-- I due compleanni del 1964: Shakespeare (400°) e Neruda (50°)
I due compleanni del 1964: Shakespeare (400.°) e Neruda (60.°)
Inaugurando l'anno di Shakespeare
Goneril, Regan, Hamlet, Angus, Duncan, Glansdale, Mortimer, Ariel, Leontes...
I nomi di Shakespeare, questi nomi, lavorarono nella nostra infanzia, si cristallizzarono, si fecero materia dei nostri sonni. Dietro i nomi di Shakespeare, quando ancora appena se potevamo leggere, esisteva un continente con fiumi e re, clan e castelli, arcipelaghi che qualche volta scopriremo. I nomi di ombrosi o raggianti protagonisti ci mostrava la pelle della poesia, il primo tocco di una grande campana. Dopo, molto tempo dopo, arrivano i giorni e gli anni in cui scopriamo le vene e le vite di questi nomi. Scopriamo patimenti e rimorsi, martirii e crudeltà, esseri di sangue, creature dell'aria, voci che si illuminano per una festa magica, banchetti ai quali accorrono i fantasmi insanguinati. E tanti fatti, e tante anime, e tante passioni e tutta la vita.
In ogni epoca, un poeta assume la totalità dei sonni e della saggezza: esprime la crescita, l'espansione del mondo. Si chiama una volta Alighieri, o Victor Hugo, o Lope de Vega o Walt Whitman.
Soprattutto, si chiama Shakespeare.
Allora, questi poeti accumulano foglie, ma tra queste foglie ci sono trilli, sotto queste foglie ci sono radici. Sono foglie di grandi alberi.
Sono foglie e sono occhi. Si moltiplicano e ci guardano, piccoli uomini di tutte le età transitorie, ci guardano e ci aiutano a scoprirci: ci rivelano il nostro proprio labirinto.
In quanto a Shakespeare, viene dopo una terza rivelazione, come ne verranno molte altre: quella del sortilegio della sua distillata poesia. Pochi poeti tanto compatti e segreti, tanto chiusi nel loro proprio diamante.
I sonetti furono tagliati nell'opale del pianto, nel rubino dell'amore, nello smeraldo della gelosia, nell'ametista del lutto.
Furono tagliati nel fuoco, furono fatti di aria, furono edificati di vetro.
I sonetti furono strappati alla natura in tale modo che dal primo all'ultimo si sente come scorre l'acqua, e come balla il vento, e come si succedono, dorate o fiorite, le stagioni ed i loro frutti.
I sonetti hanno infinite chiavi, formule magica, statica maestà, velocità di frecce.
I sonetti sono bandiere che una ad una salirono alle altezze del castello. E benché tutte sopportassero l'intemperie ed il tempo, conservano le loro stelle di colore amaranto, le loro mezzalune di turchese, i loro fulgori di cuore incendiato.
Io sono un vecchio lettore della poesia di Shakespeare, dei suoi poemi che non ci dicono nomi, né combattimenti, né insolenze, come le sue tragedie.
C’è solo la bianchezza della carta, la purezza del cammino poetica. Per quel cammino, interminabilmente lasciano cadere le immagini come piccoli vascelli carichi di miele.
In questa ricchezza eccessiva in cui l'urgente potere creativo si ritma con tutta la somma dell'intelligenza, possiamo vedere e palpare uno Shakespeare costante e crescente, essendo il più famoso, non il suo abbondante potere, bensì la sua forma esigente.
Il mio esemplare dei Sonetti ha il mio nome scritto ed il giorno ed il mese in cui comprai quello libro nell'isola della Java, nel 1930.
Dunque, sono 34 anni che mi accompagna.
