- 1935 - Residenza sulla terra - vol. I
Residenza sulla terra - Volume 1
(1925-1931)
I
Galoppo morto
Come cenere, come mari che si van popolando,
nella sommersa lentezza, nell'informe,
o come s'odono dall'alto delle strade
passare incrociandosi i suoni di campana,
con quel timbro ormai staccato dal metallo,
confuso, pesante, che si fa polvere
nel medesimo mulino delle forme troppo lungi,
o ricordate o non viste,
e il profumo delle susine che rotolando al suolo
imputridiscono nel tempo, infinitamente verdi.
Questo tutto così rapido, così vivo,
tuttavia immobile, come la carrucola pazza in se stessa,
come le ruote dei motori, infine.
Esistendo come i germogli secchi nelle cuciture dell'albero,
silenzioso, all'intorno, in tal modo,
mentre tutti i limbi mescolano le loro code.
E che da dove, verso dove, in che riva?
Il girare costante, incerto, così muto,
come i lillà intorno al convento,
o l'arrivo della morte alla lingua del bue
che si abbatte, supino, e le cui corna vogliono suonare.
Per questo, nell'immobile, fermandosi, percepire,
allora, come immenso sbatter d'ali, sopra,
come api morte o numeri,
ahi, ciò che il mio cuore pallido non può comprendere,
in moltitudini, in lacrime che spuntano appena,
e sforzi umani, tempeste,
azioni nere scoperte d'improvviso
come ghiacci, disordine vasto,
oceanico, per me che entro cantando,
come con una spada tra indifesi.
Orbene, di che è fatto quel sorgere di colombe
che sta tra la notte e il tempo, come un abisso umido?
Quel suono ormai così lungo
che cade rigando di pietre le strade,
o meglio, quando solo un'ora
cresce d'improvviso, distendendosi senza tregua.
Dentro l'anello dell'estate
una volta le grandi zucche ascoltano parlare,
distendendo le loro piante commoventi,
di ciò, di quello che molto richiesto,
di ciò ch'è pieno, oscure di pesanti gocce.
Alleanza (sonata)
Di sguardi polverosi caduti al suolo
o di foglie senza suono e che affondano.
Di metalli senza luce, col vuoto,
con l'assenza del giorno morto d'improvviso.
Nell'alto delle mani l'abbacinare di farfalle,
il volo di farfalle la cui luce non ha fine.
Tu conservavi la scia di luce, di esseri spezzati
che il sole abbandonato, all'imbrunire, getta sulle chiese.
Tinta di sguardi, di oggetti d'api,
il tuo materiale d'inattesa fiamma che fugge
precede e segue il giorno e la sua famiglia d'oro.
I giorni in agguato passano con cautela,
ma cadono dentro la tua voce di luce.
Oh signora dell'amore, nel tuo riposo
ho fondato il mio sogno, il mio atteggiamento silenzioso.
Col tuo corpo di numero timido, esteso d'improvviso
fino alle quantità che definiscono la terra,
dietro la lotta dei giorni bianchi di spazio
e freddi di morti lente e di stimoli appassiti,
sento ardere il tuo grembo e passare i tuoi baci
creando rondini fresche nel mio sonno.
A volte il destino delle tue lacrime ascende
come l'età fino alla mia fronte, lì
stanno battendo le onde, distruggendosi di morte:
il loro movimento è umido, abbattuto, finale.
Cavallo dei sogni
Innecessario, guardandomi negli specchi
con un piacere di settimane, di biografi, di carte,
sradico dal mio cuore il capitano dell'inferno,
stabilisco clausole indefinitamente tristi.
Vago da un punto all'altro, assorbo illusioni,
converso con i sarti nei loro nidi:
essi, sovente, con voce fredda e fatale
cantano e allontanano i malefizi.
C'è un esteso paese nel cielo
con i superstiziosi tappeti dell'arcobaleno
e con vegetazioni vesperali:
verso laggiù mi dirigo, non senza alcuna fatica,
calpestando una terra smossa di sepolcri ancor freschi,
io sogno tra quelle piante di legumi confusi.
Passo tra documenti sfruttati, tra origini,
vestito come un essere originale e abbattuto:
amo il miele, sciupato del rispetto,
il dolce catechismo tra i cui fogli
dormono viole invecchiate, svanite,
e le scope, commoventi d'ausilio,
nel loro aspetto v'è, senza dubbio, pena e certezza.
fo distruggo la rosa che sibila e l'ansietà che rapisce:
io rompo eccessi amati: e più ancora,
attendo il tempo uniforme, senza misura:
un sapore che ho nell'anima mi deprime.
Quale giorno è venuto! Qual luce densa di latte
compatta, digitale, mi aiuta!
Ho udito nitrire il suo rosso cavallo
nudo, senza ferri e raggiante.
Passo con lui sulle chiese,
galoppo le caserme deserte di soldati
e un esercito impuro m'insegue.
I suoi occhi di eucalipto rubano ombra,
il suo corpo di campana galoppa e batte.
Ho bisogno di un lampo di fulgor persistente,
di un parente festoso che assuma la mia eredità.
Debole dell'alba
II giorno degli sventurati, il giorno pallido si affaccia
con uno straziante odor freddo, con le sue forze in grigio,
senza sonagli, gocciolando l'alba da ogni parte:
è un naufragio nel vuoto, con un contorno di pianto.
Perché se n'andò da tanti luoghi l'ombra umida, silenziosa.
da tanto fantasticare invano, da tanti luoghi terrestri
dove avrebbe dovuto occupare persino il disegno delle radici,
da tanta forma acuta che si difendeva.
Io piango in mezzo a ciò ch'è invalido, confuso,
nel sapore crescente, ponendo l'orecchio
alla pura circolazione, all'aumento,
cedendo senza rotta il passo a ciò che arriva,
a ciò che sorge vestito di garofani e di catene,
io sogno, sostenendo le mie vestigia morali.
Nulla v'è di precipitoso, o di allegro, né di forma orgogliosa,
tutto appare formarsi con povertà evidente,
la luce della terra esce dalle sue palpebre
non come suono di campana, ma come lacrime:
il tessuto del giorno, la sua tela sottile,
serve per una benda d'ammalati, per far segnali
in un addio, dietro l'assenza:
solo il colore vuoi sostituire,
coprire, inghiottire, vincere, formare distanze.
Sono solo tra materie sconnesse,
la pioggia cade su me, e mi appare,
mi appare, col suo vaneggiare, solitaria nel mondo morto,
ricacciata al cadere, e senza forma ostinata.
Unità
C'è qualcosa di denso, di unito, di seduto sul fondo,
che ripete il suo numero, l'identico segnale.
Come si vede che le pietre hanno toccato il tempo,
nella fine materia c'è odore di età
e l'acqua che porta il mare, di sale e di sogno.
