-- Da Parigi ad Isla Negra: l'ultimo ritorno (1972-1973)
Da Parigi ad Isla Negra: l'ultimo ritorno
(1972-1973)
I
LE LETTERE E LE ARMI
Presentazione
[Del libro Civilización andina]
Tra gli invasori del Messico - oscuri campagnoli, braccianti del campo, forzati, avventurosi e fuggiaschi - c'era un giovane soldato chiamato Bernal Díaz del Castillo, il quale scrisse le sue memorie in età già abbastanza avanzata, cinquanta anni più tardi, essendo consigliere municipale nell'America centrale. Ho visto, ho avuto nelle mie mani e ho letto l'enorme manoscritto, assicurato con una catena ad un tavolo, a portata di tutti, nel municipio di Guatemala. È curioso vedere incatenato quel gran libro, scritto con una calligrafia chiara ed accurata, chissà da qualcuno di quelli copisti che abbondavano in Spagna, dettato probabilmente dal vecchio soldato, dalla sua poltrona o dal fondo del letto, ma, naturalmente, dal fondo, dell'incredibile verità. Bernal, nonostante la sua età, aveva una memoria che poteva fornirci i nomi dei cavalli e delle giumente e di ognuno degli uomini che seguirono Hernán Cortés.
Quando, nella mia adolescenza provinciale, lessi le imprese ed imprese degli uomini e dei dei dell'Odissea, o quando, più tardi, penetrai nei labirinti onirici ed erotici di Le mille ed una notte, pensai che a nessuno gli accadrebbe né potrebbe accadergli la strana avventura di un'incursione in tali regni prodigiosi. Mi sbagliai. Perché a quel soldato sconosciuto gli accadde questa avventura: quella di trovarsi con una stella ignorata, arrivare improvvisamente ad un pianeta appena scoperto, popolato da dei viventi, di musica infernale, con vestiti d’oro. A quell'uomo toccò lasciare le orme del suo passo.
Benché discutibile, è certo che quello splendore fu distrutto dal sangue e dalle ombre. Uomini e paramenti, tempii e costruzioni, dei e re, tutto fu divorato, distrutto e seppellito. La Conquista fu un grande incendio. I conquistatori di tutti i tempi e di tutte le latitudini ricevono un mondo vasto e risonante, lasciano un pianeta coperto di ceneri. È stato sempre così. Noi gli americani, discendenti di quelle vite e di quella distruzione, abbiamo dovuto scavare, per cercare sotto alle ceneri imperiali le gemme abbaglianti ed i colossali frammenti degli dei perduti. O abbiamo dovuto anche guardare alle altezze: a volte una torre degli antichi tempi, vincendo il miserabile passo dei secoli, eleva il suo orgoglio sul continente. Perché io distinguo l'arte sotterranea e l'arte degli spazi aperti degli antichi americani. E questo è il mio proprio modo di conoscerli e comprenderli.
Quando, in anni già lontani, vivevo esiliato a Città del Messico, vennero due strani visitatori con la pretesa di vendermi la loro merce: portavano un voluminoso pacchetto, avvolto in unta carta di giornale che sleghiamo ed apriamo lì, nel mio tavolo di ufficio. C’erano centinaia di figurine d’oro, a caso chimúe, chibcha o chiriquí: un tesoro che palpitava sul mio povero tavolo col fulgore giallo del passato. Erano pendenti, anelli, pettorali, insegne, figure di pesciolini, di strani uccelli, erano stelle astratte, circoli, linee, dischi, farfalle. Per quella meraviglia mi chiesero dodicimila dollari, quantità che io non possedevo. Questo tesoro l'avevano trovato lavorando in una strada, tra Costa Rica e Panama. E si affrettarono a tirarlo fuori dal paese per venderlo in qualunque posto. Abbandonarono la mia casa col loro tesoro sotto il braccio, avvolto in giornali vecchi, e non ho saputo mai dove andarono a fermarsi quei pesci, quelle farfalle, quegli scintillii d’oro.
Un'altra volta, camminando per il Mayab, mi fermai sull'orlo del bosco per contemplare a piacere una cenote cerimoniale: uno di quei pozzi il cui fondo di acque ombrose formava parte del mistero maya. Si racconta che la cerimonia rituale esigesse che lì fossero gettate, in sacrificio mortale, le vergini destinate agli dei, coperte di oro e turchesi, collari, braccialetti, ricchi vestiti. Un astuto commerciante del nascente impero nordamericano ebbe l'idea, nel secolo scorso, di comprare quelle terre apparentemente abbandonate. E si dedicò alla pesca. Lì, nelle profonde e strane sorgenti, i sacri cenoti gli procurarono tonnellate di gioielli divini.
La nostra America è vasta ed intricata. E durante la sua linea spirale, lungo i suoi smisurati fiumi, sotto ai monti e nei deserti, e perfino per le strade delle città recentemente scavate e messe allo scoperto, appaiono tutti i giorni queste testrimonianze d’oro. Sono statuette antropomorfe, azteche, olmeca, quimbaya, inca, chancaya, mochica, nasci, chimú. Sono milioni di stoviglie di ceramica e di legno, enigmatiche figure di turchesi, d’oro, lavorate, tessute: sono milioni di opere maestre rituali, figurative, astratte. Sono scuole e discipline, stili eccelsi, che rappresentano la crudeltà, l'adorazione, l'umiliazione, la tristezza, la pazzia, la verità, l'allegria. Tutto un mondo che palpitava con le grandi feste scomparse intorno agli enigmi della vita e della morte, con gli avvenimenti che alimenteranno la poesia e la teogonia, in omaggio alla resurrezione e consacrazione della primavera, con la sua infinita saggezza sessuale, col piacere della terra in tutte le sue tentazioni ed i suoi frutti, o davanti al mistero del silenzio assoluto e delle possibili resurrezioni. I nostri musei del Messico, della Colombia e di Lima, sono strapieni di queste figure, che non furono mai degradate né distrutte sotto terra. Precipitosamente furono portate via, seppellite lungo una strada qualunque, furono scomunicate in tutti i pulpiti coloniali, e come i loro creatori furono perseguite da centurioni e macellai. Ma, sotto alla terra ed all'acqua, dopo secoli di oscurità, continuano ad apparire, continuano a dare la loro imperitura attestazione di multipla grandezza.
Nel mio Canto general ho spiegato come il conquistatore Pizarro incatenò l'Inca in una stanza, in un palazzo del suo regno. Lì gli annunciò che l'avrebbe ammazzato. Sarebbe stato giustiziato tra poche settimane. Lo avrebbe sgozzato come un agnello sacrificiale, come schiavo destinato al martirio, nel patio maggiore del suo proprio palazzo, davanti a tutti i suoi principi, i suoi capitani ed i suoi sacerdoti, le sue donne, i suoi figli ed i suoi musicisti. A meno che - gli disse il conquistatore - i suoi sudditi gli portassero, da tutti i suoi remoti ed appartati possessi, tutto l'oro del Perù. - Ma, quanto, quanto? - gli domandò l'Inca girando i suoi innocenti occhi verso quelli del suo carceriere -. Pizarro gli rispose: "Alza la mano il più alto che puoi e traccia una linea azzurra come il tuo sangue attorno al soggiorno, ed ordina che i tuoi vassalli lo riempiano d’oro fino a quella linea azzurra che la tua mano avrà tracciato." Per minuti, ore, settimane, lunghe come secoli, i messaggeri ed i sacerdoti ed i principi ed i musicisti ed i guerrieri umiliati ed i cittadini attoniti ed i giudici dei sepolcri e le donne disperate trottarono e corsero, volarono come api, andarono e ritornarono con anfore di oro, con statuette e bicchieri, con braccialetti e piatti cerimoniali, con anelli e bastoni di comando, utensili, altari, collane, troni e sculture di oro. Fino a che il riscatto raccolto con quell'agonia superò la linea tracciata dalla mano dell'Inca. Allora Pizarro, consigliato dai suoi notai, accompagnatori, vescovi e capitani, fece sgozzare l'Inca nel patio principale del suo palazzo, davanti ai suoi dignitari ed ai suoi principi. Ma molti dei corrieri, messaggeri carichi di oro, che crederono nella parola del macellatore, riceverono la terribile notizia sulle acque di un lago, mentre dormivano conservando ognuno il suo sacco di oro. Ed allora, terrorizzati dalla notizia della Grande Morte, maledissero e piansero, e nascosero e seppellirono per sempre i tesori che non arrivarono in tempo per superare la linea azzurra tracciata dalla mano dell’imperatore giustiziato.
Ma l'America eccelsa, il suo edificio all'aria libera si manifestò nell'orgogliosa e solitaria cittadina di Macchu Picchu. Fu un incontro decisivo nella mia vita. Ebbe luogo verso l'anno 1943: la grande guerra degli europei non dava ancora segni di finire. Goya aveva profetizzato: "Il sonno della ragione genera mostri."
Mentre la ragione dormiva nel mondo, i mostri praticavano la suprema macellazione. Dall'epoca delle sofferenze dell'America precolombiana, quando, secondo il padre De Las Casas, i cani degli invasori si alimentavano spesso con la carne dei prigionieri vivi, donne, bambini ed uomini, la ragione non conobbe mai un sonno tanto funesto. La degradazione, il martirio, l'annichilimento in proporzioni gigantesche, si mettevano metodicamente in pratica. Dell'antica Europa classica arrivava il fragore dei bombardamenti e dai miei lontani paesi seguivamo un filo di sangue che, attraverso la notte ed il mare, ci conduceva fino all'antico scenario della cultura, ora in schiavitú ed agonia.
Ritornai dal Messico carico di quel dolore, senza perdere del tutto la mia indistruttibile fede nella persistenza della bontà umana, ma disorientato ed indolente davanti a quella evoluzione della nostra epoca tenebrosa. Allora saliamo per sentieri aspri ed a dorso di mulo fino alla città perduta e rimpianta: Macchu Picchu, la misteriosa. Quella altissima città si era vergognata della sua propria epoca, si era ridotta al silenzio e si era nascosta nel suo proprio bosco. Che cosa accadde ai suoi costruttori? Che cosa era stato dei suoi abitanti? Che cosa ci lasciarono, eccetto la dignità della pietra, per darci notizie della loro vita, dei loro propositi, della loro sparizione? Ci rispose un silenzio sonoro. Io già conoscevo il silenzio di altre rovine monumentali, ma fu sempre un silenzio umiliato, di marmi definitivamente vinti. Lì, nelle altezze del Perù, l'imponente architettura si era conservata segretamente nel profondo silenzio delle cime andine. Tutto era cielo intorno alle sacre vestigia. Il bosco verde si interrompeva con le rapide e piccole nuvole che passavano sfiorando e baciando quella splendido opera dell’eterno che c'è nell'uomo. Nel punto più alto della città si alzava l'Orologio o Intihuatana, specie di calendario formato da immense pietre, con una meridiana destinata forse a segnalare le ore in quelle eccelse altezze. Questi orologi astronomici furono perseguitati tenacemente dai conquistatori, ansiosi, come sempre, di distruggere il nucleo culturale. La città di Maccliu Picchu li sconfisse: si nascose tra rocce ripide, moltiplicò i suoi manti di verdi, e gli intrusi distruttori gli passarono accanto senza sospettare mai la sua esistenza.