Lì nella lontana isola, mi diede la norma di una purissimaa fonte, vicino alle selve ed alla favolosa moltitudine dei miti sconosciuti, fu per me la legge cristallina. Perché la poesia di Shakespeare, come quella di Góngora e quella di Mallarmé, gioca con la luce della ragione, impone un codice stretto, anche segreto. In una parola, in quegli anni abbandonati della mia vita, la poesia shakesperiana mantenne per me aperta comunicazione con la cultura occidentale. Dicendo questo, includo naturalmente nella gran cultura occidentale Pushkin e Karl Marx, Bach e Hölderlin, lord Tennyson ed a Mayakovski.
Naturalmente, la poesia è disseminata in tutte le grandi tragedie, nelle torri di Elsinor, nella casa di Macbeth, nella barca di Prospero, tra il profumo dei melograni di Verona.
Ogni tragedia ha il suo tunnel per il quale soffia un vento fantasmagorico. Il suono più vecchio del mondo, il suono del cuore umano continua a formare le parole indimenticabili. Tutto questo è sgranato nelle tragedie, vicino alle interiezioni del popolo, alle insegne dei mercati, alle sillabe scurrili di parassiti e di buffoni, tra lo scontro di acciaio delle panoplie impazzite.
Ma a me piace cercare la poesia in suo fluire smisurato, quando Shakespeare l'ordina e le lascia scritta nella parete del tempo, con l'azzurro, lo smalto e la schiuma magica, amalgama che le lascerà stampate nella nostra eternità.
Per esempio, nell'idillio pastorale di Venus and Adonis, edito nel 1593, ci sono molte ombre fresche sulle acque che corrono, insinuazioni verdi della floresta che canta, cascate di poesia che cade e di mitologia che fugge verso il fogliame.
Ma, all'improvviso, appare un puledro ed ogni irrealtà sparì al colpo dai suoi xoccoli quando "i suoi occhi sdegnosi risplendono come il fuoco, mostrando il suo caldo valore, il suo alto desiderio."
Sì, perché si vede che se un pittore dipingesse quel cavallo "dovrebbe lottare con l'eccellenza della natura", " il vivente oltrepasserà i morti". Non c'è descrizione come quella di questo cavallo amoroso e furioso che batte con le sue zampe vere gli stupendi sestetti.
E lo menziono quando nel suo bestiario rimasero tracce di molte bestie e nell'erbario shakesperiano rimane il colore e l'odore di molti fiori, perché questo puledro scalpitante è il tema della sua ode, il movimento genetico della natura captato per un gran organizzatore di sogni.
Negli ultimi mesi di questo autunno mi diedero l'incarico di tradurre Romeo e Giulietta.
Presi questa petizione con umiltà. Con umiltà e per dovere, perché mi sentii incapace di rovesciare nella lingua spagnola la storia appassionata di quell'amore. Doveva farlo dato che questo è il gran anno shakesperiano, l'anno della riverenza universale al poeta che dette nuovi universi all'uomo.
Traducendo con piacere e con onestà la tragedia degli amanti sfortunati, mi trovai con una nuova scoperta.
Compresi che dietro la trama dell'amore infinito e della morte impressionante, c'era un altro dramma, c'era un altro tema, un altro tema principale.
Romeo e Giulietta è un grande allegato per la pace tra gli uomini. È la dannazione dell'odio inutile, è la denuncia della barbara guerra e l'elevazione solenne della pace.
Quando il principe Escalus recrimina con dolorose ed esemplari parole ai clan feudali che macchiano di sangue le strade di Verona, comprendiamo che il Principe è l'incarnazione dell'intendimento, della dignità, della pace.
Quando Benvoglio rimprovera a Tibaldo la sua litigiosa condizione, dicendolo: "Tibaldo, non vuoi la pace per queste strade?", il feroce spadaccino gli risponde:
"Non mi parlare di pace, quella parola che odio."
La pace era, dunque, odiata per alcuni nell'Europa isabelliana. Secoli più tardi, Gabriela Mistral, perseguitata ed offesa per la sua difesa della pace, espulsa dal giornale cileno che pubblicava da 30 anni i suoi articoli, scrisse il suo messaggio famoso: "La pace, quella parola maledetta". Si vede che il mondo e gli organi di stampa continuarono ad essere governati dai Tibaldo, dagli spadaccini.
