
e agli stracci ultimi dello scafo,
prima che, come mani mozzate,
i frammenti del mare li spingessero
nell'esili bocche che affollarono
lo schiumoso mare nell'agonia.
Navi dei nitrati, tutte aguzze
e allegre, come indomiti delfini
verso le sette spume spinte appena
dal vento nelle lenzuola gloriose,
sottili come le dita e le unghie,
veloci come piume e come corsieri,
navigatrici del mare nerastro
che attacca i metalli del mio paese.
XV
A una statua di prua (Elegia)
SULLE sabbie di Magallanes ti raccogliemmo stanca
navigatrice, immota
sotto la tempesta che tante volte il tuo petto dolce e
doppio sfidò e divise fra i suoi capezzoli.
Ti rialzammo sopra i mari del Sud, ma
ora
sei diventata la passeggera dell'oscuro, degli angoli riposti,
pari al grano e al metallo che serbasti
in alto mare, avvolta dalla notte marina.
Oggi sei mia, dea che l'albatros gigante
sfiorò con la sua figura distesa nel volo,
come un manto di musica diretta nella pioggia
dalle tue cieche ed erranti palpebre di legno.
Rosa del mare, ape più pura dei sogni,
donna mandorlata che dalle radici
d'una quercia popolata di canti
ti facesti forma, forza di fogliame con nidi,
bocca di tempeste, delicata tenerezza
che avrebbe conquistato la luce con le sue anche.
Quando angeli e regine che nacquero assieme a te
si empirono di muschio e dormirono destinate
all'immobilità con una gloria di morti,
tu salisti nella prua sottile della nave,
e fosti angelo e regina e onda, tremore del mondo.
Il rabbrividire degli uomini saliva
fino alla tua nobile tunica con seni di mela,
mentre le tue labbra erano, oh dolce, inumidite
da altri baci degni della tua bocca selvaggia.
Sotto l'estranea notte la tua cintura lasciava
cadere il peso puro della nave nelle onde
e tagliava nella buia immensità una strada
di fuoco travolto, di fosforescente miele.
Il vento aprì nei tuoi ricci la sua cassa tempestosa,
lo scatenato metallo del suo lamento,
e nell'aurora la luce t'accolse tremando
nei porti, baciando il tuo diadema bagnato.
Talvolta interrompesti il tuo cammino sul mare
e il battello tremante calò giù dalla fiancata,
come un grosso frutto che si distacca e cade,
un marinaio morto che accolsero la spuma
e il movimento puro del tempo e dello scafo.
E tu soltanto fra tutti i volti tormentati
dalla minaccia, crollati in un dolore sterile,
ricevesti a spruzzi il sale sulla tua maschera,
e i tuoi occhi serbarono le lacrime salate.
Più d'una misera vita scivolò fra le tue braccia
verso l'eternità delle acque mortuarie,
e l'attrito che fecero su te i morti e i vivi
logorò il tuo cuore di legno marino.
Oggi abbiamo raccolto dalla sabbia la tua forma.
In fondo, ai miei occhi tu eri destinata.
Forse, addormentata, dormi; forse, morta, sei morta:
il tuo moto, infine, ha dimenticato il sussurro
e lo splendore errante ha chiuso la sua traversata.
Ire del mare, colpi del cielo hanno coronato
d'incrinature e di spacchi la tua testa altera,
e la tua faccia come una conchiglia riposa
con ferite che segnano la tua fronte cullata.
Per me la tua bellezza serba tutto il profumo,
tutta l'asprezza errante, tutta la sua notte buia.
E nel tuo ripido seno di fanale o di dea,
turgida torre, amore immobile, vive la vita.
Tu navigherai con me, protetta, fino al giorno
che faranno cadere ciò ch'io sono nella spuma.
XVI
L’uomo sulla nave
AL DI LÀ della linea della nave
affilata dal sale in movimento,
in mezzo al grasso morto che trapassa i sogni,
l'equipaggio dorme nella sua nuda fatica,
qualcuno di guardia trascina un cavo di metallo,
risuona il mondo
del bastimento, il vento cigola nel fasciame,
palpitano sordamente i ferri viscerali,
il fuochista si guarda il viso in uno specchio:
in un frammento rotto di vetro riconosce
di quell'ossuta maschera macchiata dal fumo
due occhi: quegli occhi che aveva amato Graciela
Gutiérrez prima di morire, senza che accanto
al suo letto questi occhi amati potessero vederla,
portarla in quest'ultima imbarcazione, e dentro
questa fatica, in mezzo alle braci e ai grassi.
Non importa, con i baci che si scambiavano
tra i viaggi e certi regali, adesso nessuno,
nessuno c'è in casa. L'amore, nella notte del mare,
tocca tutti i letti di quelli che dormono, vive
più sotto della nave, come un'alga
notturna che struscia i suoi rami verso l'alto.
Vi sono altri uomini stesi nella notte del viaggio,
nel vuoto, senza mare sotto i sogni,
come la vita, alture frammentate, brani
della notte, sassi che hanno dissolto
la rete lacerata dei sogni.
La terra
di notte invade il mare con le sue onde e copre
il cuore del povero passeggero addormentato
con una sola sillaba di polvere, con una
cucchiaiata di morte che lo reclama.
Ogni pietra oceanica è oceano, la minima
cintura ultravioletta della medusa, il cielo
con tutto il suo vuoto costellato, la luna
ha un mare abolito entro i suoi spettri:
ma l'uomo chiude gli occhi, morde un poco
dei suoi passi, minaccia il suo cuore minuto
e singhiozza e sgraffia la notte con le unghie,
cercando terra, facendosi lombrichi.
È terra che le acque non coprono né uccidono.
È orgoglio d'argilla che morirà nell'anfora,
spezzandosi, staccando le gocce che hanno cantato
legando alla terra la sua indecisa cucitura.
Non cercare nel mare questa morte, non sperare
territorio, non serbare il pugno di polvere
per tenerlo intatto e consegnarlo alla terra.
Consegnalo a queste labbra infinite che cantano,
donalo a questo coro di movimento e mondo,
distruggiti nell'eterna maternità dell'acqua.
XVII
Gli enugmi
M'AVETE domandato cosa fila il crostaceo
tra le sue zampe d'oro
e io vi rispondo: lo sa il mare.
Mi dite: che aspetta l'ascidia nella sua campana
trasparente? Che aspetta?
Io vi rispondo: aspetta come voi il tempo.
Mi chiedete: chi afferra col suo abbraccio l'alga
Macrocustis?
Indagatelo, indagatelo a una certa ora, in un certo mare
che conosco.
Senza dubbio mi domanderete dell'avorio maledetto del
narvalo, perche io vi risponda
in che modo l'unicorno marino agonizza ramponato.
Mi chiedete forse delle piume alcionarie che
tremano
nelle pure origini della marea australe?
E sulla costruzione cristallina del polipo non avete
forse messo tra le altre
ancora una domanda, che ora emettete?
Volete conoscere l'elettrica materia dei ricci del fondo?
O l'armata stalattite che cammina infrangendosi?
O l'amo del pesce pescatore, la musica diffusa
nella profondità come un filo nell'acqua?
Io voglio dire che tutto questo lo sa il mare,
che la vita nelle sue arche
è vasta come l'arena, innumerevole e pura
e tra le uve sanguinarie il tempo ha levigato
la durezza d'un petalo, la luce della medusa
e ha sgranato il ramo delle sue fibre corali
da una cornucopia di madreperla infinita.
Io sono soltanto la vuota rete che precede
occhi umani, morti in quelle tenebre,
dita abituate al triangolo, dimensioni
d'un timido emisfero d'arancia.
A lungo come voi ho frugato
la stella interminabile,
e nella mia rete, di notte, mi destai nudo,
unica preda, pesce rinchiuso nel vento.