Macchu Picchu si rivelò davanti a me come il perdurare della ragione al di sopra del delirio, e l'assenza dei suoi abitanti, dei suoi creatori, il mistero della sua origine e della sua silenziosa tenacia scatenarono per me la lezione dell'ordine, che l'uomo può stabilire attraverso i secoli con la sua volontà solidale: l'edificio collettivo capace di sfidare il disordine della natura e della umana sventura. Ricordai allora le costruzioni messicane di Teotihuacan, gli edifici di Monte Albán, di Chichén Itzá, il quadrilatero di Uxmal, i tempii di Palenque, le piramidi religiose con le loro prodigiose moli, con la loro simmetria radiale, che in tutto il territorio messicano si sollevarono verso il sangue e la luce. Compresi che al di sopra delle strutture perse nel martirio e nell'ombra, al di sopra della creazione formale di figure, gioielli ed oggetti sotterranei, oltre l'immensità vinta e sconfitta di quella America che oggi sta rinascendo delle sue proprie tenebre, gli antichi maestri americani avevano eretto un'anima aerea, invulnerabile, capace di sfidare col suo essere il dominio e le onde agitate dell'aggressione e dell’oblioi.
Queste scoperte mi rivelarono molte strade, e tra esse il ricordare il mio destino con quella verità tanto duratura, con quelle creazioni collettive, nelle quali tutti i componenti, speranza e dolore, delicatezza e potere, si erano unite molte volte in un organismo centrale, che dirigeva tutte le possibilità di azione e dava origine ad un nuovo silenzio sonoro, pieno di intelligenza e di musica.
A questa ricchezza è necessario aggiungere i monumenti della poesia seppellita: le odi azteche e tlascalteche in onore degli dei e dei principi, odi per feste e rituali. L'antica poesia dell'estremo meridionale dei peruviani e degli aymará andini, poesia di dolcissima malinconia, come sussurro di acqua attraverso il fogliame, attraverso il tempo che abbattè le razze. Il Popol Vuh è un miracolo, un Genesi affascinante che spiega e ci riferisce gli inizi della vita dell'uomo, delle abitudini e dei riti, con la sicurezza di un'autentica attestazione di quanto succede. È difficile separare nelle sue pagine l'essenza del sogno e quella dell'idolatria, gli eventi reali e le profezie. È un monumento fondamentale dell'uomo, in tutta la sua rotta. Delle religioni e del paganesimo: è un breve inno alla crescita e lo sviluppo della vita sulla terra. (E sappiamo che un monsignore, arcivescovo di Yucatan, fece bruciare la gran biblioteca, che rinchiudeva migliaia di manoscritti maya, accumulati per secoli.)
Qualcuno si domanderà: che relazione esiste tra le antiche culture americane e le moderne? Riconosco che la condizione di colonia impose alla nostra America non solamente un'ostinata dominazione, ma anche una frattura incalcolabile. La matrice fu violentata ed estinta: i vincoli diventarono segreti, si debilitarono sotto il terrore, si dispersero in remoti villaggi e finalmente si estinsero. Solo in qualche mercatino o fiera riapparvero i bicchieri, i giocattoli, ed alcuni poveri tessuti. Quanto alla scultura, all'architettura, alla poesia, alla narrazione, al ballo, tutto questo se lo divorò la terra, si assopì con la colonia, per dormire un sonno che perdura ancora.
Alcuni echi della prodigiosa tradizione apparvero nella scuola pittorica messicana: in Orozco, Siqueiros, Rivera e Tamayo. Ma, nonostante la forza di questi creatori, si nota in essi la riflessione che riproduce, l'espressionismo intellettuale, nel luogo della freschezza primitiva delle antiche fonti sigillate. Lam e Matta hanno cercato contemporaneamente, in un certo modo, la continuità perduta; ma le loro opere maggiori, benché ricorrano al terrore e l'enigma, non arrivano a generare in noi il panico né ad esporrci questioni come le antiche e profonde opere dell'America precolombiana. Alcuni europei come Henry Moore ed alcuni scultori corno Peñalba e Colvin, americani di nascita, hanno tentato anch’essi di rivitalizzare la nostra tremenda eredità. Ma è stato Niemeyer, il maestro ed architetto brasiliano che maggiormente si è avvicinato nella sua grandiosa Brasilia, rosa collettiva e durevole, alla spaziosa architettura aerea delle antiche Americhe.
Per quello che riguarda la poesia, i poeti americani, salvo lodevoli eccezioni, si sono allontanati con orrore dalla nostra densità cosmica e si sono proposti di seguire l'esempio, non di Jorge Manrique, Soto de Rojas, o Quevedo, bensì di monsieur Péret o monsieur Artaud. Il romanzo americano, con García Márquez ed altri coraggiosi protagonisti di oggi, ha dato un gran salto, continuando la comunicazione interrotta. Il primo annuncio di un'insurrezione o di una resurrezione: di una possibile grandezza.
Non so perché le mie parole assumono sempre la forma di un viaggio, benché sia verso il passato o il silenzio. Mi rendo conto che non abbiamo fatto altra cosa che percorrere, per caso solo all'esterno, superficialmente, una gran cultura, multipla ed appassionante. Non ho voluto altro che camminare e camminare per le remote strade che l'uomo americano percorse per secoli popolandole con straordinarie creazioni, con miti dimenticati e battaglie perdute. Ma né gli instancabili studiosi né i titanici investigatori potranno darci né il catalogo né le chiavi dell'immenso tesoro. Le loro interpretazioni rimarranno sempre a media distanza dalla verità, fino a che appariranno altre verità più vicine nel tempo. Né le fotografie minuziose di ogni oggetto, prese di fronte o da elicotteri eccezionali, né la cinematografia con le sue poderose dimostrazioni, potranno rivelarci quel miracolo acceso né l'inaccessibile eredità che ci lasciò.
Ma io, creatura di quelle latitudini, non oso catalogare né denominare né affermare. Continuerò nei giorni o negli anni della mia vita, alimentando l'ammirazione, il terrore e la tenerezza verso le innumerabili opere prodigiose che segnarono la mia esistenza. E continuerò sentendomi piccolo, inesistente davanti alla grandezza di quello splendore. Magari possa un giorno la terra americana essere degna del multiplo monumento che ci trasmisero i popoli scomparsi!
Condé-sur-Iton (Francia), gennaio 1972
Prologo a Roberto Magni-Enrique Guidoni, Civilizacion
andina, Valencia, Mas-Ivars Editores, 1972.
Discorso nel PEN Club di New York
Aprile 1972
DISCURSO EN EL PEN CLUB DE NUEVA YORK. (Pagine 357-362.)
[...] il signore Hennessy [...] apprenderebbe che nella "Ballata del vecchio marinaio" il navigatore che perpetrò quel crimine fu condannato a portare per l'eternità penzoloni dal suo collo il pesante cadavere dell'albatro assassinato. Trenta anni prima Neruda aveva incluso nella sua conferenza "Viaggi per le coste del mondo" (1942-1943) un allusione molto passeggera - in chiave per me enigmatica - allo stesso motivo tirato in ballo a New York nel 1972. Ma la condanna qui prevista per il futuro del signore Hennessy, nel 1942 era stato evocata come un frammento del passato del poeta stesso: "Le mie lunghe camminate, vicino alle sue scogliere, le mie navigazioni fino agli angoli gelati, dove meritai portare pendente dal collo l'albatro morto dell'antico marinaio, mi fecero cercare più sotto alle onde, impregnarmi della sua zoologia spettrale, tremare nel posto stesso del naufragio", in OCG, vol. IV, p. 501. Confesso la mia difficoltà per decifrare quell'anteriore allusione. Due ipotesi: (1) se la menzione di quelle "navigazioni fino agli angoli gelati" era un'insistenza su "quella mattina di freddo [aprile 1932] nello stretto di Magellano" evocate due pagine prima (OCGC, vol. IV, p. 499) allora il crudele relativo del "albatro morto" potrebbe essere María Antonieta Hagenaar, la prima moglie di Neruda, la cui compagnia non era oramai desiderata bensì sopportata a fatica per il poeta, come una punizione all'errore del suo matrimonio, durante il lungo viaggio dall’Oriente, ed in tale caso il verbo meritai assume valenza negativa; (2) potrebbe trattarsi di un ricordo spaesato o modificato: l'albatro avrebbe sostituito in quel testo il cigno dal collo nero che morì tra le braccia dell'adolescente Neftalí, come ricorderà Neruda nella sua conferenza "Infanzia e poesia" del 1954 (cfr. OCGC, vol. IV, pp. 926-927), ed in tale caso il verbo meritai asumerebbe valenza positiva.
Mi è toccato nella mia vita errante assistere a riunioni abbastanza strane, ma fa alcuni giorni fui presente a quella che per me risulta l'assemblea più misteriosa nella quale ho dovuto presenziare e partecipare. Io mi sedevo lì con alcuni dei miei compatrioti. Di fronte a noi in un circolo che mi sembrò immenso si mettevano a sedere i procuratori di finanze, banche, tesori, che rappresentavano a molti paesi ai quali il mio deve , apparentemente, moltissimo denaro.
Noi, i cileni, eravamo alcuni, ed i nostri eminenti creditori, quasi tutti delle grandi nazioni, erano molti: 50 o 60. Si tentava di rinegoziare il debito pubblico, il debito estero, accresciuto in mezzo secolo di esistenza da anteriori governi. In questo lasso gli uomini sono arrivati alla luna con penicillina e televisione. Nella guerra si è inventato il napalm affinché si democratizzino a forza di fuoco purificatore le ceneri di alcuni abitanti del pianeta. Durante questi 50 anni, questo PEN Club nordamericano di scrittori ha lavorato con nobiltà in favore dell'intesa e della ragione. Ma, come potei vedere in quella riunione implacabile, era lo stand-by quello che minacciava al Cile con un bastone di tipo più moderno. Nonostante il mezzo secolo di intesa intellettuale, la relazione tra i ricchi ed i poveri, tra paesi che prestano alcuni tozzi di pane ed altri paesi che devono mangiare, continua ad essere una relazione in cui si riuniscono l'angoscia e l'orgoglio, la giustizia ed il diritto alla vita.
In una certo modo, di fronte agli scrittori degli Stati Uniti e dell'antico mondo europeo, io vengo anche a capirmi con voi. È importante sapere in questo capitolo quello che dobbiamo gli uni agli altri. Dobbiamo rinegoziare perpetuamente il debito interno che pesa su noi gli scrittori da tutte le parti. Tutti dobbiamo qualcosa alla nostra propria tradizione intellettuale e quello che abbiamo speso del tesoro del mondo intero. Noi, scrittori americani del Sud di questo continente, siamo cresciuti conoscendo ed ammirando, nonostante le lingue differenti, la colossale crescita delle lettere americane, delle lettere nel Nord dell'America. Specialmente cin impressionò il risveglio sorprendente del suo romanzo, che da Dreiser fino ad ora evidenzia una forza nuova, convulsiva e costruttiva, il cui grandezza e ferocia risulta incomparabile nelle letterature della nostra epoca, a non essere tra i vostri propri drammaturghi. Né uno solo dei vostri nomi è passato inosservato per noi. Sarebbe innumerabile registrarli, come catalogare le dimensioni che raggiunsero, la violenta profondità che rivelarono. L'aspra delusione che mostravano i vostri libri, spesso crudeli, presentava la singolare testimonianza di grandi e nobili scrittori davanti ai conflitti della vostra vertiginosa costruzione capitalista. Lì, in quelle opere esemplari, non si sottrasse niente alla verità e rimase nuda l'anima di moltitudini ed individui, poderosi o piccoli, ammucchiati in città e sobborghi, gocce di sangue arteriale del vostro corpo nazionale, delle vostre vite collettive o solitarie. Queste cose si percepiscono perfino nel romanzo poliziesco, con frequente testimonianza più fedele della verità di quello che si pensa.