Una ragione in più, dunque, per amare William Shakespeare, il più vasto degli esseri umani. Avremmo sempre tempo e spazio per esplorarlo e perderci in lui, per andare molto lontano attorno alla sua statura, come i minuti uomini di Lilliput intorno a Gulliver. Per andare molto lontano senza arrivare alla fine, ritornando sempre con le mani piene di fragranza e di sangue, di fiori e di dolori, di tesori mortali.
In questa occasione solenne mi tocca aprire la porta degli omaggi, alzando il sipario affinché appaia la sua abbagliante e pensosa figura. Ed io gli direi attraverso quattro secoli:
"Salute, principe della luce! Buon giorno, istrioni erranti. Ereditiamo i tuoi grandi sogni che continuiamo a sognare. La tua parola è onore della terra intera."
E, più basso, all'orecchio, gli direi anche:
"Grazie, compagno."
Anales de la Universitad de Chile, num. 129,
Santiago, gennaio-marzo del 1964.
Alcune riflessioni estemporanee sui miei lavori
ALGUNAS REFLEXIONES IMPROVISADAS SOBRE MIS TRABAJOS. (Pagine 1201-1207.) Dall'epilogo di 1960 a Canción de gesta, le immersioni autobiografiche del poeta postmoderno non solo suppongono una diversa esplorazione dei ricordi bensì, inoltre, un meditare a fondo (ed in nuova chiave) sul suo personale modo di vivere il mestiere di scrittore. Questa improvvisazione del 1964 è come un distillato naturale dei brillanti testi anteriori, in questione del discorso su Mariano Latorre e Pedro Prado scritto nel 1962.
Il mio primo libro Crepusculario, assomiglia molto ad alcuni dei miei libri di maggiore maturità. È, in parte, un diario di quanto accadeva dentro e fosse me stesso, di quanto arrivava alla mia sensibilità. Ma, mai, Crepusculario, prendendolo come nascita della mia poesia, come altri libri invisibili o poemi che non si pubblicarono, contenne un proposito poetico deliberato, un messaggio sostantivo originale. Questo messaggio venne dopo come un proposito che persiste bene o cattivo dentro alla mia poesia. A ciò mi riferirò in queste confessioni.
Appena scritto Crepusculario volli essere un poeta che abbracciasse nella sua opera un'unità maggiore. Volli essere, alla mia maniera, un poeta ciclico che passasse dell'emozione o della visione di un momento ad un'unità più ampia. Il mio primo tentativo in questo senso fu anche il mio primo fallimento.
Si tratta di quel ciclo di poemi che ebbe molti nomi e che, finalmente, rimase con quello di El hondero entusiasta. Questo libro, suscitato da un'intensa passione amorosa, fu la mia prima volontà ciclica di poesia: quella di inglobare l'uomo, la natura, le passioni e gli avvenimenti stessi che si sviluppavano lì, in una sola unità.
Scrissi febbricitante e follemente quei poemi che consideravo profondamente miei. Credetti anche di essere passato del disordine ad una pianificazione formale. Ricordo che, staccandomi già del tema amoroso ed arrivando all'astrazione, il primo di quei poemi che dà titolo al libro, lo scrissi in una notte straordinariamente quieta, a Temuco, in estate, in casa dei miei genitori. In questa casa io occupavo quasi interamento il secondo piano. Di fronte alla finestra c'erano un fiume ed una cascata di stelle che mi sembravano muoversi. Io scrissi in una maniera delirante quello poema, arrivando, forse, come in uno dei pochi momenti della mia vita, a sentirmi completamente posseduto per una specie di ubriachezza cosmica. Credetti di essere arrivato ad uno dei miei primi propositi.