Mi circonda una medesima cosa, un solo movimento:
il peso del minerale, la luce della pelle,
aderiscono al suono della parola notte:
il colore del grano, dell'avorio, del pianto,
le cose di pelle, di legno, di lana,
invecchiate, stinte, uniformi,
si uniscono intorno a me come pareti.
Lavoro sordamente, girando su me stesso,
come il corvo sulla morte, il corvo a lutto.
Penso, isolato al confine delle stagioni,
centrale, circondato di geografia silenziosa:
una temperatura parziale cade dal cielo,
un estremo impero di confuse unità
si riunisce circondandomi.
Sapore
Di false astrologie, di abitudini un po' lugubri,
versate nell'interminabile e sempre portate a fianco,
ho conservato una tendenza, un sapore solitario.
Di conversazioni usate come legno usato,
con umiltà di sedie, con parole occupate
a servire come schiave di volontà secondarie,
aventi la consistenza medesima del latte, delle settimane defunte,
dell'aria incatenata sulle città.
Chi può vantarsi di più solida pazienza?
La saggezza mi avvolge di pelle compatta
di un colore unito come una biscia:
le mie creature nascono da un lungo ripudio:
ahi, con un alcool solo posso licenziare questo giorno
che ho scelto, uguale tra i giorni terrestri.
Vivo colmo di una sostanza di colore comune, silenziosa
come una vecchia madre, una pazienza fissa
come ombra di chiesa o riposo di ossa.
Cammino pieno di quelle acque disposte profondamente,
preparate, che si addormentano in un'attenzione triste.
Nel mio interno di chitarra c'è un'aria vecchia,
secca e sonora, insistente, immobile,
come un nutrimento fedele, come fumo:
un elemento in riposo, un olio vivo:
un uccello rigoroso cura la mia testa:
un angelo invariabile vive nella mia spada.
Assenza di Joaquin
Fin d'ora, come in una partenza verificatasi lontano,
in funebri stazioni di fumo o solitari moli,
fin d'ora lo vedo che precipita nella sua morte,
e dietro a lui odo chiudersi i giorni del tempo.
Fin d'ora, bruscamente, sento che parte,
precipitando nelle acque, in certe acque, in certo oceano,
e poi, al suo tonfo, gocce si sollevano, e un rumore,
un determinato, sordo rumore sento prodursi,
un colpo d'acqua sferzata dal suo peso,
e da qualche parte, da qualche parte sento che saltano e spruzzano queste acque,
su di me schizzano queste acque, e vivono come acidi.
La sua abitudine di sogni e di smisurate notti,
la sua anima disubbidiente, la sua predisposta pallidezza
dormono con lui alfine, e lui dorme,
perché al mare dei morti precipita la sua passione,
violentemente affondando, freddamente associandosi.
Madrigale scritto in inverno
Nel fondo del mare profondo,
nella notte dalle lunghe strisce,
passa come un cavallo correndo
il tuo silenzioso nome.
Ospitami nella tua schiena, ahi, rifugiami,
comparimi nel tuo specchio, d'improvviso,
sulla foglia solitaria, notturna,
che sboccia dall'oscuro, dietro di te.
Fiore della dolce luce completa,
dammi la tua bocca di baci,
furiosa di separazioni,
esatta e fine bocca.
Orbene, nella lunga distanza,
da oblio a oblio risiedono con me
le rotaie, il grido della pioggia:
ciò che l'oscura notte preserva.
Ospitami nella sera di filo,
quando l'imbrunire lavora
il suo vestiario e palpita nel cielo
una stella piena di vento.
Avvicinami la tua assenza fino al fondo,
pesantemente, mentre si tappa gli occhi,
attraversami la tua esistenza, supponendo
che il mio cuore sia distrutto.
Fantasma
Come sorgi dal passato, giungendo,
abbacinata, pallida studentessa,
alla cui voce ancora chiedono consolazione
i mesi lunghi e immobili.
I suoi occhi lottavano come rematori
nell'infinito morto
con speranza di sogno e materia
di esseri che escono dal mare.
Dalla lontananza dove
l'odore della terra è diverso
e il vespertino giunge piangendo
in forma di oscuri papaveri.
Nell'alto dei giorni immobili
l'insensibile giovane diurno
nel tuo raggio di luce si addormentava
affermato come in una spada.
Frattanto cresce all'ombra
del lungo trascorso in oblio
il fiore della solitudine, umido, disteso,
come la terra in un lungo inverno.
Lamento lento
Nella notte del cuore
la goccia del tuo nome lento
in silenzio circola e cade
e rompe e svolge la sua acqua.
Qualcosa vuole il suo lieve male
e la sua stima infinita e corta,
come il passo di un essere perduto
udito d'improvviso.
D'improvviso, d'improvviso udito
e sparso nel cuore
con triste insistenza e aumento
come un sogno freddo d'autunno.
La spessa ruota della terra
il suo pneumatico umido d'oblio
fa rotolare, tagliando il tempo
in metà inaccessibili.
Le sue dure coppe coprono la tua anima
sparsa nella terra fredda
con le sue povere scintille azzurre
che volano nella voce della pioggia.
Collezione notturna
Ho vinto l'angelo del sonno, il funesto allegorico:
la sua premura insisteva, il suo passo denso arriva
avvolto di lumache e di cicale,
marino, profumato di acute frutta.
È il vento che agita i mesi, il fischio di un treno,
il passo della temperatura sul letto,
un opaco suono d'ombra
che cade come cencio nell'interminabile,
una ripetizione di distanze, un vino di colore confuso,
un passo polveroso di vacche muggenti.
A volte il suo canestro nero cade sul mio petto,
i suoi sacchi di dominio feriscono la mia spalla,
la sua moltitudine di sale, il suo esercito socchiuso
percorrono e scompigliano le cose del cielo:
egli galoppa nel respiro e il suo passo è di bacio:
il suo salnitro sicuro pianta nelle palpebre
con vigore essenziale e decisione solenne.
entra in ciò ch'è pronto come un padrone:
la sua sostanza senza rumore fornisce d'improvviso,
il suo alimento profetico propaga tenacemente.
Riconosco sovente i suoi guerrieri,
i suoi pezzi corrosi dall'aria, le sue dimensioni,
e il suo bisogno di spazio è si violento
che scende fino al mio cuore e lo cerca:
egli è il padrone degli altopiani inaccessibili,
egli danza con personaggi tragici e quotidiani:
di notte il suo acido aereo rompe la mia pelle
e ascolto nel mio intimo tremare uno strumento.
Io ascolto il sonno di vecchi compagni e donne amate,
sonni i cui palpiti mi spezzano:
il mio materiale di tappeto calpesto in silenzio,
la sua luce di papavero mordo in delirio.