Da parte mia, io che sono molto vicino ai settanta anni, quando appena ne compivo quindici, scoprivo Walt Whitman, il mio più grande creditore. E sono qui tra voi accompagnato da questo meraviglioso debito che mi ha aiutato ad esistere.
Rinegoziare questo debito è cominciare a metterlo in evidenza, riconoscermi come umile servitore di un poeta che misurava la terra con passi lenti e lunghi, trattenendosi da tutte le parti per amare ed esaminare, imparare, insegnare ed ammirare. Si tratta di quell'uomo, quel moralista lirico, che prese una strada difficile: fu un cantore torrenziale e didattico. Queste due qualità sembrano antagonistiche. Sembrerebbero piuttosto le condizioni del capo che quelle di un scrittore. L’importante è che Walt Whitman non aveva paura della cattedra, dell'insegnamento, dell'apprendistato della vita e prendeva la responsabilità di insegnarlo con candore ed eloquenza. Francamente non temeva il moralismo né l'immoralismo, né volle delimitare i terreni della poesia pura o della poesia impura È il primo poeta totalitario ed è la sua intenzione non solo cantare ma anche imporre la sua estesa visione delle relazioni degli uomini e delle nazioni. In questo senso, il suo nazionalismo evidente è parte di un organismo universale. Egli si considera debitore dell'allegria e della tristezza, delle alte culture e degli esseri primitivi.
Ci sono molte forme della grandezza, ma a me, poeta della lingua castigliana, Walt Whitman insegna più che Cervantes: nella sua opera non rimane umiliato l'ignorante né è offesa la condizione umana.
Continuiamo a vivere un'epoca whitmaniana, vediamo nonostante i dolori del parto l'ascesa e l'apparizione di nuovi uomini e nuove società. Il poeta si lamentava dell'onnipotente influenza europea che continuava ad alimentare la letteratura della sua epoca. In realtà era lui, Walt Whitman, il protagonista di una personalità realmente geografica che si alzava per la prima volta nella storia con un nome continentalmente americano. Le colonie delle nazioni più brillanti hanno lasciato secoli di silenzio. Il colonialismo sembra ammazzare la fertilità e la capacità creativa. Basterà che dica che in tre secoli di dominazione spagnola in tutta l'America non avemmo più di due o tre scrittori ammevoli.
Della proliferazione delle nostre repubbliche non uscirono solo bandiere e nazionalità, università e piccoli eserciti eroici o malinconiche canzoni d’amore. Cominciarono a germogliare libri e libri che spesso formarono un cespuglio impenetrabile, con molti fiori e pochi frutti. Ma col tempo, e specialmente in questi giorni, la lingua spagnola risplende per la scrittura di autori americani che, da Rio Grande fino alla Patagonia, riempiono di magici racconti, di poemi teneri e disperati un continente oscuro che cammina tra tormenti verso la sua nuova indipendenza.
In questa epoca vediamo come altre nuove nazioni, nuove bandiere e nuove letterature appaiono con l'estinzione che speriamo totale del colonialismo nell'Africa ed in Asia. Le capitali del mondo appaiono di punto in bianco coperte da nuove insegne di paesi che ignoravamo e che cominciano ad esprimersi con la rozza voce dolorosa della nascita. Scrittori neri dell'Africa e dell'America cominciano a darci la pulsazione vera delle sventurate razze che stettero in silenzio. Le battaglie politiche sono state inseparabili dalla poesia. La liberazione dell'uomo passa a volte per il sangue, ma sempre per il canto. Il canto umano si arricchisce ogni giorno nella nostra grande epoca di martirio e di liberazione.
Chiedo con umiltà che mi perdonino in anticipo se torno alle preoccupazioni dal mio paese. Tutto il mondo sa che il Cile sta facendo una trasformazione rivoluzionaria dentro la dignità e la severità delle nostre leggi. Per questo c'è molta gente che si sente offesa. Ma, perché questi cileni non imprigionano nessuno, non chiudono giornali, non fucilano nessun oppositore?
E siccome la nostra strada l'abbiamo scelta noi, siamo decisi a seguirla fino alla fine. Ma i guerrieri segreti si provvedono di tutte le armi per deviare il nostro destino. Siccome in questa classe di guerre le regole sembrano essere passati di moda, usano un arsenale antico e nuovo. Possono scegliersi lì i dollari, le frecce, le industrie telefoniche e telegrafiche: tutto sembra giusto per difendere i vecchi ed irrazionali privilegi. Perciò in quella riunione in cui si rinegoziava il debito estero del Cile io ricordai vivamente la Balada del viejo marinero.
Samuel Taylor Coleridge estrasse il suo desolato poema da un episodio accaduto nell'estremo Sud della mia patria e pubblicato da Shelvocke nelle sue memorie di viaggio.
Nei freddi mari del Cile abbiamo tutte le razze, generi e specie di albatro: erranti e giganti, grigi e procellari che sanno volare come nessun altro uccello.
Forse per quel motivo il paese ha la forma di un lungo albatro con le ali estese.
E lì in quella riunione per me indimenticabile di quello debito estero che vogliamo negoziare giustamente, molti di quali che mi sembrarono implacabili sembravano indirizzare le loro armi affinché il Cile naufraghi, affinché l'albatro non continui a volare.
Non so se sarà indiscrezione di un poeta che ha solo un anno di ambasciatore dir loro che forse il delegato delle finanze nordamericane mi sembrò essere quello che aveva tra le sue carte di affari la freccia intelligente da dirigere contro il cuore dell’albatro. Tuttavia questo finanziere ha un nome saporito e gentile di fine di banchetto: si chiama mister Hennessy.
Se il signore Hennessy si desse il piacere di rileggere i vecchi poeti imparerebbe che nella Balada del viejo marinero il navigatore che perpetrò quel crimine fu condannato a portare per l'eternità penzoloni dal suo collo il pesante cadavere dell'albatro assassinato.
Cari amici:
Ho letto con interesse ed emozione la piccola storia di questi lunghi 50 anni di vita del PEN Club degli Stati Uniti del Nordamerica. È stato mezzo secolo di grandi illusioni e magnifiche azioni. Onorevole giornata che abbiamo il dovere di festeggiare con meditazione ed allegria. Noi scrittori siamo facilmente individualisti, difficilmente collettivisti, portiamo un germe sovversivo che fa parte profonda della nostra espressione e del nostro essere, e la nostra disubbidienza tende molte volte a manifestarsi contro noi stessi. Cerchiamo i nemici più prossimi e li troviamo erroneamente tra quelli che più somigliano a noi. Aggregarci è compito da giganti. E aggregarci attraverso separazioni politiche, linguistiche e razziali è una grande impresa. Onore a quelli che hanno fatto possibile il sentimento di unità tra gli scrittori di tutti i paesi senza respingere settariamente le loro tendenze o le loro credenze.
Sono sicuro che mi avete ricevuto, me ed i miei debiti, non come un tribunale implacabile, bensì come una associazione generosa e fraterna. Ho detto già che è necessario riconoscere quello che imparammo da alcuni o da tutti. Così si stabilisce la sicurezza, cioè, la coscienza di una comunità ininterrotta ed universale di pensiero.
Così lavoreremo col passato, sicuri della sua matura bellezza e nello stesso verso onore, sicuri delle opere che altri scrittori scriveranno per altri uomini che ancora non sono nati.
Testo letto nel PEN Club di New York, nel 50.° anniversario
della sua fondazione, aprile del 1972. Raccolto in AUCh,
Santiago, 1971 (stampato nel 1973), ed in PNN.
Irrealtà e miracolo
Il sole nero uscì dai monti di Chuquicamata e produsse ombre, cicatrici, triangoli e ferite nei grandi arenili del Cile.
Quindi produsse isole, dei, ghiacciai, bestie di colore violetto, edifici, pescatori di fiume e di mare, scarabei.
Quando più tardi il navigatore solitario Max Ernst scoprì all'alba l'Isola di Pasqua e lo pubblicò sui primi documenti collage di quelle epoche, già tutto il continente americano era un'antica convulsione, ed i fiumi correvano coperti di fuggitivi cappelli che si sottomettevano alle cariche dei cacciatori, che spiavano da est ad ovest la processione dei cappelli. Non solo succedeva naturalmente un fatto tanto strano, ma vari avvenimenti politici delle repubbliche - come lo strano decesso del dittatore paraguaiana Dr. Francia, mentre studiava nel suo telescopio la simmetria del cielo stellato - dimostrano in maniera evidente l'influenza del Conte di Lautréamont, uruguaiano di origine, in quell'avvenimento misterioso. (Devo aggiungere che i resti mortali del terribile tiranno - che, contemporaneamente, fu un illuminato - furono per settimane coperte di arance, rendendo impossibili le indagini sulla sua sparizione).
Infine, è troppo prematuro sapere da dove venne, se dell'America o da Parigi, il vento che alterò i vecchi miti facendo loro prendere nuove forme e la vitalità che esercita fino all'ora presente. Lascio questo compito agli storiografi ed anche agli esploratori di questo e dell'altro lato.
Nel frattempo, celebriamo l'irrealtà ed il miracolo: l'uomo prova la sua esistenza entrando ed uscendo dalle porte oscure.
Scritto per un'esposizione surrealista a Parigi,
maggio del 1972. Raccolto in PNN, p. 181.
Arrivare agli angoli della dimenticanza
Pablo Neruda nell'Unesco
A molti di noi sarebbe piaciuto, forse, presiedere questa magna assemblea dell'UNESCO. Questo onore è ricaduto sull'onorevole delegato giapponese, signore Toru Haguiwara. Voglio esprimere la mia soddisfazione personale e la gioia con cui ha ricevuto la delegazione cilena questa nomina. Il Cile, nazione del Pacifico come il Giappone, riconosce in questa grande nazione una cultura poderosa ed antica, rappresentata qui dal presidente di questa Conferenza. Tanto la volontà di pace del suo gran paese, signore presidente, come il suo dinamico sviluppo moderno, ci fanno celebrare la sua designazione tra tante persone eminenti e paesi rappresentati come un grande successo. Voglio salutare anche il nostro direttore signor Maheu a cui riconosciamo tutti il compito quasi insuperabile di sostenere questo immenso edificio.
UN GENOCIDIO SOAVE
Contemplando un giorno una sfilata popolare nel nord del Cile, mi sorprese, mi sembrò notare che i giovani appena arrivati al quartiere erano di molto bassa statura. Mi sembrò che prima questi soldatini fossero più alti.
- Forse mi sbaglio. Domando al colonello.