XVIII
Le pietre della riva
PIETRE D'OCEANO, non avete la materia
che emerge dalle terre vegetali
in mezzo alla primavera e alle spighe.
II tatto azzurro dell'aria, che fluttua
tra le uve, non conosce il volto
che dai deserti sbocca all'oceano.
Il volto delle rocce frammentate
che non conosce api e non possiede
se non l'agricoltura delle onde,
il volto delle pietre che accolsero
la desolata spuma della lotta
nelle loro eternità screpolate.
Navi tenaci d'ispido granito
consegnato alla collera, pianeti
sulla cui immota grandezza fermano
le insegne del mare ogni loro moto.
Tuoni dell'intemperie in uragano.
Torri di solitudini squassate.
Rocce del mare, avete la trionfante
tinta del tempo, il materiale eroso
da una eternità in movimento.
Il fuoco ha creato questi lingotti
che il mare ha scosso con le sue granate.
Questa ruga ove rame e salamoia
si sono uniti: questo ferro aranciato,
queste macchie d'argento e di colomba,
sono il muro mortale e la frontiera
della profondità con i suoi grappoli.
Pietre di solitudine, pietre amate:
a queste dure cavità s'appende
il tumultuoso freddo delle alghe,
e a quest'orlo abbellito dalla luna
sale la solitudine delle sponde.
Dietro ai piedi sperduti nella sabbia
quale aroma s'è perso, quale moto
di corolla nuziale salì fremendo?
Piante di sabbia, triangoli carnosi,
sostanze spianate che riuscirono
a produrre un fulgore sulle pietre,
primavera marina, delicato
calice edificato sulle pietre,
piccolo lampo d'amaranto appena
incendiato e gelato dalla furia,
datemi la maniera di sfidare
le sabbie del deserto costellato.
Pietre del mare, scintille fermate
nella lotta della luce, campane
indorate dall'ossido, affilate
spade del dolore, cupole rotte
nelle cui cicatrici s'edifica
la statua frammentata della terra.
XIX
Mollusco gongorina
DALLA CALIFORNIA ho portato un murex spinoso:
tutta silice negli aculei e abbigliata di fumo
la sua irta prestanza di rosa congelata,
mentre il suo interno rosa di palato ardeva
d'una soave ombra di corolla carnosa.
Ho avuto anche una cyprea con macchie cadute
sul suo manto a ornare il suo puro velluto
con circoli bruciati di polvere da sparo o pantera,
e un'altra portò sul dorso liscio come una coppa
un ramo di fiumi tatuati nella luna.
E anche la linea spirale, sorretta
solo dall'aria e dal mare,
oh scala, scalaria, delicata,
oh monumento fragile dell'alba
che un anello d'opale impastato
avvolge e spinge appena la dolcezza.
Aprendo le sabbie, ho estratto dal mare
l'ostrica irta di corallo sanguigno,
spondylus, che tra le valve chiudeva
la luce del suo tesoro sommerso,
scrigno ravvolto di punte scarlatte,
oppur di neve con spine aggressive.
L'oliva gracile colsi nella sabbia,
umida viandante, piede di porpora,
gemma inumidita nella cui forma
il frutto ha coagulato la sua fiamma,
il cristallo ha terso il suo stato marino
e la colomba ha ovalizzato il suo nudo.
La conchiglia del tritone ha raccolto
la distanza nella grotta del suono
e nella forma della sua calce a treccia
la sua volta regge il mare con petali.
Oh rostellaria, fiore impenetrabile
come un segno elevato in una spilla,
minima cattedrale, lancia rosa,
spada della luce, pistillo d'acqua.
Ma nelle altezze dell'aurora appare
il figlio della luce, fatto di luna,
l'argonauta che un tremito dirige,
che un tremulo contatto della spuma
ha composto, navigando in un'onda
con nave a spirale di gelsomino.
E allora nascosta nella marea,
bocca ondeggiante del livido mare,
le labbra di titanica violetta,
la tridacna ha chiuso come un castello,
dove la sua rosa immensa divora
le azzurre presenze che la baciano:
convento di sale, stirpe immobile
che ha imprigionato un'onda calcinata.
Ma debbo citare, toccando appena,
oh Nautilus, la tua alata dinastia,
l'esatta equazione della tua rotta,
che spinge la tua nave iridata,
la tua spirale geometria ove si fondono,
orologio del mare, linea e madreperla,
e verso l'isole, nel vento, debbo
fuggire con te, oh dio della struttura.
XX
Gli uccelli maltrattati
ALTA sopra Tocopilla sta la pampa del nitrato,
le terre aride, la macchia delle saline:
è il deserto senza una foglia, senza uno scarabeo,
senza una fibra, senza un'ombra, senza tempo.
Lassù la gamma marina ha fatto il suo nido,
da molto tempo, nella sabbia calda e solitaria,
ha lasciato le uova staccando il volo
dalla costa, in onde di piumaggio,
verso la solitudine e il remoto
quadrato del deserto tappezzato
dal tesoro soave della vita.
Fiume bello dal mare, solitudine
selvaggia dell'amore, piume del vento
arrotondate in globi di magnolia,
volo arteriale, palpitazione alata
dove tutte le vite raccolgono,
in un unico fiume, le pressioni:
così il sale sterile fu popolato,
fu coronato il deserto di penne
e il volo s'incubò negli arenili.
Venne l'uomo. O il frondoso tubare,
che come il mare vibrava nel deserto,
riempì la sua miseria di pallido
essere sperso, o forse fu stupito,
come dalla visione d'una stella,
dalla bianca distesa crepitante;
ma vennero altri sui suoi passi.
Arrivarono all'alba, con randelli
e con cesti, predarono il tesoro,
picchiarono gli uccelli, distrussero
nido a nido la nave delle piume,
soppesarono le uova e schiacciarono
quelle che contenevano il pulcino.
Li alzarono alla luce e gettarono
contro la terra del deserto, in mezzo
al volo, al gracidio e all'ondate
del rancore, e gli uccelli spiegarono
tutta la loro furia nell'aria invasa,
e oscurarono il sole di bandiere:
ma la distruzione colpì i nidi,
inalberò il randello e rasa al suolo
fu la città del mare nel deserto.
Più tardi la città, nella salamoia
vespertina di nebbie e d'ubriachi,
udì passare cesti che offrivano
uova d'uccelli di mare, frutta selvaggia
dei deserti ove nulla sopravvive,
fuorché la solitudine assoluta
ed il sale aggredito ed iracondo.
XXI
Leviathan
ARCA, pace astiosa, notte bestiale
e strisciante, antartica straniera,
non passerai accanto a me spostando
la tua banchisa d'ombra senza che entri
un giorno nelle tue pareti ed alzi
il tuo usbergo d'inverno subacqueo.
Verso il Sud crepitò il tuo fuoco nero
di pianeta scacciato, il territorio
del tuo silenzio che mosse le alghe
agitando l'era della spessura.
Fu solo forma, grandezza racchiusa
in un tremito del mondo ove scivola
la sua maestà di cuoio intimorito
dalla sua stessa potenza e dolcezza.
Arca di collera accesa dal fuoco
delle torce della neve nera,
quando fu creato il tuo cieco sangue
l'età del mare dormiva nei giardini
e in quell'ampiezza la luna scioglieva
la sua coda di fosforico magnete.
La vita crepitava
come un azzurro falò, madre medusa,
moltiplicata tempesta di ovaie,
ed ogni crescita era purezza,
palpitare di pampino marino.
Così la tua gigantesca alberatura
fu posta tra le acque come il passaggio
della maternità sopra il sangue,
e il tuo potere fu notte immacolata
che scivolò inondando le radici.
Disordine e terrore sconvolsero
la solitudine, e il tuo continente
fuggì al di là dell'isole sperate:
ma il terrore passò sopra le sfere
della luna glaciale, e t'entrò nella carne,
attaccò solitudini poste a scudo
della tua paurosa lampada spenta.