Cadaveri addormentati che sovente
danzate presi al peso del mio cuore,
che città opache percorriamo!
Il mio bruno corsiero d'ombra ingigantisce,
e su invecchiati furfanti, su lenocini di scale consunte,
su letti di bimbe nude, tra giocatori di foot-ball,
passiamo circondati dal vento:
cadono allora nella nostra bocca i frutti molli del cielo,
gli uccelli, le campane conventuali, le comete:
colui che si nutrì di brividi e di pura geografia
quel tale ci vide passare scintillando.
Compagni le cui teste riposano su barili,
in una smantellata nave profuga, lontano,
amici miei senza lacrime, donne dal viso crudele:
la mezzanotte è giunta e un gong di morte
batte intorno a me come il mare.
C'è nella bocca il sapore, il sale dell'addormentato.
Fedele come una condanna a ogni corpo
il pallore della regione letargica accorre:
un sorriso freddo, sommerso,
occhi coperti come pugili stanchi
un respiro che sordamente divora fantasmi.
In quell'umidità di nascimento, in quella proporzione tenebrosa,
chiusa, come una cantina, l'aria è criminale,
le pareti hanno un triste color di coccodrillo,
una forma di ragno sinistro;
si calpesta sul molle come su un mostro morto:
le uve nere immense, turgide
pendono dalle rovine come otri:
oh Capitano, nell'ora nostra della spartizione
aprimi i muti chiavistelli e attendimi:
lì dobbiamo cenare vestiti a lutto:
l'infermo di malaria custodirà le porte.
Il mio cuore, è tardi e senza rive,
il giorno, come una povera tovaglia posta ad asciugare,
oscilla circondato di esseri e distese,
di ogni essere vivente c'è qualcosa nell'atmosfera:
guardando bene l'aria apparirebbero mendichi,
avvocati, banditi, portalettere, sarte,
e un po' d'ogni mestiere, un avanzo umiliato
che vuoi fare la sua parte nel nostro intimo.
Io cerco da tempo, io esamino senza superbia,
conquistato, indubbiamente, da ciò che è vespertino.
Insieme noi
Come sei pura di sole o di notte caduta,
che trionfale dismisura la tua orbita di bianco,
e il tuo seno di pane, alto di clima,
la tua corona d'alberi neri, beneamata,
e il tuo naso di animale solitario, di pecora selvatica
che odora d'ombra e di precipitosa fuga tirannica.
Ora, che armi splendide le mie mani,
degna la loro pala d'osso e il loro giglio di unghie,
e il luogo del mio volto, e il nolo della mia anima
son posti nel giusto della forza terrestre.
Che puro il mio sguardo di notturna influenza,
caduta d'occhi oscuri e di feroce pungolo,
la mia simmetrica statua dalle gambe gemelle
sale verso stelle umide ogni giorno,
e la mia bocca d'esilio morde la carne e l'uva,
e mie braccia di maschio, il mio petto tatuato
in cui penetra il vello come ala di stagno,
il mio volto bianco fatto per la profondità del sole,
la mia chioma fatta di riti, di minerali neri,
la mia fronte, penetrante come colpo o strada,
la mia pelle gi figlio maturo, destinato all'aratro,
i miei occhi di sale avido, di matrimonio rapido,
la mia lingua molle amica della diga e della nave,
i miei denti d'orario bianco, d'equità sistematica,
la pelle che fa alla mia fronte un vuoto di ghiacci
e sulla mia schiena si volge, e vola alle mie palpebre,
e si ripiega sul mio più profondo stimolo,
e cresce verso le rose nelle mie dita,
nel mio mento d'osso e nei miei piedi di ricchezza.
E tu come un mese di stella, come un bacio fisso,
come struttura d'ala, o come inizi d'autunno,
bimba, partigiana mia, amorosa mia,
la luce fa il suo letto sotto le tue grandi palpebre,
dorate come buoi, e la colomba rotonda
fa i suoi nidi bianchi frequentemente in te.
Fatta di onda in lingotti e di tenaglie bianche,
la tua salute di mela furiosa si allunga senza limite,
la botte tremante in cui ode il tuo stomaco,
le tue mani figlie della farina e del cielo
Come sei simile al più lungo bacio,
la sua scossa fissa sembra nutrirti,
e il suo impulso di bragia, di bandiera sconvolta,
va palpitando nei tuoi domini e salendo tremante,
e allora la tua testa si assottiglia in capelli,
e la sua forma guerriera, il suo circolo secco,
si abbatte d'improvviso in fili lineari
come fili di spade o eredità di fumo.
Tirannia
Oh dama senza cuore, figlia del cielo
aiutami in quest'ora solitaria
con la diretta indifferenza d'arma
e il freddo tuo senso dell'oblio.
Un tempo totale come un oceano,
una ferita confusa come un nuovo essere
comprendono la tenace radice della mia anima
che morde il centro della mia sicurezza.
Che denso palpito incombe sul mio cuore
come un'onda fatta di tutte le onde,
e la mia testa disperata si alza
in uno sforzo di salto e di morte.
C'è qualcosa di nemico che trema nella mia certezza,
che cresce nell'origine stessa delle lacrime
come una pianta, straziante e dura
fatta di incatenate foglie amare.
Serenata
Sulla tua fronte riposa il colore dei papaveri,
il lutto delle vedove trova eco, oh pietosa:
quando corri dietro i treni, nei campi,
l'esile contadino ti volta la schiena,
dalle tue orme sbocciano tremando i dolci rospi.
Il giovane senza ricordi ti saluta, ti chiede della sua dimenticata volontà,
le sue mani si muovono nella tua atmosfera come uccelli,
e l'umidità è grande intorno a lui:
mentre passano incompleti i suoi pensieri,
che vogliono raggiungere qualcosa, oh, che ti cercano,
gli palpitano gli occhi pallidi nella tua rete
come strumenti perduti che brillano d'improvviso.
Oh ricordo il primo giorno della sete,
l'ombra densa contro i gelsomini,
il corpo profondo in cui ti raccoglievi
come una goccia pure tremante.
Ma zittisci i grandi alberi, e sopra la luna, sopra lungi,
vegli il mare come un ladro.
Oh notte, la mia anima sorpresa domanda a te
disperatamente il metallo di cui abbisogna.
Diurno dolente
Di passione superflua e di sogni di cenere
un pallido pallio porto, un corteggio evidente,
un vento di metallo che vive solo,
un servente mortale vestito di fame,
e nel fresco che scende dall'albero, nell'essenza del sole
che impianta la sua salute d'astro nei fiori,
quando alla mia pelle simile all'oro giunge il piacere,
tu fantasma corale con piedi di tigre,
tu, occasione funerea, riunione ignea,
stai spiando la patria in cui sopravvivo
con le tue lance lunari che tremano un poco.