In quei tempi era arrivata da Santiago la poesia di un gran poeta uruguaiano, Carlos Sabat Ercasty, poeta ora ingiustamente dimenticato. La persona che mi parlò e mi comunicò un entusiasmo fervente per la poesia di Sabat Ercasty fu il mio gran amico, il perduto Joaquín Cifuentes Sepúlveda. Per questo giovane e generoso poeta che conservava forse una ammirazione perpetua verso i suoi compagni ed una mancanza di egoismo quasi suicida che lo portò, forse per diminuirsi, alla distruzione ed la morte, io conobbi i poemi di Sabat Ercasty.
In questo poeta io vidi realizzata la mia ambizione di una poesia che inglobasse non solo l'uomo, bensì la natura, le forze nascoste, una poesia epopeica che si confrontasse col gran mistero dell'universo ed anche con le possibilità dell'uomo. Entrai in corrispondenza con lui. Allo stesso tempo che io proseguivo e maturavo la mia opera, leggevo con molta attenzione le lettere che generosamente egli dedicava ad un tanto sconosciuto e giovane poeta. Io avevo forse 17 o 18 anni e quella notte, dopo avere scritto quel poema, decisi di inviargli questo frutto del mio lavoro nel quale aveva messo il più originale dell’essenziale mio. Glielo mandai chiedendogli un'opinione molto franca su di esso, e mentre lo consultava se gli sembrava trovare qualche influenza di Sabat Ercasty.
Io pensai, e la mia vanità mi perse, che il poeta mi avrebbe lanciato un'ininterrotta serie di elogi per quella che io credevo una vera opera maestra dentro i limiti della mia poesia. Ricevetti poco dopo, e senza che ciò diminuisse il mio entusiasmo per lui, una nobile lettera di Sabat Ercasty in cui mi diceva che aveva letto in quello poema un'ammirevole poesia che l'aveva trapassato di emozione, ma che, parlandomi con l'anima e senza ipocrisia alcuna, trovava che quel poema aveva "l'influenza di Carlos Sabat Ercasty."
La mia immensa vanità ricevè questa risposta come una pietra cosmica, come una risposta del cielo notturno alla quale io avevo lanciato le mie pietre di fromboliere. Rimasi allora, per la prima volta, con un lavoro che non doveva proseguire. Io, tanto giovane, che mi proponevo di scrivere una lunga opera con propositi determinati o caotici, ma che rappresentasse quello che sempre cercai, un'estesa unità, e quello poema tremulo, pieno di stelle che mi sembrava avermi dato il possesso della mia strada, riceveva quel giudizio che affondava nell’incomprensibile, perché la mia gioventù non comprendeva allora, che non è l'originalità la strada, non è la ricerca nervosa di quello che può distinguere uno dagli altri, ma l'espressione fatta strada, incontrata attraverso, precisamente, molte influenze e molti sedimenti.
Ma questo è lungo di conoscere ed imparare. Il giovane esce alla vita credendo che è il cuore del mondo e che il cuore del mondo si esprime attraverso lui. Finì lì la mia ambizione ciclica di una larga poesia, chiusi la porta ad un'eloquenza da quello momento per me impossibile da seguire, e ridussi stilisticamente, in una maniera deliberata, la mia espressione.
Il risultato fu il mio libro Veinte poemas de amor y una canción desesperada.
Tuttavia questo libro non raggiunse, per me, nonostante in quegli anni di tanta poca conoscenza, il segreto ed ambizioso desiderio di arrivare ad una poesia conglomerativa in cui tutte le forze del mondo si unissero e si abbattessero. Era questo il conflitto che io mi riservavo.
Incominciai un secondo tentativo frustrato e questo si chiamò davvero Tentativa... Nel titolo presuntuoso di questo libro può vedersi come questa motivazione venne a possedermi da molto presto. Tentativa del hombre infinito fu un libro che non riuscì ad essere quello che voleva, non riuscì ad esserlo per molte ragioni in cui interviene già la vita di tutti i giorni. Tuttavia, dentro la sua piccolezza e della sua minima espressione, assicurò più che altre mie opere la strada che dovevo seguire. Io ho guardato sempre il Tentativa del hombre infinito come uno dei veri nuclei della mia poesia, perché lavorando in questi poemi, in quei lontani anni, andai acquisendo una coscienza che prima non aveva e se in qualche parte stanno dosate le espressioni, la chiarezza o il mistero, è in questo piccolo libro, straordinariamente personale.