- Ha ragione - mi rispose -, ogni volta sono più piccoli. Dal contingente di 30 anni fa, si sono abbassati fino ad ora circa due pollici. Col tempo avremo un esercito di nanetti.
Il Cile ha avuto una educazione continua ed eminente. Il mio paese è un paese colto. In Cile passarono gran parte della loro vita grandi umanisti: Andrés Bello, Hostos, Sarmiento, Rubén Darío, Alberdi. Senza parlare dei nazionali, Valentín Letelier, Gabriela Mistral. È una repubblica costellata. Ma attraverso questa pleiade di stelle abbiamo avuto la servitù, la mancanza di proprietà della casa, la denutrizione. I bambini non bevevano latte. Contadini ed operai ricevevano proteine solo nei giorni di festa. Tutto questo sembrava un suicidio generale. Ma in fondo si tratta di un genocidio soave, in cui con una lentezza abominevole si è andato rubando la statura ad una nazione intera.
LA RIVOLUZIONE DEL LATTE
Perciò, quando il dottore Allende offrì, prima di essere presidente del Cile, di concedere gratuitamente mezzo litro di latte ad ogni bambino cileno, la nostra oligarchia fece molte barzellette su questo. Tuttavia, si è mantenuta la promessa. Tutti i bambini del Cile ricevono dal Governo Popolare, ogni giorno, gratuitamente, mezzo litro di latte.
Perciò non ci stupisce che nel 1965 ebbero accesso all'insegnamento elementare 445.000 bambini e che nel 1969 ne rimasero solo 231.000. Gli altri avevano abbandonato i loro studi. Le statistiche mostrano che c'erano 900.000 cileni maggiori di 15 anni che non erano andati mai alla scuola. Questo vuol dire un 14 percento di analfabeti. Dopo il trionfo popolare, l'educazione basilare accudì oltre a 2 milioni di bambini, ed in questo anno 1972., oltre 3.500.000. L'educazione media umanistica accudì 300.000 giovani con un tasso di espansione di più del 13 percento. L'educazione tecnico professionale crebbe del 19 percento nell'anno 1972 e le matricole universitarie crebbero più del 30 percento.
Non mi piace leggere questi numeri che, tuttavia, ci inorgogliscono. Non mi piace perché non sono un uomo di cifre. Mi impressiona più quella piccola anfora di latte di ogni giorno, la rivoluzione del latte, la nutrizione bianca che dopo arriva alle scuole, ai libri, alla crescita fisica ed intellettuale.
ESTINGUERE IL COLONIALISMO
Sé la mia credenza profonda è il che la lotta dell'educazione e gli obiettivi stessi dell'UNESCO non possono allontanarsi dai doveri di combattere ed estinguere il colonialismo ereditario, il neocolonialismo appena acquisito. Esistono ancora un colonialismo esterno ed un colonialismo interno di classi sociali che fanno valere i loro diritti ereditari per opprimere ai loro propri paesi.
Molto mi richiamò l'attenzione quando lessi le istruzioni dei gerarchi nazisti in Polonia: si proposero di sterminare la totalità delle classi intellettuali per lasciare solo alcune poche migliaia di polacchi che lavorassero nella gleba. Volevano ridurre la Polonia ad una popolazione di servi e l'educazione fu allora un aspetto della lotta clandestina. La nazione polacca voleva sopravvivere. La stessa situazione si presentò in molti paesi dell'America Latina in cui i signori locali non volevano altro che inquilini per lavorare nelle loro terre e nelle loro miniere. Da qui il movimento per l'educazione nell'America Latina deve essere considerato come un fenomeno rivoluzionario, vincolato alla sopravvivenza popolare, all'anima nazionale minacciata dai suoi vecchi nemici.
Il compito più gagliardo dell'UNESCO, il meglio che ha fatto e che può fare, è soffrire anche con le fiamme del napalm, che genti senza Dio né legge lasciano cadere in qualche punto dal mondo su popolazioni indifese.
IL SEQUESTRO DEL RAME
Una compagnia monopolista di rame è riuscito nella Francia stessa, in questi giorni, in un sequestro sul rame cileno travolgendo la nostra sovranità. Che cosa ha a vedere questo con l'UNESCO? mi si dirà. E bene: ha qualcosa da vedere, ha molto da vedere, perché se queste forze tenebrose arrivano ad impadronirsi del rame cileno, i bambini cileni non avranno né pane né latte, né libri di lettura, né scuola. Questa è la dura realtà.
Da tutte le parti ci esce, quando parliamo del più eccelso, lo spettro della fame, della denutrizione, del conflitto. Tuttavia, in questa epoca inaspettatamente crudele ed agonistica, crediamo fondamentalmente in un'istituzione come l'UNESCO i cui nobili propositi persistono attraverso la delusione e dell'incertezza. È semplicemente necessario, è un imperativo biologico questo combattimento affinché sopravviva il meglio in questo mondo. Io disto molto da essere un individualista: credo che l'uomo collettivista è l'unico libero. Questa istituzione, fondata sull'intelligenza internazionale, sul mandato comune, sull'applicazione di basilari principi costruttivi e ricostruttivi, la nostra UNESCO multinazionale, può avere, se si vuole, molti punti deboli, ma le sue realizzazioni ed i suoi sforzi per migliori mete comprovano la portata geografica e morale delle sue azioni.
IL SINGHIOZZO DEL POPOLO
Signori delegati, già molti anni fa mi vidi sollecitato da un'intervista in un locale sindacale in Sanciago del Cile. Io pensai di accorrere e così lo feci sapere, ma all'improvviso mi dimenticai di che invito si trattava e dimenticai anche di chi mi invitava. Mi diressi al posto dell'appuntamento senza avere idea di quelli che mi aspettavano. Entrai per alcune catacombe, attraverso resti di verdure e pesci: mi resi conto molto tardi che si trattava di un'associazione di caricatori di un mercato. La mia sorpresa fu grande: tanto primitivo sembrava il mio auditorium. Non erano più di quaranta. Tutti andavano scalzi. Le loro poderose braccia si incrociavano sui sacchi vuoti che gli servivano da abbigliamento. Stavano lì aspettandomi e mi sentii intimorito. AI uscire della mia casa aveva preso, a caso, uno dei miei libri. Era la cosa unica che io sapevo fare: legger loro la mia poesia spiegando loro qualcosa di quello che io volli esprimere. Il mio libro era España en el corazón, libro difficile di meditazione e di poesia.
Non c'era niente da fare. Io non so a memoria uno solo dei miei versi e non avevo con me altro libro che quello. Facendomi coraggio, mi lanciai nella sua lettura, e siccome non sentiva eco né applauso alcuno che mi orientasse, affondavo più e più nel mio proprio libro, tentando di arrivare fino a quelle anime che mi sembravano tanto distanti da me. Ma arrivò il momento in cui il mio libro finiva. Lo chiusi, guardai in avanti. I visi di pietra ed i grembiuli di olona stavano tanto silenziosi ed immobili come prima. In fondo della sala si alzò allora uno da essi. «Amico poeta - mi disse -, voglio dirti - e la sua voce si interrompeva - che nessuno ci aveva detto mai queste cose, che non sapevamo questo, che non conoscevamo questa emozione». Ed allora l'uomo non potè proseguire. Si spense la sua voce in un gran singhiozzo. Guardai la sala: il mio rustico auditorio continuava ad essere lì seduto, ma tutti stavano piangendo.
Penso che i nostri progetti, la proiezione di questa conferenza e di questa istituzione devono arrivare in tutti gli angoli dimenticati. La parola deve attraversare tutte le frontiere oscure. E quando in qualunque parte del mondo una lacrima popolare abbia riconosciuto la nostra missione, allora avremo compiuto i nostri propositi ed il nostro comune destino di rappresentanti della cultura universale.
Intervento nell'Assemblea della UNESCO a
Parigi, a pochi giorni del ritorno al Cile. Testo
edito in El Siglo, Santiago, 22.12.1972.
Discorso allo Stadio Nazionale
Novembre 1972
Cari compatrioti:
Comincerò da parlarvi dei miei ultimi viaggi.
L'Europa è una costruzione contraddittoria e la sua cultura appare vincitrice del tempo e della guerra. La Francia tra tutte le nazioni mi accolse con la sua eterna lezione di ragione e bellezza. Ebbi, è chiaro, un'emozione che inumidì i miei occhi quando il sovrano della Svezia, il saggio re che ha compiuto 90 anni, mi consegnò un saluto d’oro, una medaglia destinata a voi tutti, cileni. Perché la mia poesia è proprietà della mia patria.
Ma nonostante il prolungato viaggio, qui, tra la moltitudine dei cileni voglio dichiarare la mia confessione che è contemporaneamente la mia confusione.
Con l'aiuto di voi voglio decifrare la mia propria confusione. Qui si suppone che voi stiate ricevendomi o accogliendomi. Ebbene, molte grazie, molte volte molte grazie. Ma quello che accase è che mi sembra che non uscii mai da qui, che non stetti mai fuori, che non mi è accaduto niente in nessuna parte, bensì qui, in questa terra. Le mie allegrie ed i miei dolori vengono di qui o qui rimasero. Oppure, il vento della patria, il vino della patria, la lotta e sogno della patria, arrivarono fino al mio posto di lavoro a Parigi e lì mi avvolsero di notte e di giorno, più belli delle cattedrali, più alti della Tour Eiffel, più abbondanti delle acque della Senna. In due parole, qui mi avete di ritorno senza essere uscito mai dal Cile.
C'è di tutto in questo mondo. C'è gente per rimanere e per andare via. Ci sono alcuni che vanno via perché hanno un amore là lontano, o perché piace loro una strada, una biblioteca, un laboratorio, in qualche altro punto della terra. Io non li disapprovo. Ci sono altri che sentirono in pericolo le sue tasche, credettero in un terremoto per i loro conti bancari, e li abbandonarono. Io non li disapprovo. Non ci sono molto necessari.
Ma, per una ragione o per un'altra, io sono un triste esiliato. In qualche modo o nell’altro io viaggio col nostro territorio e continuano a vivere con me, là lontano, le essenze longitudinali della mia patria.
Nacqui nel centro dal Cile, crebbi nella Frontiera, cominciai la mia gioventù in Santiago, mi conquistò Valparaíso, si aprì per me la pampa ed il deserto, dandomi l'ossigeno e lo spazio di cui la mia anima aveva bisogno, percorsi le vigne della valle centrale, gli arenili di Iquique, le praterie della Patagonia, la costa selvaggia del solitario Aysén, e non hanno segreto per me le illustri città come Chillán, Valdivia, Talca, Osorno, Iquique, Antofagasta, o i paesi incantati come Chanco o Quitratúe o Taltal o Villarrica o Lonquimay o El Quisco. Conoscendola o cantandola, percorrendola e lottando, mi sono diviso e mi sono moltiplicato consegnando la mia poesia a tutta la patria nella sua estensione, nella sua elevazione, nella sua profondità, nel suo passato e nel futuro che stiamo costruendo.
Grandi e piccole cose mi arrivavano dal Cile durante questi due anni di assenza. Tra i grandi, i problemi del debito estero che abbiamo ereditato da governi precedenti come una croce opprimente. E dopo, la difesa del nostro rame che mi toccò dirigere, dall'ambasciata a Parigi, contro i pirati internazionali che vogliono continuare il saccheggio delle nostre ricchezze.