Perché la finestra che il mezzogiorno vuoto attraversa
ha un giorno qualsiasi maggior aria nelle sue ali,
la frenesia gonfia il vestito e il sogno il cappello,
un'ape enorme arde senza tregua.
Ora, quale passo imprevisto fa scricchiolare le strade?
Che vapore di stazione lugubre, che volto di cristallo,
e ancor più, che suono di carro vecchio con spighe?
Ahi, a una a una, l'onda che piange e il sale che si sbriciola,
e il tempo dell'amore celestiale che passa volando,
hanno avuto voce d'ospite e spazio nell'attesa.
Di distanze portate a termine, di risentimenti infedeli,
di ereditarie speranze mescolate con ombra,
di presenze straziantemente dolci
e di giorni di trasparente vena e di statua florale,
che sussiste nel mio scarso dominio, nel mio debole prodotto?
Del mio letto giallo e della mia sostanza distrutta,
chi non è vicino e assente al contempo?
Uno sforzo che salta, una freccia di frumento
posseggo, e un arco nel mio petto manifestamente attende,
e un palpito esile, d'acqua e di tenacia,
come qualcosa che si spezza perpetuamente,
attraversa fino al fondo le mie separazioni,
spegne il mio potere e propaga il mio duolo.
Monsone di maggio
Il vento della stagione, il vento verde,
carico di spazio e d'acqua, esperto di felicità,
arrotola la sua bandiera di lugubre pelle,
e d’una svanita sostanza, come danaro d'elemosina:
così, argentato, freddo, si rifugia un giorno,
fragile come la spada di cristallo di un gigante,
tra tante forze che proteggono il suo sospiro che teme,
la sua lacrima sul cadere, la sua arena inutile,
circondato di poteri che passano e scricchiolano,
come un uomo nudo in una battaglia
che solleva il suo mazzo bianco, la sua certezza incerta,
la sua goccia di sale tremola nell'invaso.
Quale riposo intraprendere, quale povera speranza amare,
con così debole fiamma e così fuggitivo fuoco?
Contro che sollevare l'ascia affamata?
Di qual materia derubare, fuggire da qual fulmine?
La sua luce appena fatta di lunghezza e di tremore
si trascina come coda di vestito di fidanzata triste
adorna di sogno mortale e di, pallore.
Perché tutto quello che l'ombra ha toccato e ambito il disordine
gravita, liquido, sospeso, sprovvisto di pace,
indifeso tra spazi, vinto di morte.
Ahi, ed è il destino di un giorno che andò sperando,
verso il quale correvano lettere, imbarcazioni, affari,
morire, sedentario e umido senza il suo proprio cielo.
Dov'è la sua tenda profumata, il suo profondo fogliame,
il suo rapido nascondiglio di bragia, il suo respiro vivo?
Immobile, vestito d'un fulgore moribondo e d'una squama opaca,
vedrà dividere la pioggia le sue metà
e il vento nutrito d'acque attaccarle.
Arte poetica
Tra ombre e spazio, tra guarnigioni e donzelle,
dotato di cuor singolare e di sogni funesti,
precipitosamente pallido, appassito in fronte,
e con lutto di vedovo furioso per ogni giorno della mia vita,
ahi, per ogni acqua invisibile che bevo sonnolento
e per ogni suono che accolgo tremando,
ho la stessa sete assente, la stessa febbre fredda,
un udito che nasce, un'angustia indiretta,
come se arrivassero ladri o fantasmi,
e in un guscio di estensione fissa e profonda,
come un cameriere umiliato, come una campana un pò roca,
come uno specchio vecchio, come un odor di casa sola
in cui gli ospiti entrano di notte perdutamente ebbri,
e c'è un odore di biancheria gettata al suolo, e un'assenza di fiori
— forse in altro modo ancor meno malinconico —,
ma, la verità d'improvviso, il vento che sferza il mio petto,
le notti di sostanza infinita cadute nella mia camera,
il rumore di un giorno che arde con sacrificio
sollecitano ciò che di profetico è in me, con malinconia,
e c'è un colpo di oggetti che chiamano senza risposta
e un movimento senza tregua, e un nome confuso.
Sistema cupo
Di ognuno di questi giorni neri come vecchi ferri,
e aperti dal sole come grandi buoi rossi,
e appena sostenuti dall'aria e dai sogni,
e spariti irrimediabilmente e all'improvviso,
nulla ha sostituito le mie sconvolte origini,
e gli ineguali ritmi che circolano nel mio cuore,
ivi si forgiano giorno e notte, solitariamente,
e comprendono disordinate e tristi quantità.
Così, dunque, come una vedetta divenuta insensibile e cieca,
incredulo e condannato a un doloroso agguato,
davanti alla parete in cui ogni giorno si unisce,
i miei volti diversi si appoggiano e incatenano
come grandi fiori pallidi e pesanti
tenacemente sostituiti e defunti.
Angela adonica
Oggi mi son disteso presso una giovane pura
come alla riva d'un oceano bianco,
come nel centro di un'ardente stella
di lento spazio.
Dal suo sguardo lungamente verde
la luce cadeva come un'acqua secca,
in trasparenti e profondi cerchi
di fresca forza.
Il suo seno come un fuoco di due fiamme
ardeva in due regioni sollevato,
e in duplice fiume giungeva ai suoi piedi,
grandi e chiari.
Un clima d'oro maturava appena
le diurne longitudini del suo corpo
empiendolo di frutti distesi
e di occulto fuoco.
Sonata e distruzioni
Dopo molto, dopo vaghe leghe,
confuso di domini, incerto di territorio,
accompagnato da povere speranze
e compagnie fedeli e sfiduciati sogni,
amo ciò che di tenace ancora sopravvive nei miei occhi,
odo nel mio cuore i miei passi di cavaliere,
mordo il fuoco addormentato e il sale distrutto,
e di notte, d'atmosfera e lutto profugo,
colui che veglia sulla riva degli accampamenti,
il viandante armato di sterili resistenze,
trattenuto tra ombre che crescono e ali che tremano,
mi sento essere, e il mio braccio di pietra mi difende.
V'è tra scienze di pianto un altare confuso,
e nella mia seduta di tramonti senza profumo,
nelle mie camere abbandonate dove abita la luna,
e ragni di mia proprietà, e distruzioni che mi sono care,
adoro il mio essere perduto, la mia sostanza imperfetta,
il mio colpo d'argento e la mia perdita eterna.
Arse l'uva umida, e la sua acqua funebre
ancor vacilla, ancor risiede,
e il patrimonio sterile, e il domicilio traditore.
Chi fece riverenza di ceneri?
Chi amò ciò che è perduto, chi protesse ciò che è ultimo?