Curiosamente, in questi giorni, è venuto alle mie mani il manoscritto di un'opera critica sulla mia poesia, molto estesa, dell'eminente scrittore uruguaiano Emir Rodríguez Monegal. Non si trova ancora stampato e mi è stato inviato affinché io la veda. Tra le cose che lì appaiono ho visto che a questo mio libro, Jorge Elliott, scrittore cileno che conosciamo ed apprezziamo, gli attribuisce l'influenza di Altazor, di Vicente Huidobro. Non sapevo che Jorge Elliott aveva espresso tale errore. Non si tenta qui di difendersi da influenze (ho parlato già di quella di Sabat Ercasty) ma voglio approfittare di questo momento per dire che in quello tempo io non sapevo che esistesse un libro chiamato Altazor, né credo che questo stesso fosse scritto o pubblicato. Non sono sicuro perché non ho a mano i dati corrispondenti, ma mi sembra di no. Io conoscevo, sì, i poemi di Huidobro, i primi eccellenti poemi Horizon carré, Tour Eiffel, Poemas árticos. Ammiravo profondamente Vicente Huidobro, e dire profondamente è dire poco. Possibilmente, ora l'ammiro più, perché in questo tempo la sua opera meravigliosa si trovava ancora in sviluppo. Ma lo Huidobro che io conoscevo e tanto ammiravo era con quello con cui poteva avere meno contatto. Basta leggere il mio poema Tentativa del hombre infinito, o i precedenti, per stabilire che, nonostante l'infinita destrezza, della divina arte di menestrello dell'intelligenza e del gioco intellettivo che io ammiravo in Vicente Huidobro, mi era completamente impossibile seguirlo in quel terreno, poiché tutta la mia condizione, tutto il mio essere più profondo, la mia tendenza e la mia propria espressione, erano antipodi di quella stessa destrezza di Huidobro. Tentativa del hombre infinito, esperienza frustrata di un poema ciclico, mostra precisamente un sviluppo nell'oscurità, un avvicinarsi alle cose con enorme difficoltà per definirle: tutto il contrario della tecnica e della poesia di Vicente Huidobro che gioca illuminando i più piccoli spazi. E quel mio libro procede, come quasi tutta la mia poesia, dall'oscurità dell'essere che va passo a passo incontrando ostacoli per elaborare con essi la sua strada.
Il lungo tempo di vita illegale e difficile, provocata da avvenimenti politici che turbarono e commossero profondamente al nostro paese, servì affinché nuovamente ritornassi alla mia antica idea di un poema ciclico. Allora avevo già scritte "Alturas de Macchu Picchu".
Nella solitudine ed isolamento in cui vivevo ed assistito dal proposito di dare una gran unità al mondo che io volevo esprimere, scrissi il mio libro più fervente e più vasto: il Canto general. Questo libro fu la coronazione del mio tentativo ambizioso. È esteso come un buon frammento del tempo ed in lui ci sono contemporaneamente ombra e luce, perché io mi proposi che abbracciasse lo spazio maggiore in cui si muovono, credono, lavorano e periscono le vite ed i popoli.
Non parlerò della sostanza intima di questo libro. È materia di chi lo commenta.
Benché molte tecniche, dalle antiche del classicismo, fino ai versi popolari, fossero usate da me in questo Canto, voglio dire alcune parole su uno dei miei propositi.
Si tratta della prosaicità che molti mi rimproverano come se tale procedimento macchiasse o appannasse questa opera.
Questa prosaicità è intimamente legata al mio concetto di CRONACA. Il poeta deve essere, parzialmente, il CRONISTA della sua epoca. La cronaca non deve essere quintessenza, né raffinata, né cultivista. Deve essere pietrosa, polverosa, piovosa e quotidiana. Deve avere l'orma miserabile dei giorni inutili e le esecrazioni ed i lamenti dell'uomo.