Ma non solo queste grandi cause, queste grandi cose, sono quelle che colpiscono il cuore dell'assente. Sono anche altre: i messaggi di centinaia di amici, conoscenti e sconosciuti che mi congratularono. Fu un mucchio tanto grande di cablo e telegrammi che fino ad ora non ho potuto rispondere a tutti. Un'altra volta fu un pacco postale che ricevetti del Cile, da una donna del popolo, sconosciuta per me e che conteneva un mate di zucca, quattro avocadi e mezza dozzina di peperoni.
Allo stesso tempo, il nome del Cile si è ingrandito durante questo tempo in forma straordinaria. Ci siamo trasformati per il mondo in un paese che esiste. Prima passavamo inosservati tra la moltitudine del sottosviluppo. Per la prima volta abbiamo fisionomia propria e non c'è nessuno nel mondo che osi ignorare la grandezza della nostra lotta nella costruzione di un destino nazionale.
Tutto quello che accade nella nostra patria appassiona la Francia e l’Europa intera. Riunioni popolari, assemblee studentesche, libri che appaiono ogni settimana in tutte le lingue, ci studiano, ci esaminano, ci ritraggono. Io devo contenere i giornalisti che ogni giorno, come è il loro dovere, vogliono sapere tutto o molto più di tutto. Il presidente Allende è un uomo universale. La disciplina e la fermezza della nostra classe operaia è elogiata ed ammirata. Le nostre forze armate, col loro illustre concetto del dovere, stupiscono gli osservatori del panorama latinoamericano.
Questa ardente simpatia verso il Cile all'estero si è moltiplicata a motivo dei conflitti derivati della nazionalizzazione dei nostri giacimenti di rame. Si è capito all'esterno che questo è un passo gigantesco nella nuova indipendenza del Cile. Tutti si domandavano come un paese sovrano potesse mettere in mani straniere lo sfruttamento delle sue ricchezze naturali.
Senza sotterfugi di nessuna specie, il Governo Popolare fece definitiva la nostra sovranità riconquistando il rame per la nostra patria.
Quando la compagnia nordamericana pretese il sequestro del rame cileno, un'onda di emozione percorse l'Europa intera. Non solo i giornali, le televisioni, le radio, si occuparono di questo tema dandoci il loro appoggio, ma un'altra volta ancora fummo difesi da una coscienza maggioritaria e popolare.
Furono molte le attestazioni di adesione che riceviamo in queste dolorose circostanze. Lasciatemi contarvi tre di queste che mostrano in maniera emozionante da quale parte sta battendo il cuore europeo. Sapete già che gli stivatori della Francia e dell'Olanda si rifiutarono di scaricare il rame in quelli porti per manifestare il loro ripudio all'aggressione. Questo meraviglioso gesto commosse tutto il mondo. In realtà, queste azioni solidali insegnano più sulla la storia del nostro tempo che le lezioni di un'università: sono i paesi che si comunicano, si conoscono e si difendono. Questa difesa arrivò a situazioni ancora più commoventi: al secondo giorno del sequestro, una modesta signora francese ci mandò un biglietto da 100 franchi, frutto dei suoi risparmi, per aiutare alla difesa del rame cileno. Ed in una lettera inviata da una piccola città della Francia si stampava la più calda adesione alla causa del Cile. Questa lettera la firmavano tutti gli abitanti del paese, dal sindaco fino al parroco, tutti gli operai, sportivi e studenti della località.
Così, dunque, lo splendore del Cile mi ha seguito, mi ha coinvolto, mi ha circondato. Non mi sentii mai pauroso né orgoglioso dei danni o dei premi che mi corrisposero durante il tragitto della mia vita. Ma la paura e l'orgoglio li sentii sempre quando colpivano l'immagine della mia patria. E così come mi sentii orgoglioso, là lontano, dell'importanza che acquisivamo davanti agli occhi europei, sentii anche la paura davanti all'incomprensione o alla minaccia che ci spiino da dentro e da fuori.
Mi sono reso conto che ci sono alcuni cileni che vogliono trascinarci ad un confronto, verso una guerra civile. E benché non sia il mio proposito, in questo posto ed in questa occasione, entrare all’arena della politica, ho il dovere poetico, politico e patriottico, di preservare il Cile intero da questo pericolo. La mia carta di scrittore e di cittadino è stata sempre quella di unire i cileni. Ma ora soffro il grave dolore di vederli impegnati a ferirsi. Le ferite del Cile, del corpo del Cile, farebbero dissanguare la mia poesia. Non può essere.
Per di là lessi in un giornale che un cavaliere politico, ardente sostenitore della guerra civile, aveva detto questa frase celebre: "Non importa se dobbiamo ricostruire il Cile partendo da zero". Sicuramente, questo strano signore ha nei suoi piani che si sparga il sangue di tutti, il sangue di tutti i cileni, di tutti i cileni, meno il suo, per partire da zero ed affinché ricostruiscano altri, e non lui, il loro benessere personale. Ma la guerra civile è cosa molto seria. E bisogna prendere misure affinché questi incitamenti fratricidi non si diffondano né prosperino. La legalità ci impone molte volte sacrifici molto gravi: ma è questo la strada tradizionale ed anche rivoluzionaria della nostra storia, e lo seguiremo. La lotta per la giustizia non ha motivo per insanguinare la nostra bandiera.
Io assistetti ad una guerra civile e fu una lotta tanto crudele e dolorosa che segnò sempre per la mia vita e la mia poesia. Più di un milione di morti! Ed il sangue spruzzò le pareti della mia casa e vidi cadere gli edifici bombardati e vidi attraverso le finestre rotte uomini, donne e bambini fatti a pezzi dalla mitraglia. Ho visto, dunque, sterminarsi gli uomini che nacquero per essere fratelli, quelli che parlavano la stessa lingua ed erano figli della stessa terra. Non voglio per la mia patria un destino simile.
Perciò, voglio chiedere ai cileni più saggi e più umani che si aiutino tra loro per mettere la camicia di forza ai matti ed agli inumani che vogliono portarci ad una guerra civile.
Voi avete visto come i grandi interessi stranieri intrigano e pressano dall'esterno per distruggere le conquiste nazionali instaurate dal nostro Governo Popolare. Ma i cileni devono rendersi conto che i fili di una cospirazione internazionale di questi grandi interessi passano anche per il nostro territorio. Già fu scoperto, dopo l'assassinio di un soldato glorioso, il generale Schneider, che questo crimine fu ordito all'estero. Per la nostra vergogna, le mani degli assassini furono mani cilene.
Ottanta anni fa, poderose compagnie europee, che in quell'epoca dominavano in Cile, promossero una guerra civile tra cileni. Portarono alla frenesia le discrepanze tra il parlamento ed il presidente. Tra i morti di quella guerra civile si conta un presidente grandioso e generoso. Si chiamava José Manuel Balmaceda. Si presero gioco di lui, lo minacciarono, lo schernirono e lo insultarono fino a portarlo al suicidio. Benché la storia la scrissero allora i nemici di Balmaceda, dopo il suo nome fu lavato da ogni infamia per il paese del Cile e rimesso nel suo posto di governante patriota e visionario.
Io credo che questa tappa della nostra vita storica si assomigli a molti altre del passato. Vivremo ore dure in Cile, ha detto il presidente Allende partendo in un viaggio angosciante per affermare nel mondo intero la nostra sovranità ed i nostri principi.
Anche dopo 1810, dopo di conclamata la nostra indipendenza nazionale, il Cile sopportò difficoltà grandi e piccole e l'attacco di quelli che volevano riportarci al colonianismo spagnolo. Ma la repubblica si resse nelle mani di O'Higgins, di Corsa, di Manuel Rodríguez, di Freire, di Camilo Henríquez e dei patrioti straccioni e scalzi che combatterono a Rancagua, con Chacabuco, a Maipo, nelle strade, nel mare, nelle cordigliere del Cile.
La storia c'insegna che andiamo avanti e che la liberazione dei paesi si va compiendo, nonostante tutto.
Io voglio, per finire, ringraziare per le parole del vicepresidente della repubblica e la sua presenza vicino a me. Il generale Prats mi ha conferito un grande onore. Per me non è strano che un soldato ed un poeta presiedano una cerimonia in campo aperto, di fronte al popolo. Si sa in Cile, e fuori dal Cile, che il nostro vicepresidente è una garanzia per la nostra costituzione politica e per il nostro decoro nazionale. Ma la sua fermezza e la sua nobiltà vanno oltre questi concetti: è il centro morale del nostro affetto verso le Forze armate del Cile, verso quelli che in terra, mare o aria portano, coi colori violenti della nostra bandiera, la tranquilla continuità di una gloriosa tradizione.
Io celebrai nelle mie canzoni agli eroi che tesserono con vimini insanguinati la culla della patria. Io cantai i loro fatti, le loro appassionate esistenze, le loro vite, spesso dolorose. Si confusero nella mia poesia l'amore per la nostra terra e la riverenza verso quelli che fondarono, con valore e sacrificio, le basi della nostra vita repubblicana. E riconosco in questo generale in capo della repubblica, come in tutte le Forze armate del Cile, la grandezza del passato storico e l'incorruttibile lealtà con cui hanno difeso le giurisdizioni della nostra sovranità e della nostra democrazia.
Carabinieri del Cile sono presenti in questo grande stadio. Bene sappiamo che, concordi con la geografia del Cile, per monti e strade, nelle città e nelle frontiere, nella pioggia, nella sabbia, nel deserto, nel pericolo, essi proteggono ad ogni ora il lavoro ed il riposo dei cileni.
Qui sono presenti le delegazioni del popolo. Saluto ognuna di esse, le lavoratrici petroliere di Magallanes, gli operai delle costruzioni di Santiago, i lavoratori del salnitro di Tarapacá, i lavoratori senza garanzie di Coquimbo, i lavoratori del rame di Antofagasta, i tessili di Concepción, i mercantili di Valparaíso, i vignaioli di Curicó, le lavoratrici degli zuccherifici di Linares, i pescatori di Chiloé, i lavoratori delle cave di Maule, i lavoratori del latte di Osorno, i compagni di Polpaico.
Le donne che portarono qui l'attestazione della loro tenerezza, ricevano l'omaggio di un poeta che deve loro l'ispirazione di ognuno dei suoi libri.
Alla gioventù che ha dato il colore, il movimento e l'allegria a questa festa meravigliosa, porgo questo messaggio: io ho lodato e cantato la nostra patria. Il vostro lavoro è continuarlo ed ingrandirla, farla più giusta, più generosa e più bella ogni giorno.
Ai bambini che arrivarono allo stadio a centinaia, poiché non posso regalar loro una stella, lancio un bacio ad ognuno.
Non sono stati pochi i poeti che hanno ricevuto distinzioni, come i premi Nazionali o lo stesso premio Nobel. Ma, forse, nessuno ha ricevuto questo alloro supremo, questa corona del lavoro che significano le rappresentazioni di tutto un paese, di tutto un popolo. Questa presenza non scuote solo le radici della mia anima, ma mi indica anche che forse non mi sono sbagliato nella direzione della mia poesia.