La notte t'accompagnò, mentre un limo
tempestoso t'avvolgeva e incollava,
e torceva la tua coda d'uragano
il gelo in cui dormivano le stelle.
Oh gran ferita, tiepida sorgente
che sconvolge i suoi tuoni in disfatta
nella regione dell'arpione, tinto
con il mare del sangue, dissanguata,
dolce e addormentata bestia, condotta
come un ciclone d'infranti emisferi
fino alle barche annerite del grasso
popolato di rancore e pestilenza.
Oh grande statua morta nei cristalli
della luna polare, che empi il ciclo
come nube di terrore che piange
e che ricopre gli oceani di sangue.
XXII
Phalacro-corax
UCCELLI stercorari delle isole,
moltiplicata volontà del volo,
celeste grandezza, innumerevole
emigrazione del vento vitale,
quando le vostre comete guizzano
insabbiando il ciclo imperscrutabile
del tacito Perù, vola l'eclissi.
Oh lento amore, aspra primavera
che sradica la sua coppa ricolma
e la nave della specie naviga
con fluviale tremore d'acqua sacra
rimuovendo il suo cielo numeroso
verso l'isole rosse dello sterco.
Voglio immergermi nelle vostre ali,
andare verso il Sud, dormendo, sorretto
da tutta quella densità vibrante.
Andare nel fiume oscuro dei dardi
con una voce persa, dividermi
nella palpitazione inseparabile.
Poi, pioggia del volo, le calcaree
isole aprono il freddo paradiso
dove cade la luna del piumaggio,
la tormenta luttuosa delle penne.
L'uomo a questo punto china la testa
davanti al tubare dell'uccello-madre,
e fruga sterco con le mani cieche
che alzano gli scalini ad uno ad uno,
raspa la chiarezza dell'escremento, .
ammonticchia le fecce sparpagliate,
e si prosterna in mezzo alle isole
della fermentazione, come uno schiavo,
salutando le acide riviere
che incoronano gli uccelli preclari.
XXIII
Non solo l'albatros
NO, NELLA PRIMAVERA, voi non siete
attese, né nella sete della corolla,
né nel miele violetto che s'intreccia
fibra a fibra nel ceppo e nei grappoli,
ma nella tempesta, nella cenciosa
volta torrenziale della scogliera,
nella crepa forata dall'aurora,
e più ancora, sopra le lance verdi
della sfida, nella solitudine
sgretolata dei deserti marini.
Spose di sale, colombe procellarie,
ad ogni aroma impuro della terra
voltaste il dorso bagnato dal mare,
e nel selvaggio chiarore immergeste
la celestiale geometria del volo.
Siete sacre: non solo quella che andò
come goccia di ciclone sul ramo
del libeccio, non solo quella che annida
nei versanti della furia, ma anche
il gabbiano di neve arrotondata,
la forma del guanay sopra la spuma,
l'argentata fardela di platino.
Quando piombò, racchiuso come un nodo,
il pellicano, e immerse il suo volume,
e quando navigò la profezia
sulle ali spaziose dell'albatros,
e quando il vento del petrel volava
sopra l'eternità in movimento,
molto più in là dei vecchi cormorani,
mi si raccolse il cuore nella coppa
e verso i mari e verso le piume
aprì l'imboccatura del suo canto.
Datemi lo stagno ghiaccio che in petto
portate verso le pietre in tempesta,
datemi la condizione che s'infonde
negli artigli dell'aquila marina,
o la statura immota che resiste
a tutti gli sviluppi e le rotture,
il vento derelitto di zagara
e il sapore della patria infinita.
XXIV
La notte marina
NOTTE marina, statua bianca e verde
io t'amo, dormi con me. Ho percorso
tutte le vie a calcinarmi e morire,
si sviluppò con me il legno, e l'uomo
conquistò la sua cenere e s'accinse
a riposare cinto dalla terra.
Egli chiuse la notte perché i tuoi occhi
non vedessero il suo misero riposo:
volle vicinanze, aprì le braccia
custodito da esseri e da muri,
e cadde al sonno del silenzio, calando
in terra funerea con sue radici.
Io, notte Oceano, alla tua forma aperta,
al tuo spazio che Aldebaran presiede,
alla bocca bagnata del tuo canto
son venuto con l'amore che mi crea.
Ti vidi, notte, mentre tu nascevi
colpita dal madreperla infinito:
vidi tessere le fibre stellate
e l'elettricità della tua cinta
e il movimento azzurro dei rumori
che incalzano la tua dolcezza ingoiata.
Amami senza amore, sposa cruenta.
Amami con lo spazio, con il fiume
della tua respirazione, con l'aumento
di tutti i tuoi diamanti straboccati:
amami senza la tregua del tuo viso,
dammi la dirittura del tuo schianto.
Tu sei bella, amata mia, notte bella:
nascondi la tempesta come un'ape
assopita nei tuoi stami allarmati,
e sonno e acqua tremano nelle coppe
del tuo petto incalzato di versanti.
Notturno amore, seguii ciò che innalzavi,
la tua eternità, la torre tremante
che avoca a sé le stelle, la misura
del tuo oscillare, le popolazioni
che solleva la spuma sui tuoi fianchi:
mi trovo incatenato alla tua gola
e alle labbra che infrangi sull'arena.
Chi sei tu? Notte dei mari, dimmi
se la tua chioma scoscesa ricopre
tutta la solitudine, se è infinito
questo spazio di sangue e praterie.
Dimmi chi sei, piena di navigli,
piena di lune che tritura il vento,
padrona di tutti i metalli, rosa
della profondità, rosa inzuppata
dall'intemperie dell'amore ignudo.
Tunica della terra, statua verde,
dammi un'onda come una campana,
dammi un'onda di zagara furiosa,
il gran numero di falò, le navi
del cielo capitale, l'acqua su cui veleggio,
la massa del fuoco celeste: io voglio un solo
minuto di vastità e, più di tutti
i sogni, la tua distanza: tutta
la porpora che misuri, il grave
e pensoso sistema costellato:
tutta la tua chioma che ispeziona
l'oscurità, e il giorno che prepari.
Voglio avere la tua fronte simultanea,
aprirla nel mio intimo per nascere
su tutte le tue sponde, andare adesso
con tutti i tuoi segreti respirati,
con le tue oscure linee conservate
in me come il sangue o le bandiere,
a portare queste segrete proporzioni
al mare d'ogni giorno, alle battaglie
che a ogni porta - amori e minacce -
vivono addormentate.
Ma allora
entrerò in città con tanti occhi
come te, e assumerò il vestimento
con cui m'incontrasti, e mi venga a cercare
persino l'acqua totale che non si misura:
purezza e distruzione contro tutta la morte,
distanza che non si può consumare, musica
per quelli che dormono e per quelli che si destano.
XV
IO SONOI
I
La frontiera (1904)
PER PRIMA COSA io vidi alberi e dirupi
decorati con fiori di selvaggia bellezza,
umide distese, boschi che s'incendiavano
e l'inverno al di là del mondo, straripato.
La mia infanzia sono scarpe bagnate, tronchi rotti
caduti nella selva, divorati da liane,
e scarabei, dolci giornate sopra l'avena,
e la barba dorata di mio padre che usciva
incontro alla maestà dei treni e dei vagoni.
Di fronte alla mia casa l'acqua australe scavava
profondi sentieri, pantani d'argille luttuose
che d'estate erano gialla atmosfera
su cui scricchiolavano e gemevano carrette
gravide di nove mesi di frumento.
Rapido sole del Sud:
con sterpeti e fumate
lungo strade di terra scarlatta, e poi sponde
di fiumi d'alto lignaggio, recinti e pascoli
su cui si rifletteva il miele del mezzogiorno.