Molto mi ha sorpreso non la comprensione di questi semplici propositi che significano grandi cambiamenti nella mia opera, cambiamenti che molto mi costarono. Comprendo che ebbi origine sempre dall'espressione più misteriosa e centrifuga di Residencia en la tierra o di Tentativa, e molto difficile fu per me arrivare alla determinata prosaicità di certi frammenti del Canto general che scrissi perché continuo a pensare che così dovettero essere scritti. Perché così scrive il cronista.
Las uvas y el viento che viene dopo, volle essere un poema di contenuto geografico e politico, fu anche un tentativo in qualche modo frustrato, ma non nella sua espressione verbale che a volte raggiunge l'intenso e spazioso tono che voglio per i miei canti. La sua vastità geografica e la sua inevitabile passione politica lo fanno difficile da accettare a molti dei miei lettori. Io mi sentii felice scrivendo questo libro.
Un'altra volta me tornò la tentazione molto antica di scrivere un nuovo ed esteso poema. Fu per una curiosa associazione di cose. Parlo delle Odas elementales. Queste odi, per una provocazione esterna, si trasformarono un'altra volta in quell'elemento che io ambii sempre: quello di un poema di estensione e totalità. L'incitamento provocante venne da un giornale di Caracas, El Nacional, il cui direttore, il mio caro compagno Miguel Otero Silva, mi propose una collaborazione settimanale di poesia. Accettai, chiedendo che questo mia collaborazione non si pubblicasse sulla pagina di arti e lettere, nel supplemento letterario, disgraziatamente già scomparso, di quel gran diario venezuelano, ma lo fosse nelle sue pagine di cronaca. Così riuscii a pubblicare una lunga storia di questo tempo, delle cose, dei mestieri, delle genti, delle frutte, dei fiori, della vita, della mia visione, della lotta, infine, di tutto quello che poteva inglobare di nuovo in un vasto impulso ciclico la mia creazione. Concepisco, dunque, le Odas elementales come un solo libro al quale mi portò un'altra volta la tentazione di quell'antico poema che incominciò quasi quando cominciò ad esprimersi la mia poesia.
Ed ora alcune ultime parole per spiegare la nascita del mio ultimo libro, Memorial de Isla Negra.
In questa opera sono ritornato anche, deliberatamente, ai principi sensoriali della mia poesia, a Crepusculario, cioè, ad una poesia della sensazione di ogni giorno. Benché ci sia un filo biografico, non cercai in questa lunga opera, che consta di cinque volumi, se non l'espressione fortunata od ombrosità di ogni giorno. È vero che questo libro è incatenato come un racconto che si disperde e che torna ad unirsi, racconto incalzato dagli avvenimenti della mia propria vita e dalla natura che continua a chiamarmi con tutte le sue innumerabili voci.
È tutto quanto per ora, nell'intimità, potrebbe dire dell'elaborazione dei miei libri. Non so fino a che punto potrà essere vero quanto ho detto. Forse si tratta solo dei miei propositi o delle mie inclinazioni. Ad ogni modo, quanto spiegato sono stati alcuni dei punti fondamentali nei miei lavori. E non so se sarà peccare di vanteria dire, agli anni che porto, che non rinuncio a continuare a far tesoro di tutte le cose che io ho visto o amato, tutto quello che ho sentito, vissuto, lottato, per continuare a scrivere il lungo poema ciclico che ancora non ho terminato, perché lo finirà la mia ultima parola nell’istante finale della mia vita.
Improvvisazione per inaugurare il seminario di
studi sull'opera di Pablo Neruda, realizzato nella
Biblioteca Nazionale di Santiago del 7 agosto al
3 settembre del 1964, con motivazione del
sessantesimo anniversario del poeta. Pubblicato
nella rivista Mapocho, II, num. 3, del 1964.