Anni fa, in un esilio forzoso, molto lontano dal Cile, disperato di sentirmi tanto lontano e senza speranze di ritornare, scrissi questi versi:
Oh Chile, lungo petalo
di mare e vino e neve,
ahi quando
ahi quando e quando
ahi quando
mi troverò con te,
arrotolerai la tua cintura
di schiuma bianca e scura alla mia vita,
scatenerò la mia poesia
sul tuo territorio.
Il mio paese, vero che in primavera
suona il mio nome alle tue orecchie
e tu mi riconosci
come se fosse un fiume
che passa per la tua porta?
Sono un fiume. Se ascolti
lentamente sotto le saline
di Antofagasta, oppure
al sud di Osorno
o verso la cordigliera, in Melipilla,
o in Temuco, nella notte
di astri bagnati ed alloro sonoro,
metti sulla terra le tue orecchie,
ascolterai che corro,
sommerso, cantando.
Ottobre, oh primavera,
restituiscimi al mio paese!
Che cosa farò senza vedere mille uomini,
mille ragazze,
che cosa farò senza condurre sulle mie spalle
una parte della speranza?
Che cosa farò senza camminare con la bandiera
che di mano in mano nel corso
della nostra lunga lotta
arrivò alle mie mani?
Ahi patria, patria,
ahi patria, quando
ahi quando e quando,
quando
mi troverò con te?
Lontano da te
metà della tua terra ed il tuo uomo
ho continuato a vivere,
ed un'altra volta oggi la primavera passa.
Ma io coi tuoi fiori mi sono riempito,
con la tua vittoria vado sulla fronte
ed in te continuano a vivere le mie radici.
Ahi quando
mi tirerà fuori dal sonno un tuono verde
del tuo manto marino.
Ahi quando, patria, nelle elezioni
andrò da casa in casa raccogliendo
la libertà paurosa
affinché gridi in mezzo alla strada.
Ahi quando, patria,
ti sposerai con me
con occhi verdemare e vestito di neve
ed avremo milioni di figli nuovi
che consegneranno la terra agli affamati.
Ahi patria senza stracci,
ahi primavera mia,
ahi quando e quando
mi sveglierò nelle tue braccia
inzuppato di mare e di rugiada.
Ahi quando io stia vicino
di te, ti prenderò alla vita
nessuno potrà toccarti,
io potrò difenderti
cantando,
quando
vado con te, quando
vada con me, quando
ahi quando.
Bene, compatrioti, amici, i miei compagni, tutto si realizzò, il ritorno si realizzò, i versi di "Cuándo" si realizzarono.
Camminerò di casa in casa nelle elezioni di marzo.
Questa mattina mi svegliò il tuono marino di Isla Negra.
Già passò la terra dalle mani dei sazie alle mani degli affamati.
In questa cerimonia con fischietti e tamburi mi sembra mi avere sposato un'altra volta con la mia patria. E non pensiate voi che questo possa essere un matrimonio di convenienza. Si tratta solo di amore, del grande amore della mia vita.
Salve, cilene e cileni, compagne e compagni, amici ed amiche, grazie per l'amicizia, per l'affetto, per il riconoscimento che altri nuovi poeti col tempo riceveranno anche da voi.
Perché la vita, la lotta, la poesia, continueranno a vivere quando io sarò solo un piccolo ricordo nel luminoso cammino del Cile.
Grazie perché voi è il popolo, il meglio della terra, il sale del mondo.
SALVE.
Novembre 1972
Discorso pronunciato nello Stadio Nazionale durante
l'omaggio popolare al poeta che ritornava in Cile, da
Parigi, dopo il premio Nobel di Letteratura.
Testo raccolto in PNN, pp. 548-5/9.
Un altro libro di Volodia
Era negli anni dei Ford coi baffi, dei cavalieri con bastone e ghette e le dame dai cappelli piumati. Spenti i fuochi della guerra che credettero "l'ultima", la gente respirava a suo agio, piena di illusioni, senza darsi conto che la pace era nata tarata dal cancro bolscevico, destinato a contagiare gli sfaccendati, i pigri, gli incapaci, i burini, i malviventi, i risentiti, i falliti, gli invidiosi ed i violenti. La minoranza negativa del genere umano, il suo peso morto, andava ad alzarsi con la pretesa mostruosa da dirigere il mondo.
Paragrafo di un articolo firmato per E. B., edito in El Mercurio
di Santiago del Cile, la domenica 17 di dicembre di 1972.
Tra questi tarati, burini, malviventi, incapaci e falliti, ci furono o sono comunisti uomini come Maxim Gorki, superuomini come Gagarin ed i primi cosmonauti, costruttori di aeroplani come Tupolev, scienziati come Joliot-Curie, pittori come Pablo Picasso, Henri Matisse, Fernand Léger, architetti di genio come Lurçat, artisti sorprendenti come Paul Robeson, scrittori come Anatole France, Henri Barbusse, Vladímir Mayakovski, Louis Aragón, Paul Éluard, Bertolt Brecht, Mariátegui, César Vallejo, politici come Lenin, Georgi Dimitrov, Antonio Gramsci, Ho Chi Minh, Luis Emilio Recabarren. Umilmente, io sono nel numero di quei tarati dal cronista di El Mercurio. E, ovviamente, l'insigne cittadino, il saggista impeccabile, il senatore dell'intelligenza, lo scrittore cileno Volodia Teitelboim.
Perchè fuggire, perché offenderci noi comunisti di queste dimostrazioni del livello intellettuale dei nostri avversari? Essi si ritraggono nella loro mancata conoscenza, nella loro pietrificazione, nel loro deliberato analfabetismo, nella loro antropofagia mentale. Sono vittime della loro propria ombra, delle tenebre che procrearono interessatamente come poderosi proprietari o disinteressatamente come mercenari ingenui ed frettolosi. Non ebbero, gli uni né gli altri, tempo per rendersi conto di un'immensa e nuova umanità che comincia, di un umanesimo che tesoreggia il supremo del passato e le vittoriose possibilità del presente, e del futuro.
Dire che Volodia Teitelboim è un cittadino scopritore e chiarificatore non è dire niente di nuovo per i cileni. Tutto il paese conosce il suo pensiero esigente e la sua sovrana espressione. Molto poche volte il senato, nonostante le sue origini patrizie e della sua lunga traiettoria repubblicana, ha ascoltato ragionamenti più elevati, argomenti più considerabili, difese più appassionate e rigorose dei diritti del nostro paese, in tal modo che la sua intelligenza si è trasformata nella coscienza civica della nostra patria. Perfino i suoi avversari più infiammati riconoscono la sua profondità ed il suo fulgore.
Sempre vicino ad una continua produzione letteraria, poesia in principio, ora prosa romanzesca, stacca più tardi alcuni foglie del suo innumerabile albero meditativo e ci consegna un ramo di brillante saggezza. Sono segnate tanto dalla serenità superiore della sua intelligenza, come dal suo appassionato affanno giustiziere: sono appena staccate da una permanente costruzione in movimento e sostentano l'orma terrestre dei giorni e dei combattimenti tanto quanto la luce visibile della sua stella. È un uomo terrestre e stellato: tutte le qualità della verità e dei sogni conformano il magnetismo della sua parola e di queste pagine.
Sarebbe difficile per me parlare pubblicamente del mio ammirabile compagno che nell'intimità mi ha prodigato l'aiuto, il consiglio, chiarendomi situazioni e conflitti che potevano solo farmi naufragare. Ma non si tratta solamente di un riconoscimento fraterno, bensì di un riconoscimento più esplicito, più illuminatore e più vasto: ha dato una nuova dimensione alla politica del Cile. E tale cosa non è frequente, poiché sui banchi ed in tribune pubbliche proliferano tanti esseri tristemente ridotti, amaramente anacronistici.
Apro le porte di queste attestazioni cittadine di Volodia Teitelboim con molto rispetto e con molto amore: il mio rispetto verso la probità intellettuale del mio gran compagno ed il mio amore verso una causa che condividiamo con orgoglio.
Isla Negra, dicembre del 1972
Prologo a Volodia Teilelboim, El oficio
ciudadano, Santiago, Nascimento, 1973.
Per un gagliardo giovane
[Rafael Mberti]
Il gagliardo giovane che conobbi in 1934 vestito di violenta camicia azzurra e di cravatta un papavero compie ora 70 anni senza che gli sia stato possibile invecchiare, benché abbia fatto tutta il possibile per arrivare alla vecchiaia: non si negò a nessun combattimento, a nessuna disciplina, a nessun lavoro, a nessuna allegria, a nessun eccesso.
È stato generoso con la sua poesia e con la sua vita. Non lo sconfisse né l’insuccesso né l'esilio, né gli crebbero rughe nel cuore quando si caricò, come un bardo antico, con tutto il peso di un paese, del suo paese, nell'esodo.
Ebbe un sentimento magnanimo verso gli ingiusti e verso gli invidiosi e si mantenne come un'ape nell'aureo e terrestre viavai della sua poesia.
Quando si scriva la vera storia della Spagna, uscirà a rilucere il suo profilo di medaglia. E si vedrà che quel viso dorato liberò la poesia ispanica: come una sorgente di luce, le aggregò la dimensione classica e popolare della sua allegria.
La cittadina di Reggio Emilia lo festeggia in assenza dei paesi di Puerto de Santa María, Jerez, Madrid, della Spagna intera. Fanno bene i compagni italiani a circondare l'anniversario di Rafael Alberti, del gran poeta, con l'alloro della terra italiana.
Isla Negra, dicembre del 1972
Raccolto in PNN, p. 134.
Messaggio agli studenti della Sede Oriente dell'Università del Cile
In un giorno dell'anno 1923, passò per la porta del Pedagogico il presidente della repubblica di allora, Don Arturo Alessandri Palma. I crocchi di studenti lì detenuti non lo salutano rispettosamente. Lo guardiamo semplicemente con curiosità, senza parlare. La verità era che non lo consideravamo nostro amico.
L'antico Leone di Tarapacá agitò la sua simbolica chioma ed il suo bastone e ci ccusò di essere irrispettosi ed insolenti. Neanche rispondemmo ed egli prontamente continuò a camminare tra la sua indignazione ed il suo bastone.
Mezzo secolo è passato ed ora un compagno presidente viene verso voi a parlare ad una prima classe magistrale, a mischiarsi nella conoscenza, nell'intelligenza e nella vita di studenti e maestri.
Anche il nostro paese, i nostri studenti, la nostra vita sono cambiati.
Tuttavia, i miei ricordi percorrono teneramente la vecchia scuola universitaria in cui conobbi l'amicizia, l'amore, il senso della lotta popolare, cioè l'apprendistato della coscienza e la vita.
Di quella scuola e dei miei alloggi successivi da studente povero uscirono alle stampe i miei primi libri, Crepusculario l'anno 1923, e Veinte poemas che compierà cinquanta anni di vita il prossimo anno 1974.
La poesia, la curiosità delirante, la fermentazione di tutti i libri contemporaneamente, l'ubriachezza giovane di trovare altri esseri che sognano gli stessi nostri sogni, le strade Echaurren, Repubblica, Av. España, piene di pensioni giovanili, i poeti Cifuentes Sepúlveda, Romeo Murga, Eusebio Ibar, Víctor Barberis, scomparso dall'esistenza, ma non dalla poesia, le strade quiete in cui all'imbrunire l’impressionante era una subitanea raffica, fragranza di madreselva o di lilla, quegli amori gioiosi, lancinanti ed effimeri, tutto questo condizionò la mia esistenza.