L'osso del padre, il legno della nave morta,
e il suo stesso finale, la sua stessa fuga,
la forza triste, il dio miserabile?
Spio, dunque, l'inanimato e il dolente,
e il testimonio strano che sostengo,
con efficienza crudele e scritto con ceneri,
è la forma di oblio che preferisco,
il nome che do alla terra, il valore dei miei sogni,
la quantità interminabile che divido
con i miei occhi d'inverno, per ogni giorno di questo mondo.
II
La notte del soldato
Io faccio la notte del soldato, il tempo dell'uomo senza malinconia né sterminio, di colui che è gettato lontano dall'oceano e da un'onda, e che non sa che l'acqua amara l'ha
diviso e che invecchia, lentamente e senza paura, dedito alla normalità della vita, senza cataclismi, senza assenze, vivendo dentro la sua pelle e il suo vestito, sinceramente oscuro. Così, dunque, mi vedo con compagni stupidi e allegri, che fumano e sputano e orrendamente bevono e che d'improvviso cadono, ammalati a morte. Perché, dove sono la zia, la fidanzata, la suocera, la cognata del soldato? Forse muoiono di ostracismo o di malaria, diventan freddi, gialli, ed emigrano in un astro di ghiaccio, in un pianeta fresco, a riposare, alfine, tra ragazze e frutti glaciali, e i loro cadaveri, i loro poveri cadaveri di fuoco, custoditi da angeli alabastrini, andranno a dormire lontano dalla fiamma e dalla cenere.
Per ogni giorno che cade, col suo obbligo vesperale di soccombere, passeggio, montando una guardia inutile, e passo tra mercanti maomettani, tra genti che adorano la vacca e il cobra, passo io, inadorabile e comune di volto. I mesi non sono inalterabili, e a volte piove: cade, dal calore del cielo, un'impregnazione silenziosa come il sudore, e sopra i grandi vegetali, sopra la schiena delle bestie feroci, lungo un certo silenzio, queste penne umide si intrecciano e allungano. Acque della notte, lacrime del vento Monsone, saliva salata come la schiuma del cavallo, e lenta d'aumento, povera di punteggiatura attonita di volo.
Ora, dov'è quella curiosità professionale, quella tenerezza stanca che solo con il suo riposo apriva breccia, quella coscienza splendente il cui lampo mi vestiva di ultra-azzurro? Vado respirando come figlio fino al cuore di un metodo obbligatorio, di una tenace pazienza fisica, risultato di alimenti e di età accumulati ogni giorno, spoglio del mio vestiario di vendetta e della mia pelle d'oro. Ore di una sola stagione, rotolano ai miei piedi, e un giorno di forme diurne e notturne è quasi sempre fermo su di me.
Allora, di tanto in tanto, visito ragazze di occhi e di fianchi giovani, esseri nella cui pettinatura brilla un fiore giallo come il lampo. Esse portano anelli ad ogni dito del piede,
e braccialetti, e cerchi alle caviglie, e inoltre, collane colorate, collane che prendo ed esamino, perché io voglio sorprendermi davanti a un corpo ininterrotto e compatto, non mitigare il mio bacio. Io peso con le mie braccia ogni nuova statua, e bevo il loro rimedio vivo con sete mascolina e in silenzio. Disteso, guardando dal basso la fuggitiva creatura, arrampicandomi per il suo essere nudo fino al suo sorriso: gigantesca e triangolare verso l'alto, sollevata nell'aria da due seni globali, fissi davanti ai miei occhi come due lampade
con luce di olio bianco e dolci energie. Io mi affido alla sua stella bruna, al suo calore di pelle, e immobile sotto il mio petto, come un avversario disgraziato, dalle membra troppo
dense e deboli, dall'ondulazione indifesa: oppure girando su se stessa come una ruota pallida, divisa da aspe e da dita, rapida, profonda, circolare, come una stella in disordine.
Ahi, da ogni notte che si succede, c'è qualcosa di bragia abbandonata che si consuma sola, e cade avvolta in rovine, in mezzo a cose funebri. Io presenzio comunemente a questi termini, coperto di armi inutili, pieno di obiezioni distrutte. Ho le vesti e le ossa lievemente impregnate di questa materia seminotturna: è una polvere temporale che mi si va unendo, e il dio della sostituzione veglia a volte al mio fianco, respirando tenacemente, levando in alto la spada.
Comunicazioni smentite
Quei giorni smarrirono il mio senso profetico, nella mia casa entravano i collezionisti di francobolli, e imboscati, ad ad altre ore della stagione, assalivano le mie lettere, strappavano da esse baci freschi, baci sottoposti a una lunga residenza marlna e scongiuri che proteggevano la mia sorte con scienza femminile e difensiva calligrafia.
Vivevo a lato di altre case, di altre persone e di alberi tendono al grandioso, padiglioni dal fogliame passionale radici emerse, pale vegetali, alberi di cocco diritti, e, in
mezzo a queste schiume verdi, passavo col mio cappello puntuto e un cuore completamente romanzesco, con un passo pesante di splendore, perché a misura che i miei poteri si rodevano, e distrutti in polvere cercavano simmetria come i morti nei cimiteri, i luoghi noti, le distese fino a quell'ora disprezzate e i volti che come piante lente sbocciano nel mio abbandono, variavano intorno a me con terrore e precauzione, come quantità di foglie che un autunno improvviso sconvolge.
Pappagalli, stelle, e inoltre il sole ufficiale e una brusca umidità fecero nascere in me un piacere rapito per la terra e per ogni cosa che la copriva, e una soddisfazione di casa vecchia per i suoi pipistrelli, una delicatezza di donna nuda per le sue unghie, disposero in me come di armi deboli e tenaci delle mie facoltà vergognose, e la malinconia pose la sua traccia nel mio tessuto, e la lettera d'amore, pallida di carta e di timore, sottrasse il suo ragno tremolo che appena tesse e senza cessa disfa e ritesse. Naturalmente, dalla luce lunare, dal suo circostanziale prolungamento, e più ancora, dal suo asse freddo, che gli uccelli (rondini, oche) non possono calpestare neppure nei deliri dell'emigrazione, dalla sua pelle azzurra, liscia, sottile e senza gioielli, caddi senza il duolo, come chi cade ferito d'arma bianca. Io sono un essere di sangue speciale, e quella sostanza al tempo stesso notturna e marittima mi faceva sussultare e soffrire, e quelle acque subcelesti diminuivano la mia energia e il commerciale della mia disposizione.
In quel modo storico le mie ossa acquistarono grande preponderanza nelle mie intenzioni: il riposo, i lavori sulla riva del mare mi attiravano senza sicurezza, ma con destinazione, e una volta giunto al recinto, circondato dal coro muto e più immobile, sottomesso all'ora ultima e ai suoi profumi, ingiusto con le geografie inesatte e partigiano mortale del sedile di cemento, attendo il tempo militarmente, e con il fioretto dell'avventura macchiato di sangue dimenticato.