Il mondo polveroso entrava gradualmente
nei capannoni, in mezzo a botti e corde,
in magazzini carichi della sostanza rossa
del nocciolo, e tutte le palpebre del bosco.
Mi parve di salire nell'abito torrido
dell'estate, con le macchine trebbiatrici,
su per le coste, nella terra tinta di boldi,
ritta in mezzo ai roveri, indelebile,
e attaccata alle ruote come carne schiacciata.
La mia infanzia percorse le stazioni: e là tra
le rotaie, i castelli di legname fresco,
la casa senza città, appena appena protetta
da buoi e da meli di profumo indicibile,
io vissi, esile bimbo dal pallido aspetto
che s'impregnava di vuoti boschi e di cantine.
II
Il cacciatore con la fionda (1919)
AMORE, magari amore indeciso, incerto:
soltanto un colpo di madreselva sulla bocca,
soltanto due trecce il cui movimento saliva
verso la mia solitudine come un fuoco nero,
e quindi il resto: il fiume notturno, i segnali
del cielo, la fugace primavera bagnata,
l'impazzita fronte solitaria, il desiderio
che alzava i suoi crudeli tulipani nella notte.
Io le costellazioni sfogliai, ferendomi,
affilando le dita al contatto delle stelle,
tessendo fibra a fibra la gelida orditura
di un castello senza pone,
oh stellati amori
il cui gelsomino invano conserva trasparenza,
oh nubi che nel giorno dell'amore sboccano
come un singhiozzo fra le erbe ostili,
oh nuda solitudine ormeggiata ad un'ombra,
a una cara ferita, a una luna indomabile.
Chiamatemi, io forse dissi ai roseti:
e forse loro, l'ombra di ambrosia indistinta,
ogni fremito del mondo sapeva i miei passi,
m'attendeva l'angolo più occulto, la statua
dell'albero sovrano nella pianura:
tutto nel crocevia pervenne al mio delirio
e il mio nome sgranando sopra la primavera.
E allora, dolce sembiante, giglio incendiato,
tu che col mio sonno non dormisti, scontrosa,
medaglione inseguito da un'ombra, amata ignota,
di tutta la sostanza del polline composta,
di tutto il vento che arde sopra le stelle impure;
oh amore, districato giardino che si estingue,
da te si levarono i miei sogni e in te crebbero
come in un lievitare di pani tenebrosi.
III
La casa
LA MIA CASA, che ha pareti di legname fresco,
da poco segato, ancora odoroso: sconquassata
casa di frontiera, che scricchiolava
a ogni passo, sibilava al vento di guerra
della stagione australe, e diveniva elemento
di tempesta, uccello sconosciuto
sotto le cui gelide penne è cresciuto il mio canto.
Vidi ombre, volti che come piante
crebbero attorno alle mie radici, parenti
che cantavano canzoni all'ombra d'un albero
e sparavano là in mezzo ai cavalli inzuppati,
donne che si celavano nell'ombra
proiettata dalle torri virili,
galoppi che percuotevano la luce,
rade
notti di collera, cani che latravano.
E mio padre con l'aurora cupa
della terra: verso quali arcipelaghi sperduti
si dileguò nei suoi treni ululanti?
Col tempo amai l'odore del carbone nel fumo,
l'olio di macchina, gli assi di fredda esattezza,
e il grave treno che solcava l'inverno steso
sopra la terra, simile a un bruco orgoglioso.
D'un tratto tremarono le porte.
È mio padre.
Attorno a lui sono i centurioni dei viaggi:
ferrovieri avvolti nei mantelli bagnati,
con loro il vapore e la pioggia rivestirono
la casa, la sala da pranzo si empì di storie
sempre più roche, i bicchieri si vuotarono
e sino a me, dagli esseri, come da un'isolata
barriera, ove abitavano i dolori,
giunsero le angosce, le corrucciate
cicatrici, gli uomini senza soldi,
l'artiglio minerale della miseria.
IV
Compagni di viaggio (1921)
POI venni nella capitale, vagamente intriso
di nebbia e di pioggia. Che vie erano quelle?
Gli abiti del 1921 pullulavano
in un odore atroce di gas, caffè e mattoni.
Fra gli studenti io passai senza comprendere,
attorno a me stringendo le pareti, cercando
ogni sera nella mia grama poesia le fronde,
le gocce e la luna che si erano smarrite.
Nel suo abisso mi tuffai, e m'immersi
nelle sue acque ogni sera, afferrando impalpabili
stimoli, gabbiani di un mare abbandonato,
fino a chiudere gli occhi e naufragare nel pieno
della mia stessa sostanza.
Furono tenebre,
o solo nascoste, umide foglie del sottosuolo?
Da che materia ferita si sgranò la morte
sino a toccarmi le membra, guidarmi il sorriso
e nelle vie scavare un pozzo sventurato?
Venni a vivere: crebbi e fui indurito
dai vicoletti più miserabili,
impietosi, cantando sui confini
del delirio. I muri si empirono di volti:
occhi che la luce non guardavano, acque torte
illuminate da un delitto, patrimoni
d'orgoglio solitario, e cavità
colme di cuori ridotti in rovina.
Con quelli me ne andai: solo in quel coro
la mia voce scoprì le solitudini
da cui era nata.
M'avviai ad essere uomo
cantando in mezzo alle fiamme, accolto
da compagni di qualità notturna
che cantarono con me sui banconi,
e mi diedero ben più di un affetto,
più di una primavera custodita
dalle loro mani ostili,
unico fuoco, pianta veritiera
delle periferie sgretolate.
V
La studentessa (1923)
OH TU, più dolce, più interminabile
della dolcezza, carnale innamorata
in mezzo alle ombre: da altre epoche
sorgi e riempi di grave polline
la tua coppa, nel piacere.
Dalla none densa
di oltraggi, notte simile al vino
sfrenato, notte di porpora ossidata,
caddi a te come una torre ferita,
e fra le povere lenzuola la tua stella
su di me palpitò bruciando il cielo.
Oh reti del gelsomino, oh fuoco fisico
in questa nuova ombra alimentato,
oscurità che tocchiamo stringendo
la cinta centrale, sferzando il tempo
con sanguinarie raffiche di spighe.
Amore e nulla più, nel vuoto d'aria
d'una bolla, amore con morte vie,
amore, di quando la vita è morta
e ci ha lasciati a dar fuoco agli angoli.
Io morsi donna, affondai svaporando
dalla mia forza, misi in serbo grappoli,
e fuori camminai di bacio in bacio,
avvinghiato alle carezze, ormeggiato
a questa grotta di gelida chioma,
a queste gambe da labbra percorse:
avido fra le labbra della terra,
divorando con labbra divorate.
VI
Il viaggiatore (1927)
E SALPAI per i mari verso i porti.
Il mondo rivelò, fra le gru
e i magazzini della sordida riva,
nelle sue crepe ciurme e mendicanti,
accozzaglie di spettrali affamati
nelle fiancate delle navi.
Paesi
sdraiati, inariditi, nella sabbia,
abiti talari, manti sfolgoranti
uscivano dal deserto, tutti armati
come scorpioni, a guardia della buca
del petrolio, nella polverosa
rete degli imperi calcinati.
Io vissi in Birmania, tra le cupole
di metallo possente e la foresta
ove la tigre ardeva i suoi anelli
d'oro cruento. Dalle mie finestre,
a Dalhousie Street, l'indefinibile
odore - muschio sulle pagode,
profumi, escrementi, polline, esplosivo -
di un mondo saturo d'umana umidità
salì fino a me.
Le vie mi chiamarono
con i loro innumerevoli moti
di tele di zafferano e sputi rossi,
vicino al sudicio fluttuare dell'Irrawadhy,
dell'acqua il cui spessore, sangue e olio,
veniva scaricando il suo lignaggio
dalle terre alte, dove gli dèi
almeno dormivano circondati dal fango.