I nostri passi più seri andavano verso la Federación de Estudiantes di via Agustinas. Passando, a poche porte di lì, nella soglia della Federación Obrera, vidi molte volte in gilet ed in maniche di camicia all'uomo più importante della classe operaio di questo secolo, Don Luis Emilio Recabarren.
Vadano questi ricordi come un saluto nell'atto inaugurale dell'anno accademico del 1973, che voi celebrate in questa mattina.
E naturalmente poiché è cambiato tutto e poiché la trasformazione rivoluzionaria che capeggia il presidente Allende è anche azione del paese e dell'università, penso che quegli anni sono necessario antecedente di quello che abbiamo raggiunto e di quello che raggiungeremo, innanzitutto il senso di responsabilità, di lotta, di fermezza verso i nostri doveri e verso la generosità della cultura che apre ora le sue più grandi prospettive storiche nel nostro paese.
Un fraterno saluto per il vicerettore Ruiz e per il professore magistrale Allende, come per tutti voi che siete, contemporaneamente, i miei antichi e nuovi compagni.
Testo che il poeta malato inviò da Isla Negra
all'atto di inaugurazione dell'Anno Accademico
1973. Letto per il professore Mario Céspedes,
fu pubblicato in El Siglo, Santiago, 26.4.1973.
Sono servile servitore di Don Guglielmo
Sono servile servitore di Don Guglielmo,
re di poeti e padre maggiore, figlio minore.
Di Shakespeare sono parente.
Lasciatemi parlare, dopo l'ascolterai,
voglio aggiungere il suono del mio violino
alla fine di questo amore assassinato.
Se mio padre e signore non ebbe fine
perché il suo canto continua la sua tenerezza
continua anche la spina nel giardino.
Continuate a vivere armati Capuleti,
i Montecchi aspetta nell'angolo,
tallona con falce lo scheletro:
la guerra e la violenza si slegano
fino alla pace silvestre e campagnola,
gli iracondi si odiano e si ammazzano.
Una lezione ci dette la triste storia
non solo di due fiori di Verona,
non solo della loro morte e della loro gloria,
bensì di tanto sangue versato
per l'inutile crudeltà e la demenza
sempre nel mondo aperta e sfrenata.
Odio ai Capuleti e Montecchi,
alla guerra civile della sua incoscienza,
i caduchi, malvagi e grotteschi.
Odio le minacce del passato
che dimentica la metà della sorte,
il cambiamento dell'amore e dello stato.
Bisogna lasciare strade alla vita
e non ammazzare il germe e l'aroma
che stabilisce un'altra luce ed un'altra misura.
Questa è la legge dell'anima illustre,
il dovere della pace e la sua colomba,
solo la pace vuole dire la vita.
Ed ora perdono che sopra questi dolori,
su questo crimine e sopra questi amori
io aggiunga la mia voce che solo avverte
la cosa principale di questo insegnamento puro:
non lavoriamo affinché la morte
faccia tacere l'amore, fermi la bellezza,
né l'esplosione dell'odio ed i suoi eccessi
ci porti alla sfortuna senza ritorno.
Onore a Shakespeare e la sua luce nuda.
Scritto nel 1973 come nuova appendice alla traduzione
di Romeo e Julieta che l'ITUCh andava a porre in scena
nella primavera di quell'anno funesto. Si nota nel testo
l'intenzione di collegarsi alla situazione cilena che precedè
il colpo militare di settembre. Raccolto in FDV, pp. 65-66.
II
CONSIDERAZIONI FINALI
La mia casa lì tra le rocce
MI CASA ALLÍ ENTRE LAS ROCAS. (Pagine 384-390.) Ho riunito in un solo testo, separandoli con linee in bianco, le annotazioni manoscritte i cui facsimili scandiscono la successione di fotografie di Sara Facio ed Alicia D'Amico (argentine), per il suo libro Geografía de Pablo Neruda (Barcellona, Editora Aymá, 1973). Le foto sembrano essere state prese nel 1969 ed all'inizio del 1973. In bandella si riproducono questi messaggi di Neruda, senza data:
Care ragazze:
Siete voi molto pazze, venite in Cile e non vedete i suoi migliori amici: i pinguini di Isla Negra.
Scrivo poche lettere, lo faccio per dirvi che mi hanno entusiasmato le foto. Me ne piace specialmente una, la numero 55-195. Benché abbia un viso tormentato, sicuramente per il sole che mi stava negli occhi, vorrei metterla nella facciata di qualche prossimo libro.
A proposito, da qualche tempo c'è l'idea di fare un libro fotografico col mio ambiente e le mie cose. Non ho dato mai il sì, ma le vostre foto mi tentano. Questo è interamente fattibile se vi piace l'idea. Ma voi dovreste necessariamente venire in Cile per alcuni giorni.
Sarebbe troppo chiedervi di mandarmi altre copie della foto che più mi piace?
Arrivederci, ragazze, e rispondano presto, prima che mi penta.
Pablo
A vedere, piccole, come esce quello grande libro. Le foto parleranno troppo o troppo poco. Ma l’avervi avute qui tutte e due, unite, è stato emozionante. Tutti vi ricordano, vi amano e vi aspettano. Ed anche
Pablo
Non c'è niente che suoni tanto quanto la parola campana, se la appendiamo ad un campanile, vicino al mare. Ci sono per i pomeriggi un denso odore di onda: aroma ripetuto attraverso lo spazio, dall'Australia forse, dagli scogli. Ed a quelle ore ci sediamo a cantare con le campane, ci estendiamo con l'onda.
Qui nel sud del Pacifico bisogna fare attenzione: la terra termina... Alcune leghe più o meno... e sopravviene il Polo, allarma l'Abisso... Bisogna unire le cose - davanti a possibili invasioni del mare - bisogna colmare l’Arca con amore e con ruote, con parole e cose che ci salvino, che ci identifichino domani nella corrente di Humboldt.
Questo è il mio cane, fino a dove può essere Chu-Tuh mio o di nessuno, col suo orgoglio leonino, la sua indipendenza insormontabile. Lo prego qui di giocare con me, gli do i miei argomenti che egli scopa con un solo movimento di coda. Non mi resta che guardarlo col cipiglio corrugato fino a lasciarmi abietto, disprezzato. Diavolo di cane! Quando imparerò ad essere tuo!
Quanta pietra litoranea attorno ai nostri occhi! Sono rotondi di onda, ripide di assalto, uscite dei vulcani oceanici. Sono lisce di agata, ferruginose ed ostili, abituate al colpo del sale, al crollo del cielo.
Che cosa continuano a cercare questo ed anche quello? Che cosa cercano vicino all'acqua? Che cosa cercano tutti alla riva?
La verità è che feci lì la mia casa tra le rocce per sperare della sabbia, per essere lì quando esca. Quando esca che cosa? Fino ad ora raggiungono le coste frammenti, spine, gusci, annunci. Il grande non lo porta ancora il mare. Quelli che qui viviamo sappiamo che è cosa di aspettare addormentati o svegli, e che la scoperta ci trovi confessati! Confessati della speranza che avemmo nel via vai, nel sale, nel movimento salino del silenzio! Oceanici, tutti alla riva! Tutti nelle linee del mare! Bisogna vigilare e giocare! Bisogna accumulare bauli e barilotti per quello che viene! Non ci prenda disabitati la giocata suprema dell'oceano; e vedendoci risibili, stupefatti, indegni ci ritirari il dono e lo porti a quelli dell'altro lato, ai felici, a quelli che aspettano incoronati di hibiscus!
A me lo sguardo si perse, mi cadde nella sabbia. Le donne camminano sempre molto occupate. Matilde ha viso di sole, occhi di agata. Che cosa continua a cercare? Che cosa sta decidendo? Non si ferma per l’intero giorno. Si diffonde e si distende come l'onda. Tardi già si addormenterà sulla schiuma dei sogni.
Può questa essere Matilde con viso di prua, naso vittorioso, ciuffi di capelli pettinati dal sole? Posso essere io questo viso macchiato come roccia marina, con cancellature di ruggine e superficie lunaria con queste palpebre screpolate e queste sopracciglia di scopa? Posso io essere questo naso intruso, esteso, inaccettabile?
Puoi sederti, viaggiatore, in questa casa di pietra: è tardi forse sotto la tua bandiera, nella tua patria. Qui sempre è presto ed il fuoco sta per accendersi. Alcuni figure erranti, dei vascelli, si persero di rotta e qui rimasero, falsamente legati: liberi in realtà, disposti al mare quieto, capaci di andare un'altra volta ai loro itinerari. Tu, se vuoi rimanere o dissolverti, puoi farlo. L’unica cosa che si esige è azzurra.
Oh polena, bellezza rotta, direttrice del vascello, rettrice della rotta! Dama marittima di legno picchiettato, amo le tue mani ferite dal mare, la tua chioma immobile sui tuoi occhi che scrutano l'orizzonte rotondo, i limiti, la primavera marina. Qui si trattenne il tuo regno: la tua ultima imbarcazione è la mia piccola vita.
Là per il fondo viene il mare, si arrotola, si distende, già arriva, già andò via... Quando accorriamo era schiuma quanto rimaneva... E le rocce - granito grigio -, le rocce custodie, assidue dal principio del mare calmate, erose e fedeli. Ognuno guarda il mare alla sua maniera, verso vicino o verso lontano, spiando il via vai, sperando o temendo.
Oliverio Girondo e la sua Norah Lange mi portarono miracolosamente questa boccetta di vari piani, già tempo fa, quando ho compiuto cinquanta anni. La base si ruppe più tardi, quando Oliverio andò via della terra. Io ricomposi il regalo cristallino, come potei, cercando il vetraio magnifico che lo soffiò di nuovo. Ma il grandioso Oliverio fu imprendibile nella sua barbuta eternità.
A volte mi sembra scorgerlo in questi rotondi matracci che conservano sguardi di amici persi nel naufragio ripetuto delle nostre vite e morti.
È difficile unire le cose che non vogliono unirsi: si accumulano come bandiere nemiche e dopo, quando nessuno osserva, si sparano pallottole, si ribellano, si nascondono per mesi e per anni. È necessario esercitare un potere singolare affinché l’inanimato ci accompagni con sincerità: l'indifferenza di boccette, orologi, statue, scope può arrivare ad essere pericolosa, ed in ogni caso nociva: perché ci contagia e ci rinchiude invece di aprire le porte segrete che ci comunichino, infine, col più vicino.
Il parola pane si mangia, la parola bicchiere si riempie, la parola imbarcazione naviga... Bottiglia cadde all'essere pronunciata e si ruppe sul suolo, si rovinò in sette sillabe. Le incontrati per il mondo, le aggrovigliai, le mantenni... Le unii nelle mie traversie... La mia casa è piena di parole.