Il disabitato
Stagione invincibile! Ai lati del cielo un pallido vento di tramontana si accumulava, un'aria stinta e invadente, e verso tutto ciò che gli occhi comprendevano, come un latte denso, come una cortina indurita esisteva, continuamente. Di modo che l'essere si sentiva isolato, sottomesso a quella strana sostanza, circondato da un cielo vicino, con l'albero maestro spezzato di fronte a un litorale biancastro, abbandonato da ciò che è solido, di fronte a un passato impenetrabile e in una casa di nebbia. Condanna e orrore! D'essere
stato ferito e abbandonato, o d'aver scelto i ragni, il lutto e la sottana. D'essersi imboscato, fortemente sazio di questo mondo, e di aver conversato su effigi e ori e fatidici destini. Di aver legato la cenere al vestito quotidiano, e di aver baciato l'origine terrestre con il suo sapore di oblio. Ma no. No.
Materie fredde della pioggia che cadono cupamente, dolori senza resurrezione, oblio. Nella mia alcova senza ritratti, nel mio vestito senza luce, quanta capienza eternamente permane, e il lento raggio retto del giorno come si condensa fino ad arrivare a essere una sola goccia oscura.
Movimenti tenaci, sentieri verticali al cui fiore finale a volte si ascende, compagnie dolci o brutali, porte assenti! Mangio ogni giorno un pane letargico, bevo di un'acqua isolata!
Urla il magnano, trotta il cavallo, il cavalluccio inzuppato di pioggia, e il cocchiere dalla lunga frusta tossisce, il dannato! Il resto, fino a lunghissime distanze, rimane immobile, coperto dal mese di giugno, e le sue vegetazioni bagnate, i suoi animali silenziosi, si uniscono come onde. Si, qual mare d'inverno, quale dominio sommerso cerca di sopravvivere, e, apparentemente morto, attraversa con lunghi velami funebri questa densa superficie?
Spesso, a tramonto avvenuto, avvicino la luce alla finestra, e mi guardo, sostenuto da legni miserabili, disteso nell'umidità come una bara invecchiata, tra pareti bruscamente deboli. Sogno, da un'assenza all'altra, e ad altra distanza, ricevuto e amaro.
Il giovane monarca
Come continuazione di quanto letto e come precedente della psgina che segue devo indirizzare la mia stella al territorio amoroso.
Patria limitata da due lunghe braccia calde, di lunga passione parallela, e un luogo di ori difesi da sistema e da matematica scienza guerresca. Si, voglio sposarmi con la più
bella di Mandalay, voglio affidare il mio involucro terrestre a quel rumore della donna che cucina, a quello svolazzare di gonna e piede nudo che si muovono e rimescolano come vento e foglie.
Amore di bimba dal piede piccolo e dal gran sigaro, fiori di ambra nella pura e cilindrica capigliatura, e dall'incedere in pericolo, come un giglio di testa pesante, di grossa consistenza.
E la mia sposa alla mia riva, a fianco del mio rumore venuto da così lontano, la mia sposa birmana, figlia del re.
Allora bacio i suoi capelli neri arrotolati e il suo piede dolce e perpetuo: e, avvicinatasi ormai la notte, scatenato il suo mulino, ascolto la mia tigre e piango il mio assente.
Stabilimenti notturni
Difficilmente chiamo la realtà, come il cane, e ululo anche. Come mi piacerebbe stabilire il dialogo del nobile e del barcaiolo, dipingere la giraffa, descrivere le fisarmoniche, celebrare la mia musa nuda e attorcigliata alla mia vita di assalto e resistenza. Così è la mia vita, il mio corpo in generale, una lotta desta e lunga, e i miei reni ascoltano.
Oh, Dio, quante rane abituate alla notte, che fischiano e russano con gole di esseri umani a quarant'anni, e che angusta e siderale è la curva che fino al più lontano mi circonda! Piangerebbero sul mio caso i cantori italiani, i dottori d'astronomia circondati da quest'alba nera, definiti fino al cuore da questa acuta spada.
E poi quella condensazione, quell'unità di elementi della notte, quella supposizione posta dietro ogni cosa, e quel freddo così chiaramente sostenuto da stelle.
Esecrazione per tanti morti che non guardano, per tanti colpiti dall'alcool o dalla infelicità, e lode al notturno, all'intelligente che io sono, sopravvissuto adoratore dei cieli.
Sepoltura all'est
Io lavoro di notte, circondato di città,
di pescatori, di vasai, di defunti bruciati
con zafferano e frutta, avvolti in mussoline scarlatte:
soto il mio balcone quei morti terribili
passano suonando catene e flauti di rame,
stridenti e fini e lugubri fischiano
tra il colore dei pesanti fiori avvelenati
e il grido dei cinerei ballerini
e il crescere monotono dei tam tam
e il fumo dei legni che ardono e odorano.
Perché non appena voltata la strada, presso il torbido fiume,
i loro cuori, fermi o iniziando un maggior movimento,
rotoleranno bruciati, con la gamba e il piede fatti fuoco,
e la tremula cenere cadrà sull'acqua,
fluttuerà come mazzo di fiori calcinati
o come fuoco estinto lasciato da sì potenti viandanti
che fecero ardere qualcosa sulle nere acque, e divorarono
un alito scomparso, e un liquore estremo.
IlI
Cavaliere solo
I giovani omosessuali e le ragazze amorose,
e le lunghe vedove che soffrono la delirante insonnia,
e le giovani signore incinte da trenta ore,
e i rauchi gatti che attraversano il mio giardino in tenebre,
come un collare di palpitanti ostriche sessuali
circondano la mia residenza solitaria,
come nemici stabiliti contro la mia anima,
come cospiratori in vestito da camera
che scambiassero lunghi baci densi per consegna.
La radiante estate conduce gli innamorati
in uniformi reggimenti malinconici,
fatti di grasse e di magre e di allegre e di tristi coppie:
sotto le eleganti palme di cocco, vicino all'oceano e alla luna,
c'è una continua vita di calzoni e di gonne,
un rumore di calze di seta accarezzate,
e seni femminili che brillano come occhi.
Il piccolo impiegato, dopo molto,
dopo il tedio settimanale, e i romanzi letti di notte in letto,
ha definitivamente sedotto la sua vicina,
e la porta nei miserabili cinematografi
dove gli eroi sono puledri o principi appassionati,
e accarezza le sue gambe coperte di dolce vello
con le sue ardenti e umide mani che odorano di sigaretta.