VII
Lontano da qui
INDIA, non amai il tuo abito stracciato,
il tuo indifeso popolo di cenci.
Per anni andai con occhi che volevano
scalare i promontori del disprezzo,
in mezzo a città come cera verde,
in mezzo ai talismani, alle pagode
che dalla loro pasticceria cruenta
spruzzavano terribili aculei.
Vidi i miseri ammassati, uno sull'altro,
sopra la sofferenza dei loro simili,
vidi le vie come fiumi d'angoscia,
i piccoli villaggi stritolati
fra le massicce unghie dei fiori,
e andai tra la gente, sentinella
del tempo, arbitro d'annerite
cicatrici, e di contese di schiavi.
Entrai nei templi, ove stucco e gemme
danno i gradini, sporchi di sangue e morte,
e dove i bestiali sacerdoti, ebbri
di stupore ardente, si contendevano
monete rivoltolate nel suolo,
mentre, oh piccolo essere umano,
i grandi idoli dai piedi fosforici
tendevano lingue vendicatrici,
o sopra un fallo di pietra scarlatta
scivolavano i fiori triturati.
VIII
Le maschere di gesso
NON AMAI... Non so se fu vomito o pietà.
Percorsi le città, Saigon, Madras,
Khandy, e andai fino alle sepolte, maestose
pietre di Anuradapurha, e nella rupe
di Ceylon, e mi parevano balene
le effigi di Sidartha, e più oltre andai:
nel pulviscolo di Penang, per le rive
dei fiumi, entro la foresta
di silenzio purissimo, ricolmo
del grande armento delle intense vite,
e, più in là di Bangkok, fra vestimenti
di ballerine con maschere di gesso.
Golfi pestilenziali innalzavano
tettoie di gioielli traboccanti,
e, lungo vasti fiumi, la dimora
di migliaia di poveri, pressati
nelle imbarcazioni, ed altri, tutti
coprivano l'infinita terra,
assai più in là dei fiumi gialli,
come una sola pelle di belva vinta,
pelle dei popoli, pelo umiliato
dagli uni e dagli altri padroni.
Capitani e principi
vivevano sull'umido rantolo
di luci agonizzanti, dissanguando
l'esistenza dei poveri artigiani,
e in mezzo ad artigli e fruste, più in alto
c'era la concessione, l'europeo,
il nordamericano del petrolio,
a trincerare templi d'alluminio,
ad arare sulla pelle indifesa,
a istituire nuovi sacrifici di sangue.
IX
Il ballo )1929)
NEL PROFONDO di Giava, tra le ombre
territoriali: ecco il palazzo illuminato.
Passo tra verdi arcieri, appiccicati
alle pareti, penetro
nella sala del trono. Qui il monarca,
porco apoplettico, tacchino immondo,
Carico di pendagli, costellato,
è fra due dei suoi padroni olandesi,
mercanti accigliati e sempre all'erta,
Che schifoso gruppo di insetti, come spargono
coscienziosamente sugli uomini
palate di viltà!
Le sordide sentinelle
dei lontani paesi, ed il monarca
simile a un sacco cieco, che trascina
la carne spessa e le stelle fallaci
sopra un'umile patria d'orefici.
Ma a un tratto vennero
dai remoti confini del palazzo
dieci danzatrici, lente come un sogno
subacqueo.
Ogni piede faceva un passo
di fianco porgendo miele notturno
come un pesce d'oro, e le loro maschere ocra
avevano sulle chiome d'oliata foltezza
una fresca corona di zagare.
Infine si collocarono,
di fronte al satrapo, e con esse la musica,
un suono di elitre di vetro, la danza pura
che crebbe come fiore, le mani chiare
che erigevano una statua fugace,
la tunica percossa nei calcagni
da una sferzata d'onda o di candore,
e in ogni movimento di colomba
di metallo sacro, la sussurrante
aria dell'arcipelago, incendiato
come albero nuziale a primavera.
X
La guerra (1936)
SPAGNA, avvolta nel sonno, e poi ridesta
come una gran chioma piena di spighe,
io ti vidi nascere, contadina,
forse tra gli sterpeti e le tenebre,
alzarti tra le querce e le montagne,
solcare l'aria con le vene aperte.
Ma alle cantonate ti vidi aggredita
dai vecchi briganti. Che giravano
mascherati, con certe loro croci
fatte di vipere, con i piedi immersi
nella glaciale palude dei morti.
Allora vidi il tuo corpo strappato
da roveti, infranto
sulla sabbia cruenta, lacerato
senza mondo, assillato nell'agonia.
Ancor oggi l'acqua dalle tue rocce
scorre tra le prigioni, e tu sostieni
la tua corona di spine in silenzio,
per vedere chi prevarrà: le tue pene
o i volti che passano senza guardarti.
Vissi con la tua aurora di fucili,
e voglio che ancora popolo e spari
scrollino le fronde disonorate
fino a che il sonno tremi e s'uniscano
le frutta sparpagliate sulla terra.
XI
L'amore
IL SALDO amore, Spagna, m'hai dato coi tuoi doni.
Mi venne incontro la tenerezza che aspettavo
e m'accompagna quella che alla mia bocca reca
il bacio più profondo.
Le tempeste
non riuscirono a distaccarla da me,
né le lontananze aggiunsero terra
allo spazio d'amore che occupammo,
Quando, prima dell'incendio, comparve
tra le messi di Spagna il tuo vestito,
fui doppia nozione, luce duplicata,
e l'amarezza corse sul tuo viso,
fino a cadere su pietre perdute.
Da un gran dolore, da irti ramponi
sfociai nelle tue acque, amore mio,
come un cavallo che galoppa in mezzo
all'ira e alla morte, e d'improvviso
è accolto da una mela mattutina,
da una cascata di fremito silvestre.
Da quel tempo, amore, ti conobbero
i deserti che ordirono i miei atti,
l'oceano oscuro che mi segue ovunque,
e i castagni dell'Autunno infinito.
Chi non t'ha visto, mia dolce, amorosa,
nella lotta, accanto a me, non diversa
da un'apparizione, con tutti i segni
della stella? Chi, se pure andò
fra le moltitudini per cercarmi,
ché grano sono del granaio umano,
non t'incontrò, stretta alle mie radici,
innalzata nel canto del mio sangue?
Amore, non so se avrò tempo e spazio
di riscrivere la tua tenue ombra
distesa nelle mie pagine, o sposa:
sono duri questi giorni e radiosi,
e di essi cogliamo la dolcezza
impastata di palpebre e di spine.
Non so più ricordare quando hai inizio:
prima dell'amore c'eri,
venivi
con tutte le sostanze della sorte,
e avanti te fu tua la solitudine,
o forse la tua chioma addormentata.
Oggi, diletta, insegna dei miei giorni,
coppa del mio amore, ti nomino appena:
nello spazio occupi come il giorno
tutta la luce ch'è nell'universo.
XII
Messico (1940)
MESSICO, da mare a mare ti vissi, trafitto
dal tuo ferreo colore, scalando monti
sopra i quali sorgono monasteri
pieni di spine,
il suono velenoso
della città, i denti menzogneri
del pullulante poetesso, e al di sopra
le foglie dei defunti e i gradini
che eresse il silenzio irriducibile,
come monconi d'un amore lebbroso,
e dei ruderi l'umido splendore.
Ma dall'aspro accampamento, selvaggio
sudore, lance dei grani gialli,
sorge l'agricoltura collettiva
a dispensare i pani della patria.
Altre volte, calcaree cordigliere
interruppero il mio cammino,
forme
delle mitragliate lande ghiacciate
che lacerano la corteccia scura
della pelle messicana, e i cavalli
che sotto le patriarcali alberete
passano come il bacio degli spari.