Finalmente un giorno per non pensare, affinché passi vuoto, sovrano, come devono essere i giorni: senza interferenza umana, puri di tessuto, colore di giorno, con odore di ombra, di cielo, di latitudine. Io collezionai questi giorni dalle ali azzurre, li conservai con precauzione, classificandoli (estivi, oscuri, aurei), ma fecero esplodere la scatola: continuarono ad avere vita propria. Giorni senza carta gommata, senza riflessioni né aspirina, fisicamente puri, come minerali esimi.
Alla luce della lampada sfilano di notte le maschere di Oceanía. Alcune arrivarono dall'Africa cariche di punizioni rituali, accanite, distanti. Altre dall'isola cilena, Pasqua, Rapa Nui, ombelico dei mari. Attraverso questi testimoni muti vedrai fiorire la barba di Walt Whitman, barba che spazza le tenebre di ogni notte. Il mio bardo compagno mi accompagna nell'inaugurazione di ogni giorno.
Che cosa faremmo senza frivolezza? Che aridi mesi obbligatori quelli che ci complicarono senza che i sorrisi brillassero come pesci bianchi nello spazio! Mondo grave, dissotterrati, andiamo insieme al circo delle nude, all'ingiustizia del piacere!
Attenzione che sto per scrivere! Per favore entra, irrompi, liberami del mio compito. Faccia, navigi per la mia casa, che io proseguirò con la mia scrittura, tanto soddisfatto! Non è cattiva l'interruzione dell'amore, del fumo, dei passi, per la poesia. Che esploda il silenzio ed obbedisca alla pagina alla vita!
Ali del mare, compagne del cielo, onda stellata, grazie!
Per sapere e raccontare... così ascoltiamo tra gli altri, guardiamo tra noi, confusi con quelli che ci si somigliano, uguagliati dalla tenerezza e dalla speranza.
Attenzione: qui si sparge la casa intera coi colori del fuoco, col sorriso del mio cavallo, con le conchiglie che mi regalò il mare di ogni giorno e col mio aperto nascondiglio dove sto scavando un pozzo che si apra all'altro lato della terra.
I miei amici, il mio paese, miei deboli, le mie forze, i miei elementi, le mie montagne, miei riuniti, miei estesi, le mie allegrie, le mie compagnie, i miei compagni, la mia certezza, la mia speranza.
Andiamo a Valparaíso, all'insolito porto senza porte, alla porta dei larghi mari! Valparaíso è minimo ed universale, sordido e glorioso: Valparaíso oscuro arde nella sabbia del Pacifico come una brace fredda, come una stella di mille punte. Valparaíso mi usurpò, mi sottomise al suo dominio, al suo sproposito: perché Valparaíso è un mucchio, è un grappolo di case pazze, è un uccello che cade sulla tua testa, è un bambino povero tra i ferri vecchi, è una donna stanca, è una distanza, un compagno, un letto, Valparaíso è una scala e tre cipolle, un'altra scala che conduce alle nuvole, ed un'altra che c'invita alle vite altrui, all'intimità scorrevole che mai riusciremo a condividere se non con gli scalini pestati da un milione di piedi che passarono infilandosi nelle lenzuola del giorno di domenica, quando tutto corre sopra le scale, verso i dossi, verso le famiglie numerose, verso la povertà di sopra, povertà orgogliosa e ferrea temperata in tutti i combattimenti di terra e mare.
Il mare del Cile, il mare tremendo, con chiatte in attesa, con torri di schiuma bianca e nera, con pescatori litoranei educati alla pazienza, il mare naturale, torrenziale, infinito.
I pesci vengono dal freddo, si reggono in code di platino gelato, si raggruppano in Talcahuano, in Tocopilla, in Mejillones, in San Antonio, in Plaia Ancha, in Arauco, in Coronel, in tutte le rive del Cile, fino allo Stretto, fino alla fine del pianeta, i gronghi, le lisa, le corvina, i merluzzi, i toyo, i pejerreye, le catene montuose, le immense albacora, le minime, squisite angula, i ricci, le ostriche, i choro e perfino alle alghe commestibili, cochayuyo, flora del mare, serpeggianti, argentate, spinose, scivolose, voraci, condotte all'appetito cileno, appetito senza pari, dirette all'oceano, spalancato, aspettando le insuperabili mercanzie dell'oceano.
Attenzione! Occhio pelato! Che arrivano gli amici e la casa si riempie di rumore, di cascate, di sigarette, di aurora, di vino, di ieri e domani, di cielo con occhi, di limoni. C'è qui il grande Cotapos, Acario Cotapos, il favoloso favolista e qui Solimano il magnifico, re delle automobili sgangherate, e María Martner, scultrice, artista del granito rotondo e delle rocce litoranee, qui sta un uomo con chitarra, come deve stare, e Juan Rulfo onorando con le sue spalle la mia mano, Mario Vargas Llosa, integro e sorridente, Skármeta ed Ehrman, Cochrane di Londra, Barbara e Sergio Insunza, il migliore Edwards, l'invincibile Homero Arce, popolato di sonetti come un alveare con api, ed io di qua e di là, tra piani e dialoghi, vagando ed attivando, sostenitore dell'ozio attivo, del pisolino riparatrice, sostenitore di tutti.
Vado via.
Vado via dal libro, dai libri. Da questo e dagli altri. Ho fretta. Mi aspettano a Longaví, a Lautaro, a Parral, vicino ad alcuni fiumi, in villaggi, in cinema, in scuole piccoline come arance. Non ho nessuna fretta: arriverò in tutte le parti. Me ne andro camminando e fischiando, andrò via primaverile, di nero, me ne andrò piovendo dappertutto, me ne andrò cantando.
Cioè non vado via.
Non vado da nessuna parte. Arrivederci! Rimango qui, con te, in questa porta, in questa sedia, in questa stazione di treni feroci, in questo hangar abitato dall'inverno.
Ho una campana, un fuoco, un pezzo di legno colore di ambra per te, per noi, per tutti. Voglio che veda, senta e tocchi il mio regalo: il mio canto.
Addio, caro amico, cara amica. Come ti chiami?
Testo manoscritto da Neruda. Riproduzione facsimile
e frammentata durante la volume Geografía de Pablo
Neruda, Barcellona, Editora Aymá, 1973, formato 30x26
cm, rilegato, contenente fotografie di Sara Fació ed
Alicia D'Amico, e le postille autografe del poeta qui riunite.
Forse mi aspetta
TAL VEZ ME ESPERA. (Pagine 390-391.) Nota di Matilde: "Questo poema è assolutamente inedito. Si trovò in un libretto di appunti" (in FDV, p. 10). Questa nota mi fa pensare che il testo, presumibilmente scritto nel 1973 ma scoperto da Matilde dopo la morte del poeta, celava o rivelava nostalgie dell'amore perduto. (Pablo sapeva che Alicia Urrutia, la nipote di Matilde, si era trasferita nel nord, magari ad Iquique?)
Io credo che in Iquique
io dimenticai
un amore, un ombrello e
non so che.
Ho vissuto pensando
a questo
amore
o a un oggetto,
o a un oggetto senza
nessun destino,
quello che è verità
in questo splendore
di Iquique che
mi segue
nella mia strada,
voglio tornare a vedere,
voglio ritornare
a vedere se trovo
quello che non
persi,
quello che forse io
aspetto ancora,
forse mi aspetta
Iquique di
legno
e c'è un inutile
ombrello
che io
aspetto
o l'amore che avevo
da perdere
lì.
Testo raccolto da Matilde in FDV,
pp. 9-10, fino ad allora inedito.
Presumibilmente scritto nel 1973.
La chillaneja (donna di Chillán)
LA CHILLANEJA. (Pagine 391-391.) Presumo che questo poema, come alcuni compresi in El mar y las campanas, (vedasi le mie note in OCGC, vol. III), segna la riconciliazione finale con Matilde.
La vita me la passai
cercando una chillaneja.
Per i palazzi passai,
guardai dietro le grate,
i ranch esaminai
dal patio fino alle tegole
fino a che,
fino a che la incontrai.
Per le pampa, per i mari,
per i monti, i deserti,
per i fiumi, le città,
per i campi ed i porti
andai cercando la mia compagna.
Fui per le strade del mondo
cercando una chillaneja.
Per i monti della Bolivia,
per le vigne della Romania,
per le strade della Francia,
nelle case della Germania,
in Cina ed in Portogallo,
in autunno, in primavera,
in Messico, in Indostan,
per tutta la terra intera
io cercai
una donna di Chillán
che fosse la mia compagna.
La terra percorsi
cercando una chillaneja,
andava di lì e di là,
non trovava la mia compagna,
e l'anima con cui nacqui
stava diventando vecchia
fino a che,
fino a che la trovai.
Testo che presumo scritto nel 1973,
raccolto da Matilde in FDV, pp. 90-91.
Autoritratto
AUTORRETRATO. (Pagina 393.) José Miguel Varas, che riproduce il testo nel suo Nerudario (2.000), mi assicura che fu scritto per una rivista argentina i cui dati non ricorda. Pubblicato anche come biglietto autonomo dalla Fondazione Neruda.
Da parte mia, sono o credo essere duro di naso, minimo di occhi, scarso di capelli nella testa, crescente di addome, lungo di gambe, largo di suole, giallo di carnagione, generoso di amori, impossibile per i calcoli, confuso di parole, tenero di mani, lento di camminare, inossidabile di cuore, interessato alle stelle, maree, terremoti, ammiratore di scarabei, viandante di sabbie, rozzo di istituzioni, cileno in perpetuo, amico dei miei amici, muto per nemici, impiccione tra uccelli, male educato in casa, timido nei saloni, audace nella solitudine, pentito senza oggetto, orrendo amministratore, navigatore di bocca, vegetariano dell'inchiostro, discreto tra animali, fortunato in nuvoloni, investigatore in mercati, instancabile nelle biblioteche, melanconico nelle cordigliere, instancabile nei boschi, lentissimo di risposte, ricordante anni dopo, volgare durante tutto l'anno, risplendente col mio quaderno, monumentale di appetito, tigre per dormire, tranquillo nell'allegria, ispettore di cielo notturno, lavoratore invisibile, disordinato, persistente, coraggioso per forza, codardo senza peccato, sonnolento di vocazione, gentile di donne, attivo per patimento, poeta per maledizione e tonto di testa.
Testo scritto nel 1973 per una rivista
argentina, raccolto in Varas, p. 15.
Hastaciel
HASTACIEL. (Pagine 393-394.) Nota di Matilde: "Fu trovato nel suo ultimo libretto" (in FDV, p. 97). Il laconismo di questa nota, più la collocazione del testo alla fine della serie, suggeriscono che per Matilde questo esercizio è l'ultimo poema che scrisse Neruda. La sua dolce balbuzie lo situa nell'estremo opposto e simmetrico all'esercizio iniziale, originario, vale dire quelli versi alla mamadre nella cartolina del 30.6.1915 (in OCGC, vol. IV, p. 49).
Hastaciel disse labla nella tille palille
cuandokán sparlò improvvisamente
nella turriamapola
e di pianta si vestì la luna del piano
quando esce a spazzare con la sua perfida palpebra
l'argentata piana del pallido plinto.
Nota di Matilde: «Fu incontrato nel suo ultimo libretto».
Il laconismo di questa nota, più la collocazione del
testo alla fine della serie, suggeriscono che per
Matilde questo esercizio include gli ultimi versi che
scrisse il poeta. Testo raccolto in FDV, p. 97.