I tramonti del seduttore e le notti degli sposi
si uniscono come due lenzuola seppellendomi,
e le ore dopo il pranzo in cui i giovani studenti
e le giovani studentesse, e i sacerdoti si masturbano,
e gli animali fornicano direttamente;
e le api odorano di sangue, e le mosche ronzano colleriche,
e i cugini giocano stranamente con le loro cugine,
e i medici guardano con furia il marito della giovane paziente,
e le ore del mattino in cui il professore, come per caso,
compie il suo dovere coniugale e fa colazione,
e ancor più, gli adulteri, che si amano con vero amore
su letti alti e lunghi come imbarcazioni:
sicuramente, eternamente mi circonda
questo gran bosco respiratorio e aggrovigliato
con grandi fiori come bocche e dentature
e nere radici in forma di unghie e di scarpe.
Rituale delle mie gambe
Lungamente son rimasto a guardare le mie lunghe gambe,
con tenerezza infinita e curiosa, con la mia consueta passione,
come se fossero state le gambe di una donna divina
profondamente affondata nell'abisso del mio torace:
ed è che, per la verità, quando il tempo, il tempo passa,
sopra la terra, sopra il tetto, sopra la mia impura testa,
e passa, il tempo passa, e nel mio letto non sento di notte
[che una donna sta respirando, dormendo nuda al mio fianco,
allora, strane, oscure cose prendono il posto dell'assente,
viziosi, malinconici pensieri
seminano pesanti possibilità nella mia camera da letto,
e così, dunque, guardo le mie gambe come se appartenessero a un altro corpo;
e fortemente e dolcemente fossero appiccicate alle mie viscere.
Come talli o femminili, adorabili cose,
dalle ginocchia salgono, cilindriche e spesse,
con turbato e compatto materiale d'esistenza:
come brutali, grosse braccia di dea,
come alberi mostruosamente vestiti da esseri umani,
come fatali, immense labbra assetate e tranquille,
son lì Ia parte migliore del mio corpo:
l'interamente sostanziale, senza complicato contenuto
di sensi o trachee o intestini o gangli:
nulla, altro che il puro, il dolce e denso della mia stessa vita,
conservando, tuttavia, la vita in modo completo.
La gente attualmente attraversa il mondo
senza ricordarsi a malapena che possiede un corpo e in esso la vita,
e c'è paura, c'è paura nel mondo delle parole che designano un corpo,
e si parla favorevolmente della biancheria,
di pantaloni è possibile parlare, di vestiti,
e di biancheria intima da donna (di calze e di giarrettiere da « signora »),
come se per le. strade andassero gli indumenti e i vestiti completamente vuoti,
e un oscuro e osceno guardaroba occupasse il mondo.
I vestiti hanno esistenza, colore, forma, disegno,
e posto profondo nei nostri miti, troppo posto,
troppi mobili e troppe stanze vi sono nel mondo,
e il mio corpo vive tra e sotto tante cose abbattuto,
con un pensiero fisso di schiavitù e di catene.
Bene, le mie ginocchia, come nodi,
particolari, funzionali, evidenti,
separano le metà delle mie gambe in forma secca:
e in realtà due mondi differenti, due sessi differenti
non son così diversi come le due metà delle mie gambe.
Dal ginocchio fino al piede una forma dura,
minerale, freddamente utile, appare,
una creatura d'osso e di persistenza,
e le caviglie non sono ormai altro che il proposito nudo,
l'esattezza e il necessario disposti in forma definitiva.
Senza sensualità, corte e dure, e maschili,
lì sono le mie gambe, e dotate
di gruppi muscolari come animali complementari,
e anche lì una vita, una solida, sottile, acuta vita
senza tremare permane, attendendo e agendo.
Nei miei piedi solleticosì,
e duri cala il sole, e aperti come fiori,
e perpetui, magnifici soldati
nella guerra grigia dello spazio,
tutto termina, la vita termina definitivamente nei miei piedi,
lo straniero e l'ostile lì comincia:
i nomi del mondo, ciò che sta di fronte e il remoto,
il sostantivo e l'aggettivo che non stanno nel mio cuore
con densa e fredda costanza li si originano.
Sempre,
prodotti manifatturati, calze, scarpe,
o semplicemente aria infinita,
staranno tra i miei piedi e la terra
acuendo l'isolato e il solitario del mio essere,
qualcosa di tenacemente supposto tra la mia vita e la terra,
qualcosa di apertamente invincibile e nemico.
Il fantasma della nave da carico
Distanza rifugiata su tubi di schiuma,
sale in rituali onde e ordini definiti,
e un odore e rumore di nave vecchia,
di marciti legni e di ferri avariati,
e di stanche macchine che ululano e piangono
spingendo la prua, pestando i fianchi,
masticando lamenti, inghiottendo e inghiottendo distanze,
tacendo un rumore di acri acque sopra le acri acque,
muovendo la vecchia nave sopra le vecchie acque.
Stive interne, gallerie crepuscolari
che il giorno intermittente dei porti visita:
sacchi, sacchi che un dio cupo ha accumulato
come animali grigi, rotondi e senza occhi,
con dolci orecchie grige,
e ventri stimabili pieni di frumento o di copra,
sensitive pance di donne incinte,
poveramente vestite di grigio, pazientemente
in attesa nell'ombra di un doloroso cinematografo.
Le acque esterne d'improvviso
si odono passare, correndo come un cavallo opaco,
con un rumore di piedi di cavallo nell'acqua,
rapide, sommergendosi di nuovo nelle acque.
Allora non v'è null'altro che il tempo nelle cabine:
il tempo nella sventurata sala da pranzo solitaria,
immobile e visibile come una gran disgrazia.
Odore di cuoio e di tela densamente sciupati,
e di cipolle, e d'olio, e ancor più,
odore di qualcuno che fluttua negli angoli della nave,
odore di qualcuno senza nome
che scende come un'onda d'aria le scale,
e attraversa corridoi col suo corpo assente,
e osserva con i suoi occhi che la morte preserva.
Osserva con i suoi occhi senza colore, senza sguardo, lento,
e passa tremando, senza presenza né ombra:
i suoni lo raggrinzano, le cose lo trapassano,
la sua trasparenza fa brillare le sedie sudice.
Chi è quel fantasma senza corpo di fantasma,
con i suoi passi leggeri come farina notturna
e la voce che solo le cose patrocinano?
I mobili viaggiano pieni del suo essere silenzioso
come piccole navi dentro la vecchia nave,
cariche del suo essere svanito e vago:
gli armadi, le verdi cartelle delle tavole,
il colore delle cortine e del suolo,
tutto ha sopportato il lento vuoto delle sue mani,
e il suo respiro ha sciupato le cose.
S’insinua e scivola, discende, trasparente,
aria nell'aria fredda che corre sopra la nave,
con le sue mani nascoste si appoggia ai parapetti
e guarda il mare amaro che fugge dietro la nave.