Quelli che cancellarono da prodi
i confini del podere e assegnarono
la terra conquistata con il sangue
agli eredi ormai dimenticati,
e anche quelle dita dolorose
vincolate col sud delle radici,
la minuta maschera intrecciarono,
e di floreali balocchi e di fuoco
tessile affollarono il territorio.
Non so cosa più amai: se la scavata
antichità dei volti che serbarono
l'intensità di pietre implacabili,
o la rosa recente, costruita
da una mano anche ieri insanguinata.
E così di terra in terra toccai
il fango americano, la mia forma,
e per le vene mi salì l'oblio
coricato nel tempo, finché un giorno
commosse la mia bocca il suo linguaggio.
XIII
Sui muri del Messico (1943)
LUNGO i fiumi i paesi si stendono, cercano
il dolce petto, le labbra del pianeta,
tu, Messico, toccasti
i nidi della spina,
la desertica vetta dell'aquila cruenta,
il miele del pilastro combattuto.
Altri cercano l'usignolo, e trovarono
il fumo, la valle, zone come la pelle umana:
tu, Messico, affondasti le mani nella terra,
crescesti nella pietra di selvatico sguardo.
Quando in bocca ti giunse la rosa di rugiada
lo staffile del cielo la tramutò in supplizio.
Tua origine fu un vento di coltelli
tra due mari di spuma incrudelita.
S'aprirono i tuoi occhi sul folto papavero
d'un infuriato giorno
e la neve stendeva il suo spazioso candore
dove il fuoco vivo cominciava ad abitarti.
Conosco il tuo serto di fichidindia
e so che sotto le loro radici
la tua sotterranea statua, Messico, si forma
con le acque segrete della terra
e i lingotti ciechi delle miniere.
Oh terra, oh splendore
della tua eterna e dura geografia,
la dispersa rosa del mare di California,
il raggio verde che Yucatán diffonde,
la gialla passione di Sinaloa,
le palpebre rosate di Morella,
e il lungo filo d'agave fragrante
che il cuore ormeggia alla tua statura.
Messico augusto di rumore e di spade,
quando in terra la notte era più grande,
la culla del mais tra gli uomini spartivi.
La mano alzasti ricolma di polvere santa
e la posasti in mezzo al tuo popolo
come una nuova stella di pane e di fragranza.
Il contadino allora alla luce degli spari
guardò la sua terra senza catene
brillare sopra i morti germinali.
Canto Morelos. Quando cadeva
il suo splendore perforato,
una piccola goccia già invocava
sotto terra sino a empire la coppa
di sangue, e dalla coppa usciva un fiume
sino a toccare l'intera sponda silenziosa
d'America, che imbeveva di segreta essenza.
Canto Cuauhtémoc. Tocco
la sua stirpe di luna
e il suo squisito sorriso di dio martoriato.
Dove sei? Antico fratello,
hai perduto la tua dolce durezza?
In che cosa ti sei tramutato?
Dove vive il tuo momento di fuoco?
Vive nella pelle della nostra oscura mano,
vive nei cinerei frumenti:
quando, passata l'ombra notturna,
si sgranano le ceppaie dell'alba,
gli occhi di Cuauhtémoc aprono la luce remota
sopra la vita verde delle fronde.
Canto Cárdenas. Io sono stato:
ho vissuto la bufera di Castiglia.
Erano i giorni ciechi delle vite.
Alte pene come rami crudeli
ferivano la nostra madre afflitta.
Era il lutto abbandonato, i muri del silenzio
quando
si tradiva, s'assaltava e si feriva
quella patria dell'alba e dell'alloro.
In quell'ora
soltanto la rossa stella di Russia e lo sguardo
di Cárdenas brillarono nella notte umana.
Generale, Presidente d'America, in questo canto ti lascio
un po' dello splendore che io raccolsi in Spagna.
Messico, tu hai aperto le porte e le mani
al fuggiasco, al ferito,
all'esiliato, all'eroe.
Mi duole che questo non possa dirsi altrimenti
e io voglio che le mie parole aderiscano
ancora come baci ai muri tuoi.
Tu spalancasti la tua porta combattente
e di figli stranieri si riempì la tua chioma
e toccasti con le tue dure mani
le guance del figlio
che col pianto ti partorì l'uragano del mondo.
E qui finisco, Messico,
qui ti lascio questa calligrafia
sulle tempie perché l'andar dei giorni
cancelli ormai questo nuovo discorso
di chi t'amò e libero e profondo.
Addio ti dico, ma non me ne vado.
Me ne vado, ma non posso
ancora dirti addio.
Perché nella mia vita, Messico, vivi come una piccola
aquila sviata che mi circola nelle vene
e solo alla fine la morte piegherà le sue ali
sopra il mio cuore di soldato addormentato.
XIV
Il ritorno (1944)
RITORNAI... Il Cile mi accolse col viso giallo
del deserto.
Vagabondai soffrendo
da arida luna a cratere sabbioso
e trovai gli stepposi reami del pianeta,
la spoglia luce senza tralci, l'onestà vuota.
Vuota? No, ma senza vegetali, senz'artigli, senza sterco,
la terra mi svelò la sua nuda dimensione
e di lontano la sua lunga linea gelida
che alleva uccelli e ignei petti di dolce ordito.
Ma più oltre uomini scavavano confini,
raccoglievano metalli duri, seminati
gli uni come la farina di amari frumenti,
gli altri come la vetta calcinata del fuoco,
e uomini e luna, tutto m'avvolse in quel sudario
al punto da perdere il vano filo dei sogni.
Mi consegnai ai deserti e l'uomo delle scorie
emerse dal suo buco, dalla sua muta asprezza
e seppi i dolori del mio popolo perduto.
Allora andai per vie e gradinate e dissi
quanto io vidi, mostrai le mani che avevano
toccato le zolle sazie d'affanni, le case
dell'indifesa povertà, il misero pane
e la solitudine della luna svanita.
E spalla a spalla col mio fratello senza scarpe
volli cambiare il regno delle sporche monete.
Fui perseguitato, ma la nostra lotta non cessa.
La verità è più alta della luna.
La vedono come da sopra una nave nera
i minatori quando contemplano la notte.
E nell'ombra la mia voce è spartita
dalla più dura stirpe della terra.
XV
La linea di legno
IO SONO un falegname cieco, senza mani.
Sono vissuto
sotto le acque, consumando freddo,
senza costruire casse fragranti, dimore
che a cedro a cedro creano la grandezza,
però il mio canto andò a cercare fili del bosco,
segrete fibre, cere delicate,
e andò a tagliare rami, profumando
la solitudine con labbra di legno.
Amai ogni materia ed ogni goccia
di porpora o metallo, d'acqua o spiga
ed entrai in densi strati protetti
dallo spazio e dalla tremula sabbia,
fino a cantare con bocca distrutta,
come un morto, sull'uve della terra.
Fango, argilla e vino mi coprirono,
divenni pazzo nel toccare i fianchi
della pelle il cui fiore venne retto
come un incendio sotto la mia gola,
e sulla pietra vagabondarono
i miei sensi invadendo chiuse piaghe.
Come mai, senza esistere, ignorando
la mia funzione prima di esistere,
potei cambiare
la metallurgia,
già destinata alla mia saldezza,
o mutare le segherie fiutate
dagli animali da sella in inverno?
Tutto divenne dolcezza e sorgenti
e servì solo come cosa notturna.
XVI
La bontà militante
MA non accettai la bontà morta nelle strade.
Respinsi il suo acquedotto purulento
e non toccai il suo mare contagiato.
Come un metallo il bene estrassi, più in là
scavando degli occhi che mordevano,
e fra le cicatrici lento crebbe
il mio cuore ch'è nato sulle spade.
Non venni fuori sfrenato, versando
tra gli uomini terra o pugnale.
Non era
mio compito dar ferita o veleno.
Non sottomisi l'inerme con lacci
che lo solcassero di gelide fruste,
non andai in piazza a cercare nemici
appostato con mano mascherata:
crebbi soltanto con le mie radici,
e il suolo che issò la mia alberatura
decifrò i vermi che giacevano.
Venne a mordermi Lunedì e gli diedi foglie.
Venne a insultarmi Martedì e nel sonno rimasi.
Giunse poi Mercoledì con infuriati denti.
Io lo lasciai passare costruendo radici.
E quando Giovedì venne con una velenosa
lancia nera fatta di ortiche e squame
lo attesi nel mezzo della mia poesia
e in piena luna un grappolo gli infransi.
Vengano qui a schiantarsi in questa spada.
Vengano a disfarsi nei miei domini.
Vengano stretti in gialli reggimenti
o uniti in confraternite di zolfo.
Morderanno ombra e sangue di campane
sotto le sette leghe del mio canto.
XVII
Si raduna l'acciaio (1945)
IL MALE e il malvagio ho visto, ma non nei loro covi.
È una storia di fate la perversità in caverne.
Ai poveri, dopo esser caduti
nello straccio, nell'infelice miniera,
di streghe hanno popolato il cammino.
Trovai la malvagità assisa in tribunali:
nel Senato la trovai abbigliata
e acconciata, che sviava i discorsi
e le idee verso i portafogli.
Il male e il malvagio
uscivano allora dal bagno: erano
ben rilegati di soddisfazioni,
ed erano perfetti nella grazia
del loro falso decoro.
Ho visto il male, e per
bandire quel bubbone ho vissuto
con altri uomini, esistenze adunando,
facendomi cifra segreta, metallo ignoto,
invitta unità di masse e polvere.
L'orgoglioso stava ferocemente
combattendo nel suo armadio d'avorio,
e la malvagità passò a meteora
dicendo: «È magnifica
la sua onestà solitaria.
Non lo toccate».
L'impetuoso estrasse il suo alfabeto
e si fermò a cavallo della spada
a perorare nella via deserta.
Passò il malvagio e gli disse: «Che bravo!»
e al Club andò a commentare l'impresa.
Ma quando divenni pietra e calcina,
torre ed acciaio, sillaba associata:
quando strinsi le mani del popolo
e andai a lottare con il mare intero;
quando abbandonai la solitudine e lasciai
il mio orgoglio nel museo, e la mia vanità
nella soffitta delle vetture sgangherate,
quando mi feci partito con altri uomini,
quando si organizzò il metallo della purezza,
venne allora il male e disse: «Con loro
nessuna pietà, in carcere, a morte! ».
Ma ormai era tardi, e il movimento
dell'uomo, il mio partito,
è invincibile primavera, e dura
sotto la terra, dove fu speranza
e frutto generale del futuro.
XVIII
II vino
VINO di primavera... Vino d'autunno, datemi
i miei compagni, una tavola su cui cadano
foglie equinoziali, ed il gran fiume del mondo
impallidisca un poco volgendo il suo rumore
lontano dai nostri canti.
Sono un buon compagno.
Non sei entrato in questa casa perché ti estirpassi
un pezzo di vita. Forse quando te ne andrai
porterai via un po' di me, castagne, rose o
una sicurezza di radici o di navi
che io ho voluto dividere con te, compagno.
Canta insieme con me finché i calici
si versino, porpora generosa lasciando
sulla tavola.
Questo miele ti sale in bocca
su dalla terra, su dagli oscuri suoi grappoli.
Quanti mi mancano, ombre del canto,
compagni
che amai a viso aperto, traendo dalla mia vita
l'impareggiabile e maschia scienza che professo,
l'amicizia, albereto di rugosa dolcezza.
Semplice, dammi la mano, stai con me,
non cercar nulla fra le mie parole
se non l'effluvio d'una pianta nuda.
Perché mi chiedi più che a un operaio? Lo sai
che ho forgiato a colpi la mia sepolta fucina,
e voglio parlare solo come va la mia lingua.
Cerca pure dottori se non ti piace il vento.
Noi canteremo mescendo il vino agrestoso
della terra: urteremo le coppe dell'Autunno,
e la chitarra o il silenzio alfine ci recheranno
versi d'amore, idiomi di fiumi inesistenti,
strofe adorate che non hanno senso.
XIX
I frutti della terra
COME sale su per il mais la terra cercando
luce lattiginosa, capelli, duro avorio,
il leggiadro ordito della spiga matura
e tutto il regno dorato che si va sgranando?
Voglio mangiar cipolle, portane dal mercato
una, un globo colmo di neve cristallina,
che ha trasformato la terra in cera ed equilibrio
come una danzatrice fermata nel suo volo.
Dammi delle quaglie prese a caccia, che odorino
di muschio delle foreste, ed un pesce vestito
come un re, stillante sul vassoio profondità
bagnata,
che spalanchi pallidi occhi d'oro
sotto i molteplici capezzoli dei limoni.
Andiamo, che intanto il gran fuoco sotto il castagno
lascerà il suo tesoro bianco là sulle braci,
e un agnello con la sua intera offerta indorerà
la sua specie fino a farsi ambra alla tua bocca.
Ogni cosa datemi della terra, palombe
cadute or ora ed ebbre di grappoli silvestri,
dolci anguille che morendo, fluviali,
le loro perle minute hanno allungato,
ed un piatto di spinosi ricci che
trasferirà il suo agrume subacqueo
al fresco firmamento di lattughe.
E prima che la lepre marinata
riempia d'aroma l'aria del pranzo
come una silvestre fuga di sapori,
alle ostriche del Sud, appena aperte,
nei loro astucci di salato splendore
va il mio bacio intriso delle sostanze
della terra che amo e che percorro
con tutti i sentieri del mio sangue.
XX
La grande gioia
L'OMBRA che io indagai già più non mi appartiene.
Ora ho la salda gioia dell'albero maestro,
l'eredità della selva, il vento della strada
e un giorno deciso sotto la luce terrestre.
Io non scrivo perché altri libri m'incatenino
e nemmeno per testardi apprendisti di giglio,
ma solo per semplici abitanti che chiedono
acqua e luna, elementi dell'ordine perpetuo,
scuole, pane e vino, chitarre e ferri del mestiere.
Io scrivo per il popolo benché egli non possa
leggere la mia poesia coi suoi occhi rurali.
Arriverà il momento in cui una linea, l'aria
che ha agitato la mia vita giungerà al suo orecchio,
e allora il contadino solleverà i suoi occhi,
il minatore sorriderà spaccando pietre,
il guardafreni si pulirà la fronte,
il pescatore vedrà meglio il lampo
d'un pesce che pulsando gli brucerà le mani,
il meccanico, lavato da poco, pulito,
fresco di sapone, guarderà le mie poesie,
e tutti magari diranno: «E stato un compagno».
Questo mi basta, questa è la corona che voglio.
Io voglio che all'uscita di fabbriche e miniere
stia la mia poesia fissa alla terra,
all'aria, alla vittoria dell'uomo maltrattato.
Voglio che un giovane scopra nella solidità
che ho costruito con lentezza e con metalli,
come una cassa, aprendola, la vita viso a viso,
e affondando l'anima tocchi il vento che fece
la mia gioia, nelle cime tempestose.
XXI
La morte
SONO RINATO molte volte dal profondo
di pianeti sconfitti, ricostruendo il filo
delle eternità che popolai delle mie mani,
e ora me ne vo a morire, senza più nulla,
solo con terra sul corpo, a terra destinato.
Non ho comprato un pezzo di cielo messo in vendita
dai sacerdoti, né ho accettato le oscurità
che il metafisico manipolava
per arcipotenti senza pensieri.
Voglio stare nella morte con i poveri
che non ebbero tempo di studiarla,
mentre li picchiavano quelli che hanno
il cielo ben diviso e sistemato.