Solamente le acque rifiutano la sua influenza,
suo colore e il suo odore di fantasma dimenticato,
e fresche e profonde svolgono la loro danza
come vite di fuoco, come sangue o profumo,
nuove e forti sorgono, unite e riunite.
Senza sciuparsi, le acque, senza costume né tempo,
verdi di quantità, efficaci e fredde,
toccano il nero stomaco della nave e lavano
la sua materia, le sue croste rotte, le sue rughe di ferro:
rodono le acque vive il guscio della nave,
trafficando le loro lunghe bandiere di schiuma
i loro denti di sale che volano in gocce.
Guarda il mare il fantasma con il suo volto senza occhi:
il cerchio del giorno, la tosse della nave, un uccello
nell'equazione rotonda e sola dello spazio,
e scende di nuovo alla vita della nave
cadendo sopra il tempo morto e sul legno,
scivolando nelle nere cucine e nelle cabine,
lento d'aria e d'atmosfera e di desolato spazio.
Tango del vedovo
Oh Maligna, avrai trovato ormai la lettera, ormai avrai pianto di furia,
e avrai insultato il ricordo di mia madre
chiamandola cagna marcia e madre di cani,
avrai ormai bevuto sola, solitaria, il tè dell'imbrunire
guardando le mie vecchie scarpe vuote per sempre,
e ormai non potrai più ricordare le mie malattie, i miei sogni notturni, i miei pranzi,
senza maledirmi a voce alta come se ancora fossi lì
a lamentarmi del tropico, dei coolies corringhis,
delle velenose febbri che mi fecero tanto male
e degli spaventosi inglesi che odio ancora.
Maligna, per la verità, che notte immensa, che terra sola!
Son giunto di nuovo ai dormitori solitari,
a mangiare nei restaurants cibo freddo, e di nuovo
getto in terra i pantaloni e le camice,
non ci sono attaccapanni nella mia stanza, né ritratti di alcuno alle pareti.
Quanta ombra di quella che v'è nella mia anima darei per ricuperarti,
e come minacciosi mi sembrano i nomi dei mesi,
e la parola inverno che suono di tamburo lugubre ha.
Sotterrato vicino alla palma di cocco troverai più tardi
il coltello che vi nascosì per timore che m'uccidessi,
ora repentinamente vorrei odorare il suo acciaio da cucina
abituato al peso della tua mano e al brillio del tuo piede:
sotto l'umidità della terra, tra le sorde radici,
dei linguaggi umani il poveretto saprebbe solo il tuo nome,
e la densa terra non comprende il tuo nome
fatto d'impenetrabili sostanze divine.
Così come mi affligge pensare al chiaro giorno delle tue gambe
distese come trattenute e dure acque solari,
e la rondine che dormendo e volando vive nei tuoi occhi,
e il cane furioso che ospiti nel cuore,
allo stesso modo vedo le morti che stanno tra noi da questo momento,
e respiro nell'aria la cenere e ciò ch'è distrutto,
il lungo, solitario spazio che mi circonda per sempre.
Darei questo vento del mare gigante per il tuo brusco respiro
udito in lunghe notti senza mescolanza d'oblio,
che s'unisce all'atmosfera come la frusta alla pelle del cavallo.
E per udirti orinare, nell'oscurità, in fondo alla casa,
come versando un miele sottile, tremolo, argentino, ostinato,
quante volte darei questo corpo d'ombre che posseggo,
e il rumore di spade inutili che s'ode nella mia anima,
e la colomba di sangue che sta solitaria sulla mia fronte
chiamando cose scomparse, esseri scomparsi,
sostanze stranamente inseparabili e perdute.
IV
Cantari
La rosa rampicante divora
e sale sulla cima del santo:
con densi artigli lega
il tempo all'essere stanco:
gonfia e soffia nelle vene dure,
lega il cordone polmonare, allora
lungamente ascolta e respira.
Voglio morire, voglio vivere,
ferramenta, cane infinito,
movimento d'oceano denso
con vecchia e nera superficie.
Per chi e a chi nell'ombra
risuona la mia chitarra graduale
che nasce nel sale del mio essere
come il pesce nel sale del mare?
Ahi, che continuo paese chiuso,
neutrale, nella regione del fuoco,
immobile, nel giro terribile,
secco, nell'umidità delle cose.
Allora, tra le mie ginocchia,
sotto la radice dei miei occhi,
continua a cucire la mia anima:
il suo terrificante ago lavora.
Sopravvivo in mezzo al mare,
solo e così pazzamente ferito,
così solamente persistendo,
feritamente abbandonato.
Lavoro freddo
Dimmi, del tempo, che risuona
nella tua sfera parziale e dolce,
non odi forse il gemito sordo?
Non senti in modo lento,
in lavoro tremulo e avido,
l'insistente notte che torna?
Secchi sali e sangue aereo,
precipitoso correre di fiumi,
tremando il testimone constata.
Aumento oscuro di pareti,
crescita brusca di porte,
delirante popolazione di stimoli,
circolazioni implacabili.
Intorno, d'infinito modo,
in propaganda interminabile,
di muso armato e definito,
lo spazio bolle e si popola.
Non odi la costante vittoria,
nella corsa degli esseri,
del tempo, lento come il fuoco,
sicuro e denso ed erculeo,
che accumula il suo volume
e aggiunge la sua triste fibra?
Come una pianta perpetua, aumenta
il suo sottile e pallido filo,
bagnato di gocce che cadono
senza suono, nella solitudine.
Significa ombre
Che speranze considerare, che presagio puro,
che definitivo bacio sotterrare nel cuore,
sottomettere nelle origini dell'abbandono e dell'intelligenza,
dolce e sicuro sopra le acque eternamente turbate?
Che vitali, rapide ali di un nuovo angelo di sogni
installare sulle mie spalle addormentate per sicurezza perpetua,
in tal modo che la strada tra le stelle delta morte
sia un violento volo incominciato da molti giorni e mesi e secoli?
Forse la debolezza naturale degli esseri timorosi e ansiosi
cerca d'improvviso permanenza nel tempo e limiti nella terra,
forse le fatiche e le età accumulate implacabilmente
si estendono come l'onda lunare di un oceano appena creato
su litorali e terre angosciosamente deserti.
Ahi, che ciò che io sono continui ad esistere e cessi di esistere,
e che la mia obbedienza si ordini con tali condizioni di ferro
che il tremore delle morti e delle nascite non commuova
il profondo luogo che voglio riservare per me eternamente.
Sia, dunque, ciò che sono, in qualche parte e in ogni tempo,
stabilito e assicurato e ardente testimonio,
accuratamente distruggendosi e preservandosi incessantemente,
evidentemente impegnato nel suo dovere originale.