Pronta ho la mia morte, come un abito
che mi attende, del colore che amo,
dell'ampiezza che ho cercato inutilmente,
della profondità di cui ho bisogno.
Dopo che l'amore esaurì la sua materia esterna
e ora che la lotta propaga i suoi martelli
in altre mani d'energia congiunta,
già la morte cancellano quei segni
che hanno costruito le tue frontiere.
XXII
La vita
ALTRI si affannino pure sugli ossari...
II mondo
presenta un colore nudo di mela: i fiumi
trasportano gran copia di medaglie silvestri
e in ogni parte si trova Rosalía la dolce
e Juan il compagno...
Ruvide pietre formano
il castello, e la mota più tenera dell'uva
con i residui del grano ha fatto la mia casa.
Ampie terre, amore, lente campane,
combattimenti assegnati all'aurora,
chiome d'amore che m'hanno aspettato,
depositi assonnati di turchese:
case, strade, onde che fabbricano
una statua spazzata via dai sogni,
panettiere nella prima mattina,
orologi educati nella sabbia,
papaveri del grano circolante,
e queste oscure mani che impastarono
gli elementi della mia stessa vita:
nel vivere s'infiammano le arance
nella grande varietà dei destini!
Frughino pure i becchini le sostanze
di sorte funesta: innalzino pure
gli spenti frammenti della cenere,
e parlino col linguaggio del verme.
Io ho dinanzi a me solo sementi,
evoluzioni radiose e dolcezza.
XXIII
Testamento (I)
LASCIO ai sindacati
del rame, del carbone e del salnitro
la mia casa sul mare d'Isla Negra.
Voglio che là riposino i maltrattati figli
del mio paese, predato da asce e traditori,
guasto e disfatto nel suo sacro sangue,
tutto consunto in vulcanici stracci.
Voglio che al chiaro amore che ha percorso
il mio ambito riposino gli stanchi,
seggano alla mia tavola gli oscuri,
e sul mio letto dormano gli offesi.
Fratello, questa è la mia dimora, entra nel mondo
di fiore marino e pietra stellata
che ho innalzato lottando nei miei stenti.
Qui il suono è sbocciato alla mia finestra
come dentro una crescente conchiglia,
e poi ha fissato le sue latitudini
nella mia scompigliata geologia.
Tu vieni da infuocati corridoi,
da gallerie morsicate dall'odio,
dall'assalto solforico del vento:
qui hai la pace che io ti destino,
acqua e spazio della mia oceania.
XXIV
Testamento (II)
LASCIO i miei vecchi libri, in ogni lato
della terra raccolti, venerati
nella loro maestosa tipografia,
ai nuovi poeti d'America,
a quelli che un giorno
fileranno sopra il rauco telaio interrotto
le significazioni di domani.
Essi saranno nati quando l'agreste pugno
di morti taglialegna e minatori
avrà prodotto una vita infinita
per pulire la cattedrale traviata,
il grano sconquassato, il filamento
che irretì le nostre avide pianure.
Tocchino l'inferno, questo passato
che stritolò i diamanti, e difendano
i mondi cereali del loro canto,
ciò che nacque sull'albero del martirio.
Sopra le ossa dei cacicchi, lungi
dalla nostra eredità ingannata,
nell'aria di genti che marciano sole,
essi vanno a popolare il codice
d'un lungo patimento vittorioso.
Amino come io amai il mio Manrique, il mio Góngora,
il mio Garcilaso, il mio Quevedo:
furono essi
titanici guardiani, armature
di platino e nevosa trasparenza,
che m'insegnarono il rigore; e antichi
lamenti cerchino nel mio Lautréamont
in mezzo a pestilenziali agonie.
Vedano in Majakovskij come salì la stella
e come dai suoi raggi sbocciarono le spighe.
XXV
Disposizioni
COMPAGNI, seppellitemi a Isla Negra,
di fronte al mare che conosco, a ogni rugosa
area di pietre e onde che i miei occhi perduti
mai più non rivedranno.
Ogni giorno d'oceano
mi portò nebbia o pure frane di turchese,
o semplice ampiezza, acqua diretta, invariabile,
o ciò che chiesi, lo spazio che m'ingoiò la fronte.
Ogni luttuoso passo di cormorano, il volo
di grandi uccelli grigi che amavano l'inverno,
e ogni tenebroso circolo del sargasso,
e ogni solenne onda che agita il suo freddo,
e assai di più, la terra di un occulto erbaio
segreto, figlio di brume e di sali, corroso
dall'acido vento, minuscole corolle
della costa attaccate all'infinita spiaggia:
tutte le umide chiavi della terra marina
conoscono ogni stadio della mia gioia,
sanno
che là desidero dormire fra le palpebre
del mare e della terra...
Voglio essere travolto
nel fondo verso le piogge che il vento
fiero del mare combatte e frantuma,
e poi, lungo gli alvei sotterranei, proseguire
verso, la primavera profonda che rinasce.
Aprite accanto a me la fossa per colei che amo,
e fate che ancora m'accompagni nella terra.
XXVI
Vado a vivere (1949)
IO NON VADO a morire. Esco proprio ora
in questo giorno pieno di vulcani
incontro alla folla, incontro alla vita.
Lascio qui sistemate queste cose
oggi che banditi armati passeggiano
con la «cultura occidentale» in braccio,
con le mani che uccidono in Spagna
e le forche che oscillano ad Atene
e il disonore che governa in Cile,
per non dire più oltre.
Io qui resto
con parole e popoli e lunghe strade
che di nuovo m'attendono e bussano
con mani costellate alla mia porta.
XXVII
Al mio partito
MI HAI dato la fraternità verso colui che non conosco.
Mi hai aggiunto la forza di tutti quelli che vivono.
Mi hai ridato la patria come una nuova nascita.
Mi hai dato la libertà che non ha il solitario.
Mi hai insegnato ad accendere la bontà, come il fuoco.
Mi hai impresso la dirittura che occorre all'albero.
Mi hai insegnato a vedere l'unità e la differenza tra gli
uomini.
Mi hai mostrato come il dolore di uno solo muore nella
vittoria di tutti.
Mi hai insegnato a dormire sui duri giacigli dei miei
fratelli
Mi hai fatto costruire sulla realtà come sopra una
roccia.
Mi hai reso nemico del malvagio e muro contro il folle.
Mi hai fatto vedere la chiarezza del mondo e la possibilità
della gioia.
Mi hai reso indistruttibile perché con te non finisco
in me stesso.
XXVIII
E qui finisco (1949)
QUI termina questo libro. Esso è nato
dall'ira come una brace, come i territori
di boschi incendiati, e io desidero
che continui come un albero rosso
a propagare il suo limpido incendio.
Eppure non solo ira nei suoi rami
trovasti: le sue radici dolore
non soltanto cercarono ma forza,
e forza io sono di pietra pensosa,
allegria di mani insieme allacciate.
Infine, sono libero entro gli esseri.
E tra gli esseri, come l'aria vivo,
e dalla solitudine assediata
esco verso il folto delle battaglie,
libero che nella mia è la tua mano,
a conquistare gioie indomabili.
Comune libro d'uomo, pane aperto
è questa geografia del mio canto,
e una comunità di contadini
una volta raccoglierà il suo fuoco
e seminerà le fiamme e le foglie
ancora nella nave della terra.
E ancora nascerà questa parola,
forse in altro tempo senza dolori,
senza le impure fibre che appesero
nere vegetazioni sul mio canto,
e di nuovo arderà nell'alto spazio
il mio cuore stellato e incandescente.
Così finisce questo libro, e qui
lascio il mio Canto generale scritto
nella persecuzione, sotto le ali
clandestine della patria cantando.
Oggi 5 febbraio, in quest'anno
1949, qui in Cile, a «Godomar
de Chena», alcuni mesi prima di compiere
i quarantacinque anni di mia età.